Recensione a Leo Strauss, Karl Löwith, Oltre Itaca. La filosofia come emigrazione. Carteggio (1932-1971)

Leo Strauss, Karl Löwith, Oltre Itaca. La filosofia come emigrazione. Carteggio (1932-1971) , introduzione di Carlo Altini, traduzione e note a cura di Manuel Rossini, Carocci, Roma 2012, 214 pp.

Colma una lacuna fondamentale, nel panorama filosofico ed editoriale italiano, la pubblicazione integrale del carteggio tra Karl Löwith e Leo Strauss, intitolato Oltre Itaca. La filosofia come emigrazione. Carteggio (1932-1971) (Carocci editore, 2012), introdotto da Carlo Altini e tradotto e curato da Manuel Rossini. L’ineccepibile Introduzione di Altini e l’ottima traduzione di Rossini — peraltro studiosi di riferimento, in Italia rispettivamente di Strauss e di Löwith — ci donano un’edizione del carteggio davvero pregevole che ci permette di apprezzare appieno il valore filosofico della corrispondenza tra i due pensatori tedeschi di origine ebraica.

Ineludibile, allora, nello scambio epistolare è innanzitutto il confronto sulla «questione ebraica», vissuta in prima persona sia da Löwith sia da Strauss. Löwith, fino alle leggi razziali del 1933, aveva ignorato le sue origini ebraiche per intero: non solo la sua famiglia era in tutto e per tutto assimilata al germanesimo, ma lui stesso aveva trovato i suoi punti di riferimento filosofici fondamentali in autori eminentemente tedeschi come Nietzsche e Heidegger. Possiamo quindi dire, come peraltro Löwith ci suggerisce ne La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, che l’esperienza dell’esilio fu un vero e proprio trauma nella vita del pensatore di Monaco, determinando in modo decisivo la sua successiva visione del mondo. Per Strauss l’esperienza dell’esilio fu, in realtà, meno traumatica: non solo proveniva da una educazione ebraico-ortodossa, ma aveva ben chiara la dialettica, del tutto problematica, tra ebraismo e cultura tedesca, la quale, in sintesi, non rifletteva altro che la stessa vicenda del popolo ebraico all’interno della storia occidentale. Di qui, anche il loro opposto approccio alla questione Atene e Gerusalemme, ovvero tra ragione e fede: per Löwith due sfere del tutto inconciliabili, mentre per Strauss esse pervengono ad una fusione armonica nel pensiero medievale, ebraico e cristiano.

Come ha giustamente notato Altini nella sua Introduzione (Sulla soglia della filosofia. La crisi della cultura moderna in Karl Löwith e Leo Strauss), oltre al rapporto tra Deutschtum e Judentum, è possibile individuare nella corrispondenza almeno tre temi fondamentali: la questioni della modernità, della storia e della natura.

Sia nella prospettiva di Löwith che in quella di Strauss, il dispiegamento della modernità è da considerare in riferimento al duplice movimento di oblio della natura e di assolutizzazione della storia. Differenti sono, però, le posizioni dei due autori in merito alla genesi della modernità e al significato di natura. Se Löwith legge la modernità come secolarizzazione, quindi adottando una categoria di interpretazione storica di tipo genealogico, Strauss legge la genesi del moderno nel passaggio tra il diritto naturale greco-romano e cristiano e il giusnaturalismo moderno. Se per Löwith, allora, la frattura fondamentale consiste nel transito dal circolo della cosmologia pagana alla linea della escatologia cristiana, di cui, poi, le moderne filosofie della storia sarebbero la secolarizzazione, per Strauss la cesura cade, invece, nel superamento della legge naturale antica e medievale a opera di autori in tutto e per tutto moderni, come Machiavelli, Hobbes e Rousseau. L’esito della modernità, tuttavia, è il medesimo in entrambi i casi: la completa storicizzazione, sia della natura universale nelle variabili interpretazioni umane (Löwith), sia della natura umana nelle arbitrarie dottrine giuspositivistiche contemporanee (Strauss). Lo storicismo — la concezione, insomma, secondo cui non esistono né costanti fisiche né costanti biologiche, poiché tutto è sottoposto al fluire incessante della storia — finisce, dunque, per annichilire l’orizzonte naturale simbolico e normativo degli antichi, tanto che Altini può affermare, a ragione, che storicismo è sinonimo di nichilismo. Lo storicismo, però, coerentemente con se stesso, non può non storicizzarsi. Se tutto è storico, infatti, anche lo storicismo lo è e, come ha avuto una data di nascita, così non potrà che averne una di morte. Ed è proprio a partire dalla inevitabile storicizzazione dello storicismo che si apre la possibilità di attingere di nuovo alla invariabile dimensione di senso e di valore a cui il naturalismo cosmologico ed etico antico aveva saputo pervenire. Questa, propriamente, la via seguita da Löwith e da Strauss, dove il primo ha insistito soprattutto sull’importanza del ritorno alla physis dei cosiddetti presocratici, mentre il secondo sulla centralità della rivalorizzazione dello zen kata physin platonico-aristotelico.

È importante, però, sottolineare che Löwith, proprio a partire dal confronto con Strauss — come si evince, per esempio, dal saggio Natura e umanità dell’uomo — riuscì a superare le istanze storicistiche e «sofistiche» (netta distinzione tra physis e nomos) che caratterizzavano ancora la sua concezione della natura umana negli anni ’40, facendosi promotore, come Strauss (coincidenza di physis e nomos), dell’attualità della concezione greca dell’uomo come animale razionale (zoon echon logon) e come animale politico (zoon politikon). Questo, certo, non modificò la posizione impolitica di Löwith, peraltro già sottolineata da Roberto Esposito nella sua Introduzione alla prima parziale traduzione dell’epistolario, che sarebbe impensabile, nella sua formulazione degli anni ’30, senza prendere in considerazione lo shock dell’esilio, che decretò la definitiva sfiducia del filosofo nell’azione politica e la conseguente opzione radicalmente contemplativo-solipsistica culminante nell’isolamento «angelico» che già aveva contraddistinto Paul Valéry.

A partire da quanto detto, ci sentiamo di sostenere che sia utile, invece di insistere sulle differenze, integrare, piuttosto, la lettura di Löwith con quella di Strauss: se la modernità e lo stesso giusnaturalismo moderno sarebbero impensabili senza la frattura operata dal cristianesimo (Löwith), ovvero senza la sua prospettiva di apertura al futuro (radice dell’idea di progresso) e senza l’idea di uguaglianza delle anime di fronte a Dio (radice della centralità dei diritti), è altresì vero che la piena espressione della natura umana non può prescindere dalla sua componente sociale e comunitaria che si esprime in una polis ben ordinata (Strauss) che per gli antichi era, anzi, il presupposto stesso della realizzazione della vita contemplativa (bios theoretikos).

In conclusione, siamo convinti che la conciliazione tra le prospettive di Löwith e di Strauss possa essere assai feconda nella edificazione di una prospettiva integralmente neo-greca, che non neghi, certo, le questioni poste dalla modernità, ma che sappia andare oltre quelle secche del moderno, le cui massime espressioni sono la fatalità del progresso (Löwith) e le tirannidi sempre in agguato (Strauss), che rischiano oggi di porre fine anzitempo all’avventura umana sulla terra o di degradarla alle forme più basse di esistenza. Oltre Itaca può indicare, allora — oltre all’emigrazione a cui sono stati costretti molti ebrei come Löwith e Strauss — l’attraversamento del «negativo» della modernità, per ritornare, poi, agli antichi — a Itaca — in un senso più alto e compiuto, potremmo dire, «dialetticamente». Se l’Occidente saprà accedere alla «sintesi» di una prospettiva oltre-moderna, allora la modernità non sarà avvenuta invano, rendendo, anzi, ancora più beato il ritorno a quella patria che, come i nostri due filosofi ci insegnano, consiste nella riscoperta delle enormi potenzialità simboliche e normative della natura universale e personale. Con una battuta: Itaca sive Natura.