La figura di Raimon Panikkar, per il tipo di esistenza che ha incarnato prima ancora che per il modello di pensiero a cui ha dato vita, può essere assunta come symbolon di una sorta di passaggio mitico. Non è la prima né l’ultima figura, certo, ad aver indicato un certo modo di intendere il rapporto con l’esperienza religiosa, un certo modo di relazionarsi all’altro che è in noi prima che fuori di noi; ma le modalità specifiche del suo itinerario, le forme del suo insegnare, del suo scrivere, del suo incontrare le persone e le culture costituiscono davvero un unicum. Quando, il 5 agosto 1977, Panikkar scrive in una pagina di diario «sembra che con me inizi una nuova linea»,1 non vi si deve scorgere la presunzione di qualcuno che pretende di essere un nuovo maestro, l’iniziatore di un cammino inedito. Piuttosto, egli è consapevole di una mutata temperie culturale e religiosa, si fa testimone di un passaggio mitico e della possibilità di aprire un nuovo orizzonte di significato per chi si incammina lungo la via del dialogo inter- e intra-religioso. La sua stessa appartenenza, da parte di padre e di madre, a due culture, due lingue, due tradizioni è una forma di rivelazione – rivelazione di un cammino inedito per giungere a se stesso. Il dialogo intrareligioso e interculturale non è una semplice passione da intellettuali, una novità alla moda per stare al passo con la globalizzazione e i tempi che mutano. Panikkar lo scrive in modo esplicito:
L’interculturalità è un imperativo umano del nostro tempo. Perché avvenga il mutamento da una cultura di guerra a una cultura di pace, il cambiamento deve raggiungere il dominio del mythos e non solo del logos; ne consegue che dobbiamo modificare i nostri miti e non solo le nostre idee. Questa transizione, questo passaggio (Pesach, Pascha) […] è il compito principale della filosofia interculturale.2
A tali questioni è connessa l’idea di pluralismo culturale. Ha davvero senso parlare di una «cultura umana» in senso generale e senza distinzioni di sorta? Per esempio, dal punto di vista dell’identificazione o dell’appartenenza alla tradizione cristiana, in che senso se ne può intendere l’universalità, la cattolicità? Panikkar si è domandato se sia necessario essere culturalmente greci e spiritualmente semiti per poter intendere l’annuncio cristiano – o se invece possano esistere altre vie per intendere il cuore del messaggio evangelico, anche al di fuori dei simboli e delle metafore che si radicano all’interno di un orizzonte esperienziale e linguistico pur sempre determinato, cioè condizionato:
È un fatto che al di fuori dell’area ellenico-semitica la Bibbia ebraica suoni esotica, estranea e qualche volta incomprensibile, per non dire scandalosa. I Vangeli greci nella loro semplicità sono più congeniali alle altre culture, ma la teologia susseguente, costruita su di loro, è incomprensibile al di fuori degli schemi mediterranei di intellegibilità. Devono forse gli altri popoli del mondo subire una circoncisione della mente dopo che la circoncisione del corpo fu abolita dal primo Concilio di Gerusalemme?3
Un’impostazione concettuale che volesse cogliere e definire una funzione universalizzante in grado di enucleare gli elementi di comunione e di continuità al di sopra – o al di sotto – delle contingenze culturali risulterebbe abitata da alcuni assunti indimostrabili, come l’esistenza inequivoca di tratti condivisi o modalità argomentative razionali universali. Ad esempio, l’idea del valore veritativo della Storia – l’idea che se un evento risulta storicamente accertato, esso sia più «vero» di un evento mitico o simbolico – oppure una descrizione scientifica del mondo non rappresentano necessariamente dei presupposti condivisi da tutte le culture umane. Ma se per preservare l’alterità di altre tradizioni si evitasse di pensarle, allo scopo di non violentarle introducendole nei propri schemi, non ci si sarebbe mossi di un passo verso la comprensione e il rispetto reciproci, e tanto meno si sarebbe operato in favore della verità che la filosofia e la religione, in modi diversi, cercano di intendere. È attraverso l’apertura e il dia- del dialogo, ovvero attraverso la differenza che dall’altro irrompe nel medesimo, nella trans-duzione di categorie differenti e nel valore euristico degli scarti differenziali tra i vari sistemi di significato, che una cultura, un pensiero, una forma di fede possono scoprire ciò che appartiene loro di originale e originario, e ciò che invece non hanno mai pensato, né pensato di pensare. Trovando affinità e intrecci si possono sondare opportunità di comunicazione e di contatto, si possono riscoprire i propri assunti impliciti in un gioco inesauribile di possibilità e impossibilità, di mutue comprensioni ed eventuali fraintendimenti. La filosofia, che sempre aspira all’universale, non può esimersi dall’intenzione del vero; essa non accetta di fermarsi sulla soglia di postulati indiscussi, ma deve riconoscere il transitare continuo, inarrestabile della verità stessa in tutte le figure che, cercando di coglierla, ne costituiscono gli eventi.
Ma se è giusto riconoscere alla filosofia alcune specificità, radicate in un certo uso della scrittura e della parola – la filosofia non coincide con il pensiero umano: ne è una delle forme espressive –, d’altra parte si può ampliare il raggio d’azione o lo spettro dei problemi che essa solleva pensando in termini di esperienza filosofica. Non è un caso che Panikkar parli di «esperienza filosofica dell’India», e non direttamente di «filosofia indiana» (o «indica», come lui preferisce). Un’esperienza filosofica allude e tocca ambiti problematici e domande analoghe a quelle della storia della filosofia occidentale, ma lo fa con mezzi propri, intrecciando percorsi e modelli di pensiero che nella tradizione europea sono stati mantenuti separati, soprattutto a partire dall’età moderna. L’esperienza filosofica che sta a cuore a Panikkar fa tutt’uno con una esperienza dialogica, potremmo dire, di una dialogicità tanto orizzontale – tra esseri umani e culture differenti – quanto verticale – con la dimensione del cosmo e del divino, di ciò che eccede o trascende la misura dell’umano e da cui tuttavia l’umano si sente interpellato; e quesot tipo di esperienza si scopre allora, anche, come un’esperienza religiosa, che prende le mosse proprio dal dialogo e dalla pluralità degli idiomi, delle forme di razionalità e di credenza, mantenendo viva l’apertura a una fede che, in quanto tale, è priva di oggetto.
Come scrive Panikkar, «nessun dialogo ecumenico si svolge in una lingua sola. Pensare che tramite una sola lingua l’esperienza umana diventi comprensibile è forse l’ultimo, anche se inconscio residuo dell’imperialismo intellettuale».4 Non esistono parole che di per sé possiedono un valore o una natura immediatamente trans-culturale; piuttosto, si possono utilizzare parole, concetti e categorie elaborandone di volta in volta il senso in una chiave interculturale. Ciò significa considerare le parole non soltanto come segni, ma soprattutto come simboli, come esperienze di attraversamento, di passaggio e di trasformazione. A differenza dei concetti, i simboli si producono sempre di nuovo nella trasformazione che producono o che favoriscono in coloro che li attraversano; essi consistono in quell’attraversamento e in quella metamorfosi, che accade nella storia ma che porta anche al di là della storia. La pluralità di attraversamenti e di approcci che i simboli consentono, e anzi incoraggiano, conduce a un atteggiamento di reciproca chiarificazione e messa in evidenza dei contesti dai quali ciascun individuo sempre inizia il proprio movimento di ricerca e conoscenza. Scoprendo altri simboli, accorgendosi di nuovi modi di intendere e di vivere simboli identici, si esce dal proprio «mito»: si assume una distanza consapevole da quell’orizzonte che non viene mai tematizzato ma che contiene e determina l’insieme delle riflessioni e delle auto-rappresentazioni che abbiamo di noi stessi e del mondo che abitiamo, per potervi ritornare, dopo averlo riscoperto con occhi nuovi. E tutto questo significa anche che un carattere essenziale della verità consiste nel suo disporsi alla cooperazione plurale delle lingue e delle culture. Per essere, e per avere un senso umano, la verità non può essere scissa dalla relazione con i soggetti, nelle loro differenze e identità singole, dinamiche, a loro volta sempre relazionali. Ma come già si è accennato nessuna figura, nessun soggetto può esaurire la verità, la può possedere al pari di un oggetto, la può «assolutizzare», cioè sciogliere dalla relazione viva con le figure – le parole, le esperienze, gli incontri, le vite – che la fanno di volta in volta accadere.
In linguaggio cristiano, la Divinità non può essere ridotta a un logos infinito. «C’è» anche una Sorgente apofatica. C’è anche lo Spirito, non inferiore né differente dal logos, ma neppure riducibile ad esso. In termini paradossali, la verità di Dio, il logos, non è il Tutto di Dio, perché Dio essendo verità, logos e Verità infinita, Dio «è» non solo questo. «È» Trinità.5
Per questo motivo la traduzione, come paziente e inesausto esercizio di confronto, di dialogo, di intreccio e anche di fallimento, di fraintendimento e di scacco, può rappresentare oggi uno dei modelli esperienziali più adatti, l’atteggiamento più istruttivo per un’etica da costruire. Sarà un’etica dell’ascolto, della proposta, dell’incontro, in un mondo plurale in cui i materiali finora utilizzati per erigere barriere identitarie, che hanno prodotto tante incomprensioni e inimicizie, possano essere riutilizzati per costruire passaggi, ponti, luoghi di transito. Tradurre non vuol dire semplicemente passare, trans-ire o trans-ducere da una lingua a un’altra; significa ripensare e coordinare ogni volta un intero sistema di concetti, di esperienze del mondo, di relazioni con la propria identità e con quella altrui. In ogni termine è implicata un’intera concezione del mondo. La traduzione come attitudine o pratica filosofica incita dunque a chiedersi da dove si proviene, e da dove vengono le categorie che utilizziamo. In senso lato, essa richiede di continuo una genealogia dei concetti impiegati, e fa così emergere la distanza tra l’inesauribilità e l’infinitezza della verità, da una parte, e la finitudine, la contingenza dei discorsi che su di essa si possono fare, dall’altra. In effetti «una scienza dell’uomo che sia incapace di una efficiente genealogia relativa alle sue stesse categorie conclude, volente o nolente, a una prevaricazione».6 Ogni oggetto di studio o di riflessione si costituisce a partire dal tipo di lettura o di pratica che lo pone appunto come suo oggetto; fino a quel punto esso non appariva, non emergeva nel contesto dei problemi o degli oggetti di indagine. Ogni pratica di indagine orienta fin dall’inizio la propria ricerca: non trova mai oggetti dati, al di fuori di essa, ma contribuisce in un certo senso a crearli, perché prima del definirsi progressivo, inizialmente inconsapevole, di quella pratica, quegli oggetti – sociali, culturali, filosofici, antropologici – non esistevano in quanto tali.
Una filosofia della cultura o della religione che non voglia essere prevaricatrice o cieca di fronte alla processualità dinamica della vita dei concetti e delle esperienze spirituali e corporee, al loro continuo intrecciarsi e meticciarsi nella Storia, o che non voglia essere sorda di fronte alle sfide e alle avventure del dialogo interreligioso della nostra epoca, deve essere in grado di prendere le distanze anche da se stessa, da ogni ipostasi che non si sappia sempre relazionale. «Relazionale» e non «relativa»: l’approccio pluralistico e interculturale di una filosofia che prenda sul serio il compito di pensare il presente della dimensione religiosa dell’uomo, così come di quella etica e politica, è consapevole del fatto che nessuno può attingere a un’esperienza del mondo e della vita a tutto campo, ma che ogni angolo visuale è pur sempre particolare, e ha bisogno di altri angoli prospettici per poter guadagnare una visione più completa e sfaccettata della realtà. Al tempo stesso è fondamentale la consapevolezza che nessuno potrà mai «uscire» del tutto da se stesso. Ciascuno deve pur sempre partire da un contesto dato, dal quale porsi determinate domande, in un linguaggio determinato. L’essere umano è finito, è limitato non solo nel tempo e nello spazio ma anche negli strumenti di auto-comprensione, che può comporre e ricombinare in forme sempre nuove e più complete, ma che restano invariabilmente condizionati e in relazione a contesti non del tutto scelti. È a partire da questa contingenza che si può muovere per interrogarne anche i limiti, o per intendere e alludere a ciò che ne esorbita.
Non c’è fede, non c’è opera, non c’è domanda al di fuori di un contesto, di forme che necessariamente la determinano e la delimitano. Ma è in questo riconoscersi finito che la pratica stessa, intrecciandosi in altre pratiche, in altri gesti, si riconosce nel luogo dell’evento di tutte quelle figure. «Perciò ogni figura o significato della verità è propriamente “in errore”, ogni volta che pretenda di arrestare ed esaurire l’evento che gli ha dato luogo. La verità transita nelle sue figure e insieme non sta altrove».7 Il pluralismo non è dunque un metodo, un’ideologia o un sistema, ma
quell’atteggiamento fondamentale dell’umano che è criticamente consapevole sia dell’irriducibilità fattuale (e quindi dell’incompatibilità) di diversi sistemi che tentano di rendere comprensibile la realtà, sia della non-necessità del tentativo di ridurla a un singolo centro di comprensibilità, non-necessità che rende così superflua ogni decisione assoluta in favore di un particolare sistema con validità universale.8
L’essere umano, le figure che lo descrivono e che egli contribuisce a elaborare per costituire significati nuovi grazie ai quali abitare il mondo, sono sempre frammenti di un intero che li supera e che non può essere del tutto ricompreso da un’angolazione o da una prospettiva limitata; al contempo, ogni frammento è essenziale all’intero, ogni frammento va accolto e raccolto con cura, anche quando sembra inutile o superfluo. Una filosofia interculturale è una costruzione di pensiero che accoglie e ama la contingenza, la gettatezza da cui ciascun essere e ciascun pensiero derivano. Il pensiero umano fa, opera, produce, vede «cose» diverse, offre prestazioni diverse. Il pensiero umano, così come l’esperienza religiosa nel suo senso antropologico, è uno – in quanto umano – e al contempo plurale – in quanto il tessuto dell’umano si presenta secondo molteplici pieghe, attraverso risvolti che possono sfiorarsi o combaciare, ma anche restare distanti e mai in contatto. Dal punto di vista delle tradizioni religioni, l’idea di un pluralismo relativo immagina diverse vie per giungere sulla vetta di un’unica montagna, mentre un pluralismo assoluto immagina che esistano diverse montagne, irriducibili tra loro; ma un approccio differente può immaginare che esistano più montagne (e colline, laghi, pianure…), anche se tutte poggiano su un unico sfondo, immanente e insieme trascendente. Montagne diverse possono essere composte da rocce simili; panorami analoghi si possono offrire alla vista anche in contesti lontani. Ma ogni roccia, ogni vetta, ogni strapiombo si colloca all’interno di quello sfondo inoggettivabile che non si identifica con alcuna vetta singola, perché quello sfondo è il luogo delle infinite relazioni che legano tra loro tutte le vette, tutte le rocce, tutte le prospettive.
Il riconoscimento della crisi che ha investito il linguaggio della teologia e della filosofia nella seconda metà del Novecento ha sottolineato un processo quasi paradossale e contro-intuitivo. Contemporaneamente alla diffusione su scala mondiale della mentalità filosofica, tecnica, scientifica, ma anche politica e religiosa, formatesi in Occidente, si è riscontrata un’insufficienza delle prestazioni che la parola filosofica e teologica era in grado di fornire. Di fronte a un mutare dei rapporti politici, economici e culturali tra gruppi sociali, nazioni e ideologie sempre più rapido, incalzante e notevole per quantità e qualità, sono sembrati sempre più evidenti limiti pratici di un tipo di linguaggio, oltre che di un modello di comprensione del mondo. Si è mostrata, in altri termini, l’esigenza di un passaggio ulteriore della parola filosofica, così come di quella teologica, attraverso il confronto e l’intreccio con tradizioni in cui la pratica della parola aveva attraversato forme e modalità differenti, per ovviare a scopi altrettanto differenti. La pratica di parola che la tradizione aveva consegnato all’Europa è parsa quasi estenuata, esaurita, bisognosa di nuova linfa per recuperare un contatto vivo con la realtà e le mutazioni del presente. Negli ambienti meno rigidi l’apertura ad altre pratiche di parola, ad altre pratiche spirituali e corporee, è stata vista come la riattivazione e la riarticolazione di strutture concettuali ed esperienziali in grado di contribuire al dialogo interculturale ed ecumenico. Molte spinte testimoniano della volontà di cercare e di fondare un tempo nuovo, in cui per parlare e mettersi a confronto circa la propria esperienza di vita, di ricerca, di fede non sia più necessario farlo erigendo barriere, isolando identità in maniera escludente, ma al contrario si possa e si sia incoraggiati a farlo abbattendo quelle barriere, cercando identità che siano inclusive e dialogiche. Quando cessa la paura dell’altro e l’attaccamento alla propria identificazione come a un’etichetta senza la quale ci si sente perduti, appare la necessità della differenza tra le diverse forme e tradizioni, essenziali l’una per l’altra, e scompare la loro «datità» fissa. Da meri oggetti statici, quelle tradizioni iniziano a muoversi, a incontrarsi e finalmente ad accadere nell’esistenza di chi li vive e sperimenta.
A partire da situazioni di isolamento e ignoranza reciproca, oppure di indifferenza, il movimento da favorire e accompagnare è quello che porta a nuovi modi di comunicazione, di dialogo, tanto nella convergenza quanto nella divergenza delle prospettive, sempre però nell’accoglimento dell’altro, nella coesistenza con esso. Mentre la mera tolleranza dell’altro può recare in sé un malcelato fastidio nei confronti delle sue idee o della sua presenza, un atteggiamento interculturale e pluralistico intende favorire piuttosto una capacità di ascolto e di rispetto anche nel dissenso. Pluralismo può significare anche accogliere il male o ciò che si avverte come tale, e cercare di riassorbirlo senza rimandarlo indietro, senza ripagare con la stessa moneta il torto che possiamo subire. Senza dubbio implica un costante esercizio di attenzione rispetto al male che noi stessi possiamo provocare, anche senza volerlo, per il solo fatto di essere al mondo e di provare certi sentimenti o di esprimere certe idee.
Non siamo pluralisti se integriamo tutto in una visione del mondo «pluralistica». Siamo pluralisti se riteniamo che nessuno di noi possieda la pietra filosofale, la chiave per il segreto del mondo, l’accesso al centro dell’universo […]. Se pensiamo esaustivamente (ausdenken) l’Eucaristia, la distruggiamo; se Dio, egli svanisce; se un atomo, esso scompare; se una persona, noi la perdiamo; se un albero, non lo comprendiamo.9
Un’intuizione del reale che abbracci una simile prospettiva, contrariamente alla tesi che risolve la totalità nella capacità di comprensione razionale dell’essere umano, esclude che la realtà sia trasparente al pensiero in modo assoluto. Ritiene cioè che rimanga sempre un residuo impermeabile, inafferrabile, ineffabile; e considera il fatto che anche il dire l’ineffabilità della dimensione ultima o intima della realtà è già un determinarla. Bisogna allora riconoscere che
il pluralismo non è la giustificazione di una pluralità di opinioni, ma la percezione che il reale è più della somma di tutte le possibili opinioni. […] In parole povere, nessun gruppo, nessuna verità, nessuna società, ideologia o religione può avanzare una pretesa totale sull’Uomo, perché l’Uomo è sempre inafferrabile, non completato, non finito, infinito – ancora in via di formazione, per via, itinerante – come lo è l’intera Realtà della quale l’Uomo è un partecipante attivo.10
Riemerge così la vexata quaestio della verità: una verità molteplice non è più la verità; tante verità non sono Verità, ma opinioni o prospettive relative, con gradi di maggiore o minore forza persuasiva (e sociale, o politica). Ma, di nuovo, va affermato che il senso di una Verità non solo astratta, ma concreta, vitale e propriamente religiosa, in grado cioè di religare tutti gli esseri, non può essere mai quello di un possesso. Se la Verità è qualcosa di vivo, che si sviluppa e si intreccia con le vite, di volta in volta nuove, inedite, inattese, di coloro che la ricercano e la interrogano, allora non può mai essere solo soggettiva, né solo oggettiva; è co-involgente, non si lascia dominare. Verità non è esattezza, mero adeguamento tra cosa e intelletto. Se si pensa la Verità soltanto come monolite, come sfera totale, univoca e immota, allora pensare «una pluralità di verità» significa pensare qualcosa di contraddittorio. Ma affermare che la natura della verità ha un carattere pluralistico non vuol dire che ci sono tante verità; significa invece che la realtà non è riducibile a un principio unico di intellegibilità.
Vale a dire, la verità è costituita dalla relazione totale delle cose, perché le cose sono in quanto sono in relazione l’una con l’altra. Ma non si tratta di una relazione privata fra un soggetto e un oggetto; è una relazione universale, così che nessun individuo privato o nessun gruppo può esaurire una qualsiasi relazione. La verità è relazionale, quindi relazionata a me, ma non è mai privata.11
L’errore, da un punto di vista tanto filosofico quanto religioso, è la chiusura e l’isolamento, cioè la frattura o l’interruzione della relazione, ovvero del significato primo della religione in quanto vincolo, condivisione, messa in comune, apertura. È interessante e istruttiva, oltre che poetica, l’analogia che Panikkar istituisce tra il cristiano e la persona innamorata:12 chi è innamorato considera la persona amata come la migliore, l’unica, l’incomparabile – e di fatto quella persona lo è, così come un’altra persona è la migliore, l’unica e l’incomparabile per un altro innamorato, che è tale proprio perché in se stesso sente che la verità di quella relazione lo chiama in quella direzione. Si può parlare di vocazione anche nel senso dell’amore erotico, quando tale amore viene assunto e incarnato dalla persona, che ne viene così trasformata. Quell’amore, quella fede non hanno soltanto a che fare con una dimensione essenziale, ma anche con una dimensione esistenziale; e questa si traduce in azioni, in relazioni con altri soggetti, non prioritariamente in concetti e formulazioni dottrinali. «Il cristianesimo ha una dottrina, ma non è una dottrina, è un’azione: l’azione salvifica di Cristo che sempre agisce e si compie».13 È dunque l’azione, la prassi, a rivestire un ruolo fondamentale. La retta opinione, o retta dottrina – ortodossia – ha un valore in quanto permette all’azione di svolgersi e svilupparsi in modo armonico; ma non può detenere il primato nella vita di un fedele: questo deve essere attribuito piuttosto alla retta azione, all’ortoprassi. Mentre ci può essere ortoprassi anche senza ortodossia, un’ortodossia che non porta all’ortoprassi è vuota retorica o ipocrisia.
Il pluralismo non è un sistema teoretico, o un sistema di sistemi, che resta all’interno dell’ambito concettuale e cerca di dare una risposta più inclusiva o articolata alla molteplicità e alla frammentazione dei canoni di intelligibilità, delle credenze e delle forme di categorizzazione del mondo. Come si è detto, è un atteggiamento: un’attitudine che non è innata, ma richiede tempo e cura per essere sviluppata e incorporata nei gesti, nelle parole e nei pensieri.
Questo significa che la nostra identità religiosa non è purosangue bensì frutto di un’ibridazione, non è singolare ma plurale, e prende forma in un costante processo […], nella formazione di un senso dell’io che poi si espande o corregge incontrando altri io. Non vi è nulla di simile a un’identità definita nettamente e una volta per tutte.14
È su questa strada che ci si può incamminare verso un’esperienza interculturale e in senso lato cattolica, che supera i confini dottrinari. L’incontro con l’altro è il nutrimento che feconda ogni seme, ogni pianta che espande le proprie radici rizomatiche e le intreccia con altre. Questo contatto, questa possibilità di intreccio non è monopolio né patrimonio di alcuna singola tradizione, ma è lo sfondo inoggettivabile da cui ogni figura assume consistenza, e in cui da ultimo ritorna.
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R. Panikkar, L’acqua della goccia. Frammenti dai Diari, Jaca Book, Milano 2018, p. 89. ↩︎
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R. Panikkar, Pluralismo e interculturalità: Opera omnia, VI/1, Jaca Book, Milano 2009, p. 293. ↩︎
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Ivi, p. 115. ↩︎
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R. Panikkar, Pluralismo e interculturalità, cit., p. 180. Cfr. anche J. Derrida, Il monolinguismo dell’altro, tr. it., Raffaello, Cortina, Milano 2004. ↩︎
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R. Panikkar, Pluralismo e interculturalità, cit., p. 7. ↩︎
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C. Sini, La scrittura e il debito. Conflitto tra culture e antropologia, Jaca Book, Milano 2002, p. 89. ↩︎
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Ivi, p. 91. ↩︎
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R. Panikkar, Pluralismo e interculturalità, cit., p. 57. ↩︎
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Ivi, pp. 47-48. ↩︎
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Ivi, pp. 49-50. ↩︎
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Ivi, pp. 107-108. ↩︎
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Ivi, p. 128. ↩︎
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Ivi, p. 129. ↩︎
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P. Knitter, Senza Buddha non potrei essere cristiano, tr. it., Fazi, Roma 2011, p. 285. ↩︎