1. Introduzione
La lettura fenomenologica della psicoanalisi di Freud rimarrebbe limitata qualora venisse effettuata solamente attraverso il pensiero di Edmund Husserl; essa poi rischierebbe di venir assorbita in una più ampia comprensione ermeneutica, che trova il suo paradigma nell’interpretazione di Paul Ricœur. Lo scopo di queste pagine è quello di mostrare l’esistenza d’una via interpretativa del pensiero freudiano, la quale istituisce un primato fenomenologico dell’affettività che si pone all’origine della contrapposizione psicoanalitica conscio-inconscio. È questa la via percorsa da Michel Henry, il cui merito sta nell’aver riconosciuto nell’inconscio freudiano le dinamiche «invisibili» del pathos della vita. Sebbene la psicoanalisi si inserisca pienamente nella vicenda del pensiero occidentale moderno, un movimento che, secondo il filosofo francese, ha «occultato la vita», essa è al tempo stesso un «pensiero della vita», e apre pertanto una via verso il superamento della «filosofia della coscienza», che si unisce perfettamente al progetto della fenomenologia di Henry.
2. Coscienza e inconscio nella fenomenologia
All’interno della grande opera husserliana la luminosità apodittica del cogito ha sempre avuto una posizione di primaria importanza; tale apoditticità, non potendo estendersi come evidenza adeguata in uno spazio infinito, è tale solamente in un nucleo centrale, nucleo circondato da uno spazio di indeterminatezza, di luminosità che si degrada nella lontananza dal centro. L’esperienza, nella fenomenologia husserliana, è adeguata in quanto cogito presente e attuale; ma la datità dell’ego cogito è circondata da un orizzonte di inadeguatezza nella forma di esperienze passate, anticipazioni del futuro, possibilità di altre percezioni ecc. Constatando che il momento attuale dell’esperienza è attraversato da un orizzonte «offerto alla coscienza in maniera oscura» la fenomenologia può così introdurre, in relazione alla tematica della coscienza, la figura dell’inconscio.
Il rapporto tra coscienza e inconscio, in ambito fenomenologico, è un rapporto di essenziale continuità. Nei diversi luoghi in cui Husserl analizza la dimensione oscura della coscienza, caratterizzandola come «inconscia», non manca di enfatizzare i legami con l’attualità dell’esperienza. L’effettività della coscienza, egli afferma, «è circondata da un orizzonte non-effettivo dell’«inconscio», un orizzonte aperto non-in-rilievo, quindi non oggetto esplicito di coscienza».1 Tale orizzonte oscuro è pur sempre un orizzonte intenzionale che si caratterizza, affermano le Lezioni sulla sintesi passiva, come spegnimento delle forze affettive verso un grado zero di vitalità coscienziale, che non si dissolve tuttavia in un nulla assoluto, ma permane come punto limite della coscienza stessa. In tal senso allora si giustifica l’affermazione secondo cui «ogni «dato cosciente» (Bewusste) per sé ha la sua propria oscurità implicita».2 La continuità della vita cosciente è messa in luce anche in quel contesto genetico, che Husserl intraprende a partire dagli anni Venti, che è l’analisi della vita monadica: la monade infatti «è un’unità vivente, che porta in sé un io come polo dell’agire e del patire, e un’unità della vita desta e latente, un’unità di facoltà, di «disposizioni», e la latenza, «l’inconscio», è un modo proprio dell’insieme chiuso monadico».3 Se la continuità della vita cosciente è tale anche laddove la luce si dissolve completamente, implicando così l’inconscio come modo della coscienza stessa, la visione fenomenologica trova un primo contrasto con l’idea della psicoanalisi freudiana di una rottura nella dimensione coscienziale, rottura che trova il suo «altro» proprio nell’inconscio. In che modo infatti può essere pensata la scissione conscio-inconscio se il primo possiede il secondo come suo punto limite, come sfondo a-tematico, momento inconscio poiché non-desto ma pur sempre co-valente?4 Come conciliare questa visione con la concezione psicoanalitica dell’attività inconscia in quanto attività «tagliata fuori» dalla coscienza, attività che, nonostante l’intenso operare, non trova sbocco nella vita cosciente?
In un passo di Idee II, relativo alle analisi sulla legge della motivazione, Husserl si richiama direttamente alla psicoanalisi per giustificare l’esistenza di «motivi nascosti»; egli afferma che «il singolo vissuto è allora motivato da uno sfondo oscuro, ha «motivi psichici», che si possono interrogare […] . I «motivi» sono spesso nascosti in profondità, ma possono venir portati in luce attraverso la «psicoanalisi»».5 La catena associativa dei motivi può essere ristabilita attraverso il «ricordo», ma spesso, afferma sempre Husserl, la motivazione, anche se «realmente presente nella coscienza», permane inavvertita, senza assumere nessun «rilievo»: essa rimane «inconscia». Certamente la situazione esposta mostra una forte vicinanza con i concetti di fondo del pensiero freudiano, tuttavia ciò che manca è un’effettiva analisi, propria della ricerca di Freud, di ciò che impedisce il ridestarsi di un ricordo.6 Il blocco creato dalle resistenze, l’impossibilità di ricordare semplicemente il rimosso, il manifestarsi di questo nella forma del sintomo: tutto ciò mostra un’effettiva distanza tra il dominio inconscio e l’apoditticità cosciente, caratteristica della psicoanalisi. Nel pensiero husserliano l’inconscio rientra nell’orizzonte intenzionale della coscienza, e la catena delle associazioni si lega alla possibilità del «ricordare», del risalire alle motivazioni passive-inconsce che motivano e determinano l’attualità della vita cosciente;7 pertanto ciò che non può pervenire alla coscienza, ciò che non può manifestarsi nella rappresentazione, nella percezione, nel ricordo, non può fungere da motivazione, nemmeno da motivazione inconscia.8 È noto invece che, per la psicoanalisi, quello che motiva la vita psichica può altresì situarsi in una sfera sottratta per principio alla coscienza, una sfera — certamente connessa al conscio da legami associativi — inaccessibile al ricordo, ma che in un certo modo si manifesta, si manifesta senza che io «sappia» coscientemente il perché del manifestarsi. Come afferma Freud, nella cura delle nevrosi possiamo osservare come spesso il paziente non «ricordi» nulla del rimosso, ma lo «ripeta» nell’azione in modo inconsapevole: «l’analizzato non ricorda assolutamente nulla degli elementi che ha dimenticato e rimosso; egli piuttosto li mette in atto. Egli riproduce quegli elementi non sotto forma di ricordi, ma sotto forma di azioni; li ripete, ovviamente senza rendersene conto».9 Questo caso, come quello generale del transfert (in quanto ripetizione di un atteggiamento passato), si pone in maniera opposta all’idea husserliana del ricordo come «presentificazione»: se per Husserl la rimemorazione ri-presenta la medesima azione passata ma con un grado di originalità che non è più quello della «presentazione originaria», nel trattamento psicoanalitico il ricordo, come ripetizione, ri-presenta l’azione passata nella sua originalità, ma non nella medesima forma e in modo inconsapevole. Siamo così di fronte a un punto di grande importanza; dobbiamo ammettere infatti che la fenomenologia, seguendo la psicoanalisi, pone l’esistenza dell’inconscio, e lo riconduce attraverso l’analisi intenzionale alla sfera maggiore della coscienza, che lo implica come orizzonte oscuro atematico, in uno spegnersi di forze tendenti al grado-zero di affettività. D’altra parte anche il lavoro psicoanalitico presuppone una continuità tra vita cosciente e inconscia; non dimentichiamo infatti come la terapia freudiana consista nel riportare il materiale rimosso alla coscienza: il «trattamento psicoanalitico, afferma Freud, può essere espresso nella formula: rendere cosciente tutto ciò che è inconscio in modo patogeno».10 Ma questa continuità, ecco il punto essenziale, è interrotta da un meccanismo dinamico di forze psichiche che produce resistenze, censure, che affonda le sue radici nella dimensione della vita, la quale obbedisce all’immediatezza del principio del piacere.11 Pertanto, poiché la continuità conscio-inconscio è al tempo stesso discontinuità, tale per cui «le leggi dell’attività psichica inconscia si differenziano in larga misura da quelle dell’attività cosciente»,12 Michel Henry può affermare, con grande lucidità, che «l’inconscio è il nome della vita».13
3. Henry e la psicanalisi
Un movimento di pensiero come la psicoanalisi, così focalizzato sulle dinamiche di quella sfera della vita psichica che sfugge alla chiarezza della coscienza, non poteva non essere oggetto di un confronto diretto da parte della fenomenologia di Henry, tutta imperniata sulla riscoperta della dimensione «invisibile» della vita. La lettura che il filosofo francese fa del pensiero freudiano è d’altra parte una lettura «genealogica» — come già si evince dal titolo dell’opera principale su questo tema, la Généalogie de la psychanalyse. Esso viene presentato non come punto di rottura, ma in essenziale continuità con la vicenda del pensiero moderno occidentale, come punto di arrivo di un cammino che ha occultato il pathos della vita a favore della coscienza e della rappresentazione. Ed è la medesima vicenda di pensiero che risuona in modo essenziale nella fenomenologia husserliana. Nell’ambito della «filosofia della coscienza», la fenomenologia di Husserl trova, per Henry, l’«ultimo fallimento»: inserendo tutta la «fenomenalità» nella sfera della coscienza, essa la pone nel dominio assoluto della rappresentazione, il quale, come potere di far vedere ponendo-davanti (come suggerisce il termine tedesco Vor-stellen), ovvero — afferma sempre Henry — come intenzionalità, implica una necessaria finitezza, un limite insito nella luminosità stessa del rappresentare. Questo limite comporta allora una oscurità ineliminabile connessa proprio a quel cogito che inizialmente doveva essere il centro assoluto trascendentale dell’evidenza; difatti, se «si parte dal cogito, che viene interpretato come l’evidenza», ne consegue che «la quasi-totalità del contenuto della coscienza sfugge alla coscienza attuale»,14 dato che, come abbiamo detto, la sua luminosità è tale solo nel nucleo centrale presente. Possiamo allora comprendere come la soggettività trascendentale cada in quell’anonimato che Husserl descrive con insistenza nei testi degli anni Trenta, anonimato che manifesta un singolare primato dell’irriflesso all’interno della vita cosciente.
La psicoanalisi tuttavia non può essere vista semplicemente come culmine di un pensiero che ha obliato la vita. Infatti, secondo il filosofo francese, Freud è al tempo stesso sulla via — aperta da Schopenhauer e Nietzsche — della «riscoperta» dell’immanenza della vita. La questione centrale non è pertanto quella di far rientrare l’inconscio nella dimensione di coscienza, ovvero, detto in termini fenomenologici, porre una intenzionalità che, non essendo sotto la luce evidente dell’ego, si svolge nell’atematicità come «intenzionalità fungente» e anonima; nella sfera di forze ed energie che domina l’inconscio, così come lo pensa Freud, non è più possibile attuare il metodo fenomenologico della riflessione e della messa in evidenza, poiché qui le leggi dell’intenzionalità non sono più valide.15 Dato che, secondo Henry, al modo di manifestazione proprio del mondo, nell’Ek-stasi della visibilità, si contrappone in modo essenziale la manifestazione della vita nel pathos dell’affettività, è necessario individuare quei punti in cui la psicoanalisi si immette nella direzione del ritrovamento della vita. L’inconscio diviene così un concetto chiave che si inserisce nel mezzo di questo dualismo, offrendo una duplice possibilità: essere ricondotto all’intenzionalità della rappresentazione e della coscienza, oppure aprire la strada a quella dimensione che, in quanto pathos, non può per principio essere intenzionale.
L’opera freudiana, sviluppata attraverso ripensamenti e rivalutazioni dei propri concetti fondamentali, lascia così aperta la possibilità di condurre l’interpretazione filosofica sui rapporti tra sistema conscio e inconscio in due vie principali: quella che vede una omogeneità ontologica di fondo tra questi, e quella che vede nell’eterogeneità la peculiarità propria della psicoanalisi. Considerare l’inconscio come «non-coscienza» significa pensarlo all’interno di una medesima struttura che si sviluppa nella dialettica presenza/non-presenza; è questo che Henry definisce «inconscio della rappresentazione»,16 fondato sull’omogeneità tra i due sistemi e che si inserisce nel dominio dell’intenzionalità. Anche Freud, nella Nota sull’inconscio in psicoanalisi così come ne L’Io e l’Es, utilizza l’argomento dei concetti latenti e delle lacune della coscienza per giustificare la presenza di una attività inconscia; ma tale attività, in quanto capace di divenire cosciente, si caratterizza più precisamente come «preconscia» e rientra pertanto nell’orizzonte intenzionale della vita cosciente. Come nota Ricœur, è su questo punto che la fenomenologia husserliana si accorda con il pensiero freudiano, poiché «l’inconscio della fenomenologia è il preconscio della psicoanalisi, cioè un inconscio descrittivo e non ancora topico».17 Se in Husserl il modello della percezione — e dell’intuizione come coscienza originaria — possiede un primato assoluto, che permette alla ricerca fenomenologica di costituirsi come eidetica, in Freud il «sistema percezione» è un sistema di superficie che non caratterizza la vita psichica come modello originario; esso guida l’Io e lo costituisce non come puro polo trascendentale, ma come istanza immersa in un gioco di forze estraneo alla purezza della coscienza fenomenologica.
Non per questo, secondo Henry, la psicoanalisi sfugge completamente al dominio dell’intenzionalità, poiché la sfera intenzionale è altresì la sfera del «senso». L’analisi dei sogni, come via regia che conduce all’inconscio, mantiene ancorata la psicoanalisi al dominio del senso poiché il sogno, distolto dall’immaginario puro non-linguistico, viene ricondotto al linguaggio, quindi all’ambito della significazione, attraverso il «racconto». Si apre così la possibilità per la psicoanalisi d’una contaminazione da parte della linguistica,18 che porterà Lacan, com’è noto, a considerare l’inconscio «strutturato come un linguaggio». Questa idea viene fortemente criticata da Henry il quale, cercando di pensare all’inconscio al di là della rappresentazione, come «nome della vita», non può accettare ad esempio che il bisogno vitale della madre da parte del bambino venga ricondotto al «significato» di «amore sessuale» proprio del complesso edipico: «il bambino non ha nessuna appercezione di tutto questo, non perché è un bambino, ma perché è un vivente […] . È la vita che, non portando in essa alcuna «rappresentanza» -stasi e non potendo così appercepirsi essa stessa come tale, non potendo rapportarsi a se stessa e nemmeno rappresentarsi, non può nemmeno significarsi, né di conseguenza avere, quanto a essa, un senso».19 Per Freud d’altra parte tutto ha un senso, tutto «parla»; ma non per questo tutto è originariamente linguaggio. Qual è allora il rapporto tra la sfera del linguaggio e l’inconscio? Può il principio di piacere, nella necessaria immediatezza del soddisfacimento, avere una strutturazione linguistica? Nella Metapsicologia Freud espone in modo chiaro la sua idea d’una suddivisione tra «rappresentazione della cosa» e «rappresentazione di parola» affermando che l’unione di queste è ciò che caratterizza il sistema conscio-preconscio, laddove nel sistema inconscio si dà la sola rappresentazione della cosa. Questo punto è di primaria importanza poiché configura il pervenire di un contenuto inconscio alla coscienza come un pervenire alla dimensione della parola, del linguaggio; di conseguenza, nel dominio della rimozione sussiste l’investimento oggettuale «della cosa», che si sottrae alla rappresentazione linguistica: «la rappresentazione non espressa con parole, o l’atto psichico non sovrainvestito, resta allora nell’Inc, rimosso».20 Sebbene Freud parli comunque di rappresentazione-di-cosa, questa non può essere ancora una rappresentazione linguistica; in quanto investimento psichico, energetico, non può essere circoscritta semplicemente alla pura significazione, non può essere, come si è detto, linguaggio. Al contrario, è necessario che la rappresentazione di cosa perda la sua autonomia per essere portata alla coscienza, e tale trasposizione, unendosi alla parola, falsifica in un certo senso la sua condizione originaria. Non pare perciò fuori luogo richiamare la differenza che Henry pone, già a partire dall’Essenza della manifestazione, tra il linguaggio del mondo e il Logos della vita, dell’affettività, linguaggio questo indipendente dal pensiero e dalla significazione, che trova una propria dimensione di manifestazione in modo indipendente dalla coscienza.21
Nonostante il pensiero freudiano si sia posto così nella direzione d’una autonomia dell’inconscio il quale, come sfera di forze anteriori al linguaggio, sembra uscire dal dominio della rappresentabilità per abbracciare completamente l’invisibilità della vita, secondo Henry esso perde in modo «catastrofico» tutto questo nel momento in cui lo fa rientrare nel concetto di «rappresentanza» (Repräsentanz). L’inconscio, del 1915, afferma infatti che per le pulsioni non si dovrebbe parlare propriamente di conscio-inconscio, poiché esse non possono per principio divenire oggetto di conoscenza; esse emergono, nel loro essere al limite tra lo psichico e il somatico, nella sfera psichica, conscia e non, poiché una certa rappresentazione le «rappresenta». È tale «rappresentanza» allora che costituisce la base per la manifestazione dell’attività pulsionale, permettendo così di riportare l’energetica nell’ambito del senso; per questo Ricœur può affermare che la rappresentanza pulsionale costituisce l’ambito in cui la questione del senso e della forza coincidono.22 Ma se la separazione profonda tra conscio e inconscio, che, come abbiamo detto, fornisce l’unico supporto per ricondurre la sfera inconscia al pathos della vita, viene meno attraverso quella comunanza strutturale che è proprio la Repräsentanz, si apre la possibilità d’una effettiva interpretazione ermeneutica del pensiero freudiano, interpretazione che riconduce alla dimensione del senso ogni forza psichica. È questo l’intento di Ricœur, che afferma: «Sarà perciò possibile usare il medesimo linguaggio per l’inconscio come per il conscio: potremo parlare di rappresentazioni inconsce e coscienti; una certa unità di significazioni intenzionali mantiene d’ora innanzi una parentela di senso tra i sistemi, nonostante la barra che li separa […]; in breve, la psicoanalisi è possibile come ritorno alla coscienza in quanto, in un certo modo, l’inconscio è omogeneo alla coscienza; è il suo «altro» relativo e non l’assolutamente «altro»».23 Si comprende bene quindi, nella lettura di Henry, la centralità del concetto di Repräsentanz. Su questa base egli può infatti affermare che psicoanalisi e fenomenologia possiedono un comune orizzonte di presupposizioni ontologiche, orizzonte che è quello del pensiero occidentale che ha messo da parte l’immanenza della vita nella sua invisibilità e nella sua fenomenalità in quanto affetto e auto-affezione, a favore della coscienza e della rappresentazione; questo è l’orizzonte che permette di pensare la psicoanalisi come ermeneutica.
Dobbiamo perciò ammettere che la via aperta dalla psicoanalisi verso la riscoperta della vita è una via che non può essere percorsa, che non può proseguire in quanto assorbita dalla via ermeneutica che lega anche il pensiero freudiano al pensiero occidentale e alla sua «metafisica della rappresentazione»? La risposta diviene negativa nel momento in cui si mette in primo piano la peculiare autonomia che ha per Freud, nella teoria delle pulsioni, l’affetto. Questa autonomia deriva dal fatto che l’affetto non si identifica con il rappresentante pulsionale; esso ha un destino differente, vicissitudini di rimozione che possono essere molto diverse da quelle della rappresentazione. Nello scritto di metapsicologia del 1915 La rimozione, Freud nomina questo «altro elemento della rappresentanza psichica», importo d’affetto, il quale trova espressione, staccandosi dalla rappresentazione, come «affettività del sentimento».24 Questa affettività, che caratterizza profondamente l’energetica psicoanalitica, non può inserirsi nella dialettica conscio-inconscio: «Una rappresentazione resta la stessa, tranne che per un’unica differenza, quella che c’è tra essere cosciente ed essere inconscia […] . Un affetto, invece, è un processo di scarica che va valutato in tutt’altro modo da una rappresentazione».25 Ciò che subisce propriamente la rimozione è la rappresentazione pulsionale, mentre l’importo affettivo si trasforma — e in modo particolare in angoscia. Ne consegue allora che un «affetto inconscio», a rigor di termini, non esiste, così come esiste invece la rappresentazione inconscia. La rimozione può mettere in ombra tale rappresentazione, può confinarla nella condizione inconscia in modo tale che la coscienza non possa saperne nulla; ma la vita, in termini henryani, non può essere interrotta, essa è la continua prova di se stessa nell’autoaffezione; e l’affetto perciò si trasforma, diviene angoscia, o al massimo svanisce completamente, ma non si porta mai nella condizione di contenuto inconscio. Per questo Henry può affermare che «il fondo dell’inconscio non è, in quanto affetto, niente di inconscio».26 Questo non vuole dire certamente che la psiche, nella sua sfera affettiva, perviene alla visibilità nella luce dell’evidenza. Il fatto di non essere nulla di inconscio, come affetto, da parte dell’inconscio stesso, significa ribadire che l’inconscio è il nome della vita; e come tale, in quanto radicato nell’affettività, non possiede nessuna struttura comune con la coscienza e con la rappresentazione; anzi, ne è propriamente al di là.
Nella riproposizione dei casi di zoofobia che Freud espone nel 1925 in Inibizione, sintomo e angoscia possiamo trovare una conferma clinica di quanto detto. Il caso del «piccolo Hans», il quale aveva sviluppato la fobia verso i cavalli, in particolare la paura che questi lo mordessero, chiarisce perfettamente la differenza tra il destino della rappresentazione e dell’affetto. Il fatto che la fobia dei cavalli sia una sostituzione e deformazione dell’originaria conflittualità edipica nei confronti del padre, in particolare della paura che questi possa castrarlo, mostra la possibilità della rappresentazione di muoversi nell’ambito del senso, di essere rimossa e permanere inconscia, senza essere conosciuta.
4. Affettività e fenomenologia della vita
Alla luce della fenomenologia della vita, queste analisi ermeneutiche appaiono tuttavia secondarie rispetto a ciò che dal fondo le muove, ovvero la dimensione affettiva. Come Freud afferma già nella Metapsicologia, lo scopo della rimozione è fondamentalmente quello di evitare il dispiacere, e per tale motivo la vicissitudine dello stato affettivo ha un’importanza primaria. Questo pensiero lo guiderà poi nel ripensamento della posizione dell’angoscia rispetto alla rimozione stessa; in Inibizione, sintomo e angoscia si afferma in effetti che non è la rimozione a generare l’angoscia, come si diceva negli scritti precedenti, ma è l’angoscia stessa a provocare la rimozione. Pertanto «non accade mai che l’angoscia provenga dalla libido rimossa»,27 ma è implicita in quel movimento della libido verso l’Io, in quel movimento della vita verso se stessa. In termini freudiani, un investimento libidico proveniente dall’Es, riconosciuto minaccioso e pericoloso dall’Io, porta a manifestazione immediata il sentimento d’angoscia, che ha il potere di inibire e rimuovere le rappresentazioni pulsionali. Nel caso del piccolo Hans allora l’angoscia, quella derivante dal pericolo di essere castrato, rimuove la rappresentazione della «aggressività contro il padre», che si deforma poi in fobia dei cavalli.28 Ma l’angoscia, in quanto stato affettivo che si prova,29 non cade nell’inconscio; essa permane come stato che può essere controllato — ad esempio evitando la possibilità di incontrare l’animale temuto. Le minacce, i pericoli derivanti dalle pretese endogene della libido, in termini freudiani, l’incapacità della vita di fuggire da se stessa, in termini henryani, costituiscono l’angoscia come stato affettivo, come sentimento dell’essere in quanto vita, la quale non può mai smettere di provare se stessa. Evitare di dare spazio al sentimento di dispiacere attraverso la rimozione significa allora agire su delle rappresentazioni collegate al sentimento, ma che non si identificano con questo; non rientrando nel dominio del senso, il sentimento non può essere soggetto a un’ermeneutica. Riconoscere l’originaria aggressività contro il padre al posto della fobia dei cavalli, o altre fobie in generale, non significa avere raggiunto il sentimento «vero». Qui, afferma Henry, siamo ancora all’interno di un idealismo della coscienza.30 Come mostra il § 63 dell’Essenza della manifestazione, la realtà del sentimento è identica alla sua rivelazione originaria nell’affettività, pertanto la falsità e verità del sentimento si trovano solo al di fuori di questo, nell’interpretazione da parte del pensiero.31
Il primato dell’affettività viene così ad assumere anche in psicoanalisi uno statuto fenomenologico, in particolare a partire dal 1924, nel momento in cui Freud, svincolandosi dalla pura «economica» che aveva caratterizzato il suo pensiero sin dal Progetto di una psicologia del 1895, constata che «nella serie delle sensazioni di tensione è avvertibile direttamente l’incremento e la diminuzione degli stimoli, e non c’è alcun dubbio che esistano tensioni piacevoli e rilassamenti spiacevoli […] . Il piacere e dispiacere non possono dunque essere ricondotti alla diminuzione o all’incremento di una quantità».32 È tale affermazione che porta Henry a dire che in Freud è proprio la fenomenologia a fare «crollare lo schema speculativo iniziale». La fenomenologia della vita può così inserirsi nella psicoanalisi per proseguire su quella strada che lo stesso Freud ha aperto ma non ha interamente percorso, quella strada che fuoriesce dalla metafisica della coscienza per intraprendere il ritorno alla dimensione originaria del pathos della vita.
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E. Husserl, Die Lebenswelt. Auslegungen der vorgegebenen Welt und ihrer Konstitution. Texte aus dem Nachlass (1916-1937). Husserliana, Gesammelte Werke, vol. XXXIX, a cura di R. Sowa, Springer, Dordrecht 2008, p. 27. ↩︎
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E. Husserl, Späte Texte über Zeitkonstitution (1929-1934). Die C-Manuskripte, Husserliana, Materialien, vol. VIII, a cura di D. Lohmar, Springer, Dordrecht 2006, p. 192. ↩︎
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E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlass. Zweiter Teil: 1921-1928, Husserliana, Gesammelte Werke, vol. XIV, a cura di Iso Kern, Martinus Nijhoff, The Hague 1973, p. 34. ↩︎
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Scrive Husserl, in una nota a un manoscritto del 1933: «1) Inconscio come sfondo atematico 2) Inconscio come covalente non-desto» (E.Husserl, Die Lebenswelt, cit., p. 101). ↩︎
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E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, vol. II, Einaudi, Torino 2002, p. 226. ↩︎
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Concordo qui con l’idea di F. S. Trincia secondo cui l’interpretazione del passo citato, da parte di Vincenzo Costa, il quale afferma che «in questo caso, l’emergere della motivazione è impedita da una inibizione, da una tendenza che si oppone a quella ridestante» (V. Costa, E. Franzini, P. Spinicci, La fenomenologia, Einaudi, Torino 2002, p. 235), risulta forzata, poiché è «proprio l’assenza nel testo husserliano di ogni accenno alla esistenza di forze psichiche inibitorie e rimuoventi […] che consente di parlare di quel singolare inconscio che resta sempre a disposizione dell’io» (F. S. Trincia, Husserl, Freud e il problema dell’inconscio, Morcelliana, Brescia 2008, p. 88). ↩︎
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«Il meccanismo della psicoanalisi viene presentato come una sorta di mnemotecnica di tipo associativo, che consente di risalire la catena delle motivazioni, portando alla luce quelle presenti, ma nascoste, oscurate soltanto dalla loro lontananza nel passato» (F. S. Trincia, Husserl, Freud e il problema dell’inconscio, cit., p. 87). ↩︎
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«Ciò che io non «so», ciò che nei miei vissuti, nelle mie rappresentazioni, nel mio pensiero, nelle mie azioni non mi sta di fronte quale rappresentato, percepito, ricordato, pensato ecc., non mi «determina» spiritualmente. E ciò che non è incluso intenzionalmente, magari inavvertito, implicito, nei miei vissuti, non mi motiva, nemmeno inconsciamente» (E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, vol. II, cit., p. 234). ↩︎
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S. Freud, Ricordare, ripetere e rielaborare, in Nuovi consigli sulla tecnica della psicoanalisi, Opere di Sigmund Freud (OSF), vol. VII, Bollati Boringhieri, Torino 1975, pp. 355-56. ↩︎
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S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, OSF, vol. VIII, Bollati Boringhieri, Torino 1976, p. 444. ↩︎
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Come osserva Ricœur, la nozione di «carica psichica» (e così anche la dimensione energetica in generale) «esprime un tipo di adesione e di coesione che nessuna fenomenologia della visione è in grado di rendere. Le metafore energetiche sostituiscono qui il linguaggio fioco dell’intenzione e del senso» (P. Ricœur, Dell’interpretazione. Saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano 2002, p. 426). ↩︎
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S. Freud, Nota sull’inconscio in psicoanalisi, OSF, vol. VI, Bollati Boringhieri, Torino 1974, p. 581. ↩︎
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M. Henry, Généalogie de la psychanalyse, PUF, Paris 1985, 20032, p. 348. ↩︎
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M. Henry, Phénoménologie et psychanalyse, in (a cura di) P. Fédida, J. Schotte, Psychiatrie et existence, Millon, Grenoble 2007, p. 98. ↩︎
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«Quel che si tratta di far rivivere mettendo in luce, non sono più dei rimandi intenzionali come quelli che si stabiliscono naturalmente e in un certo modo necessariamente tra le facce che appaiono di un cubo o di una casa per esempio, e quelle che non appaiono […]. Le associazioni con cui si misura l’analisi non hanno più la docilità di quelle del mondo della rappresentazione» (M. Henry, Ricœur et Freud: entre psychanalyse et phénoménologie, in De la subjectivité (Phénoménologie de la vie II), PUF, Paris 2003, p. 171). ↩︎
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M. Henry, Généalogie de la psychanalyse, cit., p. 350. ↩︎
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P. Ricœur, Dell’interpretazione. Saggio su Freud, cit., p. 424. ↩︎
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M. Henry, Généalogie de la psychanalyse, cit., p. 356. ↩︎
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Ibid., p. 358. ↩︎
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S. Freud, L’inconscio, in Metapsicologia, OSF, vol. VIII, cit., pp. 85-86. ↩︎
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«poiché il linguaggio del sentimento è il sentimento stesso e la sua parola risiede in lui, poiché l’affettività si rivela come affettività, questo linguaggio, queste parole non possono essere comprese dal pensiero, in quanto non attendono da esso nessuna risposta» (M. Henry, L’essence de la manifestation, PUF, Paris 1963, 20114, p. 691). ↩︎
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P. Ricœur, Dell’interpretazione. Saggio su Freud, cit., p. 471. ↩︎
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Ibid., pp. 471-72. ↩︎
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S. Freud, La rimozione, in Metapsicologia, cit., p. 43. ↩︎
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S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, cit., p. 561. ↩︎
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M. Henry, Généalogie de la psychanalyse, cit., p. 369. ↩︎
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S. Freud, Inibizione, sintomo e angoscia, OSF, vol. X, Bollati Boringhieri, Torino 1978, p. 259. ↩︎
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Sulla base del modo di pensare «totemico» ancora presente nel bambino, che non accentua ancora la separazione uomo-animale. ↩︎
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«L’angoscia quindi è, in primo luogo, qualcosa di provato» («Die Angst ist also in erster Linie etwas Empfundenes», S. Freud, Inibizione, sintomo e angoscia, cit., p. 279 [trad. modificata]). ↩︎
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M. Henry, Généalogie de la psychanalyse, cit., p. 359. ↩︎
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M. Henry, L’essence de la manifestation, cit., § 63, pp. 707-15. ↩︎
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S. Freud, Il problema economico del masochismo, OSF, vol. X, cit., p. 6. ↩︎