Maurizio Meloni, L’orecchio di Freud. Società della comunicazione e pensiero affettivo, Bari, Dedalo, 2005, 220 pp.
Nonostante il postmodernismo e la diffusione di culture della crisi e della tragedia, i filosofi continuano a fare baluardo contro la psicoanalisi. Anche nelle loro caute aperture, non abbandonano la cittadella nella quale hanno sempre trovato la salvezza: il Pensiero puro e superindividuale.
In questo orizzonte, il libro di Meloni, L’orecchio di Freud, appare un contributo importante: con solido impianto argomentativo ed ampi riferimenti culturali, l’autore ci illustra come lo spettro dei filosofi, anche di quelli che hanno rivoluzionato le vecchie categorie, riguarda il sentire dell’individuo e la centralità del desiderio nelle vicende umane.
Sulla scia di Michel Henry, Meloni ad esempio “legge” l’“apertura” di Heidegger — salutata da molte parti quale visione rivoluzionatrice — come una riproposizione, solo in apparenza nuova, della antica aspirazione dei filosofi alla trasparenza e alla visione luminosa e solare. La paura di fronte alla oscurità e alla indomabilità della pulsione e del desiderio che affondano le loro radici in plaghe sconosciute dell’animo umano, ha spinto Heidegger ad “andare fuori”, all’apertura, e mai ad “andare dentro” (pp. 28-41).
Una critica assai simile Meloni la rivolge ad altri filosofi, che hanno mancato la loro rivoluzione culturale, perché hanno indietreggiato di fronte al mondo oscuro dei desideri pulsionali e sono rimasti chiusi in un molto tradizionale cognitivismo: J.L. Austin, Hannah Arendt, Martha Nussbaum.
L’autore constata la scarsità dei libri dedicati al “pensare affettivo”, ed è consapevole dell’immane compito che questo tema pone alla filosofia: come dire che la filosofia non ha ancora fatto fino in fondo i conti con la psicoanalisi. La grande rivoluzione psicoanalitica, nota giustamente Meloni, è la scoperta, dolorosa, che il pensare non è immune dal sentire individuale, che non avviene nel vuoto, ma è cura di sé. Non c’è scuola o corrente psicoanalitica, osserva ancora l’autore, dalla Klein a Kohut, che non ponga “all’inizio” questa ferita narcisistica, mostrandoci come essa condizioni una gran quantità di vicende umane (pp. 92-93). Noterei en passant che è un’operazione culturale importante e pregevole quella che l’autore porta avanti, soffermandosi più su ciò che accomuna le varie correnti psicoanalitiche, che non su quello che le separa.
Se però la filosofia accetta il pensare affettivo, nota l’autore, acquisisce molte ricchezze: la ricchezza di un ascolto che va al di là delle parole dette, la ricchezza e profondità di un “soggetto risonante” (p. 58) — una espressione molto bella — rispetto all’arido e un po’ stretto soggetto fenomenologico.
Meloni a ragione si riferisce assai spesso a Bion, e giustamente lo utilizza come un importante crocevia tra il rigore di Melanie Klein e l’individualismo sovversivo di Lacan. Sulle molteplici prospettive che ne potrebbero nascere, per la filosofia e per la psicoanalisi, l’autore cautamente si guarda dal fare discorsi conclusivi, e ci offre piuttosto degli stimoli sui quali pensare.
E poiché sono una filosofa, raccolgo l’invito a pensare, facendo almeno una osservazione. Certamente Lacan ha apportato nel rigore kleiniano una ventata di libertà insistendo sulla centralità del desiderio. Tuttavia ritengo essenziale tener ferma la connessione tra il pensiero e la riparazione, come viene teorizzata nella linea Klein-Bion. Non credo si possa dimenticare che il pensiero, anche se intessuto di desideri, è tuttavia in grado di differire e di sublimare. A questo probabilmente pensava Freud quando, in Al di là del principio di piacere, asseriva che la sessualità coincide con l’eros dei poeti e dei filosofi. La libido, trasformata dal pensiero, attenua i suoi aspetti massicci e diventa più fluida, più elaborabile, più compatibile con le complessità della vita, soprattutto con la complessità dei rapporti interumani.
A volte — ed è l’unica obiezione che muovo a questo pregevole libro — nell’orizzonte di Meloni (vedi soprattutto il quarto capitolo) sembra invece prevalere un privilegiamento dell’elemento pulsionale in quanto selvaggio e primitivo — quasi fosse un “Altro” al di là dell’umano — che si accompagna ad una pericolosa liquidazione dei fragili valori del dialogo e della convivenza umana.
Una maggiore attenzione alla peculiarità del pensiero permetterebbe, tra l’altro, di recuperare molti tesori che i filosofi hanno sparso nell’itinerario verso il porto sicuro. Pensiamo ad esempio alla Fenomenologia dello Spirito di Hegel, in cui viene tracciato il difficile percorso verso una vita buona attraverso processi psichici di elaborazione: che cosa altro indica infatti la Aufhebung se non la capacità di tollerare limiti e frustrazioni, modificando la propria condotta, ma ivi ritrovando un nuovo piacere e una nuova soddisfazione?
Una linea non tanto dissimile emerge dai testi psicoanalitici. Tutti ci mostrano che il principio di realtà, la vita in mezzo agli altri, le regole della convivenza sono una necessità di fatto, prima ancora che un problema morale. Tutti ci mostrano che l’impatto doloroso con la realtà non può non provocare una ferita al proprio narcisismo onnipotente. Freud e soprattutto Melanie Klein, più chiaramente di Lacan, ci hanno però mostrato che se questa ferita è ben elaborata, si aprono nuovi spazi e nuove possibilità. Dopo tanti anni di rottura e di contestazione a tutto campo, forse è venuto il tempo della ricostruzione, e di un nuovo umanismo.