Il prezzo della giustizia. La retorica iperbolica di Emmanuel Levinas

Rien n’est gratuit1

Innanzitutto un’osservazione di carattere preliminare: al momento di trattare il tema essenziale di questa comunicazione non mi atterrò al passo con ogni probabilità più pregnante. Mi riferisco, è ovvio, a Entre nous e più precisamente al saggio intitolato: Le Moi et la Totalità, dove si legge: «Il denaro lascia intravedere una giustizia di riscatto che si sostituisce al circolo infernale o vizioso della vendetta o del perdono».2 Prima che all’economia e al denaro — una questione comunque centrale in Levinas — mi riferirò a un altro prezzo da pagare per la giustizia, che implica una particolare traiettoria, un modo peculiare di considerare il dettaglio, seguendo così il dictum secondo cui nella costruzione filosofica solo «il semplice dettaglio impedisce l’equilibrio instabile».3

In modo per ora necessariamente schematico, è utile anticipare che qui il dettaglio da esplorare rinvia al ruolo che Levinas affida al vedere e all’ascoltare, e allude a un percorso che dalla comprensione levinasiana dell’etica come ottica dovrà condurci fino alla pelle e alla respirazione. Un percorso, in ultima analisi, che conduce dall’ontologia alla pneumologia per concludersi, poi, nel cuore — e ciò perché, con ogni probabilità, impostata la questione in termini radicali, è sempre lì che si deve arrivare.

Per questo, proprio perché si tratta del vedere e dell’ascoltare, pongo a esergo un breve frammento di Nietzsche, il quale, con la forma dell’interrogazione, recita: «Forse bisogna rompergli i timpani perché imparino a udire con gli occhi? ».4 Apprendere a sentire, ad ascoltare con gli occhi: esattamente ciò di cui, almeno così sembra, già si fa carico Levinas.

In Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, almeno in tre occasioni appare l’espressione «l’occhio che ascolta».5 Una espressione quanto meno difficile e comunque, come riconosce lo stesso Levinas, «non mostruosa» e che, anzi, trova giustificazione nel proprio fine: avvicinarci alla temporalità del vero, visto che «nella temporalità l’essere dispiega la propria essenza».6

È utile pertanto tenere a mente questa circolarità, che non smetterà di accompagnarci, tra il vedere, l’ascoltare, il tempo e l’essere. Resta così da spiegare che cosa propriamente ascolti quest’occhio, a cui è parimenti necessario attribuire una natura non mostruosa e la completa estraneità a qualsiasi riferimento empirico.

“L’occhio che ascolta” e ognuna delle espressioni che attorno a questa si articolano, sono così un semplice eccesso retorico? Alludono, tali questioni, a un strato più profondo di quello strettamente concettuale? Rinviano a un al di là che eccede lo spazio propriamente filosofico? Indicano la forma per mezzo della quale una difficoltà insuperabile accede al linguaggio? Rappresentano la concrezione di quella retorica alla quale più o meno rassegnatamente, più o meno coscientemente, conduce la filosofia che lotta per affermare “un altro modo d’essere”? Tali sono le questioni che dovranno essere affrontate in ciò che segue.

1. I

Il punto d’avvio obbligato è dato dalla relazione tra visione ed etica: «L’etica è l’ottica spirituale», segnala Levinas in Totalità e infinito7. Già nella Prefazione, con il carattere proprio della anticipazione programmatica, ci veniva indicato che «l’etica è un’ottica. Ma ‘visione’ senza immagine, priva della virtù oggettivanti sinottiche e totalizzanti della visione, relazione o intenzionalità di un tipo totalmente diverso, che questo lavoro tenta appunto di descrivere».8

Il contesto dell’affermazione, prima di addentrarci nella sua articolazione interna, rinvia alla escatologia profetica che rompe la totalità e mira al rovesciamento della relazione ammessa tra etica e ontologia. Eppure, sempre per rimanere al margine di questa prima questione, assai significative risultano qui le virgolette che accompagnano il termine “visione”. Per mezzo di queste si sospende la egemonia che fin qui le era stata concessa. Si tratta, ora, di un vedere senza immagini che colloca Levinas in uno spazio difficile, dove, sulla scia del platonismo, si afferma l’incommensurabilità dell’immagine rispetto alla verità: «La verità dell’essere non è un’immagine dell’essere, l’idea della sua natura, ma l’essere situato in un campo soggettivo che deforma la visione, ma che, proprio così, permette all’esteriorità di dirsi».9 Come si sosterrà in seguito, «l’immagine è, al tempo stesso, il termine e l’incompiutezza della verità».10 Ma sottoscrivere la distanza tra immagine e verità non significa automaticamente ammettere ciò che in più occasioni Levinas qualifica come egemonia del concetto o imperialismo del Medesimo. A cavallo tra la revoca dell’immagine e l’impotenza del concetto s’estende lo spazio dove è messa in questione l’egemonia della vista, che giustifica il virgolettato che l’accompagna.

Un’egemonia dovuta alla sua capacità di oggettivazione, che si estende a ogni esperienza. Qualcosa di ontologicamente costitutivo, ma di difficile giustificazione ontologica.11 Il prestigio filosofico della vista si deve alla peculiare maniera in cui allo stesso tempo è «’apertura’ dell’esperienza» e «esperienza dell’apertura».12 In essa l’opacità dell’oscurità si converte nella trasparenza all’interno della quale, facendoli comparire di fronte al soggetto che (li) osserva, gli oggetti diventano visibili. E ciò grazie alla apprensione, suprema forma della possessione in cui si compie il carattere dominante proprio della visione: «L’incontro con gli esseri, nella misura in cui si riferisce alla vista, domina questi esseri, esercita su di loro un potere. La cosa è data, mi si offre. Mi attengo al Medesimo, accedendovi».13

Eppure, la stessa visione contiene già qualcosa che la limita. Non mi riferisco qui solo alla apprensione, alla quale essa invita e che il tatto prolunga; e nemmeno al fatto ch’essa inaugura una prospettiva, apre un orizzonte e traccia lo spazio d’una distanza accessibile. È qui in gioco, più originariamente, la limitazione associata alla figura dell’orizzonte. Nel suo interno si disegna uno spazio omogeneo in cui le cose, manifestandosi, divengono significative. Uno spazio omogeneo chiuso dal limite che l’orizzonte gli concede; e solo grazie al quale le cose, non appena vi si mostrano, divengono istanze traducibili nel flusso coerente della significazione che la visione, a queste stesse cose, offre. A questa operazione di traduzione non sono estranee né l’appropriazione né l’integrazione: l’appropriazione di ciò che si dà alla visione è immediatamente integrata nel mondo già aperto dei significati.

È indubbio che al di là dell’orizzonte tracciato dalla luce può trovarsi ciò che ancora permane nella penombra. Tuttavia, è altrettanto vero che nulla impedisce che quest’orizzonte venga trapassato, ampliando così lo spazio della vista. Il limite mobile dell’orizzonte si sposta sopra lo spazio omogeneo costituito dall’opposizione tra l’oscurità di quanto ancora non è illuminato — e che, pertanto, risulta invisibile — e la perspicuità di ciò che è già visibile: il di fuori e il di dentro che stabiliscono il limite dell’orizzonte. Nell’oltrepassarlo si rimane comunque in esso, non si accede alla differenza dell’essere altro, all’opposizione tra essere e non-essere, trasparenza ed opacità.

Caratterizzata in questo modo, la vista rinvia quindi all’obiettività e all’identità, all’immanenza e all’omogeneità, compiendosi nella totalità. Per dirlo con le parole di Levinas: «La vista non è una trascendenza. Essa dà un significato attraverso la relazione che rende possibile. Essa non apre niente che, al di là del Medesimo, possa essere assolutamente altro, cioè in sé».14

Si dà tuttavia un’altra dimensione: quella che apre all’esteriorità o alla trascendenza impressa nel volto del prossimo e che sbocca, al contrario, nell’infinito.15 Qui fa la sua comparsa un’esteriorità né ontologicamente né concettualmente riciclabile. Un’esteriorità non integrabile nel circuito della vista e, dunque, dell’idea, del concetto o della rappresentazione.

Nel momento in cui si dà a vedere l’esteriorità del volto, la vista è trasportata al di la di sé, compiendosi in qualcosa di altro da sé. E ciò perché prima che la vista lo riduca ad oggetto, il volto si fa avanti e parla: «Se il trascendente sporge rispetto alla sensibilità, se è apertura per eccellenza, se la sua visione è proprio la visione dell’apertura all’essere, essa sporge rispetto alla visione delle forme e non può essere detta né in termini di contemplazione né in termini di pratica. È volto, la sua rivelazione è parola».16 Il volto non si esautora nell’essere qualcosa di visto. Eccede il ricettacolo formale che la visione gli concede, trascende la sua traduzione in contenuto della sensazione visiva dove l’identità dell’io assorbe l’alterità dell’oggetto e quest’ultimo si trasforma nel contenuto della forma che la visione gli concede. Se «la visione del volto già non è più visione, ma ascolto e parola», allora ciò che qui si pone in questione è la priorità dell’ontologia.17

Il fatto che la visione venga rimpiazzata dall’ascolto rappresenta un’operazione complessa sulla quale sarà necessario tornare. Innanzitutto perché si dovrà valutare se si tratta di un risultato sicuro, qualcosa su cui si insiste oppure, al contrario, se nel fondo tale operazione non porti ad un’ulteriore complessità, risultato di quella unificazione di vista e ascolto che così risulterebbe, al momento, solo posticipata. Se questo è il caso, si tratterebbe d’una operazione che interessa sensi tra loro incommensurabili, comprensibile unicamente a partire dalla logica della sinestesia. Mentre, nel primo caso, la sostituzione operata — la vista diviene ascolto -, lungi dall’esaurirsi in una semplice relazione tra sensi eterogenei supporrebbe un’operazione a livello di categorie ontologiche: l’identità del Medesimo propria della vista contrapposta all’alterità dell’Altro propria dell’udito. Ed è proprio su questo, non lo dimentichiamo, che riposa l’inversione della relazione tra etica ed ontologia.

Il problema consiste in ciò: se quanto appena affermato è corretto, l’espressione che fin qui ci ha guidati — «l’etica è un’ottica» — risulterebbe allora in contraddizione con la sostituzione sinestetica segnalata e, conseguentemente, con il luogo concesso alla stessa etica. Contraddizione tanto profonda da giustificare la sua messa tra virgolette. È ciò è esattamente quanto avviene nel finale della Prefazione di Totalità e infinito: «L’etica, già di per se stessa, è un’’ottica’».18 « [D] i per se stessa», ovvero indipendentemente da qualsiasi rapporto funzionale rispetto ad un altro da sé, al riparo quindi della necessità di appellarsi a una istanza a essa esterna che verrebbe a completarla. Si tratta, pertanto, di un’ottica peculiare. Tanto peculiare che è necessario far risaltare tipograficamente la sua specificità. Si tratta della peculiarità di un vedere che supera, sommergendoli, i propri limiti interni e, per questo, sbocca nell’udire, il sentire o l’ascoltare.

Se è quindi all’interno dell’etica che si mostra quella trascendenza in cui la metafisica riconosce la propria aspirazione all’esteriorità, allora l’etica di cui stiamo parlando non sarà la propedeutica della teoria che converte la trascendenza in oggetto della vista. Solo in questo modo si comprende il fatto che per Levinas l’accesso all’esteriorità passi per la «via regale» che l’etica traccia e che il volto orienta.

Ma se l’etica non si subordina all’ontologia né la pratica costituisce un’appendice della teoria,19 così da sconvolge alla radice i ruoli che a esse vengono tradizionalmente assegnati, ciò significa che qualcosa di analogo deve succedere con il vedere e l’ascoltare. In questo modo ci situiamo nel punto di passaggio tra Totalità e infinito e Altrimenti che essere, tragitto che conduce dalla vista alla luce.

2. II

Sono due le linee di sviluppo del problema che è necessario percorrere. La prima indica che la visione dell’essere e l’essere rinviano a un tempo immemorabile, del tutto irrecuperabile e refrattario a ogni sincronia e che, data la sua natura, eccede l’ordine omogeneo articolato nell’opposizione tra il sensibile e l’intelligibile, tra l’essere e il non-essere.20

La seconda, per parte sua, rende esplicito il fatto che l’essenza dell’essere equivale alla temporalizzazione del tempo.21 È per questo, afferma Levinas, che «la temporalità, attraverso lo scarto dell’identico rispetto a se stesso, è essenza e luce originale».22 L’essenza finisce così per identificarsi con la «prima luce» e la filosofia con la sua «aurora o […] tramonto».

Da ciò si può dedurre che, a questa altezza, il problema non concerne più il vedere — al contrario di quanto ancora avveniva in Totalità e infinito, dove la vista era superata in favore dell’udito; e meno ancora interessa la visione dell’essere, tema centrale e proprio dell’ontologia. Non si tratta, ora, di riattivare un’esperienza che in quanto tale resta irrecuperabile e alla quale nessuna forma di rappresentazione (re-presentación) o coscienza renderebbe giustizia.23 Adesso l’accento cade invece sulla luce e sulla sua identificazione con la temporalità e lo spostamento del piano del discorso conduce quindi dalla visione alla luce e da questa al tempo.

Facendo un passo indietro, è tuttavia necessario riconoscere che la questione che ora si presenta aveva già interessato l’ontologia. Si tratta infatti del problema concernente quello spazio anhipotético nel quale confluiscono tutte le ipotesi, il luogo presupposto da ogni posizione. Porre e supporre, tesi e ipotesi, delimitano così due spazi sui quali si progetta la possibilità o impossibilità della sua traduzione, la via d’accesso o la mediazione. Come si avrà intuito, la questione è di radice platonica — non poteva essere altrimenti — ed era già anticipata, sebbene non affrontata, in Totalità e infinito: «La vista presuppone, come ha detto Platone, oltre agli occhi e alla cosa, la luce. Gli occhi non vedono la luce ma l’oggetto della luce. La vista è quindi un rapporto con un ‘qualcosa’ che si instaura all’interno di un rapporto con ciò che non è un ‘qualcosa’».24 L’oggetto visto e l’occhio che vede non esauriscono quella peculiare relazione che è l’atto visivo. In esso viene presupposta la presenza di ciò che, senza esser visto, rende effettivo l’esercizio della vista: la luce. Essa stessa è questa presenza, nella quale e per la quale le cose presenti si mostrano sono, cioè, viste. Di questo passo, finiamo per trovarci di fronte a una doppia aporia.

Per un lato, è necessario riportare siffatta luce alla propria origine, che, per essere tale, non può consistere in qualcosa di visibile.25 Collocandosi decisamente al di sopra del visibile, essa è tuttavia nominabile mediante qualche forma di artifizio o figura. È ciò che succede quando la si rimette al sole o al fuoco: un’operazione che non rappresenta altro che un modo di rendere visibile l’invisibile, prolungando analogicamente lo sdoppiamento della vista in vedere sensibile e vedere intelligibile. In più, questa è una strategia funzionale anche per scongiurare un pericolo qui ben presente: l’annichilamento della vista, ovvero la cecità come effetto della contemplazione diretta della luce. La radicale eterogeneità, l’alterità priva di mediazione o la possibile cecità impongono quindi quel procede obliquo, laterale, che, ben al di là della immediatezza, è proprio del simbolo e dell’analogia. Evidentemente, non è il caso d’insistere sulla necessità di riconoscere qui, e di nuovo, la presenza del contesto platonico.

Dal punto di vista di Levinas, il problema radica nel fatto che una siffatta dinamica finisce necessariamente col fare della relazione con l’assoluto una figura — dotandola di forma e rendendola accessibile — modificandone così la natura e falsificandone la radicalità. In ultima istanza, l’eterogeneo si fa omogeneo e la luce diventa oggetto. In questo modo si misconosce alla radice il fatto che se la luce permette la visione degli oggetti è perché essa non è in nessun caso un oggetto, né è tollerabile confonderla con un oggetto in mezzo ad altri possibili oggetti, visto che, proprio in relazione a questi oggetti, ne incarna la condizione di possibilità.

Per l’altro lato — ed è la seconda opzione — l’oggettivazione della luce portata a termine dalla dinamica visiva condurrebbe a una circolarità dai risultati incerti. Per dirlo con altre parole, la visione della luce è possibile solo ammettendo la preesistenza di questa stessa luce, condizione originaria del proprio darsi alla vista, e così all’infinito seguendo un processo dove circolarità ed essenzialità si compenetrano inseguendo una luce che ogni volta si fa sempre più originaria: «È necessaria una luce per vedere la luce», riconosce Levinas.26

Se nel primo caso il processo di radicale fraintendimento ovvero di snaturalizzazione della luce si compiva con la sua conversione in altro da sé — oggetto, tema, ecc. -, ora quel medesimo processo consiste nel sottoporre quella stessa luce a una inarrestabile dinamica di depurazione, tanto inefficace quanto — appunto — priva di limite.

All’epoca di Totalità e infinito si reclamava un altro senso, con tutti i sensi della parola “senso” e, pertanto, con tutta l’ambiguità che si occulta nel testo che leggo: «La luce sensibile in quanto dato visivo non è diversa dagli altri dati e resta a sua volta relativa ad un fondo elementare ed oscuro. Per rendere possibile la coscienza dell’esteriorità radicale è necessario un rapporto con ciò che, in un altro senso, viene assolutamente da sé».27

Sono possibili due letture, due sensi, del «ciò che, in un altro senso, viene assolutamente da sé». Si può voler dire che è possibile intendere in altra forma e, pertanto, con un altro senso il venire assolutamente da se stessa che è proprio della luce. Ma d’altro canto, si può voler anche dire che è necessaria una relazione con ciò che in un senso differente dalla vista procede, parimenti, da se stesso.

Il primo caso conduce alla intensificazione e depurazione del riferimento luminoso (referencia lumínica) che va da Platone a Gadamer: in questo modo si suppone un altro senso ovvero un altro modo del venire «assolutamente da sé» proprio della luce. Modo che tuttavia implica un permanere all’interno di questa stessa luce. D’altro canto, il secondo presuppone invece un’apertura alla «coscienza dell’esteriorità radicale», in relazione alla quale la filosofia è cieca. Se nel primo caso si insiste sul Medesimo in cerca delle sue variazioni, ciò non succede nel secondo caso. Nel primo si tratta di continuità, nel secondo di rottura: la continuità si prolunga nell’immanenza, la rottura sbocca nella trascendenza dell’esteriorità.

Ed è proprio nel nome di una siffatta esteriorità che si traccia la via d’accesso al volto, la cui rivelazione è parola e suono, che invitano all’ascolto. Ed è sempre in questo modo che, attraverso la luce e ratificando il gesto di Totalità e infinito, la vista viene sostituita.

Eppure, in Altrimenti che essere la difficoltà platonica che fin qui ci ha guidati fa cenno in un’altra direzione. Ciò è quanto si raccoglie in questo passo di Levinas: «Ma la luce dell’essenza che fa vedere è a sua volta vista? Essa può certamente divenire tema, l’essenza può mostrarsi, essere detta e descritta. Ma la luce si presenta allora nella luce che non è tematica, ma risuona per l’’occhio che ascolta’ di una risonanza unica nel suo genere, della risonanza del silenzio».28

Ciò che, a questo punto, più mi interessa è richiamare l’attenzione innanzitutto su queste virgolette che accompagnano l’espressione l’«occhio che ascolta». Virgolette che io vedo ma che voi non percepite, che io leggo ma che voi non udite. Virgolette, ho detto. Che si tratti, qui, d’una citazione, d’un prestito, d’un innesto? Oppure, al contrario, che si tratti di un modo di avvisare tipograficamente il lettore della durezza d’una espressione rispetto alla quale, tuttavia, l’autore si affretta a dichiarare la natura non mostruosa — che è già una forma di ammettere la possibilità negata?

Se si desse il primo dei due casi, il testo di Levinas finirebbe per sgretolarsi, visto che il proprio significato, il proprio senso, finirebbe per dipendere dal grado di autonomia rispetto a questo riferimento estraneo ed esterno. Così che saremmo costretti a ricordare che «l’occhio che ascolta» è la felice espressione che dà il titolo a un libro di Paul Claudel pubblicato nel 1946 nel quale, confusi tra loro l’udire e l’intendere, l’ascoltare e il comprendere, si indaga il sous entendu nell’opera d’arte.29 Dovremmo, inoltre, anche ricordare che Merleau-Ponty si riferisce a questo libro e fa uso della medesima espressione nei suoi corsi al Collège de France del 1958-59 e 1960-61, corsi pubblicati alcuni anni più tardi.30 Nel caso di Merleau-Ponty, poi, l’uso dell’espressione riguarda l’intuizione essenziale e carnale che rifiuta sinestesicamente ogni tipo di separazione analitica dei campi sensoriali e, più precisamente, quella che concerne la presunta attività del vedere e la supposta passività dell’ascoltare. Un rifiuto, quest’ultimo, che forse avrebbe finito per trovare le proprie ragioni d’essere in quella «nuova ontologia» a cui si riferiva Merleau-Ponty nella tappa finale della sua attività filosofica, bruscamente interrotta nel 1961.

Senza dubbio, seguire questa pista equivarrebbe all’apertura di un’altra prospettiva, che ci costringerebbe ad un brusco cambio di direzione. Mentre altrettanto indubitabile risulterebbe comunque il fatto che l’intera questione non si presta a nessuna soluzione possibile. Difatti, rimarrebbe in ogni caso indecidibile se: a) ci troviamo di fronte a un prestito non riconosciuto, che, magari rispondendo a un’altra logica, rinvia a un medesimo orizzonte d’interessi; oppure b) l’espressione — come supponiamo — origina, al contrario, dallo stesso argomentare levinasiano, visto che si tratta di un argomentare di orientazione plurale, che tenta di andare al di là dell’egemonia dell’immagine e della visione, quindi di rompere con la gerarchia filosoficamente stabilità tra il visibile e l’udibile, affermando la superiorità etica dell’Altro (Autrui) e, per ultimo, annientando l’oculocentrismo sia filosofico che greco — nel caso si trattasse di cose differenti — a favore dell’audiocentrismo della tradizione ebraica.31

Comunque stiano le cose, rispetto all’estrema complessità dell’occhio levinasiano c’è da aggiungere una cosa fondamentale: che la qualità decisiva di quest’occhio è che esso ascolta. E per aggiungere sconcerto allo sconcerto, è necessario anche aggiungere — lo abbiamo letto — ch’esso ascolta la luce che risuona nella modalità del silenzio. Pertanto, come se fosse cosa da poco, la questione è: ascoltare il silenzio della luce. Niente di tutto ciò sarebbe levinasianamente possibile senza convertire la temporalità nella «luce originaria».

Il tempo risulta essere luce originaria nel momento in cui questa stessa luce è intesa originariamente. Nel momento in cui la si converte in tema, la visibilità non è una luce più intensa o differente, ma l’accadere del tempo. La luce è effetto temporale nella misura in cui questa stessa luce visibile è tempo e questo tempo — a sua volta — rinvia innanzitutto all’ascoltare prima che al vedere. Così scrive Levinas: «Nella temporalizzazione del tempo la luce diviene attraverso lo sfasamento dell’istante rispetto a se stesso che è il flusso temporale: la differenza dell’identico. La differenza dell’identico è anche la sua manifestazione».32

Da una tale prospettiva, l’apparizione della luce rinvia allo sfasamento dell’istante, al suo incessante dispiegarsi nella successione. Se questa incongruenza con se stesso ha la forma dell’apertura, nel tempo è la Lichtung (claridad) stessa ad aprirsi. La luce non precede il tempo, ma penetra all’interno della fessura in cui l’istante perde la sua identità. A rigore, ciò non è qualcosa che si possa vedere. Ciò si ascolta. Sebbene sia silenzioso come potrebbe essere lo sgranarsi dell’essere. E questo è quanto adesso ascoltiamo, ossia leggiamo: «Il tempo e l’essenza che esso srotola manifestando l’ente identificato nel tema dell’enunciato o del racconto, risuonano come un silenzio, senza farsi temi essi stessi. Essi possono certamente nominarsi nel tema, ma questa dominazione non riduce al silenzio definitivo la risonanza sorda, il ronzio del silenzio in cui l’essenza, come un ente, s’identifica. Di nuovo, un silenzio risuona intorno a ciò ch’era stato attutito per ‘l’occhio che ascolta’; il silenzio dello snodarsi dell’essere grazie al quale gli enti, nella loro identità, si chiariscono (éclairent) e si mostrano».33

Diciamolo in un altro modo: tempo ed essenza possono essere tematicamente trattati, ma solo «l’occhio che ascolta» è capace di sentire la luce aprendosi il passo nell’apertura che rende possibile lo sfasamento dell’istante dove la temporalizzazione diviene tempo e l’essenza ente.34 Solo esso ode l’annichilirsi dell’istante, il suo dispiegarsi, l’apertura che rompe la sua identità. Qui si apre la distensione dell’intervallo che articola la successione. E niente di tutto ciò rinvia a un arcano di difficile comprensione. Al contrario, ciò conduce nel seno del più prossimo e intimo.

3. III

Nell’essenziale, ciò avviene perché a questo lasso in cui l’istante si distende divenendo altro da sé corrisponde la forma del «frat-tempo». Questo istante sordo s’ascolta come si ascolta l’intervallo tra due note musicali: il vuoto dell’assenza che impedisce a due totalità di confondersi. Si tratta, qui, dell’intervallo e del tempo quasi senza durata che separa i battiti e ordina il ritmo della loro successione. Per dirlo con Levinas, è il «frat-tempo che separa l’inspirazione dall’espirazione, la diastole dalla sistole del cuore che batte sordamente contro la parete della sua pelle».35 Questo è ciò che, nel fondo, ode, sente l’occhio che ascolta. E ciò è quanto si raccoglie nell’espressione «essere nella propria pelle»: la ripetizione del battito, doppio e distinto, nell’unità temporalmente dilatata del differente. Ciò è quanto costituisce l’incarnazione del vivere riassunto nell’inspirare e nell’espirare del respirare.

Il respirare è in un certo senso l’apertura originaria: condizione ultima in mancanza della quale nulla giungerebbe a essere; a partire dalla quale tutto è possibile e al di là della quale è impossibile retrocedere. Questo ruolo già non appartiene più all’esistenza, istanza probabilmente ancora troppo neutra, astratta e derivata. L’esistenza, adesso lo sappiamo, presuppone quel respirare senza cui non sarebbe tale. Forma originaria dell’apertura, sembra suggerirci una formula non contemplata dall’analitica esistenziale: essere è respirare. Il Dasein non respira e tuttavia designa l’ente che «è il medesimo che noi stessi siamo».36 Il medesimo che respira, i medesimi che respiriamo.

L’incarnazione del vivere riassunta nell’inspirare ed espirare del respirare: ciò costituisce, in sintesi, l’alterazione che sopporta la continuità della ripetizione vitale dell’incarnazione.37 E l’intero processo, si deve anche aggiungere, rinvia al cuore.

Quello stesso cuore che Jean-Luc Nancy — proprio lui che ne ha fatto esperienza diretta — nomina «l’intruso».38 Lo stesso cuore per il quale Husserl reclamava un sentimento specifico, un «sentimento del cuore» (Herzgefühl) e in relazione al quale, nella sfera solipsistica dell’esperienza del corpo proprio, proponeva come esempio l’espressione «io ‘sento il mio cuore’» («Z. B. ich ‘empfinde mein Herz’»).39

Eppure, a questo altezza il nostro discorso deve farsi ancor più originario o superficiale. Quasi epiteliale. Deve rimanere nell’esteriorità propria della superficie della pelle, che resiste a qualsiasi tentativo di approfondimento; visto che, per quanto si tentasse di arrivare alle viscere, si finirebbe tuttavia e sempre per incontrare «una pelle che va sotto l’altra pelle»:40 e forse ha ragione Artaud, affermando che la metafisica ritornerà attraverso la pelle.

Ciò che qui è davvero sorprendente è il modo attraverso il quale si rimette l’ontologia, la luce e il tempo al cuore, «che batte sordamente contro la parete della sua pelle», senza che simultaneamente si proceda a decidere lo statuto, la natura di un siffatto cuore, sospeso tra il fisiologico e il simbolico, l’ontologico e il retorico, il viscerale e l’essenziale. È ciò che, quasi di sfuggita, Levinas riconosce avvertendoci — cosa che ci deve indurre alla riflessione — che nell’incarnazione «il corpo per il quale il dare è possibile rende altro senza alienare, poiché questo altro è il cuore — e la bontà — del medesimo».41 Il cuore e la bontà, l’organo e la qualità, le viscere e la qualifica, la natura e la morale appaiono in questo modo compresi — con la discrezione che gli garantiscono le parentesi — in un continuo che cancella le frontiere tra un estremo e l’altro. E tutto ciò in nome di un’anteriorità irrecuperabile, di un’altezza inaccessibile che sfugge alla vista: l’Invisibile.42 È qui che s’inscrive una dinamica superlativa,43 che con la forza dell’eccesso oltrepassa l’ordine dell’ontologia.

Tale limite ontologico è superato in virtù di un’operazione retorica, che con la forma della sinestesia permette il passaggio dal vedere all’udire, dalla visione all’ascolto. L’eccesso retorico diviene in questo modo il correlato della trascendenza metafisica: l’eccesso starebbe alla retorica come la trascendenza alla metafisica. In questo caso, si tratta d’una retorica iperbolica che procede in nome dell’operazione — prima etica che ontologica — capace di trasformare la colpevolezza in responsabilità.44 E tutto ciò in nome della giustizia.

4. IV

Senza uscire dalla pelle, nella quale è parimenti impossibile entrare, questa responsabilità fa cenno a un’anteriorità di cui nessuna forma di a priori è capace di rendere conto: «Responsabilità anteriore ad ogni libero impegno, il se stesso, al di fuori di tutti i tropi dell’essenza, sarebbe la responsabilità per la libertà degli altri. L’irremissibile colpevolezza rispetto al prossimo (prochain) è come la tunica di Nesso della mia pelle».45 Solo la responsabilità redime la colpevolezza. Un’esistenza colpevole senza possibilità di redenzione finirebbe per consumare l’esistenza stessa. Esattamente come la tunica di Nesso, che a colui al quale veniva tolta non lasciava scoperta la pelle che proteggeva, bensì portava via la carne che occultava. Secondo Levinas, sarebbe questa l’essenza della colpevolezza: rovina l’esistenza alla quale aderisce, sia perché l’occulta nel momento che la copre, sia perché la distrugge nel momento che la scopre.

Tuttavia, esiste per Levinas un’altra possibilità: quella che si apre con la responsabilità. In essa la colpevolezza rispetto al prossimo si muta in responsabilità per gli altri. Nel passaggio dall’una all’altra si situa l’accesso levinasiano alla giustizia, e niente di tutto ciò è estraneo alla complessa elaborazione retorica che ci ha occupati fino a questo punto.

Giustizia e retorica, quindi. Lasciatemi segnalare un’ultima difficoltà: « […] superamento della retorica e giustizia coincidono», afferma Levinas.46 Se ne potrebbe ammettere anche la possibilità. Tuttavia, se quanto detto fin qui gode d’una sufficiente plausibilità, è anche possibile sostenere che in determinate circostanze l’orizzonte della giustizia non mira — come nel caso di Levinas — a un superamento della retorica, bensì alla sua elaborazione superlativa — e nemmeno questo è assente in Levinas, come abbiamo mostrato. In ciò non dobbiamo vedere una contraddizione, un’aporia o una inconseguenza.

Più radicalmente — e dando ragione del titolo della presente esposizione — è proprio qui che si dà a vedere il prezzo della giustizia, la sua tassa retorica, la sua imposta di circolazione, il pedaggio da pagare per la sua espressione. O, in altri termini, il debito anteriore a qualsivoglia prestito che il linguaggio comporta. Nessuna riserva cancella questa economia anacronistica, nessuna risorsa la equilibra. E nello scenario che gli offre il testo filosofico, tutto ciò si mostra in modo esemplare.

Qui ci si mostra, obliquamente — come corrisponde alla retorica -, un elemento proprio del discorso filosofico: la forma della proprietà che espropria ciò che converte in suo oggetto. È in questo senso che la filosofia sembra coincidere con una peculiare forma del discorso, che si serve proprio di quelle risorse di cui — paradossalmente e in virtù di una decisione anch’essa strettamente filosofica — già in precedenza si era privato. Finendo, così, per reintrodurre ciò che in precedenza aveva espunto. Ben più che una mera contingenza ciò sembra, al contrario, esplicitare un carattere fondamentale del discorso filosofico. Carattere tenuto occulto da una forza proporzionale all’intensità del lavoro che ogni nuova lettura deve esercitare sul testo filosofico, con il fine di riportarlo alla luce. Tra l’affermazione e la negazione viste, tra il velare e lo svelare, tra l’occultare e il manifestare l’ordine è puramente cronologico o successivo, eppure la sua ambiguità risulta insuperabile.

Non si tratta di una contingenza, lo si è già detto; bensì di qualcosa che rende esplicito un peculiare modo di comprendere e praticare la lettura del testo filosofico. Nella fattispecie la lettura dell’espressione — «l’occhio che ascolta» — che fin qui mi ha guidato.

Per concludere, vorrei palesare un’ultima difficoltà — a questo punto davvero ultima. Un ultimo circolo e pertanto un’ultima perplessità. Si tratta del fatto fondamentale (che solo ora siamo in grado di riconoscere) che se il senso — complesso e a tratti tortuoso — di siffatta espressione emergeva dalla sua lettura, ciò è perché nella stessa espressione «l’occhio che ascolta» la lettura è già nominata, implicata. Passando dalla filosofia alla poesia, dal trattato al sonetto, da Levinas a Quevedo, leggo e ascoltiamo:

Retirado en la paz de estos desiertos, con pocos, pero doctos libros juntos, vivo en conversación con los difuntos, y escucho con mis ojos a los muertos.

«Ascolto con i miei occhi»: magari si tratta di occhi differenti rispetto all’«occhio che ascolta» di Levinas, Nietzsche, Claudel o Merleau-Ponty. O, forse, sono tutti variazioni di un’identica figura. Non è qui possibile affermarlo.

«Ascolto con i miei occhi i morti», «vivo in conversazione con i defunti», «con pochi, però dotti libri al seguito», «ritirato nella pace di questi deserti»: questa è la descrizione pregnante del lettore e della lettura. Se si vuole, è il richiamo a ciò che — non so se in forma passeggera — qualcuno chiama “filosofia”. In questo senso, non posso incontrare miglior forma per concludere questa mia esposizione che ha tenuto la forma d’una lettura. E leggere, adesso lo sappiamo, consiste nell’essere capace di ascoltare con gli occhi: fare ciò che si dice che si fa.

[Traduzione di Federico Petrolati]

Il testo riproduce una comunicazione presentata al Convegno Internazionale Lévinas: la filosofía como ética (Muvim, Valencia, 15-17 novembre 2006). Tanto nell’originale come nella presente traduzione, si è cercato il più possibile di salvaguardare la struttura orale del testo.


  1. E. Levinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Grasset & Frasquelle, Paris, 1990, p. 47. ↩︎

  2. Cfr. E. Levinas, Entre Nous, Grasset & Frasquelle, Paris, 1991, p. 48. ↩︎

  3. E. Levinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, tr. it. di S. Petrosino e M.T. Aiello, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano, 1983, p. 163. ↩︎

  4. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, tr. it. di M. Montinari, Piccola biblioteca Adelphi, Milano, 19762, Prologo di Zarathustra, § 5, p. 10. ↩︎

  5. Cfr. E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., pp. 38, 48 e 49. Sebbene seguendo un’altra prospettiva, il tema è stato affrontato da Brian Schroeder, “The listening eye: Nietzsche and Levinas”, Research in phenomenology, 2001 (31),pp.188-202. ↩︎

  6. E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., p. 38. ↩︎

  7. E. Levinas, Totalité et Infini, Grasset & Frasquelle, Paris, 1990, tr. it. di A. Dell’Asta, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano, 1980, p. 76. ↩︎

  8. E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 22. ↩︎

  9. E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 299. ↩︎

  10. E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., p. 37 n. «L’immagine è, ad un tempo, termine dell’ostensione, figura che si mostra, l’immediato, il sensibile e termine in cui la verità non termina, poiché il tutto dell’essere non vi si mostra in se stesso, ma solamente vi si riflette» (E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., p. 37). ↩︎

  11. «È incontestabile il fatto che l’oggettivazione si esplica in modo privilegiato nello sguardo. Non è certo che la sua tendenza ad informare ogni esperienza sia inscritta, e senza equivoci, nell’essere» (E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 193). ↩︎

  12. Cfr. E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 194. ↩︎

  13. E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 199. ↩︎

  14. E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 195. ↩︎

  15. «Il concetto di questa trascendenza rigorosamente sviluppato si esprime con il termine di infinito» (E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 23). ↩︎

  16. E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 197. «Contemplazione» e «pratica» sono due modi di nominare «rappresentazione» e «lavoro» e, di conseguenza, la vista e il tatto: «Il legame tra vista e tatto, tra rappresentazione e lavoro, resta essenziale» (E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 195). ↩︎

  17. «In che senso la visione del volto già non è più visione ma ascolto e parola? […] Tali sono i temi che emergono da questa prima messa in questione del primato dell’ontologia» (Cfr. E. Levinas, Entre nous, cit. p. 22). ↩︎

  18. E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 27. ↩︎

  19. «Fino ad ora, il rapporto tra teoria e pratica era concepito solo nei termini di una solidarietà o di una gerarchia: l’attività si fonda su delle conoscenze che la illuminano; la conoscenza attende dagli atti il dominio sulla materia, sulle anime e sulla società - una tecnica, una morale, una politica - atto a procurare la pace necessaria al suo esercizio puro. Noi andiamo ben oltre e, col rischio si sembrar confondere teoria e pratica, consideriamo entrambe come modi della trascendenza metafisica. La confusione apparente è voluta e costituisce una delle tesi di questo libro» (E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 27). ↩︎

  20. «[…] la visione dell’essere e l’essere rinviano ad un soggetto che si è destato ancor prima dell’essere e della conoscenza, ancor prima e al di qua, in un tempo immemorabile che nessuna reminiscenza saprebbe recuperare come a priori» (E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., 33). ↩︎

  21. «La filosofia è scoperta dell’essere e l’essenza dell’essere è verità e filosofia. L’essenza dell’essere è temporalizzazione del tempo, diastasi dell’identico e suo ritorno in possesso o reminiscenza, unità d’appercezione […]. L’essenza dell’essere non designa nulla che sia contenuto nominabile, cosa o avvenimento o azione, ma nomina questa mobilità dell’immobile, questa moltiplicazione dell’identico, questa diastasi del puntuale, questo lasso» (E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., 37). ↩︎

  22. E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., 38. ↩︎

  23. «[…] attraverso la ritenzione, la memoria o la ricostruzione storica - attraverso la reminiscenza - la coscienza è rap-presentazione intesa quasi in senso attivo come atto di rendere di nuovo presente e di raccogliere la dispersione in una presenza e, in questo senso, di essere sempre all’inizio o libero» (E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., 206). ↩︎

  24. E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 193. ↩︎

  25. «Morire per l’invisibile - ecco la metafisica» (E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 33). ↩︎

  26. E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 196. ↩︎

  27. E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 196. ↩︎

  28. E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., p. 38. ↩︎

  29. P. Claudel, L’œil écoute, Gallimard, Paris, 1946. ↩︎

  30. M. Merleau-Ponty, Notes des Cours au Collège de France 1958-1959 et 1960-1961, Gallimard, Paris, 1966. ↩︎

  31. Si è particolarmente insistito sull’affermazione contenuta nella Prefazione di Totalità e infinito, secondo la quale il Stern der Erlösung di Franz Rosenzweig è «troppo spesso presente in questo libro per poter essere citato» (Cfr. E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 26). Tuttavia, questa può essere una buona occasione per disattendere tale indicazione e rinviare al capitolo de La stella della redenzione intitolato L’ascolto: «Ecco qui l’’io’. L’io umano singolo. Ancora totalmente recettivo, ancora soltanto aperto, ancora vuoto, senza contenuto, privo di essenza, pura disponibilità, pura obbedienza, tutt’orecchi. In questo ubbidiente udire (ge-horsame Hören) cade, come primo contenuto, il comandamento. L’esortazione ad ascoltare, la chiamata con il proprio nome, ed il sigillo della bocca divina che parla, tutto questo è soltanto un’introduzione che risuona prima di ogni comandamento ed è pronunciata in tutta la sua ampiezza soltanto prima di quel solo comandamento» (F. Rosenzweig, La stella della redenzione, tr. it. di G. Botola, Marietti, Casale Monferrato, 19862, p. 188). ↩︎

  32. E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., p. 13. ↩︎

  33. E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., p. 49. ↩︎

  34. La temporalizzazione diviene tempo per la coscienza: «[…] attraverso l’apertura che apre la diastasi dell’identità - attraverso il tempo - il Medesimo ritrova il Medesimo modificato; questa è la coscienza» (E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., p. 46). A sua volta, l’essenza si entifica nell’identità del già detto: «L’ente che appare identico nella luce dei tempi è la propria essenza nel già detto» (ivi, p. 47). Esclusivamente nell’ente la diacronia diventa sincronia suscettibile, pertanto, d’essere raccolto nell’esercizio della memoria e di divenire oggetto tematico. Questo è la permanente riappropriazione del Dire nel Detto, dove la luce e la risonanza del tempo si trasformano in tema e identificazione: «Il Dire teso verso il Detto e assorbendosi in esso, correlativo al Detto, nomina un ente nella luce o nella risonanza del tempo vissuto che lascia apparire il fenomeno, luce e risonanza che possono, a loro volta, identificarsi in un altro Detto» (ivi, p. 47). Limitarsi al Detto equivale a rimanere nello spazio dell’ontologia, sorda al risuonare della luce che identifica e illumina il suo oggetto tematico. Prima che attenersi al Detto si deve dar ragione di ciò che in esso viene annunciato. E ciò non consiste in un vedere. Suppone parimenti un ascoltare: «l’identico ha senso solo grazie al kerigma del Detto in cui la temporalità che chiarisce risuona per ‘l’occhio che ascolta’ nel verbo essere» (ivi, p. 48). Per questo adesso tutto s’inverte e il Dire non si esaurisce nel Detto: «è la significanza del Dire che va al di là dell’essenza raccolta nel Detto che potrà giustificare l’esposizione dell’essere o l’ontologia» (ivi, p. 48). Nel Dire l’ontologia trova il suo più profondo significato. Tuttavia, conviene aggiungere qualcosa: nel Dire viene nominato l’ente nella luce e risonanza che lo fanno apparire, luce e risonanza viste e udite dall’occhio che ascolta. ↩︎

  35. E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., p. 136. ↩︎

  36. M. Heidegger, Essere e tempo, tr. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano, 1976, § 9, p. 64. ↩︎

  37. «[…] questa alterità nel medesimo senza alienazione, come incarnazione, come essere-nella-propria-pelle, come avere-l’altro-nella-propria-pelle» (E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., p. 143). ↩︎

  38. J-L. Nancy, L’intrus, Galilée, Paris, 2000. ↩︎

  39. Cfr. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, vol. II, tr. it. di E. Filippini riv. da V. Costa, Einaudi, Torino, 20022, p. 167. Si veda anche J. Derrida, Le toucher, Galilée, Paris, 1999, pp. 202 e ss. ↩︎

  40. E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., p. 10 n. ↩︎

  41. E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., p. 137. ↩︎

  42. «Per il desiderio, questa alterità, inadeguata all’idea, ha un senso. Essa è intesa come alterità dell’Altro (Autrui) e come quella dell’Altissimo. La dimensione stessa dell’altezza è aperta dal Desiderio metafisico. E, nel fatto che questa altezza non sia più il cielo, ma l’Invisibile, sta l’elevatezza stessa dell’altezza e la sua nobiltà» (E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 33). ↩︎

  43. «È il superlativo, più che la negazione della categoria, che interrompe il sistema, come se l’ordine logico e l’essere a cui aderisce salvaguardassero il superlativo che li eccede» (E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., p. 10 n). ↩︎

  44. «La libertà si limita non in quanto si sia scontrata con una resistenza, ma in quanto arbitraria, colpevole e timida; ma nella consapevolezza si innalza alla responsabilità. La contingenza, cioè l’irrazionale, non le appare fuori di sé nell’altro, ma in sé. La contingenza non è costituita dalla limitazione da parte dell’altro ma dall’egoismo in quanto ingiustificato in sé» (E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 209). ↩︎

  45. E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., p. 137. ↩︎

  46. Cfr. E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 70. ↩︎