Alle sorgenti di Raimon Panikkar. Le fonti di un’opera

1. L’opera di Panikkar

Per «opera» di Raimon Panikkar intendo tutto ciò che quest’uomo ha creato durante la sua vita e che persiste nelle tracce da lui lasciate. Quest’opera include innanzitutto i dodici volumi della così detta «opera omnia», attualmente in corso di pubblicazione a cura di Milena Carrara Pavan, a cui vengono gradualmente aggiunti testi che potrebbero definirsi «occasionali» o «minori».1 Infatti questa impresa editoriale non mira a presentare tutti i testi pubblicati dall’Autore, mentre una lista integrale è stata accuratamente stesa da Victorino Pérez Prieto nella «Bibliografia generale – testi e studi».2 A questo materiale stampato bisognerebbe aggiungere inoltre i testi inediti di Panikkar rimasti in forma di manoscritti,3 come anche le registrazioni audio e video, le lettere e altri documenti conservati sia presso varie istituzioni sia presso persone private, di cui per il momento non abbiamo nessuna evidenza, e sembra non esistere alcuna iniziativa volta a raccogliere e conservare queste tracce. Non meno importante in questo panorama è la biblioteca di Panikkar, ora conservata nell’Università di Girona, di cui la parte più importante è costituita dai «marginalia», ossia annotazioni fatte da Panikkar stesso nei libri e nelle rivista durante le sue letture.4 A tutto ciò vanno aggiunti i ricordi di persone di varia provenienza, venute in contatto con il filosofo di Tavertet durante la sua vita. Infine, la biografia di Panikkar, un concetto carico di problematiche, fa parte della sua opera, poiché nel caso di quest’uomo la scrittura e la vita si intrecciano.5 In breve, l’opera di Raimon Panikkar è ampia e variegata, ma non è ancora né visibile né accessibile nella sua interezza, perciò l’indagine sulle fonti non può essere svolta in un modo né adeguato né completo.

Seppure ancora in un modo parziale, tuttavia già emerge un profilo dell’opera di Panikkar, che occorre cogliere anche in funzione della questione – perché, come vedremo fra un attimo, è una vera e propria questione – delle sue fonti. Prima di tutto si tratta di un’opera multi-tematica che spazia dalla spiritualità alla politica, dal cristianesimo all’induismo, dal buddhismo alla scienza moderna, dall’ermeneutica alla metafisica, e che comunque possiede una sua unità grazie all’impronta filosofica e all’afflato mistico dell’Autore. In secondo luogo è una opera multi-linguistica, in quanto scritta dallo stesso Panikkar sia in latino che in spagnolo, catalano, italiano, francese, tedesco e inglese. Questo tratto poliglotta è una sua caratteristica fondamentale, direttamente legata alla filosofia del linguaggio e della parola, elaborata dal filosofo di Tavertet, che circoscrive il contesto in cui la sua opera è stata creata e indirettamente s’impone nella questione sulle fonti. In terzo luogo, dal punto di vista temporale è un’opera molto estesa, creata nell’arco di circa sette decenni, in cui l’Autore e il suo pensiero hanno subito influssi e cambiamenti, perciò si può parlare di «evoluzione» e distinguere il «primo» Panikkar dal «secondo» e persino dal «terzo». Indispensabile risulta la lettura cronologica delle opere del nostro pensatore in stretto rapporto con la sua biografia. Dal punto di vista letterario Panikkar si esprime principalmente in forma saggistica, talvolta praticando in modo rigoso lo stile accademico con tanto di apparato scientifico munito di note bibliografiche, e talvolta usando invece un modo più diretto, esteso e poetico. All’interno di questa cornice saggistica sono però presenti altri stili: dialogo, commento, parabola, traduzione, parafrasi, diario, lettera, polemica, poesia, confessione, preghiera. Infine vorrei sottolineare che l’opera di Panikkar risulta incompiuta ossia aperta. Pur essendosi pronunciato su svariati temi e avendo scritto molto, l’Autore è sempre stato consapevole dell’impossibilità di poter dire tutto e di arrivare ad esprimere adeguatamente le proprie intuizioni, esperienze e segreti del cuore. Egli non intese creare né un sistema né una sintesi. Tutto ciò fa sì che la sua opera sia difficilmente classificabile e non si lasci inquadrare in rigidi scompartimenti: per i filosofi Panikkar è troppo teologico, per i teologi è troppo filosofico, e per entrambi risultano imbarazzanti il suo afflato spirituale e la sua vena mistica, che invece a mio parere emergono come caratteristiche fondamentali e fattori d’unità della sua opera.

2. Fonti di un opera

Il concetto di «fonte» è fondamentale per la storiografia, importante per i procedimenti storico-critici, è tipico proprio della mentalità storica. Uno storico descrivendo un evento deve poggiarsi sulle fonti, stabilendo quali siano le primarie e quali le secondarie. Lo studio delle opere storiche a sua volta indaga sulle fonti a propria disposizione e sui modi in cui sono state interpretate. La mentalità storica, muovendosi sul vettore cronologico, stabilisce il prima e il dopo e lo lega al principio di causa-effetto, nella convinzione che l’evidenziazione del primo movente (arché) di solito è decisiva per la comprensione e la soluzione del problema. Questo tipo di mentalità, che definisco «archeologismo», spesso non si rende conto che capire l’arché di una cosa non necessariamente vuol dire capire la sua natura. Volendo essere più indulgente direi che comprendere qualcosa attraverso la sua arché è solo uno dei modi per capirlo. Ora la mentalità storica e l’approccio archeologistico hanno così dominato le scienze umane dell’epoca moderna da mutare la filosofia in storia della filosofia e la teologia nel «fontismo», manifestatosi in seguito nella storia della teologia con un’infinità di monografie (del tipo: storia di Dio, storia della dottrina, storia di varie idee teologiche) e affiorando nello studio storico-critico delle fonti delle religioni e nella storia di salvezza che ha pervaso il cristianesimo occidentale moderno.

Il pensiero non è solamente storico, in altre parole comprendere il pensiero nella prospettiva storica non vuol dire coglierlo nella sua interezza, ma significa solo leggerlo da un punto di vista «archeologistico». In altri termini indagare sulle fonti di un pensiero vuol dire ridurre la sua percezione alla prospettiva storica, e se questo fosse l’unico modo di comprenderlo provocherebbe anche la sua deformazione. Ora, Panikkar non fu uno storico né la sua opera è un opera di storiografia, ma di pensiero filosofico e teologico, anzi una irradiazione mistica. Che cosa dunque vuol dire indagare sulle sue fonti? È possibile individuarle? E avendole stabilite che ne potrebbe risultare? La fonte nel caso dell’opera di pensiero di Panikkar richiede il ripensamento dell’idea stessa di fonte che immediatamente prende una piega polisemica. La fonte nella prospettiva del pensiero di Panikkar vuol dire non solo il contesto in cui egli si è formato, ma anche quelli in cui è maturato e si è evoluto; considera i libri che ha letto e le persone che lo hanno influenzato, la tradizione in cui lui si riconosceva e che tentava di allargare o superare; le autorità e i principi che lo hanno condizionato, ma che ha tentato a sua volta di ridefinire o superare; infine comprende anche le esperienze esistenziali e spirituali, persino mistiche, che lo ispirarono per tutta la vita. Nel caso del pensiero la fonte non è tanto un punto formo nel passato, ma un getto continuo che ispira e accompagna.

La «fonte contestuale» del pensiero di Panikkar è non solo la teologia cristiana del Novecento occidentale con la sua neoscolastica, il rinnovamento teologico segnato dal ritorno alle fonti bibliche, patristiche e liturgiche, l’apertura ecumenica e inter-religiosa, ma anche la filosofia heideggeriana con tutto ciò che ha generato, dall’ermeneutica all’ontologia, e inoltre le riflessioni sociologiche, politiche e quelle che riguardano la tecnologia. Panikkar da una parte ha attinto a tutto ciò e dall’altra lo ha ripensato criticamente sia a causa dei suoi studi sull’induismo e sul buddhismo, sia a causa della sua pretesa o esperienza spirituale. Dal punto di vista testuale si potrebbero indicare alcuni libri e autori che l’hanno segnato nei rispettivi campi dei suoi vasti interessi, ma finché non avremo a nostra disposizione l’intera opera, nel senso indicato da me all’inizio di questo saggio, tale indagine mi sembra piuttosto prematura. Fuori dubbio rimane che la fonte testuale principale di Panikkar era il Nuovo Testamento, a cui egli però si rivolgeva sulla base della sua esperienza da lui stesso definita «cristofanica», «cosmoteandrica» o «advaitica». Al secondo posto collocherei, a sorpresa, Tommaso d’Aquino letto alla luce della frase presente nel suo De coelo (II, 3), in cui è detto che «Lo studio della filosofia non si prefigge la conoscenza delle opinioni degli uomini, bensì quale sia la verità delle cose» (Studium philosophie non est ad hoc ut scitur quod homines senserit, sed qualiter se habeat veritas rerum). Al terzo posto va indicata ovviamente la sua immersione nella lettura di testi della tradizione vedica, da cui nacque il suo The Vedic Experience (1976), il cui influsso però deve ancora essere analizzato.

Un pensatore può essere profondamente segnato dall’esempio o dall’insegnamento di altre persone incontrate durante la propria vita e considerate come maestri, guru o insegnanti. In tal caso si è soliti parlare di «influsso», e anche questo fa parte della costellazione semantica che riguarda la metafora della fonte. La differenza sta nel fatto che la fonte è più facilmente rintracciabile a causa della sua testualità scritta, invece l’influsso personale è più vitale e dinamico della fonte ma sfuggente perché non legato allo scritto. Panikkar ha affermato più volte di non aver avuto maestri, come si legge nell’intervista in cui afferma: «Non credo che si possa dire che io abbia avuto un maestro, e questo lo dico come qualcosa di negativo. Credo che, in termini indiani, in me inizi una linea karmica, più che seguirne io altre. D’altro canto, non sono uscito dal nulla, ho avuto maestri molto bravi ed anche molte amicizie con persone che ho rispettato, che ho amato e dalle quali ho appreso. […] Non ho pensato molto quali sono stati i luminari che mi sono serviti come punti di riferimento, perché io sono sempre stato un po’ auto-pensatore; mi sono fatto influenzare, ma non ho seguito in particolare nessuno».6 È un frammento importante e carico di significati, che richiede alcune osservazioni. Prima di tutto vi si apprende che cosa Panikkar stesso pensava a proposito di sé stesso e della sua opera. Deve essere preso seriamente in considerazione in quanto rivela qualcosa dell’autoconsapevolezza dell’Autore, ma non esclude il fatto che nella sua vita siano esistiti veri maestri. Personalmente rimango convinto che furono almeno tre i personaggi che hanno influenzato il suo pensiero, determinato la sua esistenza e che possono essere considerati suoi maestri e fonti della sua opera: Escrivá de Balaguer, Enrico Castelli e Henri Le Saux. In secondo luogo occorre notare che Panikkar formulò questa riflessione all’inizio degli anni ottanta, periodo «iconoclasta» della sua vita in cui tendeva a prendere le distanze dal proprio passato, e che poi però ha ridimensionato. Alla sera della sua vita sottolineava spesso l’influsso che aveva subito proprio da questi personaggi.7 La conferma di questo fatto non può essere ottenuta attraverso uno studio comparativo delle opere di questi tre personaggi con i testi di Panikkar, ma deve poggiare sulla sua biografia. Nel caso di tale influsso è meglio pensare all’osmosi che servirsi dell’immagine meccanicistica causa-effetto. In terzo luogo, occorre seriamente considerare l’espressione panikkariana secondo la quale «in lui inizia una linea karmica» che rivela in che modo lui stesso considerasse la sua opera e che è importante per la sua interpretazione e comprensione. Una delle regole ermeneutiche, sostenuta da Panikkar stesso, afferma che nell’opera di un autore bisogna leggere lo spirito in cui fu scritta perché determina il suo carattere.

La fonte principale dell’opera di Panikkar, almeno nella prospettiva da lui considerata, è la sua esperienza da lui definita come cosmoteandrica, mistica, advaitica, tempiterna o semplicemente la Vita. Scrivendo l’introduzione alla sua «opera omnia» afferma: «Non ho vissuto per scrivere, ma ho scritto per vivere in modo più cosciente e per aiutare i miei fratelli con pensieri che non sorgono soltanto dalla mia mente, ma scaturiscono da una Fonte superiore che si può chiamare Spirito – anche se non pretendo che i miei scritti siano ‘ispirati’». Per umiltà e buon senso non considerava dunque la sua opera né come ispirata né come originale, ma in un modo assai tipico di lui non rifiutava di chiamarla «originaria», cioè rivolta, radicata o aderente alle origini della realtà. Panikkar era convinto di avere di questi origini un’esperienza che desiderava, con fatica, esprimere sia nella vita che nella sua opera. Da qui sembra nascere la convinzione metodologica, che per capire Panikkar occorre avere una simile esperienza ossia, usando un’altra sua espressione, condividere il suo mito.

3. Un esempio

Desidero concludere queste riflessioni soffermandomi su un esempio concreto in cui convergono alcuni problemi di cui ho parlato sopra. Negli scritti di Panikkar s’incontra relativamente spesso l’espressione «distinguere, ma non separare». È uno dei ritornelli tipici di questo autore, che fa da cardine alla sua visione unendo la dimensione epistemologica e quella ontica. Secondo il filosofo di Tavertet la nostra ragione possiede la capacità di distinguere e questo è al contempo il suo pregio e il suo difetto. Essa, poggiandosi sui concetti, distingue per esempio cosmo, Dio e uomo, ma questo non vuol dire che nella realtà queste tre dimensioni siano separate. La realtà non segue le leggi della ragione. Nel regno epistemologico cosmo, Dio e uomo sono distinti, ma nella realtà ossia nella dimensione ontica essi non sono separati e nell’esperienza mistica formano la tripartita unità cosmoteandrica definita da Panikkar anche «trinità radicale». Questo tipo di procedimento vale per tutti i temi fondamentali trattati da questo pensatore. La ragione distingue il tempo e l’eternità, ma nella realtà queste due dimensioni non sono separate, e questo conferma l’esperienza mistica della tempiternità. Nella secolarità sacra la ragione distingue il secolare e il sacro, ma nella realtà essi non solo non sono separati ma così sono vissuti nella dimensione della «nuova innocenza». Nella persona di Cristo la ragione distingue la natura divina e quella umana, ma nella realtà ed esperienza cristifanica esse non sono separate, il che non vuol dire che siano fuse. Infondo l’espressione «distinguere, ma non separare» poggia sulla dinamica espressa nella formula dogmatica calcedonese, che non è né razionale, né dialettica, ma dialogica ossia relazionale. Questo è il nucleo dell’epistemologia e dell’onticità di Panikkar, ben riassunte nella formula «distinguere, ma non separare». Alla persona che studia la sua opera viene spontanea la domanda: «Da dove Panikkar ha preso questa espressione? L’ha creata o magari l’ha trovata da qualche parte?». Non escludo che l’abbia potuta inventare, perché svariate menti in epoche e contesti differenti sono state in grado di arrivare a simili affermazioni senza mai essersi incontrate, ma semplicemente attingendo al mistero della realtà. Ma nel caso di Panikkar, riguardo l’espressione presente nella sua opera: «distinguere, ma non separare», siamo credo in grado di individuare e indicare con relativa precisione la fonte.

Ho trovato la traccia di tale ispirazione nella biblioteca di Panikkar che oggi si trova nella Biblioteca dell’Università di Girona nella collezione chiamata «Fons Raimon Panikkar».8 Si tratta del libro Little Book of Eternal Wisdom and Little Book of Truth di Enrico Suso, curato da James M. Clark e pubblicato a Londra dalla casa editrice Faber & Faber nel 1953, rintracciabile nel catalogo del «Fons» con il codice «248 SEU». Panikkar comprò questo libro negli anni cinquanta a Varanasi, perché nel frontespizio si trova il timbro della libreria Chowkhamba Vidya Bhawam (Chowk – Banaras). Aggiungo che questo è uno dei pochi libri della biblioteca di Panikkar che nel frontespizio possiede anche il timbro «Exlibris Raimon Panikkar», usato poi in una forma leggermente trasformata negli adesivi con cui sono stati targati tutti i libri del «Fons Raimon Panikkar» (vedi fig. 1).9

Alla pagina 208 nell’angolo sinistro in alto del libro di Suso si trovano cinque cifre «90204» scritte in blu da Panikkar, che secondo un codice da lui usato e facile da decodificare, indicano la data in cui il filosofo finì la lettura del testo, cioè il 4 febbraio 1959, a cui egli aggiunge in inglese il suo entusiastico «Meraviglioso piccolo libro! Vero e sano misticismo» (vedi fig. 2).10 Ora, nella pagina 203 di questo libro, che parla della Persona di Cristo nelle sue due nature, durante la lettura Panikkar ha sottolineato le righe 11 e 12 in cui si legge «separation and distinction are two quite different things» (vedi fig. 3). Secondo me questa è la fonte letteraria esplicita dell’espressione Panikkariana «distinguere, ma non separare». Potrei sbagliare, ma sono piuttosto convinto che questa espressione inizia ad essere presente negli scritti di Panikkar a partire dal febbraio 1959, ovviamente con le dovute trasformazioni, gli adattamenti e le interpretazioni. A questo punto aggiungerei ancora un’osservazione. Sono convinto che Panikkar poté cogliere questa espressione perché in lui già esisteva quella sensibilità che gli permise appunto di coglierla in tale testo, che però Panikkar stesso non ha mai menzionato esplicitamente nei suoi scritti.

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Fig. 1

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Fig. 2

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Fig. 3


  1. Cf. M. Bielawski, «Opera Omnia di Raimon panikkar», in http://goo.gl/JRKrfO (26/06/2015); I. Moreta, «A propósito de le Opera Omnia Raimon Panikkar: respuesta a Maciej Bielawski», in http://goo.gl/Ca8iEV (26/06/2015); L. Marcato, Le radici del dialogo. Filosofia e teologia nel pensiero di Raimon Panikkar, Mimesis, Milano 2017, pp. 65-77. ↩︎

  2. Cf. V. Pérez Prieto, a cura di) «Bibliografia generale dei testi di Raimon Panikkar», in http://www.goo.gl/28ShpS (26/06/2015). ↩︎

  3. Questo archivio doveva essere trasferito alla Biblioteca dell’Università di Girona. ↩︎

  4. Cf. M. Bielawski, Canto di una biblioteca, Lemma Press, Bergamo 2016. ↩︎

  5. Cf. M. Bielawski, Panikkar. Un uomo e il suo pensiero, Fazi Editore, Roma 2013; Id., «Understanding Panikkar and Making Him Understood: A Threefold Hermeneutic Structure – Graphe, Bios, Autos», in K. Vatsyayan and C. Carpentier de Gourdon (ed.), Raimundo Panikkar. A Pilgrim Across Worlds, Niyogi Books, New Delhi 2016, pp. 67-72. ↩︎

  6. R. Panikkar, «Riflexiones autobiogràficas», in Anthropos n°53-54/1985. ↩︎

  7. A tal proposito basta leggere nel suo diario le note degli ultimi anni, cf. R. Panikkar, L’acqua della goccia. Frammenti dai diari, Jaca Book, Milano 2018. ↩︎

  8. Cf. Maciej Bielawski, Canto di una biblioteca, Lemma Press, Bergamo, 2016, pp. 167-170. ↩︎

  9. Tutte le fotografie sono state fatte da Maciej Bielawski. ↩︎

  10. Per la cronologia della letture e la spiegazione delle date che Panikkar annotava durante la lettura vedi M. Bielawski, Canto di una biblioteca, op. cit., p. 85-97 e 200. ↩︎