Recensione a Paolo Nitti, L’insulto

Paolo Nitti, L’insulto, Franco Cesati, Firenze 2021, pp. 116.

All’incirca negli ultimi venti anni, linguisti e filosofi del linguaggio hanno rivolto grande attenzione alle pratiche linguistiche insultanti, oggi molto diffuse nella comunicazione ordinaria, nel dibattito pubblico, nel giornalismo, nella politica, nei social media, con una invasività tale da giustificare la caratterizzazione del nostro tempo come «epoca d’oro dell’ingiuria».1 Il principale merito del libro di Paolo Nitti è quello di fornire un’accurata (e informata) panoramica delle attuali ricerche teoriche ed empiriche intorno al fenomeno linguistico, culturale e sociale dell’insulto, in una cornice introduttiva in cui diverse prospettive metodologiche e disciplinari, dalla linguistica alla pedagogia, sono coinvolte. L’intera prima parte del libro contiene una rassegna integrata dei principali criteri di classificazione degli insulti.

Insultare non è una prerogativa della società della comunicazione. Le espressioni insultanti appartengono al potenziale espressivo delle lingue naturali e sono rintracciabili in tutte le epoche storiche. Nel suo trattato sull’arte di ottenere ragione, Schopenhauer presenta l’insulto come ultimo stratagemma: «Quando ci si accorge che l’avversario è superiore e si finirà per avere torto, si diventi offensivi, oltraggiosi, grossolani, cioè si passi dall’oggetto della contesa […] al contendente e si attacchi in qualche modo la sua persona».2 Oltre alla costruzione del consenso, diversi motivi stanno alla base delle pratiche insultanti. Per Domaneschi, le loro cause sono fondamentalmente tre: neurofisiologiche, psicologiche e socioculturali.3 Nell’ambito di queste ultime, il ricorso all’insulto può risultare funzionale nei processi di socializzazione all’interno di subculture. Scrive a tal riguardo Nitti: «l’impiego di un repertorio di espressioni insultanti comuni a un gruppo rende più coeso il gruppo stesso, determinandone l’aspetto valoriale e la distanza rispetto ad altri gruppi».4 Tale funzione solidale trova negli slur (epiteti denigratori) validi strumenti di coesione sociale e di costruzione identitaria. A differenza degli insulti generici, gli slur hanno questo di caratteristico, che i loro target sono costituiti da gruppi sociali tipicamente identificati sulla base di tratti etnici, culturali, sessuali, nazionali, religiosi etc. Così, p. es., mentre «stronzo» e «idiota» sono semplici bad word, «negro» e «frocio» meritano l’etichetta di slur. Nel discorso d’odio (hate speech) questi ultimi risultano ampiamente impiegati. Nell’ottica della teoria degli atti linguistici di John Austin, la dimensione performativa del linguaggio d’odio è stata esplorata da Bianchi in termini di capacità normativa e di controllo sociale.5 Anche nel libro di Nitti il riferimento a Austin gioca un ruolo altrettanto determinante per l’analisi pragmatica delle espressioni linguistiche insultanti in termini di elementi illocutori e perlocutori.

Da un punto di vista strettamente linguistico, gli slur esibiscono proprietà sintattiche e semantiche specifiche, come p. es. lo scoping-out. Qualche esempio può risultare utile. Se diciamo «Giovanni non è uno stronzo», tale proferimento non sembra veicolare contenuti offensivi. La parola insultante, infatti, occorre nell’ambito (scope) della negazione, e risulta pertanto negata – rimossa, per così dire. Se, invece, diciamo «Giovanni non è frocio», in questo caso il potenziale offensivo, sebbene lo slur si trovi sintatticamente nell’ambito della negazione, sembra persistere. Un’altra differenza tra slur e bad word riguarda l’esistenza o meno di controparti neutre: mentre i primi hanno in genere controparti neutre, le seconde no. Se la controparte neutra di «musogiallo» è «cinese» e il termine «omosessuale» è il neutro di «frocio», quali controparti neutre potremmo individuare per «stronzo» e «bastardo»?

In generale, le teorie linguistiche degli slur sono di due tipi: le teorie deflazionistiche e le teorie basate sul contenuto. Per le prime l’offensività degli epiteti denigratori dipende principalmente da fattori extra-linguistici, come l’interdizione linguistica,6 della quale Nitti mette in evidenza gli aspetti soggettivi, diacronici e diatopici. Le seconde possono essere a loro volta suddivise in semantiche e pragmatiche. Per le teorie semantiche, come quella di Hom,7 gli slur sono portatori di un significato convenzionale denigratorio, che contribuisce alle condizioni di verità degli enunciati in cui occorrono. P. es., «frocio» sarebbe convenzionalmente sinonimo dell’espressione «omosessuale e disprezzabile a causa di ciò». Un serio ostacolo per queste teorie è rappresentato dal già menzionato scoping-out. Infatti, se il potenziale denigratorio di «frocio» è nel significato, convenzionalmente codificato nella parola insultante, e «frocio» è sinonimo di «omosessuale e disprezzabile a causa di ciò», allora dovremmo poter sostituire le due espressioni sinonimiche in tutti i contesti linguistici possibili salva iniuria. La sostituibilità invece fallisce: «Giovanni non è omosessuale e diprezzabile a causa di ciò» non sembra veicolare lo stesso contenuto offensivo di «Giovanni non è frocio». A proposito dello scoping-out, è utile menzionare uno studio empirico condotto da Panzeri e Carrus8 che ne ridimensiona l’importanza teorica, mostrando come esso interessi non solo gli slur, ma anche le bad word: in alcuni contesti linguistici – rilevano gli autori –, come negli antecedenti dei condizionali, una maggiore tendenza alla persistenza dell’offesa è riscontrabile nelle bad word.9

L’approccio pragmatico è basato su nozioni come quelle di implicatura convenzionale e di significato del parlante, ma anche su quella di presupposizione.10 Per le teorie pragmatiche, il contenuto denigratorio non è un fatto linguistico convenzionale, ma dipende dal contesto del proferimento e dalle intenzioni comunicative del parlante. L’intenzione offensiva da parte del parlante non è però sufficiente. Scrive Nitti: «l’intenzionalità dell’emittente è un fattore significativo per classificare gli insulti, ma non è esclusivo e da sola non è una condizione sufficiente».11 Un fattore altrettanto importante è quello soggettivo, cioè la disposizione del destinatario a recepire un’espressione linguistica come insultante.

All’insulto Nitti guarda anche come pratica sociale oggetto di apprendimento, nell’ambito dei processi di socializzazione primaria e secondaria. Da questo punto di vista, interessanti dati provengono dall’osservazione dello sviluppo delle competenze insultanti nei bambini. I primi insulti colpiscono il bersaglio attingendo a una semantica corporea: «ciccione», «handicappato» sono esempi di questo genere. In una fase successiva, i bambini insultano con un maggiore riferimento ai comportamenti: «idiota», «stronzo», etc. La frequenza degli insulti sembra inoltre sensibile alle differenze di genere: i maschi insultano pubblicamente con maggiore frequenza delle femmine. Le pratiche insultanti dei bambini chiamano in causa il ruolo degli adulti, degli educatori e delle agenzie di socializzazione. È sul terreno della pedagogia e della linguistica educativa che Nitti sottolinea l’inadeguatezza dell’atteggiamento tradizionale, esclusivamente improntato all’interdizione:

l’interdizione spesso risulta seducente e spinge alla trasgressione per il puro piacere di sperimentare la violazione delle regole […]. Dividere le espressioni linguistiche in un settore per gli adulti e un altro per i bambini rischia di proporre una visione della lingua distorta, sbagliata e certamente priva di scientificità, poiché i bambini impiegano frequentemente sia il turpiloquio che gli insulti, essendo possibilità del codice espressivo.12

Il compito che l’autore assegna alla linguistica educativa è duplice: da un lato, «contribuire al raggiungimento di una consapevolezza metalinguistica e comunicativa da parte del parlante, attraverso la formazione del personale docente»;13 dall’altro, promuovere programmazioni didattiche finalizzate all’analisi dei fenomeni linguistici, nella direzione di una maggiore consapevolezza delle potenzialità espressive del linguaggio e della trasformazione della mera interdizione linguistica nella promozione di un utilizzo più consapevole della lingua.

Infine, due osservazioni critiche, che però nulla tolgono al valore complessivo del libro: 1) l’approccio filosofico, sociologico e pedagogico trascura una parte (anche se ancora piccola) di letteratura di notevole interesse, soprattutto per i suoi possibili sviluppi, la quale intreccia le tematiche del linguaggio insultante con quelle della citazione;14 2) la scelta editoriale di non includere un indice dei nomi priva il lettore di un fondamentale strumento di lavoro.


  1. F. Domaneschi, Insultare gli altri, Einaudi, Torino 2020, p. 4 ↩︎

  2. A. Schopenhauer, L’arte di ottenere ragione, Adelphi, Milano 1991, p. 64. ↩︎

  3. Cfr. F. Domaneschi, Insultare gli altri, Cap. III. ↩︎

  4. P. Nitti, L’insulto, Franco Cesati Editore, Firenze 2021, p. 22. ↩︎

  5. C. Bianchi, Hate speech. Il lato oscuro del linguaggio, Laterza, Roma-Bari 2021. ↩︎

  6. Cfr. L. Anderson, E. Lepore, «Slurring words», Noûs, 47, 2013, pp. 25-48. ↩︎

  7. Cfr. C. Hom, «Pejoratives», Philosophy Compass, 5 (2), 2010, pp. 164-185; C. Hom, «A puzzle about pejoratives», Philosophical Studies, 159, 2012, pp. 383-405. ↩︎

  8. F. Panzeri, S. Carrus, «Slurs and Negation», Phenomenology and Mind, 11, 2016, pp. 170-180. ↩︎

  9. Ibid., p. 176. ↩︎

  10. Cfr. B. Cepollaro, «In defence of a presuppositional account of slurs», Language Sciences, 52, 2015, pp. 36-45. ↩︎

  11. P. Nitti, L’insulto, p. 40. ↩︎

  12. Ibid., p. 79. ↩︎

  13. Ibid., p. 79. ↩︎

  14. Cfr. p. es. S. Rinner, A. Hieke, «Slurs under quotation», Philosophical Studies, 2021, https://doi.org/10.1007/s11098-021-01715-z↩︎