Recensione a Diego Marconi, Per la verità. Relativismo e filosofia

Diego Marconi, Per la verità. Relativismo e filosofia, Einaudi, Torino 2007, 172 pp., € 10,00.

Il libro di Marconi affronta il tema del relativismo sulla verità (è vero per te ma non per me, ed espressioni simili), elaborando una teoria dei rapporti tra verità e giustificazione epistemica, in larga parte radicata nell’analisi dell’uso ordinario di tali nozioni, tale da legittimare la compatibilità del relativismo epistemico con l’uso non relativistico del concetto di verità. Le argomentazioni proposte conducono ad un punto di vista sulla verità esplicitamente non epistemico (in questa prospettiva si colloca anche la critica alla tesi della dipendenza della verità dalla mente),1 e proprio per questo impegnano l’autore ad affrontare le difficoltà che tipicamente affliggono le concezioni non epistemiche della verità, tra le quali quella concernente le modalità attraverso le quali incorporare l’analisi realistica del concetto di verità all’interno di una teoria epistemologica (cfr. A. Pagnini 1995).

Contro le teorie epistemiche della verità, Marconi presenta in «Appendice» (pp. 161-163) due argomenti a sostegno della distinzione tra verità e giustificazione: 1) l’argomento di Robert Brandom (1976), 2) l’argomento di Crispin Wright (1992). In quanto segue argomenteremo che per chi intenda sostenere un punto di vista epistemico sulla verità l’argomento di Brandom non costituisce un ostacolo insormontabile e l’argomento di Wright è circolare.

1. L’argomento di Robert Brandom

L’argomento2 presenta almeno un caso in cui due enunciati, pur avendo identiche condizioni di giustificazione, hanno diverse condizioni di verità. Gli enunciati in questione sono i seguenti: (1) «Sposerò Maria», (2) «Prevedo che sposerò Maria». Marconi sostiene che (1) e (2) hanno le stesse condizioni di giustificazione, dal momento che «non ci sono circostanze in cui possa aver ragione di dire che prevedo che sposerò Maria ma non di dire che sposerò Maria» (p. 162). È d’altra parte evidente che le circostanze che rendono vera (1) non sono le stesse che rendono vera (2), infatti «se per i casi della vita poi capita che non sposi Maria — mettiamo che la sfortunata Maria muoia un mese dopo l’asserzione di (1) o di (2) — (1) risulta, a quel punto, falso; mentre (2) resta vero, perché avevo effettivamente previsto (sbagliando) che avrei sposato Maria» (ibid.). L’argomento sembra dunque accreditare la tesi secondo cui esiste almeno un caso in cui p è giustificato se e solo se q è giustificato (con p e q logicamente indipendenti, nel senso che possono assumere tutte le possibili combinazioni di valori di verità), precisamente quando sostituiamo p e q con (1) e (2).3 Sennonché, dire che (1) e (2) hanno le stesse condizioni di giustificazione significa dire che in tutti i casi in cui qualcuno è giustificato ad asserire (1) è anche giustificato ad asserire (2), e viceversa. Ma questo è evidentemente falso. Infatti, qualcuno potrebbe avere buone ragioni per asserire che io sposerò Maria, ma non per asserire che io prevedo che sposerò Maria. Questo qualcuno potrebbe per esempio sapere che Maria è follemente innamorata di me fino al punto di sposarmi, ma potrebbe anche essere a conoscenza del mio scetticismo sul reale amore di Maria; in questo caso avrebbe buone ragioni per sottoscrivere (1), ma anche buone ragioni per rifiutare (2). Perché le cose sembrano andare diversamente quando l’indessicalità del pronome è vincolata al parlante? Dopotutto, la struttura degli enunciati è esattamente la stessa, (1) e (2) predicano le stesse cose («sposerò Maria» e «prevedo che sposerò Maria») di uno stesso soggetto. La cosa interessante è capire come la disparità di condizioni di giustificazione di (1) e (2) riesca a camuffarsi bene nel caso descritto da Brandom, nel caso per l’appunto in cui l’«io» è sempre l’io del parlante. Formuleremo al riguardo due ipotesi circa la natura del fraintendimento che sta alla base dell’argomento in questione, rispetto al quale la prima afferma semplicemente che esso è sbagliato, la seconda afferma che è vero, ma che non produce il caso desiderato, il caso cioè in cui due enunciati condividano le stesse condizioni di giustificazione e non condividano le condizioni di verità. È possibile che quando si afferma che «non ci sono circostanze in cui possa aver ragione di dire che prevedo che sposerò Maria ma non di dire che sposerò Maria», (1) occorra tacitamente come (1bis), «dico che sposerò Maria». Questa mossa rende più somiglianti le condizioni di giustificazioni solo a patto di rendere più somiglianti le condizioni di verità. Potremmo tentare di definire la previsione in termini di asserzione + clausole addizionali (tra le quali la sincerità dell’asserzione e la sua giustificatezza, supponiamo). Forse in questo modo sarebbe possibile identificare le condizioni di giustificazione, ma solo a patto di trascinarci dietro la piena coincidenza delle condizioni di verità. Infatti, (1) diventerebbe qualcosa di simile: «dico (sinceramente e giustificatamente) che sposerò Maria». Se poi capita che io non sposi Maria, ciò non comporta una situazione in cui (1bis) (+ sincerità e giustificatezza) sia falso, mentre (2) sia vero.

Un secondo e più fondamentale tipo di fraintendimento riguarda, per dirla in termini sellersiani, la confusione tra lo spazio logico delle ragioni e lo spazio logico delle cause. A differenza della prima ipotesi di fraintendimento, questa seconda ha il pregio di spiegare la fallacia dell’argomento di Brandom senza ricorrere alle modifiche a (1) sopra indicate. La confusione a cui alludiamo consiste nel confondere la tesi secondo la quale esiste almeno un caso in cui p è giustificato se e solo se q è giustificato (con p e q logicamente indipendenti), segnatamente la tesi (t), secondo cui (1) è giustificato se e solo se (2) è giustificato, con la tesi, chiamiamola (ab), secondo cui ho ragione di asserire (1) se e solo se ho ragione di asserire (2). La confusione tra (t) e (ab) conduce alla confusione tra ciò che conta come prova per (ab) e ciò che conta come prova per (t). Scomponiamo (ab) nei due condizionali che la compongono: (a) se ho ragione di asserire (1), allora ho ragione di asserire (2); (b) se ho ragione di asserire (2), allora ho ragione di asserire (1). E quindi chiediamoci: che tipo di relazione sussiste tra le due parti che compongono (a) e (b), tra gli antecedenti e i conseguenti? Che tipo di considerazioni sono in gioco quando affermiamo (a) o (b)? Avanziamo l’ipotesi che esse siano di tipo causale: quando in me si producono le giustificazioni per asserire (1), si producono (causalmente) anche le giustificazioni per asserire (2), e viceversa. Questo non significa che (1) e (2) abbiano identiche condizioni di giustificazione, ma semplicemente che il prodursi in me delle giustificazioni di (1) ha come conseguenza (causale) il prodursi delle giustificazioni (diverse) per asserire (2), e viceversa. In sintesi, questo secondo fraintendimento consiste nel considerare le prove per (ab) come prove per (t).

2. L’argomento di Crispin Wright

Qui il punto di partenza è il bicondizionale tarskiano: (1) Per ogni enunciato «p», «p» è vero se e solo se p. Per la legge della trasposizione, si ha che: (2) non si dà il caso che «p» è vero se e solo se non si dà il caso che p. Inoltre (1) vale anche per gli enunciati negativi, e quindi: (3) «non si dà il caso che p» è vero se e solo se non si dà il caso che p. Sostituendo il lato destro di 3) con il lato sinistro di 2), in virtù della equivalenza logica espressa dal bicondizionale in 2), 3) diventa: (4) «non si dà il caso che p» è vero se e solo se non si dà il caso che «p» è vero. 4) equivale alla congiunzione di due condizionali semplici: 4a) Se «non si dà il caso che p» è vero, allora non si dà il caso che «p» è vero & 4b) Se non si dà il caso che «p» è vero, allora «non si dà il caso che p» è vero. Se «essere vero» significa «essere giustificato», allora dovrebbe essere possibile sostituire in 4b) «vero» con «giustificato» salva veritate: (5) Se non si dà il caso che «p» è giustificato, allora «non si dà il caso che p» è giustificato. Ma (5) è intuitivamente falso: «se non siamo in grado di giustificare “p”, non è detto che siamo in grado di giustificare la sua negazione, “non si dà il caso che p”» (p. 163).4 Che (5) sia intuitivamente falso, questo non ci impedisce di formulare definizioni giustificazionali della verità alternative. Proviamo dunque a sostituire in 4b) «vero» con «evidente a un essere tale che, per ogni stato di cose, a questo essere è evidente che quello stato di cose esiste o che quello stato di cose non esiste» (Chisholm 1966, p. 154),5 otteniamo: (6) Se non si dà il caso che «p» è evidente a un essere tale che, per ogni stato di cose, a questo essere è evidente che quello stato di cose esiste o che quello stato di cose non esiste, allora «non si dà il caso che p» è evidente a un essere tale che… (6) contiene una definizione giustificazionale di verità e non presenta le difficoltà di (5), sebbene ciò non significhi ancora che «vero» ed «evidente a un essere tale che…» siano sinonimi. Infatti, la sinonimia dovrebbe garantire la verità di 4b) anche quando la sostituzione riguardasse l’antecedente, ma non il conseguente, e viceversa. Consideriamo allora gli enunciati seguenti: (7) Se non si dà il caso che «p» è evidente a un essere tale che…, allora «non si dà il caso che p» è vero; (8) Se non si dà il caso che «p» è vero, allora «non si dà il caso che p» è evidente a un essere tale che… (7) e (8) sono dubbi, ma (6) fa certamente un passo avanti nella direzione di una definizione epistemica della verità rispetto a (5). I teorici epistemici della verità possono così formulare ulteriori proposte di sinonimia, e non è escluso che per qualche definizione giustificazionale della verità il test di Wright risulti soddisfatto. Il problema è che nell’ottica di Marconi esso è un argomento circolare. Infatti, una delle sue premesse è data dal bicondizionale tarskiano e tale principio sembra non garantire una sufficiente neutralità concettuale rispetto alle alternative epistemiche e non epistemiche sulla verità. Se Marconi ha ragione e il bicondizionale tarskiano è intrinsecamente legato alla concezione non epistemica — questa sembrerebbe la tesi principale del suo libro —, chiedere ai sostenitori della concezione epistemica della verità di fornirci una definizione epistemica all’interno di uno schema non epistemico suona come una richiesta evidentemente esorbitante.

3. Bibliografia

Brandom, R.
1976 «Truth and Assertibility», in Journal of Philosophy, vol. 73, pp. 137-49; trad. it. «Verità e asseribilità», in A. Bottani, C. Penco (a cura di), Significato e teorie del linguaggio, Angeli, Milano 1991
Wright, C.
1992 Truth and Objectivity, Harvard University Press, Cambridge, Mass.
Marconi, D.
2006 «On the Mind Dependence of Truth», in Erkenntnis, vol. 65, n. 3, pp. 301-318
Pagnini, A.
1995 Teoria della conoscenza, Tea, Milano
Chisholm, R. M.
1966 Theory of Knowledge, Prentice-Hall, Inc., Englewood Cliffs, New Jersey; trad. it. Teoria della conoscenza, il Mulino, Bologna 1968

  1. Su questa questione si veda anche Marconi 2006 ↩︎

  2. Sono grato a Diego Marconi per avermi sollecitato a precisare meglio la critica all’argomento di Brandom contenuta in questo paragrafo. ↩︎

  3. Marconi considera il seguente condizionale: se ho ragione di asserire (1), allora ho ragione di asserire (2). Ma è chiaro che la tesi che egli intende sostenere è che (1) e (2) hanno identiche condizioni di giustificazione, e dire che due asserzioni qualunque, A e B, hanno identiche condizioni di giustificazione significa dire che «quando A è giustificata anche B lo è, e viceversa: le ragioni per asserire A sono anche le ragioni per asserire B, e viceversa» (p. 161). E dunque: A è giustificata se e solo se B è giustificata. ↩︎

  4. Marconi sostiene che l’argomento è valido anche quando «giustificato» significa «giustificato3», anche quando cioè la verità è inclusa nella giustificazione come condizione necessaria, argomentando che se da un lato è possibile affermare che «se non si dà il caso che ‘p’ è giustificato3, allora ‘non si dà il caso che p’ è vera», non è possibile affermare che «se non si dà il caso che ‘p’ è giustificato3, allora ‘non si dà il caso che p’ è giustificato3», «perché la verità di non-p è condizione necessaria, ma non sufficiente per la giustificatezza3 di non-p» (p. 163). Ma proprio per questa stessa ragione sarebbe impossibile affermare anche il primo dei due condizionali. Questa svista (la negazione dell’antecedente) non indebolisce comunque l’argomento di Wright, dal momento che esso resta valido semplicemente perché se p non è giustificato3 — e questo non esclude che p sia vero — non è detto che ci sia una giustificazione di non-p. ↩︎

  5. Per Roderick M. Chisholm la definizione del concetto di verità in termini di evidenza è valida a condizione di aggiungere almeno due ulteriori clausole: 1) una teoria ontologica per la quale uno stato di cose p è tale a condizione che la credenza che p sia «evidente a un essere tale che…»; 2) che «ciascuno di noi sia identico con quell’essere» (1966, p. 155). ↩︎