Raimon Panikkar. Universo in espansione

Quali le ragioni del grande interesse scientifico e umano che Raimon Panikkar continua ad avere anche nelle società secolari? Questo intervento intende sviluppare l’ipotesi che tale fascino derivi dalla stessa vita di Panikkar che si presenta quale «universo in espansione». Non mi riferisco solo alla sua biografia ed identità umana – che è sempre stata riflessiva, aperta, in crescita – ma anche alle varie dimensioni del suo sistema teologico che ha continuato ad approfondirsi fino alla fine della vita. Panikkar rimane l’icona più significativa per quanti sono nella ricerca di un futuro possibile e di una convivenza pacifica, vivendo tra le esperienze spirituali più diverse e nell’atmosfera del pluralismo che caratterizza la società contemporanea.

1. Biografia in espansione

In primo luogo è l’identità stessa di Panikkar ad essere stata una realtà in divenire, con quattro appartenenze culturali e religiose in comunione: il Cristianesimo della madre, l’Induismo del padre, la scoperta successiva del Buddhismo, il riferimento alla società secolare dentro la quale visse, senza mai abbandonare la sua identità di prete cattolico. Era nato nel 1918 da  padre indiano di religione indù e da madre spagnola cattolica. Aveva ricevuto un’ educazione cattolica nella scuola dei Gesuiti  di Barcellona per poi  intraprendere gli studi universitari in scienze naturali, filosofiche e teologiche. Con lo scoppio della guerra civile spagnola, Panikkar col suo status di figlio di padre cittadino britannico, potè andare all’università di Bonn, in Germania a  continuare i suoi studi. All’inizio della Seconda Guerra Mondiale nel 1939, Panikkar ritornò in Spagna  completando il primo dei suoi tre dottorati, quello in Filosofia presso l’Università di Madrid.

A 36 anni, Panikkar  visitò per la prima volta l’India, la terra del padre e questo fu una trasformazione dei suoi interessi e della sua teologia. Era entrato in un mondo religioso e culturale inatteso e nuovo. Lì incontrò tre monaci che cercavano di incarnare la loro vita cristiana in India: Jules Monchanin (1895-1957), Henri Le Saux, noto anche  come Swami Abhishiktananda (1910-1973), e Bede Griffiths, monaco benedettino inglese (1906-1993). Tutti furono colpiti dalla ricchezza profonda delle tradizioni induiste e tentarono di vivere la loro esperienza cristiana nelle forme indù e buddista. Panikkar, parlando del cammino della sua vita, spesso ripeteva: Ho lasciato come cristiano l’Europa per l’India e mi sono scoperto hindu. Poi sono ritornato in Europa come  buddhista, senza aver mai cessato di essere cristiano.

Negli anni successivi fu invitato a partecipare al Concilio Vaticano II, poiché, essendo cresciuto in un ambiente cattolico neo-tomista, aveva una profonda conoscenza della teologia cattolica che gli permetteva di confrontarsi con i grandi teologi del XX secolo quali Jean Danielou, Yves Congar, Hans Urs von Balthazar. Nell’Induismo e nel Buddismo aveva trovato altri linguaggi per esprimere le verità fondamentali della tradizione cristiana, oltre l’ebraico biblico, la filosofia greca e il cristianesimo latino1. Per questo Panikkar riteneva che nel terzo millennio il Cristianesimo avrebbe dovuto andare oltre a una visione di Cristo solo cristiano per vedere l’opera di Cristo nel mondo e nelle tante religioni.

Negli anni della maturità Panikkar scoprì la tensione feconda tra l’io secolare e l’io spirituale.

Panikkar distingueva tra secolarizzazione come processo nel quale alcuni settori della società si rendono autonomi dalle istituzioni religiose; secolarismo quale ideologia che assolutizza la realtà mondana affermando che il mondo empirico è tutto ciò che esiste e che il divino è una mera illusione della mente; secolarità quale equilibrio tra essere e non essere, tra eternità e tempo, tra mondo e Dio. Uno Stato secolare non è né una teocrazia né uno Stato ateo; è piuttosto il governo di tutte le diversità economiche, culturali e anche religiose.

Con riferimento alle attuali società secolari, il principale interesse del pensiero di Panikkar rimase il tentativo di costruzione di una antropologia integrale che, mettendo in evidenza il carattere trascendente ed estatico dell’esistenza umana, fosse capace di andare oltre le forme di riduzionismo esistenziale contemporaneo. Strettamente collegata a questa analisi del carattere «cosmoteandrico» dell’esperienza, è l’attenzione volta a ripristinare un equilibrio tra il divino, l’umano e il cosmico, quali tre elementi costitutivi della realtà, senza alcuna subordinazione tra essi. Qui sta la ricerca di Panikkar di un equilibrio che sia una «voce di mezzo» tra e al di là dell’eteronomia e dell’autonomia, e, inoltre, sia pure una sfida critica nei confronti dei tradizionalisti religiosi o fondamentalisti (affascinati dall’eteronomia), e dei difensori della modernità liberale orientati a innalzare la modernità a dottrina. Panikkar definisce questa «voce di mezzo» con la nozione di ontonomia (legge dell’essere) quale via media tra eteronomia (dominio dell’altro sull’inferiore) e autonomia (indipendenza tra le diverse sfere dell’Essere). Si tratta di tre modelli da considerare più come degli idealtipi che come visioni del mondo strettamente intese.

In questa ricerca di Panikkar il contributo innovativo risiede nell’interpretazione della secolarità quale situazione nella quale la temporalità secolare emerge come porta d’accesso a un possibile approfondimento e arricchimento di una fede conforme al nostro saeculum. È questa la prospettiva della secolarità sacra, propria del nostro tempo come luogo privilegiato di un evento o di una rivelazione sacra (Panikkar, 2004).

2. Dialogo come stile di vita

Anche la nozione di dialogo in Panikkar è stata in continua espansione: dal dialogo interreligioso, quale confronto intellettuale, al dialogo intrareligioso, quale esperienza di crescita e di arricchimento (Panikkar, 2001). Dopo aver descritto la «retorica del dialogo» in quattro modelli che costituiscono la realtà e gli strumenti di lavoro per una vera pedagogia del dialogo, Panikkar definisce il dialogo intrareligioso. Partendo della sua esperienza personale già indicata nel punto precedente (Sono ‘partito’ cristiano, mi sono ‘scoperto’ indù e ‘ritorno’ buddista senza aver mai cessato di essere cristiano) approfondisce il cammino esistenziale di chiunque si consideri religioso, riflettendo anche sui problemi che una visione monoculturale tende a ignorare. In primo luogo il rapporto fra fede e credenza. La fede non può essere ridotta allo stesso piano della credenza, pur avendo sempre bisogno di una credenza per essere fede. Una fede senza credo è disincarnata, le credenze senza fede si impoveriscono in superstizione.

Sono le due forme del dialogo indicate che impongono la riflessione su tali rapporti, senza però mai sospendere la propria fede. Panikkar definisce tutto ciò l’epoché nell’incontro delle religioni. L’epoché, cioè la sospensione del giudizio, non funziona sul terreno del dialogo interreligioso, poiché è nell’incontro con l’altro che io non posso sospendere la mia fede, come se non credessi in quel che credo, perché è proprio la mia fede a sostenermi nel dialogo stesso. È nel dialogo religioso sincero che Io posso incontrare l’altro allo stesso livello, che è quello della fede e non quello della conoscenza. È questo atteggiamento che trasforma il dialogo interreligioso in dialogo intrareligioso, cioè in un incontro con le interiorità religiose dei dialoganti.

Anche trattando del dialogo, Panikker riflette sul significato di crescita delle religioni tramite l’incontro. Le religioni sono realtà vive in continua approfondimento verso il pleroma, il pieno compimento come dice Gesù: Non sono venuto ad abolire, ma a portare a compimento (Matteo, 17, 20). Il dialogo è l’elemento generativo dell’arricchimento anche delle diverse religioni. Questa prospettiva, che ha provocato a Panikkar critiche, è da un lato relativa all’infinita potenzialità umana di esplorare il divino e di rappresentarlo e dall’altro della finitezza di ogni espressione del divino costruita dall’uomo. Anche i luoghi, i tempi, le preghiere e le formule religiose appena formulate manifestano i loro limiti e relatività. Tutte le tradizioni religiose che si sono formate in tempi e luoghi diversi attraverso segni, forme, linguaggi, teologie, hanno conosciuto volenti-nolenti i limiti delle loro rappresentazioni. È in tutto ciò che consiste la riflessione che le religioni devono approfondire, riconoscendo la finitudine di tutte le loro forme e i limiti delle loro espressioni del divino. Anche le espressioni spirituali più personali – quale la preghiera più intima e solitaria – si forma adottando modelli ed elementi propri di una determinata situazione relativa e finita (Leone, 2014, pp. 63-75)

3. Teologia cosmoteandrica

La terza dimensione dell’universo panikkariano in espansione è la sua visione teologica cosmotemadrica con l’infinita capacità di costruire anche nel linguaggio la descrizione e la comprensione del mondo e della rappresentazione del divino. Tale prospettiva pone kosmos, theos, anthropos come le tre dimensioni costitutive della Realtà. dove il centro non sta da nessuna parte, ma in ognuna di esse. In questa visione trinitaria kosmos, theos e  anthropos diventano l’elemento inscindibile, costitutivo e ultimo della Realtà, richiamando la seconda proposizione nel celebre Libro dei 24 Filosofi: “Deus est sphaera infinita cuius centrum est ubique, circumferentia nusquam” (Dio è una sfera infinita il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo). 

È la libertà umana ad essere costituita dalla capacità di crescere nella conoscenza ed è la dignità della libertà religiosa a richiedere l’emancipazione da un unico e rigido rapporto con la realtà, con il confronto continuo con la propria capacità di trascendere il reale. In tal senso le religioni sono modi di pervenire ad abitare l’infinito, a farne la propria dimora, a convivere con il paradosso di un’infinita finitezza e di un’infinitezza finita (Leone, 2014, pp. 63-75). La storia delle religioni documenta questa varietà di esplorazioni del divino prodotta dalle tante tradizioni religiose. Là dove esistesse una sola religione troveremmo una povertà analoga a una società in cui esistesse una sola musica, poesia, pittura, scienza. Solo il pluralismo religioso è adeguato a esplorare l’infinito.

Nella visione di Panikkar teologia e vita non sono separate, ma il loro valore più autentico si manifesta nella concreta identificazione tra messaggio originario ed esperienza quotidiana. La critica di Panikkat è contro i teologi che misurano la religiosità degli individui così come si misurano gli abiti. La teologia panikkariana intende tradurre la complessità del mondo e non può intendersi come se dovesse scrivere la conclusione finale. Essa è diretta verso l’infinito in un interminabile percorso durante il quale ogni epoca ha il suo avanzamento e conosce qualcosa in più del passato, così come le epoche future saranno più sapienti di noi. Panikkar rappresenta in modo originale il tema della veritas filia tempotis che esalta la progressività anche degli universi teologici, ognuno dei quali è teatro di infiniti processi dinamici di conoscenza. È la visione teologica di Giordano Bruno che Panikkar conosceva e richiama nel volume Ecosofia, La saggezza della Terra.

«Ma l’Uomo moderno vive per il futuro; il presente è solo una tappa intermedia, una preparazione al passo successivo, che sia il raggiungimento della maggiore età, o diventare santi (essere salvati), o preparare la strada ai nostri figli o al futuro della nostra famiglia, o di clan, nazione, scienza, umanità, o del cosmo intero. Homo viator, o ancora meglio, homo itinerans. Come dice il vedanta: noi siamo pellegrini, e pellegrini assetati per giunta, solo finché non ci rendiamo conto che non esiste alcun pellegrinaggio perché la “meta” è già qui e ora - un “qui e ora” non scientifico, evidentemente. L’essenza del cammino consiste nell’andare, non nella meta; il telos esiste solo nella nostra mente. In una parola, non esiste alcuna freccia del tempo reale» (Panikkar, 2015, p. 35).

Ogni teologia è una forma storica, propria della dimensione esistenziale umana, ma con l’aspirazione ad una forma della verità totale. Anche le scienze «dell’uomo» e «della natura» hanno la stessa natura della teologia e si ricompongono nell’unità della finitezza dell’universo e della sua complessità. Ritroviamo in questa visione panikkariana le teorie di scienziati e filosofi che hanno trattato delle scienze quale nuova alleanza, cioè quale spazio di scambi interdisciplinari nei quali tutte le scienze fanno ricerca su uno stesso terreno (Ilya Prigogine e Michel Serres, 1981). In particolare Prigogine ha individuato nel rapporto tra legge ed evento uno dei capitoli fondamentali della storia intellettuale dell’Occidente. Applicato in campo teologico, la legge rappresenta una formulazione finale indipendente dal tempo, contrariamente all’evento che rappresenterebbe il dato nuovo in direzione diversa, a volte inatteso e per questo caratterizzato da incertezza, probabilità, discontinuità, irreversibilità; tutti dati propri dello spazio e del tempo.

Ritroviamo inoltre nella teologia panikkariana anche le idee di Giordano Bruno a proposito della potenzialità della materia che, anziché essere solo inerte e senza altra proprietà che la forza di gravità, può invece causare la vita e diventare complessa2. È l’infinità dei mondi della quale trattano le idee centrali della fisica moderna. Ma è pure l’idea centrale del De rerum natura di Lucrezio che il filosofo Michel Serres considera il capolavoro della letteratura latina e uno dei grandi esempi di “alliance” tra scienza, filosofia, fisica, etica e natura3. Nella complessità dell’universo infinito, l’atomismo di Lucrezio diventa scienza delle turbolenze e della complessità nella quale ogni cosa è instabile e precaria.

Questa prospettiva nella teologia di Panikker richiama infine il pensiero di Richard Kearney e del suo concetto di ana-teismo (ana-theòs: verso Dio). «Se la trascendenza è un surplus di significato, essa richiede un processo interpretativo infinito. Quanto più Dio è estraneo ai pensieri a noi familiari, tanto più molteplici saranno le nostra interpretazioni della sua estraneità. Se la divinità è inconoscibile, l’umanità non può che immaginarla in molti modi. L’assoluto richiede il pluralismo per evitare l’assolutismo» (Kearney 2012, XXV).

L’ana-teismo di Kearney è l’atteggiamento religioso consistente nel ritorno a Dio a partire dalla ricerca personale e dall’abbandono degli assoluti imposti sia teistici che ateistici. Kearney con la categoria di ana-teismo intende lanciare la scommessa che «solo ammettendo di non conoscere effettivamente nulla di Dio, possiamo iniziare a ripristinare la presenza del sacro nella carnalità dell’esistenza terrena» (Kearney, 2012, 5). L’ana-teismo è lo spazio di mezzo in cui il teismo dialoga liberamente con l’ateismo trasformando profondamente le categorie culturali e teologiche di tutte le religioni. Esso si pone dunque tra le forme recenti dell’ateismo, non quale rinuncia a Dio ma quale atteggiamento consistente nel ritorno alla credenza in Dio a partire da una condizione di incertezza, di vuoto, di ricerca. Composto da teismo con l’aggiunta del prefisso ana (sopra, verso) l’ana-teismo è il percorso e ritorno al Dio simbolo dell’Essere richiede attraverso la dissoluzione del falso divino e delle sue forme. Solo smarrendo gli idoli dogmatici e le nicchie divine che le istituzioni gli hanno creato intorno e scoprendo un “Dio straniero”, può rifiorire la fede adulta. Anche la vitalità del cristianesimo scompare senza l’accettazione di questa morte del dio dogmatico.

E’ stato lo stesso Kearney a identificare nell’ana-teismo l’atteggiamento religioso di ritorno alla fede di Dio, di ritrovata credenza religiosa che consenta di oltrepassare la dimensione di vuoto e di smarrimento che contraddistingue l’epoca contemporanea. Questo ritorno esige la capacità di prendere sul serio il senso cristiano della kenosis e di rimettere al centro di ogni prospettiva religiosa il valore dell’apertura all’altro. Al centro dell’opera di Kearney sta la tesi che ritornare a Dio dopo Dio significa che Dio deve morire, affinché Dio possa rinascere, ana-teisticamente. Questa è la scommessa del filosofo canadese. «Solo ammettendo di non conoscere effettivamente nulla di Dio, possiamo iniziare a ripristinare la presenza del sacro nella carnalità dell’esistenza terrena» (p. 5). Ma, fin dove può spingersi questo processo di «messa tra parentesi» dello stesso nucleo originario dogmatico di ogni tradizione religiosa e di ogni singolo credente? Se si trattasse di neutralizzazione totale non si tratterebbe solo di una purificazione, ma di una dissoluzione della stessa tradizione religiosa. Ritorna qui la questione posta da Panikkar sull’impossibile epoche delle proprie convinzioni nell’incontro delle religioni. L’epoché, cioè la sospensione del giudizio, non funziona sul terreno del dialogo interreligioso, poiché è nell’incontro con l’altro che io non posso sospendere la mia fede, come se non credessi in quel che credo.

4. Secolarità sacra

La nozione di secolarità sacra – la quarta forma del pensiero pahiokkariano in continua crescita – è stata introdotta negli ultimi scritti di Panikkar, strenuo difensore del bisogno di preservare la tensione feconda tra l’io secolare e l’io spirituale. È la secolarità sacra che permette di reinterpretare il secolare in modo tale che la fede diventi un impegno non nei confronti di un qualche mondo ultraterreno trascendentale, ma di una temporalità profonda, in cui il divino dimora come un seme di possibilità che chiede di essere sempre più incarnato nel mondo umano e naturale. Solo la secolarità sacra può evitare che il sacro diventi una negazione della vita e del tempo, e solo la secolarità sacra può evitare che l’ateismo diventi fanatico e cieco. Questa coabitazione creativa dell’umano e del divino permette di evitare il duplice rischio di un umanesimo riduttivo (l’autonomia estrema) o di un fondamentalismo dogmatico (l’eteronomia estrema). Il futuro della religione sarà di riportare Dio nel mondo e la fede «dal tempio alla strada, dal rito sacro alla pratica secolare, dall’obbedienza istituzionale all’iniziativa della coscienza» (Panikkar, 2004, 163).

In questa prospettiva il secolare e il sacro rimangono poli diversi della vita. Il primo rimane il polo del tempo finito e della vita quotidiana, il secondo il polo della infinità, dell’alterità, della trascendenza. Entrambi possono essere ospitati dall’uomo. La secolarità sacra, secondo Panikkar, non richiede di parlare la stessa lingua né di praticare la medesima religione, bensì di rimanere con una coscienza lucida e consapevole che stiamo intonando note diverse della stessa sinfonia e che stiamo camminando lungo percorsi differenti ma verso la stessa meta (Berzano, 2014).

È vero, però, che la nostra epoca secolare non è stata sempre ospitale nei confronti della sfera della fede e del sacro, che pur rimane uno dei due poli diversi della vita. Il primo rimane il polo del tempo finito e della vita quotidiana; il secondo il polo della infinità, dell’alterità, della trascendenza. Entrambi possono essere ospitati dall’uomo. È la «secolarità sacra» che permette di reinterpretare il secolare in modo tale che la fede diventi un impegno non solo nei confronti di un qualche mondo ultraterreno trascendentale, ma anche di una temporalità più profonda, in cui il divino dimora come un seme di possibilità che chiede di essere sempre più incarnato nel mondo umano e naturale. Questa coabitazione creativa dell’umano e del divino permette di evitare il duplice rischio già citato di un umanesimo riduttivo (l’autonomia estrema) o di un fondamentalismo dogmatico (l’eteronomia estrema).

Tale tensione secolare può offrire significativi apporti all’epoca contemporanea, nonostante che non tutte le forme di secolarizzazione siano capaci di condurre all’arrivo del divino o del sacro, ma, a volte, assumano forme intolleranti in cui il saeculum anziché situazione di attesa diventa gabbia ideologica e tecnocratica. Ugualmente, non ogni forma religiosa è in sintonia con lo spirito di questa epoca così avversa a ogni visione eteronoma. In tale contesto la religiosità potrebbe tendere a ritirarsi dal mondo in un tentativo radicale di fuga.

A questi due opposi esiti della secolarità sacra Panikkar, nelle sue ultime opere, ha dedicato alcune analisi trattando del futuro della religione e della crescente distanza tra la religione istituzionale e quella nel cuore degli individui. La religione emigra nel mondo, dalle chiese alle strade, dai riti liturgici alle pratiche quotidiane, dall’obbedienza ai Magisteri alle scelte individuali. In questa cambiamento di prospettiva molti ritengono che siano problemi religiosi anche l’impegno per la pace, la giustizia, i diritti umani, l’ecologia. Il futuro della religione sarà di riportare Dio nel mondo e la fede dal tempio alla strada, dal rito sacro alla pratica secolare, dall’obbedienza istituzionale all’iniziativa della coscienza (Panikkar 2004).

La secolarità sacra evidenzia sia che Dio si fa uomo sia che l’uomo é considerato un essere divino, non tanto per una discesa o un’ascensione, quanto per il fatto che sono costitutivamente in relazione. Una caratteristica dell’essere umano, soprattutto nell’antichità, è quella di vivere di fronte al mondo; il suo sguardo si rivolge al cielo e alla terra e su questo orizzonte compare la divinità, come Signore, Causa, origine. La divinità appare vincolata al mondo e questo appare interpretato come il mondo della divinità. E’ per questo che Panikkar dice che una delle ragioni della crisi della spiritualità di oggi è la «mancanza della fiducia cosmica», fondamentale in tutte le religioni tradizionali. Nella concezione non dualista della realtà non esiste sacro e profano, in quanto non vi è nulla che non sia sacro perché tutta la realtà è in relazione. È questo il fondamento della secolarità sacra che, secondo Panikkar, rappresenta la riconquista della struttura sacramentale della realtà, la consapevolezza che la vita umana profonda è culto e vera espressione del mistero dell’esistenza. L’uomo è prete del mondo e del sacramento cosmico. Oggi – secondo Panikkar che in queste parole evoca Pierre Teilhatd de Chardin– siamo più vicini ad accettare la verità che l’uomo è colui che celebra il sacramento della vita, il profeta di questo universo e l’ambasciatore del regno dello spirito.


  1. La tesi per il dottorato presso l’Università Lateranense di Roma nel 1961, con titolo Il Cristo sconosciuto dell’induismo, trattava del confronto testuale tra Tommaso d’Aquino e l’interpretazione di Sankara di uno scritto indù canonico, il Brahma-Sutra con l’ipotesi che l’insegnamento di Cristo non fosse solo proprio del Cristianesimo considerato come religione storica. Piuttosto, Cristo è il simbolo universale dell’unità divino-umana, il volto umano di Dio. ↩︎

  2. Nuccio Ordine, La cabala dell’asino. Asinità e conoscenza in Giordano Bruno, La nave di Teseo, 2017., pp.289-309. ↩︎

  3. Michel Serres, La naissance de la pysique dans le texte de Lucrèce. Fleuves et turbolences, Minuit, Parigi 1977, tr. it., Lucrezio e l’origine della fisica, Sellerio, Palermo 1980. ↩︎