Cultura, anti-cultura e acculturazione. Note sull’ontologia sociale di Serge Latouche

1. L’ontologia sociale di Latouche

Che cosa significa «invenzione dell’economia»? Questa è la domanda che apre uno dei più celebri testi di Serge Latouche1: uno scritto dove il carattere quasi «fluviale» delle note di critica economica viene supportato da analisi di natura storica, antropologica, epistemologica e morale; ma anche – e principalmente – un testo denso di prospettive ed impliciti teorici che, se non compresi pienamente, rischiano di delegittimarlo filosoficamente abbassandolo ad una mera analisi sullo sviluppo storico-genetico dell’attuale sistema «dell’ideologia dell’illimitato». La complessità dell’argomento va di pari passo con la molteplicità di richiami teorici a cui esso sottostà. Nel cercare di chiarire in maniera preliminare il senso del concetto di «invenzione dell’economia» – il cui implicito si mostra nell’evidenza di una menzogna collettiva generatrice di una realtà perversa e violenta – sarà necessario far iniziare il nostro discorso con un’esplicitazione dell’apparato teorico che sottostà alla proposta anti-economicista del nostro autore2.

Il rifiuto della dogmatica produttivista in Latouche sottende ad una doppia consapevolezza: da un lato si afferma che l’economia formale, cioè quella nata dal concetto moderno di scarsità, ha una «natura» tutt’altro che «naturale»3, dall’altro lato, e questo è il punto per noi più interessante, che essa altro non è che un’istituzione sociale immaginaria. Questo discorso in merito all’impostura economicista attiene ad un carattere ontologico ed epistemologico di fondamentale importanza. Nella definizione di una propria ontologia sociale, Latouche, infatti, si richiama all’opera filosofica di Cornelius Castoriadis e, specificatamente, al suo lavoro capitale L’istituzione immaginaria della società4 assunto dal nostro autore come un vero e proprio «discorso sul metodo»5.

Alla posizione essenzialista, infatti, Latouche contrappone la realtà social-storica come ordine generativo del reale determinato dall’impulso psichico e immaginativo dell’uomo nella sua dimensione sociale. La realtà non è cosmos organizzato o un complesso di essenze ideali e trans-storiche di cui si può partecipare; l’Essere ha una dimensione «magmatica», è in costante trasformazione – è sempre da-Essere –. La conseguenza più propria dell’ontologia sociale offertaci da Latouche è riconosciuta, come monito-critico nei confronti dell’universalità dell’economico, in tutte le sue opere: «quello di sviluppo è un concetto trappola»6.

Le frontiere dei gruppi umani, quali insieme di valori che ne determinano la realtà, altro non sono che gli stessi limiti determinati dalle rispettive culture d’appartenenza. La cultura per Latouche è, sostanzialmente, il corpus organizzato e vivo dei miti che strutturano il reale di una collettività determinandone l’orizzonte di senso (valori, pratiche, tecniche, credenze ecc.) e la loro stessa individualità; riprendendo le parole di Latouche si può vedere una cultura «come un insieme di pregiudizi condivisi dai suoi membri, che li unisce e conferisce loro un’identità specifica rispetto alle altre culture»7. Le società umane per il nostro autore, in forza dell’olismo che ne costituisce il più profondo sostrato epistemologico, sono generate all’interno di questa stessa totalità culturale che, secondo una sorta di «circolarità ermeneutica», si istituisce come social-storico proprio attraverso i processi immaginativi dello psichismo collettivo.

L’ontologia sociale di Latouche non mira, infatti, proporre un «essere naturalmente così» come invece fa l’ideologia economicista (misconoscendo le radici storiche sia greche che cristiane del suo modello), ma porre in primo piano la relazionalità intrinseca che si instaura tra essere umano e universo culturale entro il quale vive. Latouche tratta ampiamente del ruolo dell’immaginario nel contesto sociale il quale, nella reciprocità circolare che lo caratterizza, crea i suoi significati che, però, possono essere rappresentati solo a partire dalla loro «materializzazione». L’immaginario è dunque ciò grazie a cui le cose sono istituite e, al contempo, proprio in virtù di quest’ultime, ciò attraverso cui esso stesso è istituito. Questa prospettiva, nel suo richiamo alla costitutiva dimensione culturale, non pone, infatti, una netta distinzione tra pensiero e azione: interpretare il mondo significa già, in parte, trasformarlo.

Per Latouche l’istanza istituente della sua ontologia sociale trova cardine nell’uomo che, muovendosi entro questo reale, al contempo, lo istituisce come proprio: determinato geneticamente da questa totalità, senza per questo risultarne schiacciato, «l’uomo vive nella cultura e per la cultura»8. A livello più ampio, infatti, queste metodologie rappresentative, che sono sempre paradigmi di istituzione, si determinano nella sfera sociale come cultura, cioè modi d’essere, di vedere e di leggere il reale – socialmente istituiti – grazie a cui ogni singolo soggetto, nella sua non-impermeabilità, si forma ed è, al contempo, formato.

La definizione di cultura proposta da Latouche è molto chiara in merito: «la cultura non è altro che il modo in cui ciascuna società risponde al problema della sua esistenza sociale»9. Il concetto di cultura, in quanto «risposta globale alla sfida dell’essere»10, è la chiave di volta che regge tutto l’impianto ontologico (e antropologico) del nostro autore. In essa l’individuo non è determinato olisticamente secondo una totalità chiusa e in aggirabile. Come già sottolineato, il soggetto che si rapporta con la realtà a cui appartiene ontologicamente è perno di un doppio movimento dialettico di istituzione – la realtà vitale entro cui può muoversi e grazie a cui comprendere – e istituente – grazie a cui l’essere umano prende personalmente posto in questo orizzonte culturale decidendo la prospettiva di visione da applicare all’esistenza –.

Una tale prospettiva ontologica impedisce, quindi, di definire un modello evolutivo delle culture al cui apice si troverebbe l’Occidente11; tale modello, infatti, si basa su di una determinata forma storica di metafisica, di umano, di tecnica ecc. che è solo una delle possibili istituzioni che si è data nella molteplicità di alternative storiche della sua vita. Forte di questa impostazione onto-antropologica Latouche può arrivare ad affermare la perfetta aderenza delle diverse culture rispetto alla perenne domanda sull’Essere fatta dall’uomo.

Al contrario di quanto avviene nell’olismo metodologico di tipo dumontiano – dove la priorità onto-assiologica è sempre attribuita alla società a scapito degli individui così ridotti a mera funzione della totalità – definire, come fa Latouche, la «natura» culturale (e conseguentemente umana) come socialmente istituita indica un senso ulteriore di ciò che appare di primo acchito. La soggettività dell’individuo socializzato è, infatti, possibile solo entro la presa di posizione in un orizzonte di senso culturale dato, ma tale presa di posizione, nondimeno, è eminentemente personale. Personalità e storicità contingente entro cui la stessa agisce e viene formata sono due componenti che vanno pensate insieme; la capacità degli esseri umani di essere liberi e imprevedibili è infatti impossibile senza un orizzonte culturale (di realtà ontologica) in cui agire e in questo è già da sempre in azione una componente di istituzione inseparabile dal suo essere istituente.

2. La cultura anti-cultura occidentale

Essendo la cultura la totalità delle rappresentazioni che non solo concerne il modo sociale di vedere/approcciarsi al reale ma, radicalmente, determina questo stesso reale, «i valori del gruppo, collegati alla trascendenza, diventano limiti invalicabili»12. La messa in questione della loro arbitrarietà è sì necessaria all’emergere di nuove istituzioni immaginarie, ma anche, al contempo, ciò che ne determina la mobilità e l’adattamento. Questo fenomeno ontologico che lega la comunità alla realtà (nella loro biunivoca determinazione) vive di questa stessa fragilità, la quale, non è indice di una fallacia epistemologica o di un’intrinseca debolezza, quanto, piuttosto, è la non-assolutizzazione e la non-staticità che ne garantiscono il perdurare. I limiti di una cultura non indicano solo le restrizioni a cui sottostare, ma sono ciò che permette l’emergere dell’orizzonte di senso e il dominio entro questo stesso campo; non una bolla chiusa e autoreferenziale ma una membranza che, pur esistendo proprio grazie ai limiti che le sono costitutivi, ha una porosità tale da permettere l’ingresso (e l’uscita) di sempre nuovi stimoli.

Ogni cultura, in quanto orizzonte veritativo di una data società, non sfugge per sua stessa natura ad una certa dose di universalismo e di etnocentrismo13. Il persuadersi della giustezza dei propri valori è essenziale all’affermarsi dell’identità culturale di un dato gruppo: un processo che garantisce, nell’incontro tra culture, che esista una sufficiente distanza critica affinché le differenze dell’altro diano senso alla nostra identità e viceversa. Questo contatto non-violento tra culture fra loro differenti è definito da Latouche acculturazione, cioè un processo di reciproca costituzione e potenziamento che non genera un annullamento delle differenze, quanto piuttosto lo stimolo a una dialettica di rafforzamento e arricchimento pacifica e, addirittura, a processi di confluenza.

Il problema emerge nella misura in cui alla relativizzazione dell’assoluto della propria cultura – necessaria per un contatto non avvilente tra le differenze – si sostituisce l’assolutizzazione del relativo: è l’emergere del problema della mondializzazione (o globalizzazione) occidentale14. La cultura occidentale, nel suo processo di occidentalizzazione del mondo, non ha fatto altro che torcere i propri limiti costitutivi fino all’irreversibile deformazione della propria identità. «La cosa diventa più problematica dal momento in cui la trasgressione assurge a norma. Il paradosso occidentale sta nel fatto che l’Occidente in un certo senso istituisce una cultura dell’illimitatezza»15. Afferma Serge Latouche:

l’imperialismo culturale occidentale ha infatti una natura ben particolare, in quanto uno dei tratti essenziali e problematici della cultura dell’Occidente è la religione dell’economia. L’imperialismo culturale occidentale è una “invasione” che asfissia e distrugge la cultura di ricezione. È la circolazione a senso unico di immagini, gesti, rappresentazioni, pensieri, teorie, credenze, criteri di giudizio, norme giuridiche16.

Nella definizione di occidente vanno colte in primo luogo le strutture mitiche che ne sorreggono l’immaginario. L’universalismo – come conseguenza dell’aver posto l’illimitato a paradigma unico – è diventato il tratto peculiare della cultura occidentale che, dalle sue radici greche e giudaico-cristiane, si è sviluppato secondo la prospettiva metafisica di una realtà temporale lineare i cui progressi cumulativi sono «personificati» dall’Occidente stesso in quanto vertice di questo progresso unidimensionale. Dato questo presupposto è risultata ovvia la delegittimazione della diversità ridotta dapprima a contraddizione dell’universale e poi – secondo il principio del terzo escluso – fatta rientrare sinteticamente entro il dominio concettuale della ragione dell’Uno. Quando Latouche parla di economia o tecno-economico, come si è già visto, non vuole infatti esprimere la pratica concreta di quest’ultime, quanto piuttosto affermare il predominio dell’immaginario che le regge: l’illimitato (o hybris).

Il nostro immaginario, prima ancora di essere colonizzatore, è stato colonizzato e l’ideologia dell’illimitato è diventata il significato fondamentale della realtà; ma questo stesso valore, attualmente dominante, ha invertito gli originari rapporti di predicazione insinuandosi nella cultura come un cancro. «L’economia [è] la nostra cultura, o meglio il suo surrogato»17. L’Occidente, imponendo come valore centrale questa menzogna, ha ridotto la cultura ad una semplice funzione; annichilendo la dimensione ontologica della cultura si è determinata l’atomizzazione e la deriva sociale come processo correlato alla de-significazione dell’immaginario costituente. Questo processo, in funzione della sua stessa identità mitologica e concettuale, produce uno spossamento: nell’incontro con la diversità che, in quanto tale, non rientra sotto l’egida della sua universalità, si assiste ad una vera e propria invasione culturale (preambolo al genocidio culturale). «L’etnocidio è lo stadio supremo della deculturazione»18.

Nel tentativo di rendere ragione della propria identità «culturale», l’Occidente universalizza la propria realtà social-storica intraprendendo massicci processi di de-culturazione prodotti tramite colonizzazione dell’immaginario dell’altro19; imponendogli valori e credenze, annullandone in sostanza l’identità onto-antropologica. L’Occidente, come conseguenza propria della sua essenza, crea ex-nihilo il sottosviluppo: la cultura-altra, non coeva all’immaginario del suo invasore, viene istituita ad arretratezza; un problema facilmente risolvibile tramite «l’avvio di un processo tecnologico endogeno»20 garante della sua de-culturazione, conseguenza di uno sguardo che privilegia unilateralmente una sola dimensione. La cultura occidentale non riesce ad entrare in contatto con la differenza al di fuori del suo sistema (presunto) totale; questa antinomia è anche il segno della sua essenza attuale: indice di un’identità contraddittoria.

Se l’Occidente è “un’anti-cultura” […] perché distrugge la ricchezza delle etnie del Terzo Mondo […] il suo progetto è nondimeno una risposta al problema dell’essere sociale e, in questo senso, una “cultura”21.

La specificità concettuale dell’Occidente è, in senso eminente, ossimorica; una «cultura anti-cultura» in quanto particolare rispetto alla propria identità essenziale e universale nelle sue pretese. Tale duplicità – questa contraddizione nel cuore stesso della sua identità – consiste nell’essersi eretta a dimensione mondializzante e con forza inaudita rispetto alle culture che l’hanno preceduta ma, al contempo, nell’essere incapace di avviare processi di acculturazione arricchente rispetto ai fattori eteronomi che gli sono forniti dalle altre culture.

L’Occidente, degradando la cultura a mera funzione – un ingranaggio della Megamacchina produttivista22 – crea la menzogna collettiva della sua infinita riproducibilità; si presenta come un paradigma a-storico e de-territorializzato esportabile ovunque. L’automatismo del sistema occidentale non appartiene al solo economico ma – in quanto immaginario – tende a permeare la totalità del campo sociale sotto la spinta di una mimesi violenta che impone l’adeguamento della cultura-altra al sistema-modernità. Tale progetto è anti-culturale non soltanto perché è essenzialmente negativo e uniformizzante, ma, in particolar modo, poiché non fornisce una risposta culturale all’esistenza sociale dei perdenti.

Prima del processo di de-culturazione mimetica propugnato dall’Occidente alla de-culturazione era sempre seguita un’acculturazione riuscita, l’identità ontologica non è mai sciolta nel nulla ma trasformata e rinnovata. «In nessun momento c’è perdita dell’identità culturale. Questa si trasforma e muta»23. Con lo scatenamento mimetico di metodi e pratiche de-culturanti l’Occidente fa metafisica: scompone la radice ontologica dell’immaginario social-storico dell’altro fino alla sua più completa desertificazione. Afferma con lucidità tragica Latouche:

l’Occidente sostituisce al proprio interno la cultura con una dinamica che funziona con l’esclusione e non con l’integrazione dei suoi membri, mentre ai margini, alla periferia, erode le altre culture in una logica di conquista, le schiaccia come un rullo compressore. Non si tratta più di acculturare, come in passato, ma di deculturalizzare. L’Occidente è etnocida se non genocida. […] Quella dell’Occidente è una cultura molto particolare: pretende di essere universale, e contemporaneamente nega i diritti, e di fatto la ragion d’essere, delle altre culture24.

Si assiste, cioè, alla nascita di un’unica e globale «cultura del vuoto» atta a perseguire ogni delirio. La tendenza sacrificale della cultura occidentale costituisce, dunque, un sistema totale di violenza istituzionalizzata (sia fisica che simbolica) il cui prodotto di maggior successo consiste nella creazione di vittime e scarti. Nondimeno è la polifonia di voci che ha alla base del suo immaginario (credenze, storie, azioni, ambienti ecc.) ad essere stata la prima vittima della Megamacchina occidentale. La dinamica di espropriazione della differenza – il processo mimetico di de-culturazione – è un’azione di una violenza inaudita che viene continuamente reiterata nel tempo ma di cui la prima vittima ha perso completamente memoria: lo stesso immaginario dell’occidente.

L’attuale sistema totale anticulturale ha fagocitato e distrutto la ricchezza delle tradizioni che l’hanno generato e che sono essenziali alla sua stessa sopravvivenza. L’occidentalizzazione non è, dunque, un vero e proprio processo tecnico di riproduzione meccanica; gli uomini e le loro credenze non sono ingranaggi forniti pronti per l’uso. È compito specifico di questa «cultura del vuoto» attuare processi di de-culturazione de-significanti atti a creare una realtà umana senza né radici né futuro. Si assiste, cioè, ad un processo di riproduzione mimetica che, in seguito all’annullamento della diversità, vede l’ascesa della violenza simbolica generalizzata come corollario del sacrificio della cultura-altra.

Più semplicemente, non avendo più occhi per vedere, parole per dire, braccia per agire, la società ferita adotta la visione dell’Altro e si dice con le parole dell’Altro, agisce con le braccia dell’Altro25.

La diversità culturale ed umana è considerata miserabile prima ancora di essere annullata a favore di una sua risoluzione mimetica a ingranaggio del sistema occidentale. Ma la differenza nondimeno esiste e va protetta nella sua polifonicità. «La pluralità dell’uomo è forse sul piano culturale come sul piano genetico la condizione della sua sopravvivenza»26.

Procedendo oltre l’impietosa diagnosi dell’occidentalizzazione fatta da Latouche, ciò che sembra suggerirci l’autore – e che noi prendiamo come linea euristica di possibile sviluppo – è la necessità di rendere giustizia alle situazioni delle vittime di questo processo. In tal senso la prospettiva della decrescita ci appare «solo» come una possibile alternativa storica, che nella sua auspicabilità o meno, non funge da sostrato teorico a se stessa ma lo trova in altro. È alla prospettiva dell’ontologia sociale che dobbiamo allora richiamarci, unendola con la dinamica dell’acculturazione affrontata più sopra. Ciò a cui sembra indirizzarci l’esame dell’apparato teorico del pensatore francese è la prospettiva dell’elaborazione di una nuova pluralità di culture che sappiano organizzarsi e inter-agire in modo reciprocamente arricchente, delegittimando la pretesa sacrificale che da troppo tempo è diventata la bandiera dell’occidente.

3. Inetr-culturalità e acculturazione

In un testo intitolato Giustizia senza limiti27 – in cui Latouche compie un analisi della condizione della morale nell’epoca «dell’economia mondializzata» –, viene posta al centro dell’indagine la possibilità del reperimento di un criterio morale condiviso (e condivisibile) da tutta l’umanità. La ragionevolezza della questione va in accordo con la difficoltà della risposta, sia a livello pratico che teorico, in particolar modo se si tiene presente il senso di «incommensurabilità» assiologica a cui vanno incontro le varie culture se si tiene fede alla prospettiva di Latouche in merito all’ontologia sociale. Come reperire un criterio di discernimento delle morali se si è messa in primo piano l’incommensurabilità epistemica di queste? Come valutarne le rispettive dimensioni etiche se esse sorgono proprio a partire da un sostrato culturale ontologicamente generativo? Come valutare la possibilità del raggiungimento di un pacifico dialogo tra culture se si è preliminarmente rifiutata l’universalità di un qualsiasi valore trans-storico e trans-culturale?

La diversità delle culture e dei valori può sembrare un ostacolo insormontabile a ogni soluzione del problema. Eppure, a differenza dell’universalismo che ci chiude in un vicolo cieco, questa diversità fonte di malintesi è forse una strada per uscirne28.

La relatività culturale implicita in tale discorso non è quella di un relativismo bieco atto a legittimare ogni nefandezza; la relatività che deve instaurarsi nel contatto tra culture non ne mette in discussione le scoperte o gli immaginari quanto, piuttosto, ne evita l’assolutizzazione. La relatività culturale nella teoria di Latouche è da intendersi in primis dal punto di vista metodologico, come un atteggiamento critico nei confronti sia dell’occidentalizzazione del mondo sia della violenza implicita e fatta passare per «la normalità» all’interno della propria cultura. Questo discorso, d’altronde, trova conferma nella stessa definizione di cultura offerta da Latouche in quanto, da un lato essa si dà come «risposta globale alla sfida dell’Essere», ma anche come trasformazione continua nella sua ricettività nei confronti della diversità: né autarchica o escludente bensì accogliente.

Se si mettono tra parentesi l’etnocentrismo e le varie forme di pretese universalistiche che appartengono ad ogni cultura, emergono delle comuni aspirazioni (sociali o individuali) che assumono, però, specifiche e differenti forme. Non esistono, infatti, dei valori che siano trascendenti la pluralità di culture e la spiegazione di ciò è già stata data; nondimeno, secondo Latouche, che in questo caso si rifà esplicitamente al filosofo Raimon Panikkar, esistono delle «invarianti umane». Con quest’ultimo concetto il nostro autore vuole designare delle funzioni esistenziali analoghe presenti in ogni cultura che rendono possibile sia il dialogo sia una critica trans-culturale di significati e azioni: queste analoghe funzioni prendono il nome di equivalenti omeomorfici29.

L’autentica tolleranza, preludio al processo di acculturazione, inizia con la relativizzazione del proprio assoluto; il pacifico dialogo inter-culturale può vivere solo di questa preliminare concessione, segno di un’apertura «porosa» nei confronti degli apporti della cultura-altra. Nella densa conclusione dell’Occidentalizzazione del mondo, in proposito, Latouche scrive:

la sola vera universalità concepibile, dunque, si può basare soltanto su un consenso veramente universale. Essa passa per un dialogo autentico tra le culture. […] Poiché non c’è speranza di fondare alcunché di durevole sulla truffa della pseudo-universalità imposta dalla violenza e perpetuata dalla negazione dell’Altro, vale la pena di fare la scommessa che ci sia uno spazio comune di coesistenza fraterna da scoprire e da costruire30.

Queste ultime righe sono fondamentali per comprendere la profondità teorica dello sguardo sul futuro del nostro autore; una prospettiva teorica che, in fin dei conti, risulta soggiacente anche alla stessa prospettiva della decrescita. Si vede emergere ciò che in lavori successivi sarà chiamata «prospettiva pluriversalista», cioè una sorta di democrazia delle culture – non data ma da costruire (e qui risiede l’autentico senso del termine scommessa) – atta a determinare processi di acculturazione capaci di garantire pacifici dialoghi tra culture differenti31. Dato ciò, si prospetta la capacità insita nella comunicazione inter-culturale di poter elaborare – partendo dalle loro analoghe funzioni esistenziali (equivalenti omeomorfici) – delle reti di significati da elaborare proceduralmente tramite l’apporto «acculturante» di questo complesso di differenze.

Il processo di acculturazione insito in questa democrazia delle culture, relativizzandone gli assoluti e gli aspetti violenti, getta le basi per l’instaurarsi di un mondo comune che – pur nella molteplicità degli immaginari e, anzi, grazie proprio a questa stessa pluralità – sappia aprirsi alla dimensione inedita della convivenza pacifica delle differenze. Contro l’universalismo annichilente ed omologante dell’anti-cultura occidentale riteniamo, afferma Latouche, «che la via del “pluriversalismo” […] sia la sola che offre una speranza di evitare la caduta nella barbarie – o perfino il suicidio dell’umanità»32.

4. Conclusione

In conclusione, la prospettiva teorica di Latouche getta luci ed ombre su questa creatura (quasi) mitologica chiamata Occidente. Alla critica radicale del progetto di uniformazione del mondo si aggancia, infatti, il possibile ruolo che la stessa cultura occidentale ha ricoperto storicamente – e potrebbe ricoprire – nella sua elaborazione di una comune umanità fraterna, con tutto ciò che ne deriva (diritti umani, democrazia ecc.); un ideale questo a cui non sarebbe giusto rinunciare solo per ciò che l’Occidente è diventato ora. Il «gioco della performance», il produrre e consumare sempre di più e a qualsiasi costo, è una menzogna ormai generalizzata. Nondimeno lo stadio di «sviluppo» a cui sembra più probabilmente andare incontro l’Occidente così come descritto da Latouche, e con una corsa frenetica sempre più rapida, è il totale collasso entropico del suo stesso sistema e di tutto ciò che, pur esterno ad esso, è stato contaminato irrimediabilmente o quasi: collasso antropologico, ecologico, della morale ecc.

In questa prospettiva, forse, l’unico modo adeguato per giudicare la superiorità o no di una civiltà, in quanto a performance, non dovrebbe consistere nella sua capacità di produrre scarti (industriali o umani) come fa invece l’Occidente, quanto piuttosto nella capacità di una cultura di superare le proprie crisi, di ogni tipo. Rispetto a ciò l’Occidente è sempre stato deficitario: la diversità è sempre stata inglobata entro uno schema riduttivo che riporta tutto entro la sua norma. Non avendo mai saputo sopportare la propria intrinseca fragilità (scambiata per debolezza) esso ha imposto il processo di occidentalizzazione il cui derivato è stato lo scatenamento di una capillare violenza mimetica e generalizzata causata dalla produzione di medesimezza di cui il carnefice è stato la prima (ormai) ignara vittima.


  1. Cfr. S. Latouche, L’invention de l’économie, Paris, Mille et Une Nuits, 2005; tr. it. di F. Grillenzoni, L’invenzione dell’economia, Torino, Bollati Boringhieri, 2010. ↩︎

  2. Per una visione complessiva dell’argomento, in particolar modo per quanto concerne l’ambito antropologico e della giustizia Cfr. L. Montanari, La decrescita come liberazione. I fondamenti antropologici della democrazia, Pazzini, Rimini 2018. ↩︎

  3. Cfr. S. Latouche, La Défi de Minerve. Rationalité occidentale et raison méditerranéenne, 1999; tr. it. di S. Vacca, La sfida di Minerva. Razionalità occidentale e ragione mediterranea, Torino, Bollati Boringhieri, 2007, pp. 149-169. ↩︎

  4. Cfr. C. Castoriadis, L’institution immaginarie de la société II. L’imaginarie social et l’institution, Paris, Seuil, 1975; tr. it. di F. Ciarmelli e F. Nicolini, L’istituzione immaginaria della società (parte seconda), Torino, Bollati Boringhieri, 1995. ↩︎

  5. S. Latouche, In omaggio a Cornelius Castoriadis…, in Id. (a cura di), «Il ritorno dell’etnocentrismo. Purificazione etnica versus universalismo cannibale», tr. it. di B. Fiore, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 213. Per quanto riguarda l’esplicito debito di Latouche nei confronti del pensiero di Castoriadis Cfr. Ivi, pp. 212-213; Id., Pour sortir de la société de consommation. Voix et voies de la décroissance, Paris, Les lines qui libèrent/Actes Sud, 2010; tr. it. di F. Grillenzoni, Come si esce dalla società dei consumi. Corsi e percorsi della decrescita, Torino, Bollati Boringhieri, 2011, pp. 130-148; Id., Cornelius Castoriadis ou l’autonomie radicale, Paris, Éditions le passager clandestin, 2014; tr. it. di R. Prezzo, Cornelius Castoriadis. L’autonomia radicale, Milano, Jaca Book, 2014; Id., Les précurseurs de la décroissance. Une anthologie, 2016; tr. it. di F. Grillenzoni, La decrescita prima della decrescita. Precursori e compagni di strada, Torino, Bollati Boringhieri, 2016, pp. 99-100. ↩︎

  6. Id., Come si esce dalla società dei consumi, tr. it. cit., p. 29. ↩︎

  7. Id., L’âge del limites, Paris, Mille et Une Nuits, 2012; tr. it. di F. Grillenzoni, Limite, Torino, Bollati Boringhieri, 2012, pp. 38-39. ↩︎

  8. Id., Itinérance. Du tiers-mondisme à la décroissance, 2014; tr. it. di F. Grillenzoni, L’economia è una menzogna. Come mi sono accorto che il mondo si stava scavando la fossa, Torino, Bollati Boringhieri, 2014, p. 37. ↩︎

  9. Id., Faut-il refuser le développement. Essai sur l’anti-economique du tiers-monde, Paris, Presses Universitaires de France, 1986; tr. it. di O. Romano, I profeti sconfessati. Lo sviluppo e la deculturazione, Molfetta, La Meridiana, 1995, p. 200. ↩︎

  10. Id., L’occidentalisation du monde. Essai sur la signification, la portée et les limites de l’uniformation planétaire, Paris, La Découverte, 1989; tr. it. di A. Salsano, L’occidentalizzazione del mondo. Saggio sul significato, la portata e i limiti dell’uniformazione planetaria, Torino, Bollati Boringhieri, 2012, p. 52. ↩︎

  11. Il termine necessita di un’ulteriore specificazione. Intendiamo per Occidente – con la lettera maiuscola – non il luogo geografico, ovviamente, quanto piuttosto quel complesso di credenze e istituzioni che sono la caratteristica più propria della nostra modernità. Tra le principali caratteristiche possiamo annoverare: l’idea di una verità unica, a-temporale e progressiva, la tecnica prometeica, l’economico nella sua forma capitalista, l’ideologia dell’illimitato e l’individualismo metodologico. ↩︎

  12. Id., Limite, tr. it. cit., p. 29. ↩︎

  13. Id., Non ci sono più persiani!, in Id. (a cura di), Il ritorno dell’etnocentrismo. Purificazione etnica versus universalismo cannibale, tr. it. di B. Fiore, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 24-26. ↩︎

  14. Rispetto a come Latouche tratta questo tema Cfr. Id., Il mondo ridotto a mercato, Roma, Edizioni Lavoro, 2000; Id., La planète uniforme, Paris, Climats, 2000; tr. it. di E. Civolani, La fine del sogno occidentale. Saggio sull’americanizzazione del mondo, Milano, Elèuthera, 2002; Id., Sono possibili altri mondi, non un’altra mondializzazione, in A. Caillè-A. Salsano (a cura di), Quale «altra mondializzazione»?, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, pp. 23-39. ↩︎

  15. Id., Limite, tr. it. cit., p. 39. ↩︎

  16. Ivi, p. 40. ↩︎

  17. Id., Il mondo ridotto a mercato, cit., p. 158. ↩︎

  18. Id., L’occidentalizzazione del mondo, tr. it. cit., p. 68. ↩︎

  19. Cfr. Id., Decolonizzare l’immaginario. Il pensiero creativo contro l’economia dell’assurdo, Bologna, EMI, 2002. ↩︎

  20. Id., L’occidentalizzazione del ondo, tr. it. cit., p. 77. ↩︎

  21. Ivi, p. 55. ↩︎

  22. Cfr. Id., La Megamachine. Raison techno-scientifique, raison économique et le mythe du Progrès. Essais à la mémoire de Jacques Ellul, Paris, La Découverte-MAUSS, 1995; tr. it. di S. Salsano, La Megamacchina. Ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso. Saggi in memoria di Jacques Ellul, Torino, Bollati Boringhieri, 2008. ↩︎

  23. Id., L’occidentalizzazione del mondo, tr. it. cit., p. 88. ↩︎

  24. Id., Limite, tr. it. cit., pp. 44-45. ↩︎

  25. Id., L’occidentalizzazione del mondo, tr. it. cit., p. 73. ↩︎

  26. Ivi, p. 144. ↩︎

  27. Id., Justice sans limites. Le défi de l’éthique dans une économie mondialisée, Paris, Libraerie Arthème Fayard, 2003; tr. it. di A. Salsano, Giustizia senza limiti. La sfida dell’etica in un’economia mondializzata, Torino, Bollati Boringhieri, 2004. ↩︎

  28. Ivi, p. 257. ↩︎

  29. Cfr. S. Latouche-R. Panikkar, Pluriversum. Pour une démocratie des cultures, Paris, Cerf, 2013; tr. it. di S. Costantino-M. A. Cozzi-F. Forzani-C. Screm, Pluriversum. Per una democrazia delle culture, Milano, Jaca Book, 2018, pp. 7-42. ↩︎

  30. Id., L’occidentalizzazione del mondo, tr. it. cit., pp. 148-149. ↩︎

  31. È in questa prospettiva dunque che va letto il rifiuto dell’universalismo a favore del concetto di pluriversalismo; ciò, infatti, non starebbe ad indicare la delegittimazione di alcune conquiste basilari per la dignità umana quale, per esempio, l’idea di diritti universali ed inalienabili. Ciò che si prospetta è la ridefinizione del concetto di universalità (e del dominio, spesso anche legittimo, dell’universale) come a-priori storico la cui legittimità o meno dipende dalla sua stessa capacità di umanizzazione delle pratiche sia individuali che sociali. ↩︎

  32. S. Latouche-R. Panikkar, Op. cit., pp. 15-16. ↩︎