Evento e Messia

Perché parlino I morti bisogna respirare Dentro le loro bocche.

— F. Fortini

I

Ci sono filosofie che per quanto grandi e raffinate lasciano sempre la sensazione di voler celare la sorgente che continuamente le alimenta nascondendo anche la possibilità di una riattivazione di quella origine al di là dell’esegesi filologica. Ogni filosofia di questo tipo corre sempre il rischio di rovesciare la sua raffinata estensione in una volgare oscurità, in un triviale incastro di concetti. La filosofia di G. Deleuze non è esente da questo rischio e lo stesso Deleuze sembra rendersene conto quando, come gli succede più volte, afferma di non aver voluto lasciare una scuola filosofica; quando, come nella lunga intervista di cui si compone l’Abécédaire,1 afferma di non avere un sapere di scorta, che tutto ciò che intendeva dire lo ha detto e che si tratta piuttosto di usare la filosofia che di interpretarla. Di usare la filosofia per scopi propri, anche quando questi scopi sono eminentemente filosofici. È a questa filosofia impastata con il mondo e con l’attività umana che Deleuze dà il nome di popfilosofia.

Ora usare qualcosa non necessariamente significa possederlo. È nota, ad esempio, la riflessione francescana sull’usus pauper tesa a dimostrare la possibilità di esercitare il rigore della povertà continuando ad avere un rigoglioso commercio con il mondo attraverso un uso nudo dei beni, un uso cioè che non ne prevede la proprietà privata. Ma questo non significa che il bene non abbia una proprietà, non abbia il suo proprio. Al contrario il proprio di un bene o di un mezzo è proprio il suo poter essere usato, il suo da usare che allora è tanto più proprio quanto più si fonda su una im-proprietà nel doppio senso di negazione della proprietà e di continua espropriazione del possesso.

Temo che Deleuze non abbia mai pensato a sé come ad un francescano e noi tanto meno dobbiamo pensarlo tale, ma esiste una tonalità del suo pensiero che è senza meno un usus pauper della facoltà di pensare: usare il pensiero senza possederlo è usare il mondo senza appropriarsene.

Proprio per questa ragione forse sono poco pertinenti le evoluzioni polemiche intorno all’affermazione espressa da F. Zourabichvili nella introduzione alla nuova edizione del suo bel libro su G. Deleuze, secondo cui non esisterebbe una ontologia deleuziana, non esisterebbe un pensiero di Deleuze sulle cose ultime2 o sull’essere. Ma se questo è forse vero, non è meno vero che un uso povero della filosofia è sempre un uso storico della filosofia e che la filosofia di Deleuze è una filosofia proprio di questi usi (i suoi celeberrimi divenire) e delle configurazioni di questi usi (i suoi agencements tradotti in italiano con concatenamenti). Tanto più che la storia sembra essere proprio una storia di questi usi. La filosofia di Deleuze allora è, sarebbe, una filosofia della storia in cui questa però non costituisce il presupposto orientante sempre da ricercare. Fare filosofia è lo stesso che fare storia come nella bella espressione di Benjamin: «Scrivere storia significa dare alle date la loro fisionomia».3 Una fisionomia non individuale, non la fisionomia di un soggetto o di una coscienza ma quella di un collettivo (non del soggetto tout court come spesso si dice); un collettivo specialissimo composto di singolarità preindividuali, tensioni differenze e che deve il suo essere collettivo a l’evento come ciò che fa la differenza: usus pauper della storia. L’evento in Deleuze è qualcosa che non si esaurisce tutto nella sua manifestazione in uno stato di cose, in un semplice possesso dell’attuale. Infatti l’affermazione centrale di logica del senso, vero centro di gravità di tutto il libro, è: «il bagliore, lo splendore dell’evento è il senso». Ma allora, tornando alla affermazione benjaminiana, dare alle date la loro fisionomia sarà un compito politico, un compito collettivo. È per questa ragione che, credo, Deleuze sembra squalificare l’essere; lo squalifica come mediazione tra uso del pensiero e storia.

Che la storia sia un compito immediatamente politico era anche il risultato di una delle ricerche filosofiche più affascinanti del secolo scorso, quella di W. Benjamin, il quale ha mostrato che qualcosa come un tempo messianico è all’opera nella costruzione del progetto rivoluzionario che però coincide con il progetto stesso del tempo. Il materialismo storico supportato dalla teologia di Benjamin fa il paio con l’empirismo che si vuole superiore di Deleuze permesso dall’eterno ritorno. In entrambi i casi è all’opera un materialismo esoterico4 che usa il suo cuore nascosto come motore di un rivolgimento storico fondato un tempo non lineare, che è il tempo dell’immanenza nei due sensi del genitivo. Non si esce da questo mondo, e da questo tempo per una salvezza in un altro tempo e altrove. La redenzione (o la rivoluzione) è lo stesso movimento di questo tempo. Una redenzione senza salvezza sembra il marchio della politica della storia. Così si esprime Deleuze: .

Credere non a un altro mondo, ma al legame fra uomo e mondo, all’amore o alla vita, credervi come all’impossibile, all’impensabile, che tuttavia può essere soltanto pensato: «un po’ di possibile, sennò soffoco». Questa credenza fa dell’impensato la potenza propria del pensiero, per assurdo, in virtù dell’assurdo. […] dobbiamo piuttosto servirci di questa impotenza per credere alla vita e trovare l’identità tra pensiero e vita […] . Il fatto moderno è che noi non crediamo più in questo mondo. Non crediamo neppure agli avvenimenti che ci accadono, m l’amore, la morte, come se ci riguardasse solo a metà. […] È il legame fra uomo e mondo a essersi rotto; è questo legame quindi a dover diventare oggetto di credenza: l’impossibile che può essere restituito soltanto in una fede.5

II

Il 26 settembre del 1940 all’Hostal Francia di Port Bou, un paesino della Catalogna, nel tentativo di sfuggire ai nazisti si toglie la vita Walter Benjamin. Nel 1942 a Los Angeles un opuscolo ciclostilato dell’Institute of Social Research reca il titolo Walter Benjamin zum Gedachtnis. Si tratta di un numero monografico commemorativo a cura di T. W. Adorno e M. Horkheimer nel quale viene pubblicato uno scritto, l’ultimo, di Walter Benjamin che questi, nelle redazioni provvisorie, aveva chiamato Über den Begriff der Geschichte (Sul concetto di storia) .6 Lo scritto è, come spesso succede in Benjamin, organizzato per frammenti, raccolti in XIII tesi7 che rappresentano una serrata critica dello storicismo positivista e della socialdemocrazia in chiave rivoluzionaria e messianica.

II/a

Per il pensatore rivoluzionario la peculiare Chance rivoluzionaria trae conferma da una data situazione politica. Ma per lui non trae minor conferma dal potere delle chiavi che un attimo possiede su una ben determinata stanza del passato, fino ad allora chiusa. L’ingresso in questa stanza coincide del tutto con l’azione politica; ed è ciò per cui essa, per quanto distruttiva possa essere, si dà a riconoscere come un’azione messianica.8

Per Benjamin esiste una chance rivoluzionaria che è legata alla particolare situazione politica solo dal vincolo della verifica e non dalla necessità causale. Il presente non è un catalizzatore meccanico delle possibilità che già conterrebbe e che si tratterebbe semplicemente di selezionare e l’azione rivoluzionaria sembra più indirizzarsi verso il passato che verso il futuro. Tuttavia questo passato ha bisogno di essere aperto dalle chiavi che solo il presente possiede e che Benjamin lega al potere che la tradizione cristiana ha conferito a Pietro9: un passato le cui porte sono rimaste chiuse e le stanze inesplorate è un passato che può solo essere presente10 o nelle parole di Benjamin può solo essere Redenzione. Questo è possibile perché «il passato reca con sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione (Erlösung) ».11 Oppure può solo essere solo passato, quello che la storiografia positivista voleva conoscere «proprio come è stato davvero»12 e che per Benjamin è solidale con l’ideologia del progresso tipica della socialdemocrazia che si figura il tempo come progresso lineare. «L’idea che un progresso del genere umano nella storia è inseparabile dall’idea che la storia proceda percorrendo un tempo omogeneo e vuoto».13 Al contrario la storia e il passato sono costruzioni cariche di Jetztzeit.14 Non che lo Jetztzeit sia la costituzione storica di punti notevoli al modo della storia monumentale di cui parla Nietzsche nella Seconda Inattuale15 che si limiterebbero a disegnare la bussola del tempo vuoto e continuo, ma l’irruzione all’interno del continuo dell’assolutamente discontinuo che non nasce da un altro mondo ma dalla storia stessa. È così che Benjamin può dire che l’azione politica si dà a riconoscere come azione messianica. In una nota preparatoria a Über den Begriff der Geschichte, Benjamin oppone al continuum storico dell’ideologia del progresso illimitato, agio dei dominatori della storia, la tradizione degli oppressi, che «fa della classe operaia la redentrice. L’errore fatale, nella visione socialdemocratica della storia, era questo: la classe operaia doveva comparire come redentrice nei confronti delle generazioni a venire. Ma la cosa decisiva è piuttosto che essa deve dar prova della sua forza redentrice nei confronti delle generazioni che l’hanno preceduta».16 Ma la tradizione delle generazioni che ci hanno preceduto è il nulla di tradizione, la generazione degli oppressi è redenta e costituita nel presente dello Jetztzeit, che istituisce il contenuto di una tradizione e fa saltare il tempo ordinario. Tuttavia la tradizione nulla non è una tradizione vuota ma non può che trasmettere se stessa come contenuto. È proprio per questo che «La storia ha il compito non solo di impossessarsi della tradizione degli oppressi, ma anche di istituirla».17 Ma l’istituzione di una tradizione è allora l’irruzione della discontinuità del nuovo nella storia, riattivazione di una origine da cui non segue nessuna tradizione ma che si istituisce con essa. L’origine [Ursprung] è, infatti, per Benjamin una categoria pienamente storica, che purtuttavia non ha «nulla in comune con la provenienza [Entstehung].18 Con l’origine non si intende alcun divenire di ciò che è scaturito, ma, piuttosto, uno scaturiente al divenire e al trapassare». Già nel saggio per composto per la libera docenza, Ursprung des deutschen Trauerspiels, la relazione tra le idee e i fenomeni era ancorata al concetto di origine, che lungi dall’essere la genesi di qualcosa è invece la forma che strappata allo scorrere lineare del tempo. Benjamin caratterizza l’origine come un vortice che con la sua forza impone una forma allo scorrere del tempo. Ora, però, questa forma è soprattutto un arresto, l’origine è la forma di un arresto. L’origine non emerge dagli stati di cose — «ciò che si raccoglie nell’idea dell’origine»19 — , ma riguarda la loro «preistoria e storia successiva»,20 l’origine non è un che di puntuale ma la dialettica tra un prima e un poi colti nel loro dispiegarsi in una immagine essenziale (o Idea). Che l’origine sia una categoria completamente storica quindi non vuol dire che sia causa della storia intesa come successione ma piuttosto un effetto, l’origine è un effetto di senso che nasce dal nulla di una tradizione o detto altrimenti dal non-senso dello Jetztzeit. La storia come senso o come storia è possibile solo sulla scorta di una rapporto di forze che in qualche modo la inaugurano il sorgere della storia è infatti l’afferramento di un rapporto poiché «nessuno stato di fatto è, in qualità di causa, già perciò storico. Lo è diventato postumamente, attraverso circostanze che possono essere distanti migliaia di anni da esso. Lo storico che muove da qui cessa di lasciarsi scorrere fra le dita la successione delle circostanze come un rosario. Egli afferra la costellazione in cui la sua epoca è venuta a incontrarsi con una ben determinata epoca anteriore. Fonda così un concetto di presente come quell’«adesso» [Jetztzeit], nel quale sono disseminate e incluse schegge del tempo messianico».21 Il rapporto con l’origine è il rapporto tra la storia e il suo farsi, lasciar cadere il rosario della successione cronologica, significa allora considerare il tempo nella sua deperibilità bel suo farsi che è un disfarsi. La costellazione di cui ci parla Benjamin è una rammemorazione [Eingedenken] che, sarà chiaro, non ha più niente da ricordare. Ed è solo in questo senso che possono apparire ed essere disseminate nello Jetztzeit schegge di messianico. Ma il messianico non è il Messia, che «compie ogni accadere storico e precisamente nel senso che egli soltanto redime, compie e produce la relazione fra questo e il messianico stesso. Per questo nulla di storico può volersi da se stesso riferire al messianico. Per questo il regno di Dio non è il Telos della Dynamis storica; esso non può essere posto come scopo22». Il messianesimo è la differenza di potenziale che fa comunicare le due serie del passato e del presente, e che fornisce le condizioni per cui qualcosa come una costellazione possa essere data.23 La costellazione si presenta dunque come il risuonare di una serie con l’altra, dell’origine con la sua in-originarietà che nello Jetztzeit, «come modello del tempo messianico, riassume in un’immane abbreviazione la storia dell’intera umanità».24 Tutto allora sembra giocarsi tra messianismo e arrivo del messia, tra Jetztzeit e Kairós, tra, parafrasando Agamben, il tempo che resta non tra l’arrivo del Messia e la Parousia, ma tra il Messianico e il messia.

Esiste uno scarto impercepibile, un piccolo spostamento, dice Benjamin ricordando un detto rabbinico, tra il nostro tempo e il tempo dell’arrivo del messia. Occorre installarsi in questa differenza e forzare la contrazione [Abbreviatur] dello Jetztzeit come immagine involontaria di una memoria del passato che «ricorda ciò che non è stato mai visto».25 Si può pensare al rapporto istituito dallo Jetztzeit con il passato come il racconto della psicanalisi da cui però sia stata espunta l’interpretazione ossia il lavoro proprio dello psicanalista. Il lavoro di una psicanalisi senza psicanalista sembra essere il lavoro che Benjamin riserva all’utopia, quello di elaborare il passato in «un’immagine di sogno».26 Il passato infatti può essere redento e proprio in quanto sogno utopico lo si può ripetere come «il giorno inaugurale di un calendario funge da compendio storico accelerato [historicher Zeitraffer] ».27 L’utopia non sovrintende e non elabora l’arrivo di un nuovo eone, «Benjamin non contrappone a questo «tempo dell’inferno», cioè al tempo secolarizzato una possibilità escatologica simile a sostenuta nella dottrina dell’apocatastasi, di matrice origeniana e poi gioachimita»28 . L’utopia al contrario si organizza come un’estremismo dell’ora che non può rivolgersi al futuro in attesa ma costruisce il passato come un futuro anteriore del quale lo Jetztzeit compone la forma: «il prima sia nell’ora. In verità l’ora è l’immagine più intima del passato».29

Il messianismo di Benjamin è proprio questa differenza tra sospensione e compimento tale che «l’ordine del profano non può essere costruito sul pensiero del regno di Dio, per questo la teocrazia non ha alcun senso politico, ma solo un senso religioso».30 E questa differenza non può che essere resa tramite una immagine che è «ciò che in cui quel che è stato unisce si fulmineamente in una costellazione. In altre parole l’immagine è la dialettica in arresto. […] Solo le immagini dialettiche sono autenticamente storiche, cioè non arcaiche. L’immagine letta, cioè l’immagine nell’ora della conoscibilità».31 La costellazione è allora una sorta di sintesi paradossale nella quale passato e presente si presentano in una immagine dialettica, ciò che in Logica del senso Deleuze chiama una sintesi disgiuntiva, una sintesi in cui le serie divergenti (passato e presente) risuonano proprio grazie alla loro divergenza. Il passato e il presente insomma, risuonano insieme proprio in virtù di un non che non è una negazione, ma una relazione. È all’elemento differenziale del risuonare che Benjamin dà il nome di Jetztzeit.

III

Nel secondo capitolo di Differenza e ripetizione, Deleuze rintraccia le forme temporali che descrivono i nostri modi di esistenza. La prima forma, quella del presente, che consiste in una contrazione di istanti e disegna qualcosa come una durata all’interno di una coscienza. Ogni istante è «logicamente indipendente dall’altro, mens momentanea. Ma noi li contariamo in un’impressione qualitativa interna al di fuori di ogni ricordo o calcolo distinto, in quel presente vivente, in quella sintesi passiava che è la durata».32 A tale contrazione Deleuze dà il nome di Habitus, mutuando l’espressione dagli empiristi inglesi e soprattutto da Hume.33 Eppure l’abitudine a differenza di ciò che si potrebbe pensare non è la semplice ripetizione del caso in una generalità, ciò che Deleuze chiama ripetizione nuda o materiale,34 ma la differenza tra gli elementi contratti dell’ogni volta come nel tic del tic-tac dell’orologio e la contrazione nella generalità aperta dei casi di tutte le volte: .

la ripetizione si trova contenuta nel «caso», ridotta a due, ma si apre un nuovo infinito che è la ripetizione dei casi stessi. Sarebbe dunque falso credere che ogni ripetizione di casi sia per natura aperta, e ogni ripetizione di elementi chiusa. La ripetizione dei casi è aperta solo in quanto passa per la chiusura di n’opposizione binaria tra elementi; viceversa la ripetizione degli elementi è chiusa solo in quanto rivestee nel suo insieme il ruolo di uno dei due elementi opposti: non soltanto quattro è una generalità in rapporto ai quattro colpi, ma «le quattro» entrano in conflitto con la mezz’ora precedente o la seguente […] . La ripetizione dei casi suppone quella degli elementi, ma la ripetizione degli elementi è superata di necessità da quella dei casi.35

La differenza tra le due forme di ripetizione è ciò che chiamiamo una sintesi passiva in cui la contrazione dei singoli istanti impone una aspettativa36 verso gli istanti che seguono o meglio verso un proseguire della contrazione, una sorta di contrazione della contrazione degli elementi nell’apertura dei casi in un’attesa che segna il carattere proprio e contraddittorio del presente. Il presente dura, ma questa durata è la differenza tra la contrazione degli elementi e quella dei casi che si alternano senza cancellarsi in una durata che non smette di durare senza passare. Il presente non riesce a dar conto del proprio passare ma solo a figurarsi come una eternità che dura, una eternità che acquista la consistenza del passato e del futuro solo a patto di disegnarle come dimensioni della durata. Ma allora anche noi non saremmo che una dimensione della durata presente e non saremmo che una sola abitudine di differenze. Eppure non è così, noi siamo un’insieme di abitudini contratte, di diverse durate di presente,37 e la nostra azione è quella propria di una differenza di differenze: differenza della ripetizione degli elementi e del caso che formano il presente nella sintesi passiva e la differenza tra le sintesi passive. Ma una sintesi passiva è possibile solo in una contemplazione, in un’anima che contempla le contrazioni, qualcosa come un contraibile38 e il nostro io è la differenza tra contemplazioni che sono vere e proprie linee di presente. Infatti «sotto l’io che agisce, ci sono piccoli io che contemplano, rendendo possibile sia l’azione che il soggetto attivo. Noi diciamo «io» soltanto attraverso i mille testimoni che contemplano in noi, ma è sempre un terzo a dire io».39 Siamo una testimonianza fatta di testimonianze che non riescono a dar conto del loro passare, cioè del loro esser testimonianza. Il presente non riesce a dar conto del suo passare e della relazione con un altro presente perché «il tempo dipende certamente da una cesura, ma quest’ulima è statica, puro Istante, e non rende conto della successione»40 e occorre dunque «un altro tempo in cui si operi la prima sintesi del tempo»,41 questo tempo, o seconda intesi, è la memoria.

III/a

In un breve manoscritto redatto a pochi mesi dalla sua scomparsa nel 1995, dal titolo Virtuale e attuale, G. Deleuze sembra aver fretta di ricapitolare i termini concettuali di tutta la sua filosofia dagli anni ’50 in poi e una sorta di estrema contrazione dei temi bergsoniani che dai due saggi del 1956, Bergson e Bergson e la differenza,42 hanno caratterizzato tutta la sua produzione filosofica.

«Non c’è oggetto puramente attuale. Ogni attuale si circonda di una nebbia di immagini virtuali»,43 ci dice Deleuze richiamando il capitolo centrale del saggio Il bergsonismo, nel quale si dimostra che la durata non è solo un’esperienza psicologica ma ha a che fare essenzialmente con la memoria, anzi la durata che ci è dato esperire non è comprensibile che a patto di considerarla un modo della memoria. Bergson presenta questa identità tra durata e memoria sempre sotto due forme: coesistenza e contrazione.44 Tuttavia la contrazione di che qui è in gioco non è più quella del presente, non è più contrazione di istanti in una contemplazione, ma la contrazione dei presenti nella memoria in una sintesi passiva che costituisce «il passato puro nel tempo e fa dell’antico presente e dell’attuale (dunque del presente nella riproduzione e del futuro nella riflessione) i due elementi asimmetrici del passato come tale».45 Ora tale passato non è però ricettacolo nel quale si conserverebbero frammenti giustapposti di immagini dell’antico presente e che differirebbe dalla memoria solo per estensione. Al contrario il passato è pura virtualità come tutto del passato che coesiste con il presente nel quale di volta in volta si attualizza: «l’attuale e il virtuale coesistono ed entrano in uno stretto circuito che ci riporta costantemente dall’uno all’altro».46 Non si deve però pensare a questo virtuale come ad un retro-mondo o a un serbatoio che fornirebbe costantemente materiale alla determinazione delle differenze, ma come a un insistere della molteplicità con sé stessa. La differenza è costantemente affermata in sé stessa, e il grosso problema diviene quello dell’attualizzazione delle differenze o, si può anche dire il classico problema dell’individuazione nel presente. È qui che entra in campo la forza che in Differenza e ripetizione si configura come intensità47: il tempo è l’intensità dei corpi individuati.

Il presente passa solo perché esiste un passato che non attende che il presente si esaurisca per costituirsi come passato. Il passato coesiste integralmente con il presente che è costituito passato al momento stesso del suo esser presente. Il presente è costantemente diviso in un diastema48 originario che è una differenza tra il presente attuale e il passato del presente che coesisteno non solo nel momento presente ma anche nel passato. È questo uno degli aspetti sorprendenti del bergsonismo: la coesistenza di passato e presente fonda la successione dei presenti senza cessare di essere fondata al tempo stesso da un passato puro o virtuale al quale il presente che passa aggiunge una nuova dimensione. Ma il passato puro non si costituisce che a partire da un altro al tempo stesso, quello del presente attuale e della suo raddoppiamento immediato che lo fa passare nella doppia coesistenza del presente con il suo passato e di tutto il passato virtuale con il presente che ne attualizza una dimensione. «Il passato non solo coesiste con il presente che è stato; ma poiché si conserva in sé (mentre il presente passa) — è il passato nella sua interezza, integrale, tutto il nostro passato che coesiste con ogni presente».49 Presente e passato differiscono in natura eppure coesistono.

Tuttavia questa coesistenza non è un puro fronteggiarsi di due eterogenei, al contrario. Attualizzare il virtuale significa ricostruirlo a partire da una discrepanza o da una forza che è sempre un rapporto di forze. Al cuore del passato virtuale c’è una ripetizione fondamentale. Se la successione del presente non si spiega senza il suo immediato raddoppiamento nel circuito più piccolo attuale-virtuale, il passare del tempo sarà un rammemorare un passato inteso come eruzione del nuovo. In effetti, quando si dice che il passato è contemporaneo al presente che è stato, si parla necessariamente di una passato che non fu mai presente»50 e che però lo sarà. L’eterno ritorno di Nietzsche rivisto da Deleuze è proprio questo sarà di un passato che non fu mai presente. È per questo che l’eterno ritorno non è mai l’eterno ritorno dell’identico, a meno di non considerarlo come già lo stesso Nietzsche ha fatto,51 una canzoncina da organetto. L’evento è questo differenziante che assicura la riproduzione della differenza, la restituzione di un passato che è differenza.

III/b

In uno straordinario racconto datato 1942 dal titolo Funes, o della memoria,52 Borges racconta la storia di un certo Ireneo Funes e della sua morte. Racconto piuttosto banale, come Funes del resto, se non fosse che questi, celebre per alcune stranezze, a seguito di un incidente riamane paralizzato, ma acquista una memoria eccezionale, sovraumana. Comincia a vivere come in un sogno più vero della realtà, ogni ricordo porta con sé tutta la serie di sensazioni motorie, visive, tattili, ogni ricordo è un nuovo presente. Le differenze si ipostatizzano diventando solo differenze di identità: «Locke, nel secolo XVII, propose (e rifiutò) un idioma impossibile in cui ogni singola cosa, ogni pietra, ogni uccello e ogni ramo avesse un nome proprio; Funes aveva pensato, una volta, a un idioma di questo genere, ma l’aveva scartato parendogli troppo generico, troppo ambiguo».53 Funes non può dormire perché la sua veglia non è diversa dal sogno e il sonno non è il riposo dal mondo perché non c’è più mondo ma un insieme di immagini. La memoria di Funes coincide totalmente con il mondo e con il tempo, è per questo che non è capace di pensiero, come sospetta il narratore-Borges alla fine del racconto che però è veramente l’apertura di un mondo, la libertà di Funes, la sua morte per congestione polmonare. Alla fine anche i movimenti involontari sono condotti alla paralisi. Non c’è più tempo. Funes muore. Ma ciò che uccide Funes non è né la sua memoria abnorme, né il presente che egli non riesce più a vivere, ma il futuro. Il futuro che uccide Funes è però un futuro che non c’è, un futuro che è solo la brutta copia del presente e del passato. Il futuro letteralmente per Funes è solo nel futuro della lontananza: è solo un presente lontano e irraggiungibile ricalcato sul presente attuale. Il futuro di Funes è solo un grado superiore dell’infinito attuale di ricordi che è il suo presente. Funes non muore per l’esaustione della memoria tutta consegnata al presente ma per assenza di movimento, per l’impossibilità di tracciare un percorso della differenza tra sé e sé e tra sé e il mondo. Funes muore di identità o perché non è abbastanza bergsoniano. Il tutto della memoria di Funes è un tutto attuale ma è proprio questo che Bergson nega: «Non c’è alcun dubbio che ci sia un Tutto della durata. Ma questo tutto è virtuale».54 Il virtuale allora è differenza in sé non completamente attualizzata. Differenza nel suo farsi. Bergson introduce quindi una doppia differenza che Deleuze esprime come un processo different/ziazione:55

1. differenza del presente con il passato che già è nell’attuale che corrisponde al processo.

2. differenza in sé o differenza nel suo farsi nel virtuale.

Ciò che mette in comunicazione queste due modi della differenza e che fa sì che il virtuale non sia meno reale dell’attuale, non abbia cioè il carattere illusorio del meramente possibile,56 è l’evento, il differenziante della differenza. Ciò che permette alla differenza di riprodursi senza concedersi all’identità è proprio la ripetizione della differenza che Deleuze chiama evento. La ripetizione intesa come evento sarà allora la modalità del futuro della differenza e non ha altro contenuto che questa: «L’evento è il ritardo ma a sua volta il ritardo è la forma pura del tempo che fa coesistere il prima e il dopo» . Funes allora come dice Borges è davvero uno «Zarathustra selvatico e vernacolare»57 di provincia per il quale l’eterno ritorno è l’eterno ritorno dell’identico « […] come forma fondamentale della coscienza preistorica, mitica».58

III/c

«Il bagliore, lo splendore dell’evento è il senso. L’evento non è ciò che accade (accadimento), è in ciò che accade, il puro espresso che ci fa segno e che ci aspetta».59 Avvicinando senso e evento Deleuze mostra l’implicazione di tempo e senso. Tuttavia questa implicazione è sempre l’implicazione di un senso che nasce dal non-senso dell’incontro delle forze. Il senso è sempre un futuro anteriore rispetto alla ripetizione dell’incontro delle forze. Ciò che permette però la comparsa del senso, il futuro del futuro anteriore, è la terza sintesi, o come dice Deleuze il terzo tempo del tempo.60 Al cattivo circolo della doppia implicazione di presente e passato virtuale Deleuze oppone il circolo dell’eterno ritorno come sintesi del futuro che subordina a sé le prime due sintesi temporali: .

difatti la prima sintesi non concerne se non il contenuto o la fondazione del tempo; la seconda, il suo fondamento; ma più oltre, la terza assicura l’ordine, l’insieme, la serie e il fine del tempo. Una filosofia della ripetizione passa per tutti gli «stadi», condannata a ripetere la stessa ripetizione, ma attraverso questi stadi assicura il proprio programma, che è fare della ripetizione la categoria dell’avvenire.61

Ma fare della ripetizione la categoria dell’avvenire significa dire che la ripetizione è il ripetuto dell’avvenire. L’eterno ritorno è la forma più alta del pensiero della differenza perché non rintraccia le differenze, ma le fa. L’eterno ritorno è selettivo,62 selezione solo ciò che è degno di tornare perché la sua formula il suo contenuto è quello di uno s-fondamento.

Non si parla qui di assenza di fondamento tout court come in una forma debole del pensiero, ma l’eterno ritorno afferma ciò che è stato come avvenire o, vale lo stesso, come processo di formazione delle differenze. Il contenuto dell’eterno ritorno sarebbe allora la volontà di potenza come rapporto di forze che acquistano senso solo a partire da una ripetizione che ne estrae la forma superiore. È per questo che l’eterno ritorno non è mai eterno ritorno dell’identico, a tornare non è che il gioco delle forze, ma questo gioco non è determinabile nella loro forma che come a-venire.63 Ma questo significa che l’eterno ritorno è eminentemente creativo e ciò che l’eterno ritorno produce, e che fa ritornare quale corrispettivo della volontà di potenza, è il superuomo, definito come la «forma superiore di tutto ciò che esiste»».64 Eppure codesta forma superiore è simile al disfacimento di una proprietà, ad un informale (nel senso dell’Unförmiliche di Hölderlin), al ritorno dell’informale come unica identità del ritorno: a ritornare non sono che le differenze. La creazione del nuovo, questo è il senso più alto dell’eterno ritorno eppure questo nuovo che non preesiste è la forma estrema (o selettiva) di ciò che è stato e che però e contemporaneo, si forma al tempo stesso del ritorno dell’eterno ritorno (la volontà di potenza come contenuto e come differenza tra le forze). Il superuomo, l’Übermensch non sarà allora che l’impossibilità per l’uomo di tornare la forma superiore che è un disfacimento. A tornare infatti saranno singolarità e non individui, simulacri. Ancora una volta il più proprio del tempo e dell’uomo, il più intimo, la forma superiore, il superuomo, ne sono che il possesso di una improprietà. A tornare non è che il più proprio ma il più proprio è il fuori.

IV

«È noto che agli ebrei era vietato investigare il futuro. La Torah e la preghiera li istruiscono invece nella rammemorazione, ciò liberava per loro dall’incantesimo il futuro, quel futuro di cui sono succubi quanti cercano responsi presso gli indovini. Ma non perciò il futuro diventò per gli ebrei un tempo omogeneo e vuoto. Poiché in esso ogni secondo è la piccola porta da cui poteva entrare il messia».65 La sfiducia riposta nel futuro è una fiducia riposta nell’attesa che allontana il messia in luogo di farlo arrivare esattamente come avviene nelle teorie del progresso, che considerando il tempo un continuo omogeneo e vuoto possono dilatare all’infinito la linea del futuro, ma questa linea è già svincolata dal passato. il tempo del progresso illimitato e vuoto è il tempo di una cesura incolmabile tra ciò che sarà e ciò che è stato, una sorta di presente procrastinato all’infinito. È per questo che il presente finisce allora per essere il luogo in cui tutto è già contenuto seppure in forma di possibilità. Si tratterebbe allora solo di cogliere questa possibilità che però è impossibile non cogliere, prima o poi, poiché l’attuale presente non è che una prefigurazione del futuro che certamente sarà. Il luogo dell’avvenire diviene al contrario in Benjamin il tramonto del futuro. Lo Jetztzeit è il futuro, ma non nella dimensione della promessa ma di una restituito in integrum del passato;66 lo Jetztzeit è il futuro ma solo come redenzione di un passato che è restituito, redento anche se non ancora salvato. E tale restituzione, alla luce di quanto è stato detto, non può che essere una ripetizione. La restituzione è il modo dell’eterno ritorno e in questo senso è già futuro. Ma il passato dell’eterno ritorno non può che essere creazione, e il messia lungi dall’essere l’agente di questa creazione ne è il prodotto. Infatti «l’eterno ritorno non riguarda se non il nuovo, vale a dire ciò che è prodotto nella condizione del difetto e attraverso la mediazione della metamorfosi, ma non fa tornare né la condizione né l’agente; anzi li espelle, li rinnega con tutta la sua forza centrifuga. L’eterno ritorno costituisce l’autonomia del prodotto, l’indipendenza dell’opera».67 Il messia come prodotto sembra allora chiudere le possibilità piuttosto che sfruttarne una particolare che si palesa nel presente. Ma questa chiusura è di un tipo molto speciale perché il contenuto del prodotto dell’eterno ritorno è la differenza. È per questo che l’eterno ritorno è un evento che però non è un kairós, almeno non lo è nella forma che ad esempio Taubes assegna a questo concetto in Paolo di Tarso: «Paolo indica chiaramente il punto di svolta tra apocalittica e gnosi cristiana. Escatologia e mistica in Paolo si incrociano. Contrariamente alla mistica greca e medievale, l’unione tra terreno e ultraterreno non si compie nel cuore dei singoli, «questo» e «quel» mondo, piuttosto si spingono l’uno nell’altro come un sistema di potere chiuso, come un «regno». L’istante in cui «questo» e «quel» mondo si toccano e si spingono l’uno nell’altro è il Kairós. ».68 Ma né per Benjamin né per Deleuze l’evento è un avvento, un punto di svolta che segnerebbe una volta per tutte del tempo compiuto, ma se l’evento è compimento lo è nel tutto in una volta dell’eterno ritorno.69 Eppure tutto lascerebbe pensare che Benjamin quando parla del tempo profano come un tempo che può favorire «l’avvento»70 del regno messianico si riferisca proprio all’arresto in un punto teleologicamente determinato. Ma non c’è teleologia possibile nell’«eternità di un tramonto» che è il compito dell’evento che egli chiama Jetztzeit come cuore del tempo mondano; «e il ritmo di questa mondanità che eternamente trapassa, e trapassa nella sua totalità, non solo spaziale, ma anche temporale, il ritmo della natura messianica è la felicità. Poiché la natura è messianica per la sua eterna e totale caducità». Separare allora, come ci autorizza a fare lo stesso Benjamin,71 evento e Kairós72 diviene essenziale per comprendere come il tramonto sia ogni volta una nuova creazione originale in questo tempo e in questo mondo.73 E questa separazione, che più su riprendendo Deleuze ho chiamato selezione, è il prodotto, il contenuto dell’eterno ritorno che è anche il messia. È per questo che non basta dire che il messianismo di Benjamin è un messianismo senza attesa, è per questo che Benjamin nonostante la sua ammirazione per Rosenzweig non aderisce totalmente alle asserzioni de La stella della redenzione:74 infatti il messia è sempre di là da non venire. Dove il non è da intendersi come la potenza attiva del ritorno.

V

Esiste una apparente contraddizione in Deleuze tra le due proposizioni: esaurire il possibile / creare del possibile. Seguendo la critica bergsoniana al possibile, Deleuze afferma che la possibilità non preesiste alla sua creazione, che il semplicemente possibile è la copia sbiadita del presente, un calco fatto su misura a uno stato di cose e non deve confondersi con il virtuale. Il possibile, il meramente possibile, è allora ciò che va estenuato, esaurito per permettere l’effettivo esercizio della creazione di possibilità. Occorre esaurire il possibile,75 controeffettuare76 l’evento che non è la realizzazione di un possibile, ma dal quale il possibile procede come un prodotto: l’esaurimento del possibile è un atto creativo e non la semplice realizzazione di una certa possibilità contenuta in potenza in uno stato di cose. Esaurire il possibile significa assegnare all’evento il compito di squalificare qualsiasi modello o progettualità politica intesa come ricetta eterna per il banchetto rivoluzionario a favore della creazione di nuove possibilità di vita che non vanno cercate in un passato ipostatizzato: «chi va a frugare nel passato come in un ripostiglio di esempi e di analogie, non ha la benché minima idea di quanto, in un dato attimo, dipenda dalla loro attualizzazione».77 Il paradosso è che queste creazioni (attualizzazioni) non preesistono all’atto creativo: .

Il possibile non preesiste, è creato dall’evento. È una questione di vita. L’evento crea una nuova esistenza, produce una nuova soggettività (nuovi rapporti con il corpo, il tempo, la sessualità l’ambiente, la cultura, il lavoro…). Quando appare un mutamento sociale, non basta trarne le conseguenze o gli effetti, secondo linee di casualità economiche e politiche. Occorre che la società sia capace di formare concatenamenti collettivi, corrispondenti alla nuova soggettività, in modo tale da volere il mutamento. È questa una vera «riconversione».78

Ora questa riconversione è ciò che crea i nuovi concatenamenti che non sono stati sempre lì ad attenderci, come a essere redente sono sempre le generazioni passate e gli oppressi che non ci attendono se non nello Jetztzeit che li convoca. La politica è sempre il compito delle generazioni a venire, quelle che creando ripetono, ed è per questo che non possono essere redente. Il futuro della ripetizione è un generale sfondamento e solo nella ripetizione qualcosa come il messia può baluginare come il redentore delle generazioni oppresse, solo in questo sfondamento si dà il vero stato di eccezione che non crea il diritto né lo mantiene in vigore ma lo distrugge creandolo.79

Abbreviazioni

DR G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina, Milano 1997.

B G. Deleuze, Il bergsonismo e altri saggi, Einaudi, Torino 2001.

CS W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997.

FTP W. Benjamin, Frammento Teologico-politico, in Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Scritti 1919-1922, Einaudi, Torino 1982.


  1. G. Deleuze — C. Carnet, Abecedario di G. Deleuze, Derive Approdi, Roma 2005. ↩︎

  2. Dello stesso avviso sembra essere J. L.Nancy in La piega deleuziana dell’essere↩︎

  3. P, p. 534. ↩︎

  4. La formula è mia e del tutto provvisoria. Si vedano però a tal proposito le considerazioni di C. Boundas in Les stratégie differentielles dans la pensée deleuzienne: «Pour prévenir cette réification, les notions de ««passé immémoriel» et de «futur messianique» (Deleuze préfère parler de pur passé et d’éternelle répétition du différent) sont présentées de manière à sauvegarder l’idée de processus sans recourir à la mortification des tendances qui détermineraient ce processus a tergo ou ab ende» (C. Boundas, Les stratégie differentielles dans la pensée deleuzienne, in Alain Beaulieu , a cura di, Gilles Deleuze. Héritage philosophique, Puf, Paris 2005, p. 24). ↩︎

  5. G. Deleuze, L’immagine — tempo. Cinema 2, Ubulibri, Milano 1989, pp. 190-192. ↩︎

  6. CS. Per molti anni in Italia lo scritto è stato conosciuto con il titolo Tesi di filosofia della Storia con il quale era stato pubblicato nell’antologia Angelus novus. Saggi e frammenti pubblicato da Einaudi nel 1962 a cura di Renato Solmi al quale si deve anche l’introduzione al volume per molti anni l’unico tentativo di interpretazione complessiva del pensiero di Benjamin in lingua italiana. ↩︎

  7. Purtroppo non possiamo ripercorrere qui la storia della redazione di Über den Begriff der Geshichte ma essa si è complicata dopo il ritrovamento nel 1981 da parte di Giorgio Agamben di un esemplare dattiloscritto che reca vergata a mano la dicitura Handexemplar che lascerebbe pensare ad una copia personale dello stesso Benjamin continuamente rielaborata, supposizione avvalorata da correzioni e aggiunte non recepite negli altri esemplari e da una diversa numerazione delle tesi. ↩︎

  8. CS, p. 55. ↩︎

  9. Cfr Matteo 16, 18 sgg. ↩︎

  10. Cfr il mio scritto precedente la discussione di Derrida e della temporalizzazione della traccia. ↩︎

  11. CS, p.23. ↩︎

  12. CS, p. 27. L’espressione, citata da Benjamin nella VI tesi appartiene all’introduzione di Geschichte der romanischen und germanischen Völker von 1494 bis 1535 di L. von Ranke. ↩︎

  13. CS, p. 45. ↩︎

  14. Cfr tesi XIV e tesi XVIII (nell’esemplare di Über den Begriff der Geshichte ritrovato da G. Agamben tesi XIX come egli stesso spesso ci ricorda). Nella prima edizione italiana di Über den Begriff der Geshichte, jetztzeit è stato reso dal traduttore R. Solmi con «Tempo-ora», la revisione di questa traduzione recita oggi, più vicino all’uso corrente del termine nella lingua tedesca nella quale ha il significato di attualità, nella antologia Angelus Novus: tempo attuale. Lo stesso Benjamin sembra avere avuto difficoltà di traduzione per Jetztzeit. Possediamo infatti un esemplare in lingua francese di Über den Begriff der Geshichte nel quale jetztzeit è reso dall’autore/traduttore Benjamin con «presente». Giorgio Agamben in Id, Il tempo che resta. Un commento alla lettera ai romani, Bollati Boringhieri, Torino, 2000, propone coerentemente con le analisi svolte nel suo libro di intendere, sulla scorta del paolino ho nyn kayrós, jetztzeit con «il-di-ora-tempo». ↩︎

  15. Cfr F. Nietzsche, Considerazioni inattuali II, «sull’utilità e il danno della storia per la vita», Adelphi, Milano 1964 - , III, I. ↩︎

  16. CS, p. 93. ↩︎

  17. Ibidem↩︎

  18. È ben singolare che Nietzsche nel far valere le stesse pretese benjaminiane in genealogia della morale rifiuti il termine Ursprung. Come ha visto Foucault: «Perché Nietzsche genealogista rifiuta almeno in certe occasioni, la ricerca dell’origine (Ursprung)? Innanzitutto perché in essa ci si sforza di raccogliere l’essenza esatta della cosa, la sua possibilità più pura, la sua identità accuratamente ripiegata su se stessa, la forma immobile ed anteriore a tutto ciò che è esterno, accidentale e successivo. […] Là dove le cose iniziano la loro storia, quel che si trova non è l’identità ancora preservata della loro origine, - ma la discordia elle altre cose il disparato. […] l’origine è sempre prima della caduta, prima del corpo, del mondo e del tempo; è dal lato degli dèi e a raccontarla si canta sempre una teogonia. » (M. Foucault Nietzsche, la genealogia, la storia, in Id, il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, Einaudi, Torino 2001, pp. 45-46. Il termine che Nietzsche usa in vece di origine è nella maggior parte dei casi Herkunft che indica la provenienza, ma una provenienza che non è un passato schlerotizzato. Infatti la parola Herkunft presenta in sé la radice Kunft (come in Zukunft oppure nell’aggettivo Zukünftig) che indica la posterità. La Herkunft è un’origine rintracciata a partire dal futuro. ↩︎

  19. W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, in Opere complete II. Scritti 1923-1925, Einaudi, Torino 2001, p. 87. ↩︎

  20. Ibidem↩︎

  21. CS, p. 93. ↩︎

  22. FTP, p. 203. ↩︎

  23. Questo spiega anche molto bene perché Benjamin utilizzi il termine Jetztzeit e non Kairós↩︎

  24. CS, p. 55. G. Agamben in Id, Il tempo che resta, offre una interpretazione in chiave Paolina del messianismo di Benjamin. L’interpretazione è convincente e documentata. Agamben tenta di dimostrare come lo Jetztzei derivi direttamente dallo o nyn Kairós, scoprendo in Paolo il teologo segreto che compare nella prima tesi Sul concetto di Storia che restando nascosto muoverebbe il fantoccio del materialismo storico. Tuttavia credo che se da una parte è innegabile la presenza di temi cristiani nella produzione di Benjamin e soprattutto nelle tesi Sul concetto di storia, si veda la figura dell’Anticristo, dall’altra bisogna stare molto attenti a schiacciare Benjamin sul Kairós paolino; come bisogna stare attenti a non farlo coincidere con il messianismo di matrice ebraica come sembra fare G. Scholem («[…]una trasposizione di termini» tra messianismo ebraico e ciò che egli chiama Teologia della rivoluzione) tra gli altri. Con Benjamin abbiamo a che fare con una nuova concezione, realmente inedita che usa il messianismo come una immagine dialettica del processo stesso del tempo e della storia. ↩︎

  25. G. Agamben, Walter Benjamin e il demoniaco, in Id, La forza del pensiero, Neri Pozza, Vicenza 2005, p. 234. ↩︎

  26. P, p. 14. ↩︎

  27. CS, p. 49. ↩︎

  28. E. de Conciliis, La redenzione ineffettuale. Walter Benjamin e il messianismo moderno, La Città del Sole, Napoli 2001, p. 586. ↩︎

  29. P, p. 1063. ↩︎

  30. FTP, p. 203. ↩︎

  31. GS, V, 578. ↩︎

  32. DR, p. 97. ↩︎

  33. Cfr DR, pp. 95-100. ↩︎

  34. DR, p. 103. ↩︎

  35. DR, p. 98. ↩︎

  36. Cfr DR, p. 100. ↩︎

  37. Cfr DR, p. 104. ↩︎

  38. Il termine non è deleuziano ma mi sembra possa essere accettato in relazione a quanto Deleuze dice della rivoluzione operata da Kant rispetto al Cartesiano. Cartesio pone in relazione un essere determinato e il pensiero come determinazione immediata dell’essere. La determinazione del pensiero nella forma del cogito ergo sum implica un modo del pensiero che si fa determinazione di un modo d’essere indeterminato: L’ io penso determina immediatamente l’io sono una sostanza pensante. Kant introduce secondo Deleuze al centro del cogito il tempo come mediazione tra pensiero ed essere, «forma sotto la quale l’indeterminato risulta determinabile» (DR, p. 115). «kant ha visto una frattura , là dove Cartesio credeva di essere in una sorta di continuità irrefutabile. Perché il percorso da «io penso» a «io sono» funziona? Ancora una volta, è vero, la determinazione implica qualcosa di indeterminato da determinarsi attraverso la determinazione. Ma questo secondo Kant non dice ancora la forma sotto la quale l’indeterminato, cioè l’»io sono» è determinabile dalla determinazione. […] Cartesio pensava che ci fosse un continuum. La determinazione era «io penso»; l’esistenza indeterminata era «io sono»; la determinazione che determinava l’indeterminato era «io sono una cosa che pensa». Per Kant: «io penso» = determinazione; «io sono» = esistenza indeterminata implicata dall’»io penso»; perché ci sia la determinazione occorre che ci sia qualcosa da determinare […]. […] [In Kant] si danno quattro termini la determinazione, l’indeterminato, la forma del determinabile e il determinato.». (G. Deleuze. Fuori dai cardini del tempo. Lezioni su Kant, Mimesis, Milano 2004, p. 91). ↩︎

  39. DR, p 102. ↩︎

  40. F. Zourabichvili, Deleuze. Una filosofia dell’evento, Ombre corte, Verona 1998, p. 79. ↩︎

  41. DR, p. 107. ↩︎

  42. I saggi che Deleuze dedica a Bergson sono stati ripubblicati in B. ↩︎

  43. C, p. 157. ↩︎

  44. Cfr B, p. 42. ↩︎

  45. DR, p. 109. ↩︎

  46. G. Deleuze, Attuale e virtuale, in Conversazioni, cit., p. 160. Qui il riferimento è al primo grande schema bersoniano che mostra la coesistenza di attuale e virtuale. L’importanza di tale schema risiede nel circuito più piccolo, quello in cui l’oggetto (O) coesiste immediatamente con il passato che già è (cerchio A): «c’est le creusement su circuit «sur place», minimal au travers de la figure du cône culbuté, qui permet d’évacuer la capture du temps dans les rets d’une psychologie de la conscience, d’une expérience phénoménologique des états mentaux du souvenir et du rêve et de passer au passé pur en soi — passé pur qui n’est autre que ce niveau ontologique qui rend possible la constitution du royaume psychique, le saut de l’être virtuel au vecu» (V. Bergen, L’ontologie de Gilles Deleuze, L’Harmattan, Paris 2001, p. 289). ↩︎

  47. Il passaggio non è del tutto pacifico, ma credo che non sia del tutto irrilevante provare una soluzione di questo tipo, che potrebbe facilitare la comprensione del ruolo del precursore buio altrimenti di difficilissima esplicazione. Deleuze indica tre caratteri dell’intensità: i] “La quantità intensiva comprende il disuguale in sé”. Ricordiamo che questo sembrava essere proprio il carattere che Nietzsche assegnava alla forza come pura forza di relazione (la quantità della forza è determinata dalla differenza di quantità nel rapporto con un’altra forza); ii] “comprendendo il disuguale in sé l’intensità afferma la differenza.[…] La negazione è l’immagine rovesciata della differenza, cioè l’immagine dell’intensità vista dal basso […]”. Le forze attive non solo affermano la differenza ma la fanno, solo le forze reattive separano una forza da ciò che essa afferma; iii] “l’intensità è una quantità implicata, inviluppata, ridotta a embrione.” La forza in Nietzsche non è separabile dalla volontà di potenza che ne principio e determinazione. La forze sarebbero inviluppate senza la volontà di potenza. (Cfr. G. Deleuze, Differenza e ripetizione, pp. 287-310) L’intensità in Differenza e ripetizione allora sarebbe ciò che fa comunicare Nietzsche con Bergson. ↩︎

  48. Questo è l’altro schema che illustra la scissione del presente e che, come ricorda Deleuze, “Bergson non sente il bisogno di disegnare” (G. Deleuze. Cinema 2. L’immagine tempo, cit., n. 22 p. 96). ↩︎

  49. B, p. 49. La famosa immagine bergsoniana del cono rovesciato rappresenta la coesistenza di tutto il passato AB con il presente puntuale S che ne è la massima contrazione. ↩︎

  50. DR, p. 110. ↩︎

  51. È bene ricordare come l’eterno ritorno non sia mai oggetto di una esposizione ampia da parte di Nietzsche che affida sempre lr comunicazioni dell’eterno ritorno ai personaggi delle sue opere: l’eterno ritorno «è soltanto annunciato, presentato con orrore o con estasi […]» (G. Deleuze, Sulla volontà di potenza e l’eterno ritorno, in Divenire molteplice, Ombre Corte, Verona 1996, p. 34). Nella seconda di queste comunicazioni che Nietzsche svolge ne Il convalescente, Zarathustra ancora malato e debole parla con i suoi animali e la discussione è sufficiente a farlo addormentare e a renderci almeno chiaro che cosa non sia l’eterno ritorno. L’eterno ritorno non è il tempo ciclico e meccanico, non è l’eterno ritorno dell’identico: «[…] voi ne avete già fatto una canzone da organetto» (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 1964 —, VI, I, p. 266. ↩︎

  52. J. L. Borges, Funes, o della memoria,in Id. , Opere, Mondatori 1984. ↩︎

  53. Idem, p. 713. ↩︎

  54. B, p. 95. ↩︎

  55. DR, p. 285. ↩︎

  56. Cfr par. V. ↩︎

  57. J. L. Borges, Funes, o della memoria, cit. , p. 707. ↩︎

  58. CS, p. 290. ↩︎

  59. G. Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli, Milano 2006, p. 134. ↩︎

  60. Cfr DR, p. 121. ↩︎

  61. DR, p. 124. ↩︎

  62. Cfr DR, p. 163 e G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, Einaudi, p. 103. ↩︎

  63. Cfr DR, pp 80-82 120-123. ↩︎

  64. G. Deleuze, Sulla volontà di potenza e l’eterno ritorno, in Divenire molteplice, Ombre Corte, Verona 1996, p. 37. ↩︎

  65. CS, p. 57. ↩︎

  66. Cfr FTP La restitution in integrum e la felicità conseguente così come appaiono nel frammento teologico-politico sembrano essere una sorta di tiqqun che non restituisce il mondo ricomposto dopo la rottura dei vasi narrata dai mistici ebraici e che avrebbe prodotto il nostro mondo e con esso il male. Al contrario sembra essere un mondo in cui la vera ricomposizione sia l’assenza della pacificazione introdotta dal positivismo e dalla sua concezione determinista della storia. La felicità in Benjamin è la qualificazione di una sproporzione afferrabile infatti come immagine dialettica: «Là dove il movimento si arresta in una costellazione satura di tensioni, appare l’immagine dialettica. Essa è la cesura nel movimento del pensiero. Naturalmente il suo non è un luogo qualsiasi. In breve essa va cercata là dove la tensione tra gli opposti dialettici è al massimo. Per questo l’immagine dialettica è lo stesso oggetto storico costruito nell’esposizione dialettica della storia. Essendo identica all’oggetto storico, essa giustifica la sua estrapolazione dal continuum del decorso storico» (Walter Benjamin, P, p. 534). ↩︎

  67. DR, p. 121. ↩︎

  68. J. Taubes, Escatologia occidentale, Garzanti, Milano 1997, p. 97. ↩︎

  69. Cfr G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit. , p. 42. ↩︎

  70. CFR, FTP. ↩︎

  71. Nella tesi XVII (La XVIII nel manoscritto rinvenuto da Agamben) di Über den Begriff der Geshichte (CS, pp. 54-55), Benjamin per indicare l’instantaneità dell’irruzione di una chance rivoluzionaria sulla scena della storia, introduce la parola tedesca Augenblick che a prima vista sembra ricoprire lo stesso spettro concettuale della parola tedesca Jetztzeit. A ben guradare, invece Augenblick, svolge un ruolo importante nel ritagliare definizione di ciò che Benjamin intende con jetztzeit. Augenblick infatti è termine usato per indicare l’attimo della possibilità di una «Chance rivoluzionaria», ma per l’appunto questa rimarrebbe una pura chance, una possibilità depositata e disattivata senza una riattivazione del passato che però si ha solo sotto forma di evento o Jetztzeit↩︎

  72. L’avvicinamento di Evento e Kairós risulterà meno invasiva se andiamo a verificare quanto il Kairos sembra condizionare il concetto di evento in Heidegger. Nel corso del 1920/21 (M. Heidegger, fenomenologia della vita religiosa, Adelphi, Milano 2003), Heidegger, commentando le lettere di Paolo, si concentra sul concetto di kairós indicandone l’assoluta centralità nel pensiero occidentale. Il kairós, l’attimo in cui venuta e attesa del Messia divengono indistinguibili, non è soltanto una cesura operata sul tempo cronologico, come appare già chiaramente nelle lettere di Paolo di Tarso, ma una vera e propria chiamata all’attesa urgente del messia, attesa tanto necessaria quanto ineludibile nel suo essere finalmente il modello dell’apocalisse. La lettura delle lettere paoline sarà tanto importante, come egli stesso sottolinea (cfr M. Heidegger, Besinnung, in Gesamtausgabe, vol. 66, Klostermann, Frankfurt 1997 , pp 414-418), nella redazione in chiave esistenziale della costituzione della temporalità autentica della chiamata in Essere e Tempo e dell’approfondimento in chiave ontologica che ne fa nell’opera segreta dei Beiträge zur Philosophie (cfr M. Heidegger, Beiträge zur Philosophie (vom Ereignis), Gesamtausgabe, vol. 65, Klostermann, Frankfurt 1989). Tanto più che la Kehre, più che una vera e propria svolta, mi sembra essere proprio questo ispessimento in chiave ontologica del Kairós in cui l’attesa urgente del messia si configura come la necessità dell’evento dell’essere come evento della sua essenza sempre a-venire. Il tempo dell’essere o dell’evento d’essere (cfr. M. Heidegger, Beiträge zur Philosophie (vom Ereignis), cit., p. 266) è sempre il tempo che sta per venire ed è in procinto di arrivare sempre come ripetizione dell’origine. Ora, però questa ripetizione, se da un lato è un salto (cfr M. Heidegger, Il principio di ragione, Adelphi, Milano 1991, p. 109) che conduce fuori dal pensiero del fondamento che riferisce l’essere all’ente; dall’altro è un destino a cui l’essere sembra consegnato. Ma è proprio questa destinalità dell’essere e questo differimento, non nel tempo, certo, ma nello stesso evento dell’essere, che separa il pensiero del kairós, dell’evento, da quello dello jetztzeit benjaminiano e dalla filosofia dell’evento di Deleuze. ↩︎

  73. Non è un caso infatti che Benjamin ci tenga a sottolineare come lo Jetztzeit non sia l’arrivo del messia e il compiersi della salvezza ma il «modello del tempo messianico» , sia cioè una potenza temporale che bisogna attualizzare ma il cui contenuto va di volta in volta reso manifesto (creato): «la figura che la storia dell-umanit’ fa nell’universo» (CS, p. 55). ↩︎

  74. Per Rosenzweig il messianismo è una assenza di attesa, bisogna «[…] «voler far venire il messia prima del suo tempo». […] Il futuro non è affatto futuro, ma solo un passato trascinato per una lunghezza infinita» (F. Rosenzweig, La stella della redenzione, Marietti, Casale Monferrato 1995, p. 245). Ciò che qui sembra contare è il volere che accorcia il tempo. Tuttavia Benjamin, come del resto Deleuze, esclude qualsiasi tipo di volontarismo dalla sua filosofia.Credo sia questo il carattere più proprio del suo speciale materialismo storico con il quale si definisce la parte fianale e tragicamente interrotta della sua riflessione filosofica. ↩︎

  75. G. Deleuze, l’esausto, Cronopio,Napoli 1992 p. 9. In realtà credo che per tale concetto si possa ricorrere a uno scritto di Hölderlin che Deleuze non cita: Das werden im Vergehen, in Scritti di estetica, Mondatori, Milano 1996, pp. 89-94. Il richiamo a Hölderlin mi sembra giustificato dall’ampio uso del pensiero Hölderliniano che Deleuze fa soprattutto in Differenza e ripetizione nel quale il poeta tedesco compare anche nella bibliografia commentata con accanto la nota «La differenza, la forma del tempo, la cesura» (DR, p. 395, e ancora DR pp. 122-123). Hölderlin in questo scritto molto complesso, (come dice Heidegger ai limiti della comprensibilità) definisce i rapporti tra tragedia e dileguare, anzi questo dileguare sembrerebbe ciò che caratterizza la tragedia nel suo più proprio essere. Ma questo dileguare lungi dall’essere rappresentazione della morte diviene carattere attivo e produttivo della creazione del nuovo in una ripetizione che esaurendo il computo matematico dei possibili riattiva una nuova sorgente di possibilità: «[…] la dissoluzione dell’individuale ideale non appare come indebolimento o morte, ma come rinascita, crescita; la dissoluzione dell’infinitamente nuovo non appare come violenza distruttiva ma come amore, ed entrambe come un trascendentale creativo» (Das werden im Vergehen, cit., p. 95-96). ↩︎

  76. C, p. 70. ↩︎

  77. CS, p. 85. ↩︎

  78. G. Deleuze — F. Guattari, Mai ’68 n’a pas eu lieu, in G. Deleuze, Deux regimes de fous : textes et entretiens 1975-1995, Minuit, Paris 2003. ↩︎

  79. Cfr, Per una critica della violenza, in Angelus novus, Einaudi, Torino 2006, pp. 5-30 e tesi numero VIII (CS, p. 33). ↩︎