«Philosophia crucis». La kenosi nel pensiero di L.P. Karsavin e la sua attualità per il dialogo interreligioso

1. Introduzione

Il tema della kenosi di Cristo non è un tema tipico della cristologia ortodossa. Eppure esso venne recepito con molto interesse dal mondo sia filosofico che teologico russo nel periodo tra la seconda metà dell’800 e la prima metà del ’900.1 Quanto alla teologia, il tema interessò un gruppo di teologi particolarmente critici nei confronti della «teologia scolastica» delle accademie teologiche dell’epoca, impegnati nell’aprire una strada al suo rinnovamento.2 Un rinnovamento che, però, intendeva basarsi su un’interpretazione puramente «moralista» dei dogmi, priva di un qualsiasi riferimento alla metafisica, come anche al patrimonio teologico-spirituale della tradizione ortodossa e, allo stesso tempo, un’interpretazione aperta alle sollecitazioni della teologia protestante. E fu proprio grazie a quest’apertura che nella teologia ortodossa russa iniziò a nascere e a svilupparsi il cosiddetto «kenotismo» che, cogliendo giustamente la centralità della croce per la religione cristiana, si limitò a comprendere la kenosi di Cristo nella prospettiva manualistica di una teologia di satisfactio.

Quanto alla filosofia, l’interesse per il tema venne colto da alcuni filosofi religiosi dell’«età d’argento» — di un periodo, cioè, particolarmente fecondo per un ampio e vivace dibattito sul rinnovamento della filosofia, che fece nascere un gran numero di valorose opere filosofiche3 — i quali, radicati nelle intuizioni dello slavofilismo4 e in sintonia con la prospettiva filosofica di V.S. Solov’ev,5 diedero un contributo originale alla sua comprensione e approfondimento. Si tratta, in particolare, di P.A. Florenskij,6 S.N. Bulgakov7 e L.P. Karsavin.8 Il presente saggio concentra l’attenzione sull’ultimo di loro e ciò per alcune ragioni.

Prima di tutto, perché si tratta di un filosofo che merita di essere studiato per le originali prospettive che offre il suo pensiero, in quanto l’opera di Karsavin rappresenta un audace tentativo di unire il «vigore sistematico»9 della speculazione filosofica alla riflessione teologico-mistica, radicata nel patrimonio spirituale dell’antica tradizione dell’Ortodossia. Si potrebbe dire assieme alla Fides et ratio, che in lui si ha un significativo esempio «di un cammino di ricerca filosofica che ha tratto considerevoli vantaggi dal confronto con i dati della fede» (n. 74). Karsavin, poi, ha catturato la mia attenzione per il fatto di essere un filosofo che ha messo al centro del suo pensiero il tema della croce/kenosi, al punto da considerarlo una vera e propria chiave ermeneutica che gli ha permesso di scrutare gli orizzonti e le profondità dei più importanti temi della filosofia e della teologia. E infine, la mia scelta di Karsavin è stata motivata anche dalla sua attenzione al dialogo con le altre religioni.10 Tema che sempre di più interpella il mondo non solo teologico, ma anche filosofico. Esso invita a elaborare i principi di un’ermeneutica del dialogo, in grado di raggiungere un livello sempre più alto e stabile di intesa tra le religioni che, vissuto nello spirito di reciproca stima e rispetto, salvaguarda le loro singolari diversità.

Il saggio sarà strutturato in tre parti. Nella prima presenterò la fondazione trinitaria dell’idea karsaviniana della kenosi di Cristo, ossia la sua visione staurologica della vita intratrinitaria di Dio. Nella seconda metterò a fuoco la fondazione staurologica dell’idea della creazione e dell’antropologia di Karsavin, per accennare, nella terza parte, all’approccio kenotico-staurologico col quale egli affronta — seppur non sistematicamente — il tema del fenomeno religioso e del rapporto tra il cristianesimo e le altre religioni.

2. La kenosi in Dio: la Croce nella Trinità

Il nome di Gesù Cristo appare spesso sulle pagine delle opere di Karsavin, ed esso viene pronunciato con una profonda convinzione nella sua assoluta centralità storica. Secondo il filosofo russo «Gesù Cristo costituisce il reale centro e culmine della storia universale. Per mezzo di lui essa diventa possibile e reale, così che il presente, il futuro e il passato con lui parimenti cominciano».11 Occorre, però, subito ricordare che Karsavin si riferisce a un Cristo, la cui vita si fonda in ogni suo istante sulla kenosi e sul dono di sé, su quell’atteggiamento, cioè, in cui sta la «pienezza dell’Amore divino».12 Si tratta di una puntualizzazione importante, che apre la prima porta d’accesso non solo alla cristologia del Nostro, ma anche a tutto il suo pensiero. Si potrebbe dire — parafrasando san Paolo (cfr. 1Cor 2, 2) — che Karsavin non sa altro che Gesù Cristo, e «questi crocifisso». Un Cristo, insomma, il quale — come viene scritto, con i toni vivaci e volutamente provocatori, nel Poema sulla morte (1932), la sua principale opera — non insegnò come eliminare la morte, ma che volle mostrare che la Vita si raggiunge solo «attraverso la Morte».13 Una morte che, testimoniata da Gesù sulla croce, provoca e turba per l’infinita gratuità di un cuore amante. Karsavin — in forma di un monologo, ironico ma sincero, di chi rimane toccato da una tale misura dell’amore, al punto da sentirsi interpellato ad amare come Cristo — scrive:

E che, dunque, Dio mio, Cristo mio? — Siamo infelici entrambi. Non Ti hanno aiutato la Tua sapienza, la tua onnipotenza: le ha vinte il Tuo amore per me. Tu sei diventato il mio umile schiavo… […]. Il Tuo amore ha ingannato la tua sapienza, ed è andato sprecato il Tuo grande sacrificio. In realtà non si sa perché il Padre Ti abbia abbandonato. […] E che? Vivremo insieme questa vita imperfetta, eternamente ci tormenteremo all’inferno, io per i peccati, Tu soltanto per l’amore nei miei confronti e senza colpa… Tu non mi lascerai. Potrò sempre sentire la Tua voce piana e serena, e se anche non posso vederlo, posso sentire il Tuo sguardo mite e afflitto. […] Tu mi insegnerai, Tu già mi insegni ad aver compassione e ad amare il nostro misero mondo. D’altro canto ne conosco forse un altro? Tu mostri come anche in esso risplenda la Tua incorruttibile bellezza. E comincio ad amare le sue stesse imperfezioni, a benedire la sofferenza. […] Ma Tu non condannarmi, come fanno gli altri, quando griderò e piangerò, proprio come un bambino. — Tu stesso a gran voce gridasti sulla Croce e sai che grida e pianto non impediscono di soffrire in maniera appena percettibile, ma luminosa, avendo visto che sono piacevoli per me i singhiozzi che bruciano la gola, e sono talvolta anche troppo seri. Tu benedici anche la fragile-commossa pazienza, sapendo che essa deriva dal lungo tormento e da turbamenti assurdi. Sai che essa è la stanchezza di una vita impotente. Ma Tu richiedi uno sforzo smisurato, quale Tu solo sei capace di chiedere senza costrizioni. Ed ecco che io non soltanto con te pazienterò, ma vivrò, vivrò tutta la vita, cosa di cui è capace soltanto il nostro mondo impotente. Non dubiterò una volta sola della forza del sacrificio: è insufficiente l’amore, mi fa paura la sofferenza. Ma tu mi darai le forze per fare tutto ciò che soltanto vorrò. E talvolta mi sembrerà che si risvegli in me il mondo e che si scuotano i suoi principi eterni — naturalmente anche l’inferno ha i suoi sogni. Sognerò che si leva una grande tempesta… Oh! Io lo so, essa è in Te. Tu sei re. Soltanto un re può soffrire così.14

Le parole di Karsavin colgono la drammaticità del sacrificio di Cristo e della sua morte, compresa come il più eroico gesto d’amore, una drammaticità che viene colta e descritta, con i tratti quasi naturalistici, anche dagli esponenti già ricordati del kenotismo russo. Ma a differenza di questi ultimi, il filosofo russo sente la necessità di comprendere la kenosi e la morte di Gesù Cristo in chiave trinitaria, e ciò perché il Crocifisso è e rimane sempre «una persona o ipostasi [che è] nell’Essere triipostatico».15

Si tratta senz’altro di un’intuizione che, elaborata teologicamente, venne conosciuta soprattutto grazie a Bulgakov.16 Essa, comunque, estranea al suo approfondimento in chiave sofiologica, tipico della «grande trilogia» di Bulgakov,17 viene in Karsavin sviluppata per mezzo di un approccio speculativo al dogma della Trinità. Per fare ciò il Nostro parte dalla domanda sul vero significato della morte di Gesù. Una domanda importante, perché il fatto che «Gesù, morendo — e noi non dubitiamo che Egli è morto veramente (nel senso che non si è trattato di una morte solo immaginaria) —, consegna la Sua anima, la Sua vita, per i Suoi fratelli, vuol dire anche qualcos’altro»:18 rivela, cioè, l’intensità dei rapporti tra Gesù Cristo, la Parola di Dio incarnata, il Padre e lo Spirito Santo, e, di conseguenza, rende più vicino il grande mistero dell’esistenza trinitaria di Dio.

Tutto quello che Gesù vive e fa, e soprattutto la sua morte, sono da comprendere come un’esistenza kenotica che ha le sue radici in Dio-Trinità. «Cristo-Logos è insieme la Vita Eterna, la Verità e la Risurrezione, perché Egli consegna la vita datagli dal Padre, una Vita Sacrificale, e anche perché, vivendo nell’unità con lo Spirito Santo ed esistendo in quest’unità, Egli risorge e perciò vive eternamente attraverso la morte che è, appunto, una totale Consegna di Sé (Samootdaca)».19 Si tratta, certo, di un’esistenza unica e irrepetibile di Gesù di Nazareth, ma allo stesso tempo — come venne notato già ne La colonna e il fondamento della Verità (1914) di Florenskij20 — di un’esistenza tipicamente trinitaria, ossia «tipica» di ognuna delle tre Ipostati divine. Riflettendone ne La Sofia terrena e celeste (1922), uno dei suoi primi importati saggi filosofici, Karsavin scrive:

Stupenda, stupenda è la vita della Pienezza! — Eternamente genera il Padre, eterno è il soffio che esce dalla sua bocca facendo nascere la Parola. Eternamente egli tutt’intero risuona nella Parola e tutto soffia nel soffio, ma in ciò sono tutto anche la chiara Parola e lo Spirito. Anche il Figlio pronuncia eternamente il nome amato del Padre, nominando il nome del suo Spirito; la Nube illumina eternamente tutto ciò che è in essa: se stessa e lo Spirito. E anche lo Spirito si riversa eternamente, come un torrente violento, uscendo dall’Abisso abissale, che genera il Figlio; ma riversandosi eternamente nel Padre, lo Spirito è anche nel Figlio; si fonde con entrambi, unisce i separati, salvaguardando nell’unità la trinità.

Stupenda è la misteriosa via di Dio Ineffabile. Egli entra interamente nel Figlio e nello Spirito, e nell’unirsi ai due ritrova se stesso. Stupenda è la via di Colui che nasce. — Egli muore completamente in Chi lo genera, fondendosi nuovamente con lo Spirito e, contenendo entrambi, ritrova se stesso. Stupenda è la via dello Spirito: amorosamente riversa tutto se stesso nel Figlio e anche nel Padre e, avendoli uniti e unendosi a loro, ritrova entrambi in se stesso. Come sei pieno, come sei bello, Pleroma della Vita Divina! Come sei bello nel tuo perfetto movimento, nello scambio inscambiabile tra la Vita e la Morte, nell’eterna unione della trinità e dell’unità!21

Secondo Karsavin, vi è un’unica strada per poter almeno intuire la ragione di una tale esistenza kenotica delle tre Ipostasi. Quella indicata già da Giovanni quando scrisse: «Dio è Amore» (1Gv 4, 8. 16). Sia la kenosi — vissuta come consegna di sé (samootdaca) — che l’autoaffermazione sono due lati dell’Amore, anche se solo la kenosi è la sua vera essenza e il suo fondamento. «Chi ama veramente consegna semplicemente se stesso: colui poi che lo afferma è l’amato. L’Amore è il movimento di autoconsegna (libera o, nel caso di un amore imperfetto, infausta) ad un altro, ma anche l’autoaffermazione di sé attraverso l’autoconsegnarsi di un altro assieme all’autoaffermarsi di una persona superiore (dueuna), un autoaffermarsi che anch’esso non è altro che una consegna o donazione di sé. Senza un amore così non vi è e non vi può essere la vita. […] [Perché la] Vita è una circolazione dell’Amore e il più concreto Amore consiste nell’affermativa autoconsegna di chi fa di sé un dono».22

Infatti, il senso dell’espressione «Dio è Amore» sta nel richiamare attenzione proprio su una tale dinamica kenotico-agapica della vita trinitaria di Dio. Una dinamica che Karsavin descrive così:

Il Primo della Trinità è l’Amore, quale principio, origine, sostegno e meta dell’Amore. Il Secondo è l’Amore che in Sé separa la Protounità al Primo e al Secondo, l’Amore-Autoconsegna, l’Amore-Sacrificio. […] Il Primo è ineffabile in Sé Stesso: Egli è la non-Verità e il non-Amore, il non-Amante e il non-Amato. Ma Egli ama: ama nel Secondo e attraverso il Secondo, e amandolo fa di Lui una Perfetta Immagine di Sé. Abbiamo già deciso di chiamare il Secondo la Morte Divina. Ora questa Morte Divina ci fa capire che l’Autoconsegnarsi o il Sacrificio dell’Amore Divino non è passivo in quanto esso non viene determinato dal desiderio di autoaffermazione da parte di un altro, ma è attivo, in quanto afferma un altro da sé donando ad esso se stesso. […] Il Terzo, ipostatizzando la Volontà del Primo, conferma il Secondo nella Sua Consegna di Sé e “comunica” al Primo la Consegna del Secondo, trasformando la Morte del Secondo nella Risurrezione.23

È evidente che il filosofo russo intravede lo «scandalo della croce di Cristo» al centro del mistero di Dio, della sua vita trinitaria. La Croce è la Legge eterna della «reciproca inabitazione» che unisce i Tre diversi in un unico e assoluto Uno, la Legge di quel particolare modo di esistenza che viene rivestito del mistero dell’essere-Uno e dell’essere-Tre di un unico Dio.

Ed è per questo che Karsavin aspira a diventare un filosofo-poeta24 della tragica grandezza della Morte. Perché nella Morte giace il mistero della Vita. Perché la Croce, segno della Morte, «circondata da una corona di rose fiammeggianti, è nell’ardente cuore di Dio».25

3. La kenosi di Dio e la creazione: un altro di Dio in Dio

Non finisce, però, qui la comprensione kenotica o staurologica del mistero di Dio. Karsavin parla della kenosi di Dio anche in riferimento all’atto della creazione e all’esistenza stessa del creato/uomo.

Già la stessa creazione è, da parte di Dio, un atto di kenosi. In Lui, infatti, — che è il Tutto, fuori del Quale non vi è l’essere; che è l’Unità e la Libertà assolute; che è il «non aliud»26 — nasce, in un certo momento, un «qualcosa», un «punto infimo» ma libero che si contrappone a ogni altro da sé. «E Dio si ritrova separato, diviso tra l’infimo e libero punto e l’assoluta necessità».27 Vista in questa prospettiva — tipica della mistica cabalistica,28 conosciuta e stimata dal Nostro —, la creazione è un atto di cui è capace solo un Dio che è Amore. Un Amore libero, pieno e perfetto che non si arresta davanti a nessun ostacolo. Certo, a causa dell’assoluta unicità di Dio non vi è nessuno che Egli potrebbe amare se non Se stesso. Ma Dio non si chiude in Sé e, amando colui che non esiste ancora, «trasforma» la Sua assoluta realtà in quella empirica. Questa trasformazione corrisponde alla creazione che, dunque, dev’essere compresa come «autoconsegna del Creatore al creato, un’autoconsegnarsi totale e, perciò, realizzato attraverso la Morte».29

La kenosi di Dio, però, non sta solo nel Suo essere limitato dalla libertà di un altro da Sé. Essa, secondo Karsavin — ispiratosi all’idea della divinizzazione, tipica della tradizione teologica dell’Oriente cristiano — sta nel fatto che la creazione, e soprattutto la creazione dell’uomo, consiste, da parte di Dio, nel porre accanto a Sé un altro che aspira a essere Dio. Per dirla con le sue stesse parole: «Dio si rimpicciolisce fino al Rinnegamento di Sé diventando un non-essere assoluto, affinché l’uomo possa esistere e diventare Dio. Con il Rinnegamento di Sé Dio rende possibile l’esistenza dell’uomo, con il Suo farsi piccolo rende possibili la sua perfezione e la pienezza della sua divinizzazione».30

Detto ciò, diventa chiara l’apertura della riflessione Karsaviniana sulla kenosi di Dio all’orizzonte antropologico. L’uomo è colui che è destinato a essere Dio, a vivere la Sua stessa Vita, a essere il Suo Pleroma. «Tu mi facevi largo», — dice a mo’ di preghiera l’Autore de Il poema sulla morte — «mi donavi tutta la Tua Vita; mi pregavi di diventare Dio al posto Tuo. Tu volevi morire della Morte totale, terribile, purché io vivessi e diventassi Dio al Tuo posto. Ti spaventava, Dio eterno, la Morte eterna. Ma per me, per il mondo Tu volevi morire eternamente e per l’eternità, morire totalmente, perché tutto in Te è eterno».31

L’idea che Karsavin ha della divinizzazione radicalizza al massimo il discorso tradizionale dell’Ortodossia riguardo a questo tema. Per lui l’uomo diventa davvero un Dio: non un altro dio, diverso dall’unico Dio, ma un altro Dio in un unico Dio.32 Perciò, per lui, la kenosi di Dio e la divinizzazione dell’uomo fanno parte di un unico mistero: quello della «dueunità», ossia — potremmo dire — della «reciproca inabitazione» tra Dio e l’uomo. Certo, è impossibile descrivere razionalmente la realtà dell’essere-uno nella diversità dei due, data la loro totale disuguaglianza. Il che, però, non impedisce di pensare la loro unità come un misterioso scambio dell’essere, nel senso che i due, seppur infinitamente diversi, «vivono» pericoreticamente, l’uno in e attraverso l’altro. Karsavin spiega: «L’uomo non è mai sempre e in tutto Dio, come Dio non è mai sempre e in tutto uomo. L’uomo non è, giacché è Dio, ed è, giacché Dio non è, seppur Dio, superiore all’essere e il non essere, è sempre. Ma “quando” l’uomo è pienamente uomo, egli, da una parte, non è più un uomo, in quanto è diventato Dio, e Dio è nella sua esistenza senza uomo. Dall’altra, egli è anche un uomo perché sempre era, è e sarà in Dio-uomo»,33 in un Dio, cioè, la cui realtà dell’essere assoluto è stata rivestita della limitata condizione dell’esistenza umana.

A questo punto ci siamo avvicinati al centro della riflessione Karsaviniana sulla creazione e sulla divinizzazione come kenosi di Dio. Una riflessione che raggiunge il suo culmine nell’idea — appena accennata — del misterioso cambio dell’essere tra Dio e il creato/l’uomo, ripensata fino ai suoi ultimi estremi. Per il filosofo russo, infatti, il culmine della kenosi di Dio non è tanto il fatto di trovarsi «rimpicciolito» nel creato/l’uomo, quanto piuttosto che la creazione ed esistenza del creato/uomo sono in relazione con la Sua stessa esistenza. Nel senso che Dio, ponendo accanto a Sé un altro da Sé che tende a divenire Lui stesso, non solo lascia condividere la Sua stessa esistenza da un altro, ma in qualche modo si «lascia vivere» da esso, divenendo Se stesso in e attraverso il creato/uomo. Ecco il vero misterium crucis di Dio! Perché se è vero che Dio, consegnandosi a un altro da Sé, diviene Se Stesso attraverso un altro; se è vero che rimpicciolendosi per un altro Egli viene confermato nella Sua infinita grandezza in o attraverso un altro; è altrettanto vero che quell’altro ha la libertà di non rispondere all’amore di Dio, ha la libertà di lasciar agonizzare Dio nella sua piccolezza, non permettendogli di divenire quello che Egli è ab aeterno. Spiega Karsavin:

Vuole Dio morire pienamente: col Suo Amore sacrificale vuole divinizzare interamente il mondo. Ma per amore della libertà del mondo Egli non permette alla Propria volontà di manifestarsi interamente, di diventare atto. Egli vuole senza alcun “non”, ma costringe Se stesso a fare, come uno schiavo, soltanto ciò che il mondo vuole. Non permette a Se stesso di versare nel mondo più amore di quello che il mondo richiede. Egli soffre della piccolezza della sofferenza del mondo: vive a metà, senza speranza nella Morte, muore eternamente all’inferno. Un fuoco insopportabile brucia il Cuore Divino. Qualsiasi gioia del mondo a Dio non arreca più gioia. E il mondo non lo nota neppure. Dio così creò l’uomo, e così nascostamente alberga nel mondo, che non sai se Dio ci sia o non ci sia. In te Egli vuole e parla, ma tu non sai neppure se questo sia Dio o se non sei tu stesso che ti inventi tutto.34

E ancora:

A Te stesso limite sei Tu, che totalmente muori. / Tu, non essente, in Te stesso vivi come me, / affinché in me la vita Tua risorga. / Tu sei il mio Creatore, il Tuo destino eterno — io.35

Due sono le prime immediate conseguenze di una tale visione della creazione e divinizzazione. Una prima riguarda Dio in Sé, la Sua esistenza. Si tratta di un’esistenza dinamica, in quanto in «Dio vi è letteralmente un movimento del Suo essere-morire-non essere-ripristinare [l’essere], ma in modo che tutti questi momenti sono tutt’uno».36 Karsavin mette in guardia davanti a una qualsiasi altra visione di Dio, denunciando tutti quei filosofi e teologi che insegnano diversamente:

Eh! Filosofo! […] Nella tua pienezza Divina non c’è neppure movimento. E senza questo non c’è né vita né amore; non c’è neppure quel modo che solo a te è certamente noto. Tu dal mondo risali a Dio, e non conosci invece il mondo muovendo da Dio attraverso la Ragione di Cristo. Presso di te non c’è Dio, bensì un idolo insensibile e assurdo, del genere di quelli che venivano adorati quando ancora non si conosceva alcun Dioniso.

Eh! teologastro! Avresti voluto salvare la perfezione Divina (e per di più “piena”: quasi ce ne fosse un’altra), perché essa ti salvi senza fallo e aiuti la tua dotta ricerca sui cessi degli angeli. Hai fatto il bigotto ed hai concluso che il Figlio di Dio recita una commedia, mentre Dio Padre è un père dénature: neppure Suo Figlio compatisce. […] Sempre e in tutto noi asserviamo e uccidiamo il Dio Vivente, facciamo di Lui un cadavere immobile: persino al suo corpo morto vietiamo di decomporsi. Non c’è nulla di strano se anche la perfezione Gliela fabbrichiamo come una prigione, Gliela scaviamo come una fossa? E non cerchiamo forse anche per noi stessi una “perfezione” proprio di questo tipo, sognando la pace eterna?37

E conclude:

Incomprensibile è la perfezione di Dio, ma tale che la comprendiamo con la dotta ignoranza; e per questo il cuore languisce e si fonde in un amore indicibile. Questo non scema per il fatto che cessa di essere perfetto, ma si acresce e inoltre diventa visibile. Dio, infatti, sacrificandosi crea e supera la Propria imperfezione, perché il mondo sia e si divinizzi. E tutto in Dio è distinto, ma immediatamente. Dio mio, tutto è in te contemporaneamente! Così perfetto Tu sei che in Te non c’è neppure la Divina solitudine, poiché Tu sei il mio Dio e il mio Uomo, infatti Tu sei Amore.38

La seconda conseguenza è legata all’idea della «reciproca inabitazione» di Dio e dell’uomo. Il fatto, cioè, che ogni esistenza creata è sostenuta nel suo essere da Dio, ossia partecipa all’eterno «movimento che scaturisce da Dio, che è in Dio e che va verso di Lui»39 — perché in Lui essa vive, si muove ed esiste (cfr. At 17, 28)40 —, un tale fatto fa intuire che ogni singola realtà creata e, prima di tutto, ogni uomo, è in un rapporto di unità con tutte le altre, che l’uomo è misteriosamente unito a tutti gli altri uomini. Quindi, «tutto ciò che è di uno è di tutti, e ciò che è di tutti appartiene ad ognuno»,41 ma questo reciproco scambio è da capire nei termini ontologici della mistica giovannea (cfr. Gv 17), a cui il filosofo russo sembra richiamarsi e che sintetizza con l’espressione: «E così, in ognuno di noi viviamo noi tutti».42

Con l’idea della «reciproca inabitazione» del creato e degli uomini Karsavin ritorna al punto di partenza: all’idea della «reciproca inabitazione» delle tre divine Ipostasi, da lui compresa come fondamento ideale di ogni realtà, come origine universale di ogni essere. Ogni esistenza creata partecipa alla «treunità divina», alla vita attraverso la morte, all’essere attraverso il rinnegamento di sé. E questa partecipazione è possibile grazie a Gesù Cristo, attraverso il quale tutto è stato creato, la cui immagine giace nel cuore di ogni realtà creata, la cui morte sulla croce ha reso più vicino il Cuore stesso di Dio, pulsante in ogni cuore creato. Certo, vi è una differenza abissale tra la «treunità» assoluta, di ordine superiore (in Dio), e quella inferiore (nel mondo creato). Perché, se nella prima sono tutt’uno le più grandi contraddizioni come rinnegamento e affermazione di sé, essere e non essere, morte e vita, al punto che nella «triunità assoluta» vi è solo un unico «movimento» o «ritmo»: quello del vivere attraverso la morte di sè, dell’essere attraverso il non-essere;43 nella seconda «treunità», di ordine inferiore, le contraddizioni sono separate l’una dall’altra come singoli momenti, distinti l’uno dall’altro. Ecco perché la croce di Cristo e, di conseguenza, ogni rinnegamento, visti «dal basso», dall’empirico, appaiono come realtà tragiche che fanno paura; visti invece «dall’alto», da Dio, appaiono un «giogo dolce» e un «carico leggero» (cfr. Mt 11, 30). Perché se nel «mondo empirico il “non essere” esiste senza l’“essere”»,44 in Dio le due realtà sono contemporanee, come due momenti di un unico atto o movimento di Amore.

E proprio la persona di Gesù Cristo, Crocifisso e Risorto, è la via verso il «superamento» della tremenda distanza tra la vita e la morte, come anche tra ogni altra diversità.45 Egli, il «saggio Agnello», che muore perché ama di un amore perfetto essendo Dio-Uomo, è allo stesso tempo il punto di congiunzione di ogni rapporto di «inabitazione»: dei Tre in Dio («inabitazione» intra-trinitaria), tra Dio e l’uomo («inabitazione» divino-umana), tra gli uomini («inabitazione» intra-umana). Per questo è importante amare come Lui. Se, infatti, il mondo cominciasse a voler morire come Dio, in Gesù Cristo — riflette Karsavin poeticamente —,

il tempo non si trascinerebbe pigramente. Esso trascorrerebbe con precipitosa rapidità, come i mirabili astri Divini, in una circolarità infinita: si ricongiungerebbe il suo principio con la sua fine. Nulla si ripeterebbe, ma tutto si muoverebbe e insieme starebbe fermo; il distinto sarebbe simultaneamente. Tutto perirebbe immolandosi e tutto risorgerebbe, ossia vivrebbe eternamente una vita beata attraverso la morte. E per la grande forza della Vittima tutti avrebbero tutto.

A tutto il mondo, al minuscolo moscerino, con enorme sofferenza, ma anche con enorme gioia — io darei tutto me stesso; beato morirei per tutti, e per il ragno, e per il rettile, e per la nera mosca. Ed essi tutti, sia il pigro serpente, sia l’affaccendato moscerino — tutti si affretterebbero a risuscitarmi con la loro morte sacrificale e mi risusciterebbero. Ma io questo non lo saprei prima, o è come se non lo sapessi: può forse essere una morte sacrificale se si sa per certo che si risorgerà? Ma con quale gioia ci incontreremo su questa nostra terra, sempre la stessa. Rideremmo e piangeremmo di gioia, così che non faremmo a tempo a piangere un po’ per il dolore.46

4. Cristianesimo e religioni

La riflessione di Karsavin sul fenomeno religioso e sul rapporto tra il cristianesimo e le religioni è comprensibile solo alla luce di una tale visione di Dio. Una visione che egli — ispirandosi al pensiero di Solov’ev e degli altri filosofi religiosi russi dell’«età d’argento» — completa con l’idea di un’unità universale e cosmica, un’unitotalità (vseedinstvo), presente in Gesù Cristo, Dio-Uomo, quale «Chiesa universale».

La «Chiesa universale», compresa come mistero della «reciproca inabitazione» universale, ossia come «Corpo» di Cristo — perché solo in Lui e per mezzo di Lui, Figlio di Dio incarnato, tutto il creato e gli uomini possono partecipare alla vita trinitaria di Dio Amore —, è una realtà «dueuna». Essa, da una parte, ha un’esistenza superiore, più perfetta rispetto a quella puramente empirica, cosicché pur essendo rivestita dell’empirico — compreso come attività culturale, sociale, ecc. — è molto più di esso. Dall’altra parte, la «Chiesa universale» presente nel mondo empirico si può manifestare solo parzialmente, cioè, «come unitotalità di Cristo in divenire».47 Si può dire, tutto il mondo è la «Chiesa universale», ma essa è presente nel mondo solo in potenza, come qualcosa che deve ancora realizzarsi.48

Ovviamente, per Karsavin la presenza della «Chiesa universale» nel mondo empirico è legata alla realtà della religione cristiana e, più concretamente ancora, alla Chiesa ortodossa, più fedele custode della verità centrale della fede cristiana: il dogma trinitario.49 Egli, comunque, ne offre un’interpretazione — inaspettata da parte di un ortodosso — aperta verso la prospettiva ecumenica e universalistica. Nel senso che la Chiesa ortodossa ha un ruolo centrale nel manifestarsi visibile della «Chiesa universale» solo in quanto è capace di rendere visibile la verità del dogma trinitario. Di conseguenza, affinché la Chiesa visibile sia quella che è già in Dio per mezzo di Cristo, l’unità universale, non basta che essa appaia come un’unità solo in potenza delle chiese divise. La «Chiesa universale» potrà manifestarsi pienamente nel mondo empirico «solo attraverso tutte le sue possibili realizzazioni, tra di esse empiricamente contraddittorie; solo attraverso la moltitudine dei momenti del suo sviluppo nel susseguirsi delle varie epoche e la moltitudine dei suoi diversi ma contemporanei modi di esistenza». «Sta qui» — spiega il nostro filosofo — «il significato assoluto dell’esistenza delle molte confessioni cristiane. Ognuna di esse esprime un determinato aspetto dell’idea cristiana, che nella sua profondità non è raggiungibile dalle altre confessioni; ognuna è assolutamente necessaria, perché la Verità assoluta è realizzabile solo nell’unità di tutti i suoi aspetti. Esse sono imperfette, insufficienti solo quando assolutizzando ognuna se stessa rinnegano tutte le altre».50

La «Chiesa universale», nonostante il profondo legame con la fede e la religione cristiana, è comunque una realtà universalmente umana e perciò aperta a tutti. Tutto è stato creato per mezzo di Gesù Cristo, tutto sussiste in Lui, e, quindi, idealmente tutto «esiste come corpo di Cristo e la chiesa».51 Per questo non vi può essere un confine chiaro tra ciò che è la «Chiesa universale» e ciò che essa non è. Tutto è in qualche modo la Chiesa, anche il mondo che non confessa, cioè, non accetta e non conosce il Cristo e che non vive secondo la fede in Lui. Certo, una Chiesa in potenza, perché un mondo che non confessa il Cristo è «ecclesiale» solo idealmente e non empiricamente. In questo senso, sono la «Chiesa universale» anche tutte le religioni non cristiane. Una Chiesa, si capisce, che «a noi non si è rivelata, che non è visibile, che empiricamente non si autocomprende come tale, e che non è conosciuta come tale nemmeno dagli altri»;52 ma comunque una Chiesa di Cristo.

Sottolineando il rapporto tra la Chiesa universale e le religioni non cristiane Karsavin non intende smentire, in nessun caso, l’idea dell’unicità della fede cristiana. Il cristianesimo, per lui, è e rimane la religione per eccellenza. Ma ciò solo per il fatto che esso — annunciando il Cristo, Colui che è morto per tutti gli uomini di tutte le epoche e senza il quale, testimone incarnato della realtà celeste, non sarebbe stato possibile conoscere il vero mistero di Dio e della vita umana: il dogma trinitario53 — è una «religione universale», nel senso che la Verità che essa confessa è, in qualche modo, presente in tutte le religioni del mondo.

Ogni religione si fonda su un sentimento religioso. Un sentimento che non consiste tanto nel voler penetrare nelle particolari sfere dell’essere e della comprensione di sé, quanto piuttosto nel cogliere la realtà del mondo e dell’esistenza umana come una realtà «potenzialmente religiosa»,54 ossia luogo della presenza dell’Assoluto o, come insegna il cristianesimo, della Verità di Cristo. Questo sentimento religioso è in sé vero e non inganna, in quanto, appunto, è sensibile alla presenza del Divino. Da questo punto di vista si può dire che «in ogni religione vi è la verità Divina». Di conseguenza, «non è possibile pensare che la rivelazione della Verità sia iniziata solo con la venuta di Cristo, che il suono della voce di Dio sia risuonato per la prima volta solo sul monte Sinai. La buona novella di Gesù venne preparata dalla vita di tutta l’umanità; in tutte le religioni, in ogni progresso della sapienza umana si manifestò parzialmente Dio».55 Infatti, un gentile, il quale riesce a concretizzare il suo sentimento religioso in una vita secondo la Verità — anche se questa non viene conosciuta interamente —, è «molto più vicino a Cristo che i molti cristiani che lo confessano solo con le parole».56

È chiaro che una tale visione delle religioni esige, dai cristiani, un atteggiamento di stima e di rispetto nei confronti delle altre fedi. Karsavin scrive:

Se è vero che le altre religioni e filosofie si sono solo avvicinate al cristianesimo e noi, che partecipiamo alla sua verità, ce ne rendiamo conto, allora questa presa di coscienza non è il nostro merito, perché noi non siamo quelli che possono giudicare, ma solo la verità può giudicare. Noi stessi, al posto di un gentile, non avremmo visto nemmeno una piccola parte di quello che ha visto lui. Inoltre, noi, essendo uomini e perciò limitati, riusciamo a vedere appena un solo aspetto della Verità di Cristo confrontando con esso le acquisizioni degli ebrei e degli elleni. Il fatto è che a loro si sono manifestati altri aspetti della stessa verità, così come era anche nel caso degli eretici, e così come ogni uomo intravede qualche suo aspetto particolare. Nella Chiesa sobornica (sobornaja)57 sono tutti questi aspetti ugualmente necessari e preziosi. Quando essa raggiunge la pienezza dell’essere, tutti questi aspetti saranno ugualmente perfetti. In Cristo Gesù non vi è né elleno né giudeo e ciò non perché in Lui vi sia qualche uomo astratto, senza un’appartenenza alla stirpe e alla razza, ma perché vi è l’elleno con la sua ellenicità e il giudeo con la sua giudaicità. In Cristo la giudaicità non rinnega l’ellenicità, ma entrambe, perfette e trasfigurate, gioiscono, complementandosi reciprocamente.58

Una tale interpretazione del rapporto del cristianesimo nei confronti delle altre religioni va, nel pensiero di Karsavin, a pari passo con l’idea dell’umanità come un «unico organismo vivente» che «necessita, per la sua esistenza e sviluppo, dell’esistenza e dello sviluppo delle persone le quali, nella loro particolarità, lo compongono».59 Si tratta di un organismo che, da una parte, matura verso la perfezione «spontaneamente» in ogni uomo, realizzandosi attraverso la singolare individualità di ognuno. Dall’altra, esige un impegno concreto e preciso da parte di tutti. Sta qui, nell’impegno a contribuire consapevolmente alla realizzazione dell’umanità unita o della «Chiesa universale», la grande responsabilità storica del cristianesimo, in quanto esso ricevette da Cristo, Crocifisso e Risorto, l’esempio di quell’atteggiamento che, unico, fa possibile una tale realizzazione: la kenosi di sé. Infatti, — spiega Karsavin — «affinché l’unità dell’umanità si possa realizzare come chiesa, è necessaria una continua interazione tra le persone, basata sull’affermazione e consegna di sé».60

Quest’atteggiamento deve regolare prima di tutto i rapporti tra cristiani — almeno tale sembra essere il significato del «nuovo comandamento» di Gesù —, ma non solo. Secondo il filosofo russo, esso dovrebbe caratterizzare i loro rapporti verso tutti, e quindi anche verso i membri delle altre religioni: «In forza dell’Amore di Cristo possiamo diventare uno con loro in modo che, rimanendo noi stessi, diventiamo anche loro, imparando a guardare con i loro occhi».61

5. Conclusione

In conclusione, occorre aggiungere che sullo sviluppo del pensiero di Karsavin influì indubbiamente la dottrina teologica e mistica dei Padri della Chiesa — tra i quali soprattutto Gregorio di Nissa e Massimo il Confessore —, di Nicola Cusano,62 come anche che esso si sviluppò nel confronto con l’antica filosofia greca (Plotino)63 e con le idee di Leibniz,64 Hegel65 e l’idealismo tedesco, un confronto che accadde sul suolo della consentaneità con le intuizioni filosofiche e teologiche dei slavofili (Chomjakov66), il pensiero di F.M. Dostojevskij e la filosofia di Solov’ev e S.L. Frank.67 Allo stesso tempo voglio ricordare che il pensiero di Karsavin, e in modo particolare la sua idea della kenosi, ha una peculiare originalità, in quanto nacque e maturò all’interno di un’esperienza di vita, contrassegnata da un’inquieta e dolorosa ricerca della verità e, soprattutto, dalle sofferenze provocate dalla censura e dalle persecuzioni del regime sovietico. Il filosofo russo, dopo essersi rifugiato in Francia e, successivamente, in Lituania,68 venne arrestato e internato nel lager di concentramento dove nel 1952, dopo tre anni di detenzione, muore di tubercolosi.69 Si può perciò dire con E.F. Sommer che l’idea del «“vivere attraverso la morte”, essenziale per la dottrina [di Karsavin], si è resa presente nella sua stessa persona, privando la morte di ogni orrore».70 Egli, come molti detenuti di quel tempo, condannati dal regime sovietico, morì senza aver potuto sperimentare l’amore della famiglia e dagli amici, nelle condizioni, insomma, che egli stesso non avrebbe mai desiderato di dover affrontare. E comunque — come venne testimoniato dai prigionieri che gli stavano accanto — gli ultimi anni e mesi della sua vita furono una lezione magistrale sulla fede in Dio Amore e sull’ideale della kenosi e della sofferenza. Come se avesse voluto confermare con il proprio esempio di vita la verità e le profonde intuizioni circa il «realismo tragico» dell’esistenza umana, confessate su molte pagine dei suoi scritti; un realismo che mette in relazione la sofferenza e l’esperienza della trasfigurazione in Dio. «Bisogna soffrire realmente» — scrisse profeticamente nel Poema sulla morte, quando ancora non poteva nemmeno intuire la sua futura sorte di prigioniero — «e non nel fantasticare del sogno. La sofferenza è un grande dono, suggello di elezione e di nobiltà. Se Dio nell’al di là ti chiederà: “Perché sulla terra hai commesso tante porcherie?” rispondi coraggiosamente: “Perché, o Signore, ho sofferto” E, credi a me, Dio si troverà in imbarazzo. E come potrà mai risponderti, se Lui stesso ha sofferto in te?».71

Certo, il pensiero di Karsavin non è privo di limiti, come anche di punti che potrebbero essere criticati e che avrebbero bisogno di essere maggiormente chiariti. Ciò non toglie niente alla sua attualità, in quanto offre degli spunti stimolanti sia in prospettiva filosofica che teologica. Quanto a questa seconda, colpisce la valutazione positiva del pluralismo religioso, considerato una realtà derivante direttamente dalla struttura ontologica della verità di Dio e dalla sua conoscenza: essa, data la sua immensità e infinità che la fa assolutamente incontenibile nelle condizioni del mondo creato, è conoscibile solo nella sinfonia della moltitudine dei differenti cammini dell’esperienza religiosa. Si potrebbe dire che Karsavin, senza mettere in dubbio minimamente la centralità della religione cristiana, percepì il senso positivo del pluralismo religioso, riflettendone in una «prospettiva metastorica» che quaranta anni dopo la sua scomparsa, portò Giovanni Paolo II a pronunciare le parole epocali sul significato provvidenziale del «pluralismo» cristiano. Mi riferisco a quel passaggio del suo Varcare la soglia della speranza, in cui si dice: «[…] non potrebbe essere, dunque, che le divisioni siano state anche una via che ha condotto e conduce la Chiesa a scoprire le molteplici ricchezze contenute nel vangelo di Cristo e nella redenzione da Lui operata? Forse tali ricchezze non sarebbero potute venire alla luce diversamente… In una visione più generale, si può infatti affermare che, per la conoscenza e per l’azione umane, è significativa anche una certa dialettica. Lo Spirito Santo, nella Sua condiscendenza divina, non lo ha preso in qualche modo in considerazione? Bisogna che il genere umano raggiunga l’unità mediante la pluralità, che impari a raccogliersi nell’unica Chiesa, pur nel pluralismo delle forme del pensare e dell’agire, delle culture e delle civiltà. Una tale maniera di intendere non potrebbe essere in un certo senso più consona alla sapienza di Dio, alla Sua bontà e provvidenza?».72

Karsavin, di conseguenza, intuisce che il dialogo tra le religioni non può essere considerato un optional, ma una necessità intrinseca di ogni religione. Il senso di questa senz’altro coraggiosa intuizione mi sembra comunque espresso molto chiaramente anche da P. Rossano, quando riferendosi alla religione cristiana scrisse: «[…] l’economia cristiana non sarà conosciuta e sviluppata in tutte le sue virtualità fino a quando non sarà pensata, interpretata, vissuta nelle categorie religiose di tutti i popoli. Parallelamente, si può ritenere che, a contatto con essa, le tradizioni religiose dei popoli avranno la possibilità di svelare ed esprimere il meglio di quello che portano in seno».73

Un altro segno di attualità del pensiero di Karsavin è che esso considera la rivelazione cristiana, e in particolare la rivelazione del volto agapico-trinitario di Dio in Gesù Cristo morto e risorto, un evento che determina sostanzialmente il modo con cui il cristianesimo dovrebbe impegnarsi nel dialogo con le altre religioni. Un modo tipicamente cristiano, l’unico che giustifica e fonda la centralità o l’unicità del cristianesimo in quanto religione: la kenosi. Il cristianesimo è una religione della «sapienza della Croce», e come tale ha un compito storico che non potrà mai essere sostituito da un’altra religione: promuovere la maturazione della pacifica convivenza tra gli uomini e i popoli attraverso un cammino che ci è stato indicato da Dio stesso in Gesù Cristo, quando — nonostante la sua assoluta unicità divina — divenne un altro da sé. Di conseguenza, il cristianesimo è chiamato a elaborare una teologia del dialogo capace di esprimere in pieno, attraverso uno specifico strumentario concettuale e un’adatta prospettiva ermeneutica, la dimensione kenotico-agapica della rivelazione di Dio. Un’importante conferma dell’attualità di un tale compito sono le ispirate parole della Fides et ratio: «L’impegno primario della teologia, in questo orizzonte, diventa l’intelligenza della kenosi di Dio, vero grande mistero per la mente umana» (n. 93).

Il ruolo insostituibile del cristianesimo nel dialogo tra le religioni sta probabilmente nell’introdurre proprio questo tipo di metodo teologico, senza il quale non sarà mai possibile un sincero e proficuo incontro tra realtà così diverse, talvolta persino contraddittorie, come sono le religioni.


  1. Per una presentazione generale del kenotismo russo si veda: N. Gorodetzky, The humiliated Christ in modern russian Thought, London-New York 1938; G.P. Fedotov, The russian religious Mind, Cambridge Mass. 1946 (in part.c. 4: Russian Kenoticism). ↩︎

  2. Si tratta in particolare di: A.D. Beljaev, autore de L’amore divino. Saggio di spiegazione dei più importanti dogmi cristiani a partire dal principio dell’amore di Dio, in russo, Mosca 1882 (18842), primo libro di dogmatica russa attento al tema della kenosi; P. Ja. Svetlov, autore del saggio Il significato della Croce nell’opera di Cristo, in russo, Kiev 1892 (19072); M.M. Tareev, il massimo rappresentante del cosiddetto «moralismo religioso», autore delle Tentazioni del Dio-Uomo e dei cinque volumi dei Fondamenti del Cristianesimo, in russo, Mosca 1908-1910. Su di loro cfr. G. Florovskij, Vie della teologia russa, tr. it., Genova 1987, pp. 344-351; P. Evdokimov, Cristo nel pensiero russo, tr. it., Roma 1972, pp. 126-135. ↩︎

  3. Un’ampia presentazione di questa importante tappa della filosofia russa si trova in N. Zernov, La rinascita religiosa russa del XX secolo, Milano 1978. ↩︎

  4. Movimento intellettuale e spirituale russo sorto nella prima metà del sec. XIX. Propugnava il ritorno alla tradizione religiosa e popolare russa, i cui caratteri principali erano visti nell’ortodossia e nella spinta al comunitarismo, considerata come forza vitale contrapposta alla cultura europea occidentale, dominata dal razionalismo, dal materialismo e dall’egoismo, e destinata alla decadenza. I fondatori del slavofilismo furono A.S. Chomjakov, I.V. Kireevskij e K.S. Aksakov. Cfr. A. Osipov, Le concezioni teologiche degli slavofili, in Concilium, ed. it., 6 (1996), pp. 53-72. ↩︎

  5. La filosofia di Solov’ev rappresenta una radicale reazione alle idee positiviste del razionalismo moderno, ampiamente diffuse nella Russia dalla seconda metà del ’900. Con lui, seguito da una giovane generazione di filosofi, la filosofia russa opera una radicale svolta verso la metafisica, in cerca di un nuovo tipo di pensiero e, di conseguenza, di cultura, capaci di superare il pericolo di una visione puramente soggettivista e positivista della realtà. La filosofia solov’eviana poggia su due idee fondamentali, successivamente approfondite dai suoi seguaci: l’unitotalità (vseedinstvo) e la teantropia. Una buona introduzione al pensiero di Solov’ev si trova in N. Bosco, Vladimir Solov’ev. Ripensare il cristianesimo, Torino 1999. ↩︎

  6. Per uno studio della teologia kenotica di Florenskij rimando al mio L’interpretazione di Fil 2, 6-8 e la concezione della kenosis nell’opera di P.A. Florenskij, in A. Strus — R. Blatnicky (edd.), Dummodo Christus annuntietur. Studi biblico-patristici in onore del prof. Heriban, Roma 1998, pp. 349-371. ↩︎

  7. La concezione della kenosi in Bulgakov è stata recentemente studiata da P. Coda, L’altro di Dio. Rivelazione e kenosi in Sergej Bulgakov, Roma 1998. ↩︎

  8. Gli studi dedicati alla persona e al pensiero di Lev Platonovic Karsavin non sono molti. Da segnalare in lingua tedesca: G.A. Wetter, L.P. Karsawins Ontologie der Dreieinheit. Die Struktur des kreatürlichen Seins als Abbild der göttlichen Dreifaltigkeit, in Orientalia Christiana Periodica 3-4 (1943), pp. 366-405 (pubblicato come excerpta ex dissertatione ad Doctoratum); Id., Zum Zeitproblem in der Philosophie des Ostens. Die Theorie der «Allzeitlichkeit» bei L.P. Karsavin, in Scholastik, 3 (1949), pp. 345-366; B. Schultze, L.P. Karsavin, in Id., Russische Denker, Wien 1950, pp. 403-419; E.F. Sommer, Vom Leben und Sterben eines russischen Metaphysikers, in Orientalia Christiana Periodica, 1-2 (1958), pp. 129-141. In italiano sono stati finora pubblicati: il breve saggio di B. Schultze, Karsavin (c. XVII), in Id., Pensatori russi di fronte a Cristo, voll. II-III, Firenze 1949, pp. 195-216; e il recente studio di A.D. Siclari, L’Estetico e il Religioso in L.P. Karsavin, Milano 1998, con una breve nota biografica e bibliografica e con la traduzione de Il poema sulla morte↩︎

  9. Cfr. B. Schultze, Pensatori russi di fronte a Cristo…, p. 195. ↩︎

  10. Karsavin conosceva in modo particolare la religione ebraica, sentita molto vicina anche grazie ai rapporti d’amicizia con alcuni ebrei russi. Cfr. la testimonianza di A. Schteinberg, «Amici dei primi anni» (1911-1928), in russo, in L.P. Karsavin, Opere minori, a c. di S.S. Choruzij, San Pietroburgo 1994, pp. 478-498. ↩︎

  11. L.P. Karsavin, Peri archon, (Ideen zur christlichen Metaphysik), Kaunas 1928, p. 54. ↩︎

  12. L.P. Karsavin, Noctes petropolitanae, in russo, San Pietroburgo 1922, p. 183. ↩︎

  13. L.P. Karsavin, Poema sulla morte, tr. it. in A.D. Siclari, L’Estetico e il Religioso…, p. 93. ↩︎

  14. Ibid., pp. 104-105. ↩︎

  15. L.P. Karsavin, Noctes petropolitanae…, p. 157. ↩︎

  16. Le origini di quest’intuizione risalgono — quanto alla teologia ortodossa russa — al metropolita Filarete di Mosca e a P.A. Florenskij. Secondo il primo, il mistero della Croce di Cristo ha inizio nell’eternità, nel «santuario, inaccessibile al mondo creato, della Divinità triipostatica» (citato da G. Florovskij, Vie…, p. 148). Florenskij approfondì l’idea della kenosi intratrinitaria, in chiave soprattutto filosofica e antropologica, ne La colonna e il fondamento della Verità, tr. it. a c. di P. Modesto, Milano 1974 (19982). Sullo sviluppo del pensiero kenotico-trinitario di Bulgakov rimando al mio: Croce come fonte della teologia. Fondazione staurologica del pensiero di S.N. Bulgakov, in G. Cicchese-P. Coda-L. Zak (edd.), Dio e il suo avvento, Roma 2002 (di prossima pubblicazione). ↩︎

  17. L’Agnello di Dio. Il mistero del Verbo incarnato, tr. it., Roma 1990; Il Paraclito, tr. it., Bologna 1971 (2 ed. 1987); La Sposa dell’Agnello. La creazione, l’uomo, la chiesa e la storia, tr. it., Bologna 1991. ↩︎

  18. L.P. Karsavin, I principi. (Saggio di metafisica cristiana), in russo, Berlino 1925, p. 165. ↩︎

  19. Ibid. ↩︎

  20. Florenskij scrive: «Se prima le relazioni mutue delle Ipostasi erano definite dall’amore, dal dono di sé, dall’autoprofusione intra-divina delle Ipostasi, dall’umiltà e dalla kénosis eterne, adesso le definiscono la erezione e affermazione eterne dell’Una da parte dell’Altra [l’espressione Drug Drugom, che significa letteralmente: «dell’Amico da parte di un’altro Amico», viene formulata nel contesto della teologia florenskijana dell’amicizia; L.Z.], la glorificazione e la regalità. […] Abbiamo visto che il primo momento della vita intra-divina consiste nella trasmissione reciproca di un amore tragico, che si sacrifica; consiste nel reciproco autosvuotamento, nell’autoimpoverimento e nell’autoumiliazione delle Ipostasi. Il secondo momento, che ora consideriamo, è come la corrente inversa, quasi incomprensibile per noi che non abbiamo acquisito lo Spirito e che conosciamo da vicino solo il Dio di Sacrificio. […] Invece, nell’ordine meta-temporale della vita trinitaria, si tratta di un momento eterno dell’amore che risponde, dell’amore trionfante che celebra ed edifica l’Amato, della trasmissione di gloria da Ipostasi a Ipostasi» (P.A. Florenskij, La colonna e il fondamento della Verità…, p. 184; la presente citazione viene in alcuni punti corretta secondo l’originale russo del 1990 uscito a Mosca, presso la casa ed. Pravda, p. 138). ↩︎

  21. P.L. Karsavin, La Sofia terrena e celeste, in Id., Opere minori…, p. 82. ↩︎

  22. P.L. Karsavin, I principi…, p. 171. ↩︎

  23. Ibid., pp. 175-176. ↩︎

  24. Karsavin contrappone la figura del «poeta» a quella del «metafisico», riconoscendo in entrambi due modi completamente diversi della comprensione della realtà. Il pensiero del «metafisico» è astratto e privo di vita, perché non nasce da un’esperienza diretta della realtà. Il metafisico — spiega il filosofo russo — «è un antichissimo vecchio. Come un’onda maestosa scende la sua barba canuta. Ma è debole e freddoloso: i raggi solari non riscaldano le sue mani gialle, diafane. Egli conosce il senso della vita che passa; conosce il prezzo di ogni dolore e il posto di ogni gioia. Ma per lui non c’è più né gioia né dolore; e luminosa, come fredda, limpida sorgente, la tristezza si è fermata in rigoroso pensiero. Tutto ha compreso. Ma dov’è questo tutto se egli non vive più?» Il «poeta», al contrario, è colui che vive immerso nella realtà, che in prima persona si lascia interpellare dalla vita, nonostante che questa non lo risparmia mai dai dolori e dalle ferite. Egli, dunque, è — secondo Karsavin — un vero filosofo, come del resto intuì già Platone, quando riconobbe nello «stupore» (thauma) davanti alla realtà e alle sue rappresentazioni il «principio della filosofia» (Teeteto, 155c-d), o Florenskij, quando riconobbe nella Wetlanschauung dei bambini l’unico approccio alla realtà oggettivamente vero (cfr. Ai miei figli. Ricordi dei giorni passati, in russo, Mosca 1992, pp. 86-87). Anche Karsavin identifica la persona del «poeta» con il fanciullo, e ciò per la sua purezza, innocenza e la capacità di soffrire. «Con le sue sofferenze, con le sue cadute, bagnate di lagrime, intreccia per sé una corona. Giocando, la indossa; ride del maggior riso che sia al mondo — il riso attraverso le lagrime. Così ride il fanciullo: non hanno ancora finito di scorrere sulle guance lagrime amare che già brillano gli occhi. Dai suoi lamenti il poeta trae una canzone: il poeta è come tutto il mondo, che è diventato in lui gioia». Il poeta, diversamente dal metafisico, vive, «ma non sa nulla e soltanto nella sua ignoranza di fanciullo è grande di un’indicibile saggezza. Nondimeno: forse che i fanciulli non diventano vecchi, e i vecchi non finiscono nell’infanzia?» (L.P. Karsavin, Poema sulla morte…, pp. 58-59). ↩︎

  25. Ibid., pp. 113, 121. Ritroviamo una simile comprensione della kenosi-croce in Dio nei Capitoli sulla Trinità (1928-30) di Bulgakov: «Se dunque la croce rappresenta il simbolo di un amore sacrificale in generale, allora la SS. ma Trinità è la potenza della Croce, del reciproco autorinnegamento nel seno del Soggetto triipostatico. Quindi, la santa Croce è il simbolo non solo della nostra salvezza ma anche della vita della SS. ma Trinità stessa. […] L’immagine della croce è, in questo modo, realmente una “immagine della Trinità triipostatica”. Si tratta di un diretto simbolo, di un’immediata icona della triipostaticità» (S.N. Bulgakov, Capitoli sulla Trinità, parte I, in russo, in Pravoslavnaja Mysl’, 1[1928], pp. 68-69). ↩︎

  26. L’espressione è presa da Nicola Cusano, per indicare «che, se Dio venisse guardato — per così dire — dal di fuori, non vi si vedrebbe niente che Gli si contrapponga, in quanto Egli, in Sé Inconcepibile, è sia “un altro” che “un non altro”, e in quanto tale la Sua unità inaccessibile supera tutte le contraddizioni» (L.P. Karsavin, Saliga, in russo, Paris 1919, p. 10). ↩︎

  27. L.P. Karsavin, I principi…, p. 42. ↩︎

  28. La Kabbala interpreta l’atto della creazione come atto dell’autolimitazione (zimzum) di Dio. Secondo Karsavin — interrogato su questo argomento da uno dei suoi discepoli, detenuto, assieme al maestro, nel lager di concentramento sovietico —, «l’idea che l’Infinito si comprime in un punto, per dar vita al mondo creato, è una delle idee mitologiche più indovinate. Quest’immagine aiuta a capire molto bene l’essenza della creazione. Si può dire che con questa gnosi cabalistica il giudaismo si avvicina assai all’idea cristiana della creazione. Il comprimersi di Dio in un punto vuol dire che Egli si autolimita per il rispetto della libertà dell’essere creato. Le successive idee della gnosi giudaica sull’emanazione non sono accettabili, perché non arrivano fino all’idea dell’Incarnazione» (A.A. Vaneev, Due anni in Abezia. In memoria di L.P. Karsavin, in russo, Bruxelles-Paris 1990, p. 40). ↩︎

  29. L.P. Karsavin, Commento alla Corona di sonetti e alla terzina, in A.A. Vaneev, Due anni in Abezia…, p. 299. ↩︎

  30. L.P. Karsavin, I principi…, p. 28. ↩︎

  31. L.P. Karsavin, Poema sulla morte…, p. 85. ↩︎

  32. Cfr. L.P. Karsavin, Saliga…, p. 34. ↩︎

  33. L.P. Karsavin, I principi…, p. 28. ↩︎

  34. L.P. Karsavin, Poema sulla morte…, p. 102. ↩︎

  35. L.P. Karsavin, Corona di sonetti, in A.A. Vaneev, Due anni in Abezia…, p. 270. Il significato di questi versi, scritti nel lager di concentramento, è chiarito dall’autore stesso nel commento al primo sonetto: «Io sono il destino di Dio perché, avendomi creato libero e proponendomi di accoglierLo tutto, Egli ha subordinato il Suo disegno e Se stesso a me» (L.P. Karsavin, Commento alla Corona di sonetti…, p. 299). ↩︎

  36. L.P. Karsavin, I principi, p. 39. E spiega: «Immagina il movimento appena descritto come un movimento di infinita velocità e potrai parlare dell’abbassamento di se stesso senza abbassarsi, del non essere che non rinnega l’essere. Guardando in questa ottica non ti sembrerà così terrificante nemmeno il non essere, che di solito ti fa venire paura» (ibid, p. 39). ↩︎

  37. L.P. Karsavin, Poema sulla morte…, p. 116. ↩︎

  38. Ibid., p. 117. ↩︎

  39. L.P. Karsavin, Saliga…, p. 42. ↩︎

  40. Cfr. ibid., p. 44. ↩︎

  41. Ibid., p. 57. ↩︎

  42. Ibid., p. 65. «Non sforzandomi di raggiungere l’unità con gli altri non arrivo a sentire che gli altri “io” sono in me, non arrivo a riconoscerli, a ricordarmi che loro sono in me e io in loro» (ibid., p. 58). ↩︎

  43. Karsavin spiega: «In questo modo la triunità superiore appare sia come unità che come triadicità, espressione della molteplicità. Una molteplicità, che, per mezzo dell’unità, “è” e “non è”, nello spirito della dialettica dell’essere e del non essere, del divenire e morire. Ma anche l’unitotalità (vseedinstvo), come l’unità del tutto assieme a ogni momento della sua tutto-molteplicità, si attua per mezzo della stessa dialettica. Tutta quanta essa, nella sua unità, “non è” ed “è”, e di nuovo “non è”. E altrettanto ogni momento dell’unitotalità: esso “non è”, “è” e “non è”» (L.P. Karsavin, I principi…, p. 114). ↩︎

  44. Ibid. ↩︎

  45. «Quanto più grande e doloroso è il tuo morire attraverso il rinnegamento di sé per gli altri, tanto più importante e necessaria è la tua morte, in quanto tanto più il Cristo — in te e, attraverso di te, in loro — vince la morte trasformandola nella vita.» (L.P. Karsavin, Saliga…, p. 70). ↩︎

  46. L.P. Karsavin, Poema sulla morte…, pp. 90-91. ↩︎

  47. L.P. Karsavin, La via dell’ortodossia, in Id., Opere minori…, p. 349. ↩︎

  48. L.P. Karsavin, Est, Ovest e l’idea russa, in russo, San Pietroburgo 1922, p. 68. ↩︎

  49. Ibid., pp. 38-39. ↩︎

  50. L.P. Karsavin, La via dell’ortodossia…, pp. 351-352. ↩︎

  51. L.P. Karsavin, Est, Ovest e l’idea russa, p. 68. ↩︎

  52. Ibid., p. 349. ↩︎

  53. Cfr. P.A. Florenskij, La colonna e il fondamento della Verità…, p. 148. ↩︎

  54. L.P. Karsavin, Peri archon…, p. 3. In uno dei dialoghi, riportati da uno dei suoi discepoli, Karsavin afferma: «Appropriandosi dell’essere l’uomo si orienta automaticamente verso Dio come fondamento assoluto di ogni realtà. L’espressione diretta di ciò è la religione. Nei suoi concetti e nella sua cultura l’uomo pone se stesso nel rapporto con Dio» (A.A. Vaneev, Due anni in Abezia…, p. 29). ↩︎

  55. L.P. Karsavin, Cattolicesimo, in russo, San Pietroburgo 1918, p.7. ↩︎

  56. L.P. Karsavin, La via dell’ortodossia…, p. 349. ↩︎

  57. Da sobor (in russo) — chiesa, concilio, assemblea. Il termine sobornost’ e i suoi aggettivi (sobornoj, sobornaja) entrarono nel linguaggio della teologia e della filosofia religiosa russa grazie a A.S. Chomjakov. Cfr. G. Cioffari, A.S. Chomjakov e l’itinerario filosofico della Sobornost’, in Nicolaus, 6 (1978), pp. 87-127. ↩︎

  58. L.P. Karsavin, Lo studio apologetico, in Id., Opere minori…, p. 393. Persino le eresie hanno un posto nell’unica Chiesa di Cristo: «Se la Chiesa richiama a sé gli eretici, non vuole affatto che questi rinneghino tutto quello che hanno fatto o stanno facendo, e che rinnegando se stessi si rivestano delle forme a loro estranee. La Chiesa li chiama a riconoscere i loro errori per rivelare e costruire, partendo da loro stessi, da ciò che è proprio a loro, il nuovo volto della Chiesa stessa» (ibid.). ↩︎

  59. L.P. Karsavin, Est, Ovest e l’idea russa, p. 70. ↩︎

  60. Ibid. ↩︎

  61. L.P. Karsavin, Lo studio apologetico…, p. 393. ↩︎

  62. Secondo S.S. Choruzij, la vicinanza di Karsavin al pensiero di Cusano è molto significativa: «Le “fonti cusaniane” della triade Karsaviniana sono una delle pochissime connessioni storico-filosofiche riconosciute apertamente e addirittura sottolineate da Karsavin» (S.S. Choruzij, Vita e dottrina di L. Karsavin, in russo, in L.P. Karsavin, Opere religioso-filosofiche, vol. 1, Mosca 1992, p. XXVII). ↩︎

  63. Affrontando alcuni temi filosofici, Karsavin utilizza la simbologia plotiniana. «Ma la visione cosmica, pacificata, naturale, di Plotino, nel pensiero di Karsavin si fa drammatica, per l’introduzione nel movimento di una conoscenza e di una volontà responsabili di fronte ad un Altro» (A.D. Siclari, L’Estetico e il Religioso…, p. 30). ↩︎

  64. Karsavin ha con Leibniz molti punti di vicinanza, «sia per ciò che riguarda l’eliminazione di confini precisi tra il materiale e lo spirituale, tra il corpo e l’anima, sia per il principio della spiritualizzazione che attraverso l’uomo verrebbe a innalzare tutto il vivente. […] Tuttavia, anche in questo caso la distanza è maggiore di quanto sembri, ed è denunciata, al di là di ogni doverosa precisazione di differenze concettuali, da quella drammaticità che è carattere fondamentale della visione del filosofo russo ed è assai meno avvertibile in Leibniz» (ibid., p. 39). ↩︎

  65. Molte delle idee di Karsavin richiamano la dottrina hegeliana. Allo stesso tempo, vi è una sostanziale distanza tra il Nostro e il filosofo tedesco che, tra l’altro, si può notare anche nella sua idea della kenosi di Dio. «Per Hegel tutto ciò che appartiene al momento della empiricità e della finitezza costituisce soltanto negativamente l’essere. Karsavin ribalta la posizione hegeliana riconducendo la sofferenza, come dimensione del sentimento e della volontà, all’interno di Dio» (ibid., p. 38). ↩︎

  66. Cfr. ibid., 48, nota 18. ↩︎

  67. Cfr. A.A. Vaneev, Saggio sulla vita e sul pensiero di L.P. Karsavin, in Id., Due anni in Abezia…, pp. 342-343. ↩︎

  68. Nel 1928, dopo aver rifiutato un invito a Oxford, ottenne la cattedra di Storia universale presso l’Università di Kaunas. Quando nel 1940 la Lituania entrò nell’orbita della Russia sovietica, l’Università venne spostata a Vilnus, dove Karsavin si trasferì. Nel 1947 fu allontanato dall’insegnamento e due anni dopo venne deportano nel lager di concentramento. ↩︎

  69. Nel periodo della sua prigionia Karsavin scrisse alcuni saggi, pubblicati solo recentemente: L’immortalità dell’anima (1951), La preghiera del Signore (1952), Corona di sonetti e Terzine (1952), in versi, con relativo commentario in prosa dell’Autore. ↩︎

  70. E.F. Sommer, Vom Leben und Sterben eines russischen Metaphysikers, in Orientalia Christiana Periodica, 1-2 (1954), vol. 24, p. 10. ↩︎

  71. L.P. Karsavin, Poema sulla morte…, p. 60. ↩︎

  72. Giovanni Paolo II, Varcare la soglia della speranza, Milano 1994, p. 167. ↩︎

  73. P. Rossano, Il problema teologico delle religioni, Catania 1975, p. 44. ↩︎