Identità e follia da una prospettiva individuale e sociale

1. Identità e follia da una prospettiva individuale e sociale

La correlazione tra individuo e società si contende il primato del meccanismo identitario che coinvolge anche il concetto di coscienza e di «sé», almeno dopo la nascita della psicologia moderna. Il concetto di identità origina nell’inscindibile rapporto tra l’«uno e l’altro» dove la coscienza individuale si dischiude come essenza soggettiva in rapporto a un inalienabile «altro»1. Così, l’oggetto di contesa teorica si gioca oltre che sul piano psicologico anche su quello sociologico, tra io e società. Là dove, in particolare, si inaugura il concetto di follia, di psicosi.Prende forma in modo eminentemente esemplificativo là dove il sé sembra entrare in conflitto con l’«altro», e la sua identità viene con ciò messa in discussione. Follia, infatti, è quanto pone in conflitto quel sé nella sua intima e intrinseca correlazione con l’altro, là dove è rappresentato dall’apparato collettivo istituzionalizzato e normativo della società. Conflitto che nasce nel momento in cui il soggetto può, di contro, concepirsi come struttura individuale unica e a sé stante. L’identità personale diviene allora qualcosa che non si elabora più semplicemente dal proprio interno, ma qualcosa che si «negozia» attraverso l’interazione con gli altri,2 o persino che viene prodotto a partire da condizioni esterne – laddove il soggetto istituzionalizzato si alieni da una sua determinata ma irriducibile natura interiore. La domanda che sorge in questo caso è: se il soggetto istituzionalizzato (socialmente esistente) rivela un’identità che può riflettere le sue strutture esterne – mentre il soggetto folle è l’espressione di un’identità disgregata che non riflette più la società esterna perché ne ha perso il contatto – cosa esclude che, invece, la stessa follia di un individuo rifletta la frammentazione e disgregazione sociale che per qualche fortuito o infausto meccanismo ha agito e si riflette conseguentemente in lui? Se si vuole leggere la normatività sociale, la sintonia di un soggetto nel mondo in cui vive come la sua normalità, cosa esclude di leggervi invece la stessa follia che in altri casi si è impossessata del soggetto stesso come riflesso delle sue istanze sociali? Già Freud, del resto, prima della tradizione di pensiero che ha eletto il concetto di alienazione soggettiva di una società capitalistica come matrice di un’alienazione mentale e psichica negli individui faceva emergere in Disagio della civiltà il conflitto dell’individuo con l’«altro» rappresentato dalla civiltà umana. Conflitto da un lato inteso come «bene» per lui al pari di sé medesimo per sé stesso, dall’altro di quello per cui «ogni individuo è virtualmente un nemico della civiltà», dunque, dell’ambito sociale che la esprime, per via dei «sacrifici» che gli vengono richiesti per vivere una vita comune tra i membri dello stesso ambito.3 Concetto espresso a tinte ancora più forti e decise quando afferma: «Si ha così l’impressione che la civiltà sia qualcosa che fu imposto a una maggioranza recalcitrante da una minoranza che aveva capito come impossessarsi del potere e dei mezzi di coercizione» e più oltre: «A mio parere è assolutamente necessario tenere a mente che in tutti gli uomini sono presenti tendenze distruttive, e perciò antisociali e ostili alla civiltà, e che in un gran numero di persone queste tendenze sono abbastanza forti da determinarne il comportamento nella società umana. Questo fatto psicologico ha un’importanza decisiva ai fini del giudizio che può esser dato dell’umana civiltà»4. Sia volendo considerare la società umana, quindi, come risultato dell’aggregazione e delle attività comuni dei singoli, che come organismo sovraindividuale che ne determina le sorti, le condiziona oltre a farsi condizionare, si potrebbe impostare la domanda molto apertamente, quasi provocatoriamente: e se fosse la società ad essere folle – con tutte le conseguenze del caso, compresa la disgregazione di un’identità che, in fondo, sembra nascere, come concetto legato alla persona, con la società stessa?

2. Può essere pazza la società?

La follia è stata storicamente e originariamente concepita come una condizione patologica della mente di un individuo. Come tale, passibile di essere «trattata», di predisporsi ad una possibile guarigione, allo scopo di riabilitare socialmente l’individuo che ne è portatore. La follia è intesa, così, come una disumanizzazione del soggetto, come la negazione del suo nucleo più intrinsecamente umano, come alienazione della la sua stessa identità individuale, e confino in una sua mera, appunto, «individualità» del tutto spersonalizzata. Tutto questo quando, al contrario, la società viene di norma intesa come l’istanza più normalizzante ci sia e ci debba essere – se è vero che viviamo al suo interno affidandoci pienamente alle sue espressioni ed emanazioni più istituzionali (educazione, famiglia, scuola, ecc.). Ciò a cui essa mira è, del resto e appunto, una normalizzazione delle sue modalità di espressione, delle sue funzioni, dei gruppi e degli individui che la compongono. Quanto la porrebbe al riparo da ogni bizzarria e sgarro propri della follia; ed è il motivo per cui quando si parla di alienazione di un individuo folle ci si riferisce perlopiù all’alienazione delle funzioni sociali di quel soggetto e non tanto al ruolo che riveste nella sua soggettiva follia la società di cui egli è parte ed in cui la sua follia si riflette e ne è comunque parte. La prova della normalità della società sarebbe quindi da ricercare nell’insita natura della sua normalizzazione e normatività operata sui soggetti sociali che ne sono parte. È il motivo per cui tradizionalmente è un individuo ad essere percepito come folle: Tutte le passioni che generano una condotta strana e fuori dal comune, sono definite con il nome generale di follia” dice Hobbes nel Leviatano.5 Ciò che Hobbes chiama «condotta» si riferisce, infatti, ad una caratteristica individuale e non sociale. Allo stesso modo, la psicopatologia è stata applicata storicamente, in quanto scienza, metodo descrittivo e disciplina, in modo preminente quando non esclusivo ad un’analisi dell’individuo a partire almeno da Freud. Per quanto Freud deleghi al concetto di «civiltà» la funzione di «qualcosa che è stato imposto a una maggioranza recalcitrante da una minoranza che ha saputo impossessarsi del potere e dei mezzi di coercizione»6. L’idea di «maggioranza» è ancora legata a quella di individuo e di soggetto in una sua funzione edificante e composita, e nell’idea di una moltitudine di individui, risultante da una somma, più che da una sovrastruttura storica e dominante. Ma se, invece, fosse che ciò che definiamo «società» può talora sfuggire alla sua stessa normatività; e la sua stessa normatività potesse essere fonte della follia individuale? E se fosse, inoltre, proprio il suo livellamento e appianamento normativo e culturale a togliere il seme dell’unicità di ogni individuo, il suo carattere ed essenza più umani, e a rendere perciò essa stessa – la società – disumanizzata e malata, in definitiva, alienata, espropriandola della stessa forma di quanto possiamo definire come «individualità» rispetto a coloro che ne partecipano? Se questo livellamento, omologazione e spersonalizzazione toccasse fino le radici della stessa società, come sintomo di una società sempre più vittima di una natura egosintonica che, come accade in certi disturbi di personalità – di cui l’antisocialità e la psicopatia sono i più gravi – non è più in grado di percepire il sintomo del proprio male? Persona è, del resto, un’assunzione concettuale che ha a che vedere, nella sua radice etimologica, con maschera dell’attore, personaggio (dall’etrusco phersu) e non dall’idea di un’interiorità, di qualcosa concepito originariamente come unico, singolare. Bensì, qualcosa di riproducibile, perché già proprio di una società che lo produce, appunto. E la società quanto più si esprime nel suo carattere più essenziale e costitutivo tanto più sembra convertire i soggetti che la formano in «persone», qualora «giuridiche», qualora «fiscali», qualora soggette a tipologie quante ne sono richieste dagli apparati che le gestiscono a livello civile, statale e politico.

3. La «persona» sociale

È sempre Hobbes che distingue tra una persona «naturale» (natural person) e persona «dissimulata» o «artificiale» (artificial person),7 dal momento che essa può rappresentare «una moltitudine di uomini quando è il risultato del consenso di ciascun componente di quella moltitudine preso singolarmente». Infatti, precisa Hobbes, «ciò che fa la persona una è l’unità del rappresentante, non l’unità del rappresentato, ed il rappresentante costituisce una ed una sola persona, e non si può intendere in altro modo l’unità di una moltitudine»8. Da questa prospettiva «persona» rimanda più a qualcosa di esterno alla sua natura individuale, e come a ciò che la istituisce all’interno di un corpo sociale e politico, più che a un suo nucleo interno e originario (o «naturale» secondo la distinzione hobbesiana). Permane così, storicamente, la definizione di persona come ciò che rappresenta sé o altri (nel caso in cui impersoni ad esempio un’autorità, un personaggio teatrale, o anche un oggetto astratto o religioso, come Dio, e così via); in termini quindi non ontologici ma di rappresentazione e personificazione di qualcosa.9 L’unità interna del concetto di persona è un’identità che viene consegnata dall’individuo ad una traduzione sociale, prima che ad una soggettiva a lui interna.

4. Narcisismo sociale e follia

Lowen si pone la stessa domanda riguardo alla follia: se non sia folle la società. La pone esaminando il disturbo di personalità che è il narcisismo. Disturbo spesso considerato alla base della psicopatia (Kernberg, 1992). Questo disturbo sembra infatti riflettere ciò che una società richiede agli individui: la loro spersonalizzazione in funzione di una sempre maggiore efficienza. Di conseguenza una riduzione nella percezione del proprio sé. Tanto da rendere lo stesso disturbo «sintonico», secondo l’accezione del termine psicologico che indica quanto contraddistingue questo genere di disturbo, ovvero, la non percezione del proprio malessere. Il narcisismo patologico è un disturbo presente in ogni forma di psicopatia, costituendone quindi il suo germe. E se così fosse, ci si può domandare: può rappresentare anche il germe patologico della nostra società che, tra l’altro, proprio come nel disturbo di personalità narcisistico e antisociale, non è più nemmeno in grado di percepire il grado della propria patologia, della propria follia spersonalizzante? Del resto è proprio il non percepirsi come pazzo una delle caratteristiche del folle, oltre che del narcisista patologico e dell’antisociale. E la nostra società, allo stesso modo di un soggetto folle, sembra non essere in grado di porsi interrogativi sullo stato di salute mentale di sé stessa, tendendo invece a incanalare quegli interrogativi, a risolverli unicamente a partire dall’individuo, eventualmente per emendarlo o alienarlo dalla stessa, o per meglio assoggettarlo ed asservirlo a sé stessa. Proprio come certi individui affetti da disturbi di personalità egosintonici proiettano le proprie disfunzioni psicologiche nell’altro, fuori da sé; così facendo misconoscendo sia sé stesso che l’altro. Interrogarsi sul proprio stato di salute mentale corrisponderebbe, del resto, ad esaminare il grado di patologia presente in ogni suo ganglo: dalla cultura, dall’educazione, dalle istituzioni, le leggi e così via. E forse la capacità di distinguere tra dove inizia la patologia individuale e dove quella collettiva finirebbe per diventare forse più ardua da stabilire, più labile e indefinita. Comporterebbe anche di non potere più parlare di individuo patologico, non meno di quanto si possa farlo di una società come sua origine patogena.

5. Follia come «irrealtà» e disgregazione del sé?

Cosa sarebbe questa follia senza distinzione di genere e di insieme? Forse quello che – stando sempre a Lowen – si può definire senso di «irrealtà». Che a sua volta inizia dove i confini tra ciò che è distinto e indistinto, individuo e collettività, diventa sfuggente, non più facilmente tracciabile. L’oggettivo e il soggettivo si perdono nel riflettersi di un dialogo inesorabile ed equivoco in cui, a sua volta, non è più chiaro chi è complice e chi mandatario di sensi: la società assorbe il senso che gli individui intendono attribuirle, essa li condiziona e plasma secondo la necessità di perpetuarsi nel disegno che le è stato da loro affidato. Quindi: è la società, la cultura, il mondo in cui viviamo a predisporre l’individuo alla follia, o è l’individuo a determinare il grado di follia del mondo in cui viviamo? In pratica, cosa o chi causa il germe della follia? E questo interrogativo può riguardare il fatto che, in realtà, tecnicamente, nel linguaggio medico non si usa mai il termine «pazzia», o «follia», ma tanti diversi termini che definiscono disturbi, affezioni diverse della psiche, fino a raggiungere quello di «personalità» che – dal punto di vista clinico – è come una costellazione di tanti attributi che formano un individuo. La follia però sembra risultare dalla disgregazione di quello che si definisce, appunto, con il termine «personalità». Anche se nel definire un disturbo psichico e psicologico si tende sempre a percorrere la via descrittiva che si usa nel definire una personalità. Come se gli attributi descrittivi fossero prodotto della personalità, e la personalità ne potesse rappresentare la loro origine ed essenza. Ma la personalità è quanto definisce un’unità, un nucleo aggregativo in cui un soggetto può riconoscersi: se si prendesse ogni sua parte isolatamente, infatti, non potrebbe riconoscersi, né altri potrebbero riconoscerlo; che è invece proprio ciò che accade nel caso della follia: l’unità si perde, ed emergono tanti tratti isolati che prendono il sopravvento sulla stessa. Quindi la società non avendo un carattere personalistico non si può che percepire nelle sue tante disgregazioni. Ma in questo modo, così come accade per la follia, la sua mancanza di un nucleo unitario, allora, non la dispone ad assumersi la follia della sua mancanza di unità e di identità? Non è, quindi, folle nella sua essenza una società non potendo risolversi in una sua unità e identità? Proprio come è folle un individuo manchevole di un Sé unitario, e di una sua identità? E ciò che definiamo «persona», in quanto individuo, non è proprio ciò che si contrappone alla massa indistinta di individui che una società vorrebbe comunque educare se non plasmare e condizionare, in qualche modo omologare? O non è invece la società a consentire anche il formarsi di tante persone diverse con una loro identità in costante dialogo e rapporto le une con le altre, a determinare che si delinei ciò che possiamo individuare come persona, in quanto soggetto unico e non solo come individuo di una massa indistinta (le «genti»), o come – in termini hobbesiani – individuo rappresentante di sé stesso? Oppure è ciò che come tanti frammenti di una unità non è poi più in grado di percepirsi come un insieme? Certo è che da quella che fin da Aristotele era considerata la natura aggregativa (politica – koinonia politiké) dell’uomo sociale (zoon politikon), quindi peculiare, unica e perciò in dialogo, in contrapposizione o in accordo; siamo giunti a una sempre più indistinta natura, omologata, dell’epoca moderna, in cui alla polis (la città del popolo riunito che dialoga e concorre politicamente agli interessi di ciascuno) si è sostituita la «globalità» delle «genti» senza più patria e colore, lingua e bandiera. L’omologazione «che cancella tutte le individuazioni, mortifica le singole soggettività, a cui viene sottratto l’agire in vista di uno scopo, sostituito da un puro e semplice fare azioni descritte e prescritte, senza una visibile finalità che possa giustificare e rinsaldare la loro identità» come afferma U. Galimberti in La casa di psiche. Dalla psicanalisi alla pratica filosofica.10

Questo processo di «de-individuazione»11 ha sottratto l’uomo alla capacità di provare dolore che come sostiene Natoli è la modalità di esperienza più individuale ci sia, oltre a quella della morte.12 Ed ecco sorgere «disturbi», quando non vera e propria follia, di natura egosintonica, impossibilitati a fare percepire all’individuo che ne è portatore della sua malattia. E non è un caso che invece le odierne società dei consumi (come delineate dalla Scuola di Francoforte negli anni ’60) si votino ad un eudemonismo sfrenato e livellante nei gusti della massa, e di conseguenza delle identità dei singoli che in quelli finiscono per identificarsi. Edonismo altrettanto livellante, che cancella la vera e più profonda percezione del piacere (non malato e proprio, a livello profondo, di un soggetto dotato di coscienza di sé), quindi eudaimonico. Il limite di sé che il dolore fa emergere13 può spiegare perché ci si trovi sempre più a vivere in un mondo dove il Sé non percepisce più limiti, né confini – che non a caso questo corrisponde e può spiegare come un disturbo di personalità quale il narcisismo patologico sia in costante crescita nelle nostre società; tanto che i redattori del DSM 5, in fase redazionale, considerarono l’eventualità di eliminarlo dal manuale come disturbo, vista la sua incidenza nella popolazione in maniera sempre più crescente. E la follia è, in molti casi, l’assenza di qualsiasi cognizione del dolore mentale, oltre che della cognizione della propria patologia; proprio come avviene nei disturbi ego «sintonici». Il mondo in cui viviamo vuole dimenticare il dolore, o almeno dissimularlo, in uno stordimento collettivo in cui annegare la percezione di sé, di un Sé. E in cui l’ego si limita a percepire se non mere funzioni, e agire se non per performance, dove nessun sentimento di disagio, di afflizione o di malinconia possa percorrerlo in modo pregnante; tanto da condurlo persino in conflitto, in collisione con sé stesso, come accade invece in disturbi come la depressione – male al quale negli ultimi tempi si è stato sostituito il narcisismo patologico, secondo Lowen.14 La prospettiva è la stessa che considera le passioni (pathos, paschein, in quanto subire) come qualcosa dovuto a una pressione esterna o a rappresentazioni del mondo esterno (piaceri dello spirito e del corpo, gloria, promesse di guadagno, offese, ecc.), e di cui l’uomo si trova assoggettato suo malgrado, in un’indole naturalmente ricettivo-passiva. Un’idea già presente nel Platone del Timeo, dove la passione è una «malattia dell’anima»15. In questo quadro, come osserva M. Veggetti «la passione, come la malattia per i medici, rappresentava dunque un cedimento dell’anima al suo “altro”: il corpo, oppure l’ambiente sociale»16. Così accade anche per gli Stoici, dove la passione è una malattia generata dal di fuori: dalle rappresentazioni dell’ambiente educativo e sociale. Così in Hobbes, l’uomo malvagio lo è in funzione di qualcosa che lo attraversa ma che non riguarda necessariamente la sua essenza in quanto tale: sono il prodotto della sua malattia dell’anima, delle sue azioni malvagie. Da sempre sembra sussistere la consapevolezza che una malattia dell’uomo non è solo qualcosa che sta dentro di lui, ma che dialoga, se non altro, con un inalienabile fuori, imponente e inaggirabile. Dialogo che indica come la pazzia possa diventare una sorta di «delirio», dove la realtà svanita è in realtà in ostaggio di un «inframondo», secondo la prospettiva di Bodei: un mondo intermedio tra dimensione privata e pubblica.17 Ma anche dove non c’è percezione di sé come non c’è ammissione di una possibile coscienza a governo dell’individuo come di una società – in modo, in ogni caso, etero-referenziale.

6. Follia come delirio e smemoratezza del sé?

Il delirio raccoglierebbe, quindi, tutte le contraddizioni altrimenti inspiegabili a cavallo tra il soggettivo e l’oggettivo, le volontà contrastanti (comunicare e non comunicare) con quelle che urgono loro malgrado esprimersi tramite una soggettività. E dove l’identità dei ricordi, della memoria, svanisce per lasciare il posto al solo bisogno di cavalcare il presente.18 Ancora una volta, questo bisogno di vivere in un eterno presente sembra correlato all’emergere del disturbo narcisistico odierno, per cui vivere il presente, come osserva C. Lasch, è l’ossessione dominante: «vivere per sé stessi, non per i predecessori o per i posteri»19. In questa percezione si fa strada anche la convinzione che la propria volontà è onnipotente, ma nella dipendenza psicologica dalla società, dal gruppo, dagli altri, perché il proprio «sé grandioso» di cui parlava Kohut (Narcisismo e analisi del sé, 1971) può alimentarsi solo nel suo riflesso dato dall’altro, dal mondo. Si tratta però, sempre di un mondo percepito nel presente, perché l’onnipotenza non ha ricordi, quella che i latini chiamavano «reminiscentia» (una sorta di riconoscimento di azioni luoghi e persone precedenti), può riconoscere solo modelli esterni a sé, lontani da ogni legame proprio con cose riconoscibili di sé o di un proprio passato, fatti propri, interiorizzati acriticamente come qualcosa che ad esso appartiene come si trattasse di un’appartenenza originaria. Il presente si può solo cogliere dai sensi ed imitare, non rielaborare e ripercorrere come un passato – il quale comporta un dialogo interno e profondo con il proprio sé, il riconoscimento di un sé. Questo aspetto distingue il narcisismo dal puro individualismo, perché mentre per il narcisista il mondo è uno specchio, come osserva ancora Lasch, per l’individualista è una «terra di nessuno da modellare secondo la sua volontà»20. Il soggetto narcisista accreditato dalla nuova società è invece sempre più dipendente, pur nella sua volontà di onnipotenza, anzi proprio in ragione di essa, dallo stato, dall’azienda, dalle organizzazioni burocratiche, da cui trae conferma della propria autostima – peraltro mai sufficiente al suo bisogno di grandiosità – e anche per questo ulteriormente dipendente. Ma nelle nuove società si assiste anche allo sgretolarsi delle antiche forme di autorità patriarcali rappresentate originariamente dai padri, maestri e predicatori, dovuto all’indebolimento e declino dell’autorità, oltre che a una società apparentemente permissiva che, a sua volta, ha condotto a un «declino del Super-io» negli individui. Sgretolamento che lascia il Super-io individuale all’azione incontrollata di elementi inconsci, irrazionali, regressivi e informi.21 Il presente senza passato e forma prende così il sopravvento con la sua indistinzione tra identità profonda del sé e del mondo. È l’indistinzione che nella ricerca di un’identità da parte di un soggetto (la sua individuazione, quindi differenza), così come nella ricerca dell’identità di una cultura e di una determinata società, sollecita la necessità di un’alterità: «l’identità, quanto più è coerente, tanto più assume un significato di “particolarità”, affiora allora insopprimibile, incancellabile, l’alterità»22. Si crea così una dinamica inalienabile tra esigenza, da un lato, di preservare la propria differenza con cui un soggetto cerca di dare corpo a una propria identità e, dall’altro lato, un’alterità che si impone come parametro e misura di quella stessa differenza e dunque identità.23

7. Da un’identità a un’indistinzione

Questa indistinzione che ha la stessa portata di un paradosso, come quello del mentitore, sia perché non è più in gioco una verità (chi o cosa sia il vero soggetto malato: l’individuo o la società di cui ne è parte), sia perché la pretesa di assegnare un primato resterebbe un primato speculare al suo apparente opposto, e perché come accade nel paradosso del mentitore il soggetto che parla è lo stesso di cui si parla (come osserva M. Foucault in Il pensiero del fuori)24. E questo paradosso illustra bene anche il fatto che il concetto di follia – almeno come malattia mentale, e quindi come riconoscimento di un suo preciso statuto – nasce alla fine del XVIII secolo come la rottura di un «dialogo», fa osservare Foucault, dove la follia non è più qualcosa di indistinto con la ragione, ma diventa oggetto a sé stante, caratteristica propria di un individuo.25 Quindi la società è ciò che osserva da fuori, contiene questo individuo, lo riconosce o lo misconosce; non è più chi pronuncia qualcosa dal di dentro e dal di fuori nello stesso tempo. Da qui si innalza il linguaggio della psichiatria come «monologo della ragione sopra la follia»26 che mette a tacere quel dialogo. Oltre il paradosso del mentitore, anche il paradosso di Cantor si può prestare al rapporto follia/società. Infatti, l’insieme di tutti gli insiemi, I (in questo caso l’insieme della società che contiene gli individui che la costituiscono), deve sicuramente essere il più grande insieme di insiemi che esiste (per poter condizionare infine ogni suo individuo). Ma, l’insieme potenza dell’insieme di tutti gli insiemi è più grande di I. Dovrebbe, cioè, esserci una società al di sopra della società stessa che a sua volta condiziona lo stato di normalità o di follia della società che contiene infine i propri individui. Così, come nel rovescio del caso, un individuo dovrebbe rimandare ad un altro soggetto al suo interno, in una doppia interiorità in grado di auto condizionare la propria soggettività – ammesso che solo un individuo sia causa della propria follia – infatti, ci deve sempre essere un oggetto che ne condiziona un altro per poter parlare di causalità o di condizionamento, ma se è così, come si può parlare di follia di un soggetto?

8. Dall’indistinzione della follia al radicamento

Come superare il paradosso e l’aporia soggetto/collettività insito nel concetto di follia? Un modo potrebbe essere ricollocando il soggetto alla sua alterità e ancorando la società al soggetto in quanto singolo prima che alle «genti». Ritrovando la dimensione pratica ed etica del soggetto. In cui questa aporia si rimoduli in una riflessione centrata anche sulla dimensione del bisogno e del desiderio soggettivi. In questo modo si arriva a riconsiderare anche categorie che riesaminano le dinamiche dei condizionamenti sull’individuo. Riabilitando, ad esempio, concetti come quello di «alienazione». Concetto apparentemente inattuale, anche se ricondotto nel dibattito degli ultimi anni grazie anche all’uscita di Alienazione. Attualità di un problema filosofico e sociale di Rahel Jaeggi (2005) e L’uomo flessibile di Richard Sennett (1998) che riabilita classiche ma rivisitate tematiche sui rapporti tra capitalismo, condizionamento e dinamiche di potere sugli individui. Concetto che può riconsegnarsi, almeno in parte, a quello di follia là dove intendiamo metterla in relazione con dinamiche di soggetti socialmente denaturalizzati di un sé identitario nella loro esistenza in società. In questa luce la minaccia del «capitalismo flessibile» dell’identità dei singoli e della società sembra persino abolire categorie critiche in cui fare affiorare una dimensione identitaria autodeterminata. Sopprimendo un’identità promossa dal autoriflessivo e autocritico e lasciando emergere invece l’io della maschera sociale, dell’autoriferimento, del richiamo a ciò che esso è (gli è imposto di essere e in cui finisce per riconoscersi), invece che dal sé che esige e rivendica la sua essenza autentica, la sua natura. In questo rientra un concetto di radicamento, in cui il Sé, rispetto a un io alienato può assurgere, nella misura in cui, almeno, il sé diventa «io» proprio in quanto non ha valore e dignità in sé stesso, in quanto tale, ma rimanda ad altro. Così, ad esempio, come illustra Jaeggi, alienate sono quelle relazioni che non vengono strette per sé stesse, o quelle azioni con cui è possibile identificarsi. Così come di «alienazione» si può parlare, egli spiega «nel momento in cui qualcuno non può identificarsi con le istituzioni sociali o politiche in cui vive e che non può concepire come proprie»27. Nella perdita di identificazione dell’individuo gioca un ruolo anche la spersonalizzazione del desiderio, dove il desiderio si incarna in un potere estraneo «che siamo noi stessi»28» Per questo è indispensabile uno «smascheramento» dei desideri come emancipazione del soggetto che desidera, e poi vuole, intende ed agisce. Una «liberazione verso sé stesso» diventa possibile riordinando il rapporto tra «desideri veri», «sé» e «concezione di sé». Questo fa emergere anche una dialettica tra follia e libertà. Perché libero è chi può ad ogni effetto riappropriarsi del suo «sé» e della sua intima identità. In questa ottica, la follia è anche una costruzione, là dove insinua una narrazione del sé – o meglio, dell’io – che coincide con quella che la società dominante richiede: la narrazione di un io sano, omologato, conforme di contro ad uno «folle» privo di maschera, spogliato di un racconto approvato della sua individualità. Non sempre però la privazione della maschera comporta la follia. È la consapevolezza della maschera e della narrazione socialmente richiesta a tenere in equilibro l’inevitabile dialettica tra «io» sociale e «sé» individuale.


  1. Di l’«uno e l’altro» in relazione al concetto di identità ne parla U. Galimberti in Psiche e techne, Feltrinelli, Milano 1999, p. 69; così come parla non molto diversamente di «due in uno» della coscienza H. Arendt in La vita della mente, (1978). ↩︎

  2. Cfr., U. Galimberti, Ivi, p. 591. ↩︎

  3. S. Freud, Disagio della Civiltà, in Opere Complete, Boringhieri, Torino 2013, p. 5059. ↩︎

  4. S. Freud, Ivi, pag. 5060. ↩︎

  5. T. Hobbes, Il Leviatano, vol. I, a cura R. Giammanco, Utet, Torino 1955, p. 108. ↩︎

  6. S. Freud, Ivi, p. 5058. ↩︎

  7. T. Hobbes, Ivi, p. 196. ↩︎

  8. Ivi, p. 200. ↩︎

  9. «Una persona è colui le cui parole o azioni sono considerate o come sua creazione, o come una rappresentazione delle parole o azioni di un altro uomo, o di qualsiasi altra cosa a cui sono attribuite od in senso reale o figurato», T. Hobbes, Ivi, p. 196. ↩︎

  10. U. Galimberti, op. cit., p. 12. ↩︎

  11. Ivi, op. cit. p. 13. ↩︎

  12. S. Natoli, in L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli, Milano 1986, p. 15, In Galimberti, op. cit., p. 13. ↩︎

  13. Ibidem. ↩︎

  14. C. Lowen, Il narcisismo, l’identità rinnegata, Feltrinelli, Milano 2013, p. 7. ↩︎

  15. Platone, Timeo, 87a. ↩︎

  16. S. Vegetti Finzi, a cura di, Storia delle passioni, Laterza, Bari 1995 p. 47. ↩︎

  17. Cfr., R. Bodei, Le ragioni del delirio. Ragione, affetti, follia, Laterza, Bari 2015, pp. 31-34. ↩︎

  18. Lasch nell’esaminare l’incidenza del disturbo narcisistico nella società attuale, mostra la correlazione tra l’esigenza dell’individuo odierno di radicarsi nel presente misconoscendo le proprie radici storiche in un’esaltazione del futuro che lo disancora, di fatto, dalla stessa vita presente nei suoi aspetti identitari. La svalutazione del passato, secondo Lasch, è uno dei sintomi più rilevanti della crisi culturale che prende in esame nel testo, rivelando la «disperazione» di una società incapace di affrontare il futuro. Cfr., C. Lash, La cultura del narcisismo. L’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive, Bompiani, Milano 1992. ↩︎

  19. C. Lasch, op. cit., p. 18. ↩︎

  20. Ivi, p. 23. ↩︎

  21. Ivi, pp. 24-25. ↩︎

  22. F. Remotti, Oltre l’identità, in Contro l’identità, Laterza, Bari 2007, p. 44. ↩︎

  23. «Questo gesto di separazione, di allontanamento, di rifiuto e persino di negazione dell’alterità non giunge mai a un suo totale compimento o realizzazione. L’identità respinge; ma l’alterità riaffiora». F. Remotti, Ivi, 45. ↩︎

  24. M. Foucault in Il pensiero del fuori, Ed. Fata Morgana, Milano 1998, p. 11. ↩︎

  25. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli Editore, Milano 2011, p.19. ↩︎

  26. Ivi, p. 20. ↩︎

  27. R. Jaeggi, Alienazione. Attualità di un problema filosofico e sociale, Castelvecchi, Roma 2017, p. 38. ↩︎

  28. Cfr. Jaeggi parafrasa alcuni concetti chiave di R. Geuss. Cfr. Auffassungen der Freiheit, in Zeitschrift für philosophische Forschung, vol. 49, gennaio-marzo 1995, pp. 1&-14, p. 6. in Ivi, Jaeggi p. 166. ↩︎