1. Dal primato della libertà alla sua fatticità
Come è noto secondo Sartre non si può pensare il movente di un’azione in maniera oggettiva, al di fuori cioè del giudizio determinante dell’agente, come se fosse una forza che gli si imporrebbe irresistibilmente da un altrove: al contrario è «il per-sé [che] deve conferirgli il suo valore di movente o di motivo» [Sartre 1943, 492]. La questione si sposta allora sul progetto esistenziale che costituisce i moventi come tali, o più in generale sul rapporto tra il sé o carattere e le sue azioni: in che misura queste possono essere ancora libere se scaturiscono da quello?1 Ora è certo vero che un atto di libertà, per essere autenticamente tale e non un semplice capriccio o un atto indifferente, deve configurarsi in coerenza col progetto che caratterizza (che è) il per-sé [ivi, 510]; tuttavia occorre anche che questo progetto originario che io sono sia a sua volta liberamente scelto da me [ivi, 547]. Ma oltre al fatto che questa soluzione di fondare la libertà appellandosi ad un carattere scelto liberamente riposa chiaramente su una petitio principii, la difficoltà che si presenta ora è quella di conciliare la libertà delle azioni con la determinazione della loro origine (il carattere: che sia scelto o meno per adesso poco importa). Se l’azione libera è pur sempre fondata dal o nel carattere dell’agente, si può domandare: «potevo io fare diversamente senza modificare sensibilmente la totalità organica dei progetti che io sono»? [ivi, 510] No, perché quel «diversamente» richiede «una brusca metamorfosi del mio progetto iniziale» che può avvenire solo «mediante un’altra scelta di me-stesso e dei miei fini. Questa modifica è d’altra parte sempre possibile» [ivi, 521]. Ma, si potrebbe obbiettare, possibile per chi?2 Se muto progetto muto me stesso: non sono io allora ad essere libero ma un altro, cioè il nuovo io generato dal nuovo progetto: si deve dire allora che «l’altra scelta di me-stesso» si è trasformata nella scelta di un altro se è vero che il mero poter-esser-altrimenti (altro), se non è preceduto e fondato da una nuova identità-progetto-esistenza (dall’essere un altro), è solo una vuota alterità.
Se la scelta originaria ovvero l’identità attuale è davvero cogente e determinante, allora non si potrà agire diversamente da quello che sempre si è, perché quel diverso è in verità già identico, e ogni tentativo di uscire fuori da sé avviene all’interno del limite del sé (è impossibile evadere dalla prigionia trascendentale). Ma oltre al fatto, già accennato, secondo cui anche se fosse possibile sospendere la forza di determinazione del progetto attuale per scegliere un altro progetto, si dovrebbe concepire questa conversione come una metamorfosi in un altro sé (per cui posso-fare-altrimenti solo e a patto d’essere un altro3, e cioè praticamente, mai: solo altro farebbe altro, mai io medesimo; inoltre io dovrei essere me e altro per poter concepire o percepire l’avvenuto mutamento, perché se divento (solo) un altro non lo avverto: non posso cioè osservarmi divenire altro: sé non può attestare sé come un altro, se è diventato completamente altro) — oltre a ciò si dovrebbe considerare che anche con la nuova identità si registrerebbe un analogo sacrificio dell’altrimenti perché essa tosto procederebbe a identificare l’alterità, cioè a renderla omogenea al nuovo sé (l’escursionista pigro che diventa scalatore, scalando non fa (più) altrimenti: fa ciò che deve fare uno scalatore4). Questo nuovo sé certo è meno dato che scelto: ma, una volta scelto, si irrigidisce in datità o situazione. Perciò scegliere liberamente l’identità, divenire liberamente un altro non è sufficiente se ciò incatena ad un’identità che necessita in modo rigoroso e non consente più di divenire altro o di rimettere in gioco ogni presunta definitività attraverso sempre ulteriori altrimenti. Ma qual è l’autentico spazio di accoglienza di questi altrimenti? Non saranno essi solo astratti, se divergenti in modo radicale dall’identità attuale che si è? «Sono forse libero di volere qualsiasi cosa in un momento qualsiasi?» [ivi, 509]. Una possibile via d’uscita sarebbe quella di un altrimenti che si produca all’interno di un sé senza richiedere a questo di essere totalmente altro5: l’escursionista pigro che resta tale, ma si sforza, fa anche altro da ciò che è, pur essendo ciò che è, fa davvero altrimenti. Il totalmente altro d’altronde o è un sé solo altrimenti identico a se stesso, una pur sempre, per quanto diversa, identità, oppure è nessuno, cioè un sé sempre differente. In entrambi i casi — (nuova) definitività o dissoluzione (di ogni identità) — si avrebbe un’identità rigida negatrice di un autentico altrimenti.
Insomma per scegliere altrimenti non occorre essere necessariamente un altro, anche perché ciò porterebbe ad una deresponsabilizzazione morale. L’assassino potrebbe infatti difendersi dicendo: «avrei dovuto essere un altro (altri genitori, altro ambiente) per non sparare». Oppure vent’anni dopo l’omicidio potrebbe contestare: «perché tenete in galera un altro dall’assassino che ero, ma che ora non sono più?» Domanda che in verità possiede il suo valore solo se pronunciata all’interno di un percorso di recupero, di pentimento, confermando cioè come lo stesso possa anche diventare altro. Ciò dimostra anzi e in più che la responsabilità si misura nell’accogliere, vivere e eventualmente respingere l’altro nello stesso: non è cioè che all’onesto non sia mai venuto in mente di delinquere, per il solo fatto che egli è l’onesto e non il delinquente. L’onesto è entrambi, simul, ma resta onesto pur potendo diventare — o in una certa misura, potenziale o parziale, già essendo anche — altro, così come inversamente il delinquente potrebbe diventare altro (onesto) pur non dovendo con ciò trasformarsi in un altro (accettando cioè come giustificata la pena inflittagli per le sue colpe passate). Dietro la risposta «sono fatto così» si può celare allora la debole giustificazione di chi non voglia farsi altro (migliorare) perché ipotizza che ciò implichi — ma questo è l’errore come abbiamo detto — una rinuncia a sé, oppure la pigrizia morale di chi ha lasciato, e in questo consiste la colpa, sclerotizzare la libera scelta in una (presunta6) immutabile abitudine, di chi non è disposto a intraprendere il duro lavoro della ripossibilizzazione, preferendo ad una possibilità che può essere certo sconvolgente la costanza rassicurante di azioni consolidate.
Se non ci si mantiene in questa oscillazione o contaminazione tra sé e altro, che rifugge ogni definitività (identità assoluta), senza con ciò votarsi ad un dissolutivo e vorticoso mutamento (alterità assoluta), si rischia di venire rinviati ad una sorta di determinismo ammorbidito parzialmente da un atto originario di scelta, che è la soluzione leibniziana dei mondi possibili: possibilità a monte ma non più a valle. Dio poteva scegliere tra mondi (o identità) possibili, ma una volta scelto X la scelta diventa ragione sufficiente-determinante, per cui da X deriverà solo wyz etc: certo non qualunque cosa, ma nemmeno qualcos’altro7.
Per Sartre però non solo la scelta parziale è sempre condizionata a monte dal progetto totale e iniziale che la è, ma tale progetto iniziale è a sua volta in rapporto dialettico con la situazione: «la libertà non si concepisce che come esercizio di nullificazione di un dato» [ivi, 539] e dunque non è mai autenticamente originaria e autoriginantesi, sorgiva e iniziale. «Per questo noi respingiamo la “scelta del carattere intelligibile” di Kant. […]. Una scelta che fosse scelta a partire da niente, scelta contro niente, non sarebbe scelta di niente e si annullerebbe come scelta» [ivi, 538]. Eppure qui non si assiste tanto ad un condizionamento, seppure negativo, da parte dell’in-sé nei confronti del per-sé, quanto ad una circolarità, perché la situazione che mi determina non è prodotta da altro che da una selezione, da parte del mio essere fatto così, di possibilità che a loro volta costruiranno la mia situazione. Ecco perché la situazione «è un fenomeno ambiguo, nel quale al per-sé è impossibile distinguere l’apporto della libertà e dell’esistenza bruta» [ivi, 546]. E’ questo «il paradosso della libertà: non c’è libertà che in una situazione e non c’è situazione che mediante la libertà» [ivi, 548].
Ma se la libertà non è un atto di autoriginazione assoluto, di scelta di un livello originario da cui a loro volta si origineranno le singole scelte successive, essa «non si distingue dal mio essere» [ivi, 518] che, per la sua «ingiustificabile» infondatezza, si riduce ad una datità fatale (contingenza assoluta, gratuità) [ivi, 522]. Qui ciò che sembra alla fine prevalere, nonostante ogni circolarità, è allora il primato dell’essere infondato e gratuito sulla libertà la quale, oltre a non fondare — perché si limita a sceglierlo — l’essere (del per sé)8 [ivi, 537] non può fondare nemmeno se stessa. Una libertà identica con l’essere diviene una specie di fatale condanna, per cui essa non può essere libera da se stessa [ivi, 495]: «è la fatticità della libertà» [ivi, 543], un’insuperabile in-seità a cui non possiamo sottrarci: noi siamo la nostra scelta e scegliamo solo ciò che siamo. Ci troviamo insomma di fronte all’intrascendibilità del cerchio magico di un essere che è tanto prima quanto dopo la scelta di sé: la scelta rischia così di essere però solo un’autoratificazione, una convalida a posteriori di ciò che inevitabilmente o meglio, insensatamente, già si è: «l’essere è senza ragione, senza causa e senza necessità» [ivi, 687].
2. Oltre l’assolutismo del prigioniero e dell’autoriginazione
La questione sin qui esposta trova un suo approfondimento nel dibattito etico contemporaneo sviluppatosi soprattutto in ambito anglo-americano.
Secondo il cosiddetto hard determinism «anche se noi “liberamente” facciamo ciò che vogliamo, ciò che vogliamo, i nostri desideri e credenze, non sono ultimativamente qualcosa che scegliamo»; «una persona può cambiare il suo carattere, ma non il “sé” originale che può scegliere se fare o no uno sforzo di cambiamento». Se tutto è solo questione di «cattiva sorte» (se non sono io l’autore libero delle mie azioni ma l’ambiente che mi ha costruito, i miei neuroni, l’inconscio o un’essenza trascendente o trascendentale che agisce in me) allora, in questo ampio contesto di eredità passate e di responsabilità pregresse che si sono sovrapposte e fuse indistintamente nel tempo, non «possiamo ritenere nessuno responsabile per ciò che è» [Smilansky, 2000, 45]: se lo punissimo, sarebbe come punirlo solo per il colore della sua pelle [ivi, 47]. È tuttavia problematico attribuire tutto alla sorte e trascurare il successivo apporto individuale alla costruzione del sé [ivi, 46]; ciò significherebbe infatti presupporre il soggetto in uno stato di completa passività di fronte alle circostanze che lo modellarono e contro le quali egli nulla potè fare (di diverso). Se il duro determinista si arresta al livello ultimativo del «sono fatto così» il libertario ritiene invece che questo livello non sia affatto ultimativo, ma ammetta un ulteriore livello fondativo in base al quale tutto è sempre oggetto di scelta, compreso il livello ultimativo stesso; anche perché chi conclude dicendo «che colpa ne ho se sono fatto cosi», ha operato egli stesso una scelta: quella di privilegiare il suo essere fatto così9. Si potrebbe però chiedere: quanto è stata libera fondamentalmente tale scelta? Il duro determinista potrebbe infatti osservare che affinché questa scelta sia autenticamente libera si «richiede non solo autoralità dell’azione, ma anche autoralità del sé», del soggetto di tale scelta; ma ciò condurrebbe a un regresso infinito da cui si esce solo eliminando «la richiesta di autoralità di secondo grado» [ivi, 48] e tornando a riconoscere l’irresponsabilità di azioni che sarebbero perciò «solo un dispiegamento delle persone quali sono ultimativamente date» [ivi, 49]. In questo caso non solo le mie azioni ma io stesso sarei prigioniero di me stesso, sarei a me stesso situazione10, proprio come lo è l’essere situati spazio-temporalmente: ogni mia azione sarebbe inevitabilmente mia, determinata da un me di cui non posso liberarmi11.
E tuttavia è davvero importante determinare il grado ultimativo di libertà delle nostre scelte o azioni, premesso che da un lato libero assolutamente, in modo completo, puro, non si potrà mai esserlo, e dall’altro che tutto ciò non compromette il valore delle nostre azioni? Se siamo posti all’interno del cerchio magico, inevadibile, del «prigioniero», se per parafrasare diciamo che il n-y-a pas de hors-sujet, che si fa? Rincorriamo all’indietro, metafisicamente, un’origine incontaminata, oppure ci rassegniamo all’inviolabilità del circolo, o infine, nonostante tutto, continuiamo a scegliere, pur muovendo da quel presupposto inaggirabile? In quest’ultimo caso il «sono fatto così» pre-determinato è in fondo irrilevante da un punto di vista morale, è un semplice truismo oppure, visto che siamo (da) sempre collocati in una situazione e dotati d’un passato (psichico, biologico, cosmologico), un’inevitabile ma anche necessaria base di partenza: il riferimento a un livello ultimativo dell’azione potrebbe allora forse avere un senso teoretico, ma non pratico.
Eppure sono davvero irrilevanti, da un punto di vista morale, le cosiddette questioni di principio? Aiutare qualcuno ha differente valore morale se si origina da un moto di altruismo o da un calcolo egoistico, oppure ciò non importa, perché l’importante è aver prodotto azioni generose? Il fatto è che l’intenzione colora di sé anche l’azione e questa non è certo indipendente da quella: quanto si sarà infatti disposti veramente a aiutare e chi sarà oggetto di rispetto o di amore nel caso di un aiuto egoisticamente interessato? Lo stesso si può dire per la libertà: riprendendo il noto es. di Locke12, una cosa è essere liberi di restare, per propria volontà, in una stanza, altra cosa è solo crederlo, perché in realtà sono chiuso a mia insaputa in essa dall’esterno. Se non si può giungere, positivamente, a un’origine pura e assoluta delle azioni è almeno possibile, se non necessario, negativamente, smascherare condizionamenti più o meno occulti. D’altronde ammettere l’inoltrepassabilità del sé e del suo interesse non significa che la nostra azione sia moralmente sospetta: impura sì (ma vedremo più avanti che non la purezza o l’ultimità sono l’originario, ma la contaminazione e la penultimità), ma il fanatismo morale non sembra essere un’alternativa migliore, oltre ad essere esso stesso non immune da meccanismi autoimprigionanti di cui la prima posizione è almeno consapevole.
La soluzione cosiddetta compatibilistica si ferma ad es. a metà strada nella ricerca regressiva di un’originazione, ad un già esistente di cui non importa indagare i livelli antecedenti e fondativi, ma solo quelli fondati a partire dal momento in cui si pone, più o meno arbitrariamente, l’arresto della concatenazione che coincide con l’inizio dell’azione: cioè a partire da un sé di cui non importa (non ne pregiudica la libertà) o è impossibile sapere da dove esso a sua volta provenga, al punto di dubitare che una tale originazione assoluta addirittura esista, vista la difficoltà di risalire questa catena di infinite co-determinazioni e reciprocità causali. Cionondimeno anche se in questa prospettiva non si può parlare di un’autoriginazione assoluta del sé o di una libertà sgorgante dal nulla, sé e libertà mantengono il loro significato parziale e relativo, o addirittura è proprio tale limite (l’ineludibilità di un presupposto) che conferisce a essi un significato. C’è da chiedersi infatti se non sia proprio la resistenza di quel che, come insuperabile dato ultimativo, secondo il duro determinismo ci rendeva non responsabili, a costituire il criterio o la condizione di possibilità dell’autentica dignità e valore morali13, che vengono conquistati nel confronto, nel raffinamento e non nell’impossibile e astratto annullamento della nostra — vera e propria zavorra — eredità o situazione. Al punto di sospettare che l’appello da parte del duro determinista ad un ultimativo livello di autoriginazione o di autoralità assoluta, riconosciute poi come impossibili, venga effettuato solo allo scopo strategico di screditare in generale la libertà, racchiudendola nell’ingannevole alternativa (manichea) per cui questa o è integrale o è nulla.
Ci si potrebbe quindi accontentare di ammettere la responsabilità solo a un livello inferiore, locale, senza scomodare o far intervenire livelli originari o intelligibili di cui solo misteriosamente si sarebbe responsabili: «sono responsabile di averti risposto male (quella volta), ma non del mio rispondere male (in generale), di avere un caratteraccio». Accontentarsi di una responsabilità parziale e locale significa perciò evitare gli opposti, entrambi insostenibili, per i quali da un lato si sarebbe responsabili in assoluto per livelli antecedenti o metafisici, e dall’altro, se «sono fatto così», non si sarebbe responsabili di nulla. In altri termini se non sono responsabile del mio carattere o della mia inclinazione lo sono però della scelta di assecondarli, soprattutto nel caso in cui essi siano solo la costanza di un’attitudine che attraversa tutte le azioni e scelte della vita e che si rinnova ogni volta attraverso queste. Ma, si potrebbe dire, verso quella (qualsivoglia) scelta potresti essere stato a tua volta inclinato-necessitato e così via. È altrettanto vero però che il «fatto» del «sono fatto così» allude, come participio passato, a un fare per nulla essenziale, ma storico, frutto di una processualità o di un agire, e come tale eminentemente passibile di essere altrimenti. A meno che non si voglia ammettere che in quanto appartiene ora al passato esso abbia acquisito la necessità. Una necessità che prima però non aveva: nato come libero, solo il tempo avrebbe incrostato il fare, aggiungendo sedimentazioni necessarie e irreversibili: ma come potrebbe il tempo mutare la natura essenzialmente libera di quel fare? O meglio, proprio per la sua natura temporale il fatto può altrettanto venire dis-fatto. Il che sottolinea però, al di là di una sterile opposizione tra libertà e necessità, la circolare coappartenenza e determinazione reciproca di fluidificazione e irrigidimento, di superamento e di rinnovata resistenza, di un (dis)fare che conduce a un altro semplice (dis)fatto. La necessità del fa(c)tum sarebbe così non semplicemente fenomenica, come un’aggiunta del tempo che accumula sul fare la crosta dell’immodificabilità, ma noumenica in quanto proverrebbe dalla sua natura libera stessa, da una libertà cioè che si è identificata in un fatto, che si è invischiata nel proprio fare, proprio come il volere nel voluto — senza il quale però come sarebbe ancora volere? E inoltre come pensare una libertà e un volere non puri ma invischiati?
3. Lo sforzo
Quest’autoriginazione parziale e relativa, a metà tra l’autoriginazione assoluta da parte del sé e la determinazione completa da parte di circostanze esterne o della sorte14, è quella dello sforzo che origina il sé nel mentre che si oppone alle circostanze. «Se una persona fa uno sforzo e crea qualcosa di valore, sarebbe perverso dire che non ha merito perché […] risulta dal suo carattere per il quale non è responsabile» [Smilansky, 2000, 78]. L’onesto «si sarebbe potuto comportare in modo analogo [al disonesto] ma non lo fece» [ivi, 77], e in ciò risulta essere «(parzial[e]) auto-creator[e]» [ivi, 79]. Qui però si potrebbe obbiettare: certo, egli si comportò in modo onesto perché è onesto, ed essendolo non sapremo mai come avrebbe potuto comportarsi altrimenti visto che egli non è altro da ciò che è. Si potrebbe tuttavia rispondere: ma l’onesto non è sempre onesto, e più che esserlo egli si sforza d’esserlo. La determinazione originaria non esclude lo sforzo, ovvero la modificazione di ciò che viene dopo l’origine, al punto da alleggerire il riferimento all’origine stessa. Si potrebbe però ancora obbiettare che lo sforzo riesce solo a chi il suo essere consente lo sforzo, ovvero di essere una persona che si sforza (implicando ciò un certo fatalismo). Chi dice: «non riesco a sforzarmi» da un lato avanza una scusa per una sua pigrizia, dall’altro però potrebbe intendere davvero di non essere portato, di non essere fatto così — tale cioè da riuscire a sostenere una sforzo contro la sua natura.
Ma qui vi è certo un’ambiguità nell’espressione «lo sforzo (non) riesce». Se letta in senso intransitivo lo sforzo è sempre possibile e esigibile: da questo punto di vista esso riesce sempre, perché anche uno sforzo sterile è pur sempre uno sforzo che non vanifica in nessun caso l’impegno profuso, e inoltre perché si dice «non voglio» e non «non posso sforzarmi», come emerge anche e proprio dall’espressione «è più forte di me», che lungi dal confermare la nostra impotenza oppure l’intrascendibilità a priori della situazione e del limite, registra invece il verificarsi in noi di una lotta e di uno sforzo. Diverso è il senso transitivo, dove davvero lo sforzo potrebbe non riuscire: ma qui ciò che non riesce non è lo sforzo (sempre possibile) ma ciò che esso dovrebbe conclusivamente produrre, un mutamento effettivo (non sempre possibile). Lo sforzo è così una vera e propria struttura trascendentale e antepredicativa. E che si tratti di un antepredicativo lo si comprende anche dal fatto che da un punto di vista meramente teoretico possiamo sia richiedere e giustificare lo sforzo (lo esigiamo in ambito fisico, intellettivo e morale: resisti di più, studia di più, comportati meglio etc), sia — pure coi limiti esaminati supra — negarlo («’è fatto così», non ce la fa, non gli si può chiedere di fare di più). L’indecidibile teoretico cede allora il passo alla decisione pragmatica, valoriale15: scegliamo — e si tratta al contempo di una scelta di dignità — di essere ciò che siamo, brutalmente, immediatamente, arrendendoci con ciò alla necessità e all’effettività, oppure di sforzarci di essere ciò che non siamo, aprendo con ciò alla possibilità e all’idealità?
Il desiderio di automiglioramento, di oltrepassare la propria natura-zavorra, conferma la dynamica uni-duale dello sforzo. L’aspirazione al miglioramento è desiderio di trascendersi ad un livello ideale che resta tale proprio nella contrapposizione al «sono fatto così»; e deve (o forse, vista l’impossibilità di ogni ab-solutezza: non può che) restare ideale perché se tale livello venisse realizzato si trasformerebbe esso stesso a sua volta in natura o fatto in cui si arenerebbe e spegnerebbe l’impulso di automiglioramento e di liberazione. Ma perché negativamente dire zavorra? «È come tu sei veramente»: ciò non esclude però l’appartenenza anche a un altro, non meno vero16, livello, che sollecita il tentativo di raffinare (non di eliminare) tale zavorra (il «sono fatto così» è la predeterminazione che sollecita la post-determinazione dello sforzo). Se sono allora ciò che la natura-zavorra ha fatto di me sono altrettanto ciò che lo sforzo ha fatto di tale zavorra. La situazione fa comprendere chi veramente tu sia, non tanto nel senso passivo e autogiustificativo dello s-viluppo di un’essenza; piuttosto essa rappresenta un banco di prova in cui dare il meglio (o il peggio) di sé. Quale è la tua identità morale? «Ciò che tu sei stato nella prova» [Lequier, OC 276].
La stessa estremizzazione di genere naturalistico secondo cui imputare a qualcuno la responsabilità per il proprio carattere sarebbe come imputargli la responsabilità per il colore della sua pelle viene ridimensionata da quei numerosi casi in cui ciò che del nostro corpo appare dato in realtà è costruito o frutto di impegno. Se dalla prospettiva del cosiddetto incompatibilismo antilibertario si può affermare che «le persone pongono grande valore nella bellezza, intelligenza e abilità atletiche innate, nessuna delle quali è prodotta volontariamente» [Pereboom, 2002, 482], si può tuttavia rinviare — oltre al fatto che l’atleta si distingue da chi è solo fisicamente dotato proprio per lo sforzo e l’impegno con cui coltiva tali abilità innate — proprio all’ambito della bellezza: «come sei bella!» dice l’amante all’amata, facendole un complimento relativo a un merito, a un impegno, a una virtù di cui ella sarebbe responsabile. Ed è proprio così se è vero che la bellezza non è un fatto meramente fisico (kalokagathia): ma, ancora una volta, esiste un dato meramente naturale, privo di un investimento di senso ideale, necessario persino per riconoscerlo come dato? Non sarà infine che la libertà, come la bellezza e in generale come la nobilitazione della nostra natura appartengono a quelle esigenze che emergono solo in una sfera spirituale superiore, quando si desidera, proprio attraverso lo sforzo e l’e-ducazione, l’emancipazione dal mero dato sensibile-animalesco (cfr. il mito della caverna)?
«Che ci posso fare se sono fatto così» potrebbe però rimandare a un superiore senso naturalistico; e cioè il mio ordine di valori (essenza) affonda le proprie radici in un mio essere-così che non deriva (almeno originariamente) da una scelta, ma nemmeno è una necessità estrinseca che costringe in modo penoso. In altri termini io sono una certa verità, non: mi oriento, la dimostro o aderisco ad essa. Proprio come si è il proprio corpo e non lo si adotta dall’esterno, e tuttavia ci si sente in armonia con esso senza averlo scelto. Il perché aderisca a tale orizzonte primario di valori non scelto, ma che guiderà la mia successiva scelta di valori da sussumere in tale orizzonte, non posso dimostrarlo, ma solo mostrarlo: attraverso me e le mie azioni esibisco in prima persona la verità che io sono e a cui aderisco per mezzo di una insondabile, con-naturata congenialità con essa. Anche con il «sono fatto così» si tratterebbe di una costituzione antepredicativa, di un fatto bruto inesplicabile e contingente, di un impianto pre-decisionale che fonda le decisioni e le scelte che si opereranno a partire o attraverso esso. Indipendentemente dal proprio essere antepredicativo e con le sole ragioni non sono possibili né decisione né persuasione, in quanto le ragioni o i motivi sono neutri o ambigui, decidibili in un senso o in un altro. Ciò che farà pendere la bilancia della decisione verso un lato o verso l’opposto sarà allora tale struttura predecisionale. Ma si tratta di una struttura necessaria, di uno stabile e definitivo «son fatto così», di un immutabile fatale/fattuale, o c’è la possibilità di modificare o almeno di scegliere, se non liberamente, pure però autoriflessivamente, tale impianto? Non si deve dimenticare che all’antepredicativo inerte della nostra situazionalità caratteriale, della nostra fattualità valoriale, si oppone ciò che abbiamo definito come l’antepredicativo dinamico dello sforzo.
Un’esempificazione di quest’ultima variante positiva del «sono fatto così» — in chiave cioè non autogiustificativa, come attenuante generica di un carattere biasimevole, ma al contrario come condizione di un agire libero — viene proposta da Dennett [1984, 133]: quando Lutero rompendo con Roma disse «io non posso fare altro», non era meno responsabile o libero. Ma quell’affermazione è espressione di impossibilità morale, non materiale, fisica o logica; inoltre Lutero la enuncia proprio perché c’è e gli viene richiesta la possibilità di fare altro. Non bisogna dunque concludere che egli non avesse altra scelta in assoluto, ma solo che non aveva altra scelta che, almeno ai suoi occhi, potesse definirsi moralmente buona. Ma tale affermazione manterrebbe ancora il suo positivo valore morale se fosse stata pronunciata, come in effetti lo fu, dal criminale nazista, o non sarebbe in quest’ultimo caso es. non di libertà o responsabilità, ma di meccanica e ottusa obbedienza? Ma quanto ottusa fu effettivamente questa obbedienza? La si può definire così solo in casi di animalità (o meglio demonicità) in cui non si affaccia un livello ideale a cui tendere attraverso lo sforzo. Ma nella maggior parte dei dilemmi morali, quando alla fine si afferma: «non c’è/non ho scelta», non si fa riferimento ad un’azione necessaria ma ad un’azione che è stata comunque voluta17. Il carattere morale non comanda con l’inesorabilità di un’essenza logico-matematica, ma viene sempre costruito attraverso lo sforzo oppure resistendo alle tentazioni. Chi a causa di un forte carattere morale non può fare altrimenti non è paragonabile al triangolo che non può che avere tre lati: ecco perché è lodevole, perché nonostante il suo carattere avrebbe potuto anche, pur sempre, agire immoralmente.
L’antepredicativo situazionale, la prigionia del «sono fatto così (che ci posso fare?)» può dare origine a diverse configurazioni concettuali o comportamentali che rivelano tuttavia come esso non sia mai un dato naturalistico, privo di relazioni costitutive con il polo opposto dello sforzo. La condizione del «prigioniero» sarebbe allora 1) già un’asserzione valutativa che potrebbe nascondere fatalismo, rassegnazione, pigrizia o malafede autoassolutoria18, oppure 2) se il fatto imprigionante viene avvertito come zavorra o limite, esso si pone come base naturale su cui innalzare un edificio spirituale, come premessa di automiglioramento morale. 3) Come manifestazione inevitabile o insopprimibile del nostro essere, come presupposto talmente essenziale e ovvio, di cui nessuno penserebbe mai di disfarsi, esso esprime il fatto banale per cui si possiede pur sempre un’identità: sarebbe un truismo analogo a quello per cui «non posso vedere che con i miei occhi»; oppure 4) innesca ancor più banalmente un’affannosa rincorsa giustificativa a posteriori, un adattamento postumo dell’azione al carattere, per cui intervenendo ogni volta come un deus ex machina direbbe: «hai fatto y perché sei y; se poi dovessi fare x è perché in fondo eri x etc.». Ma come emerge dal punto 3) «prigioniero» più che sollecitare una (impossibile) giustificazione a ritroso, sempre in ritardo sul fatto, si imbatte in un’ingiustificabile contingenza o in (ciò che viene valutato come) un’ingiustizia trascendentale (A: «non sei il mio tipo, che ci posso fare?»; B: «E io, che ci posso fare?») — in un noi stessi, in una certa misura indipendente da noi, contro cui però lottare.
Lo sforzo che avvia un processo di miglioramento di sé non solo costruisce un sé ideale liberando dal sé zavorra, ma costruisce al tempo stesso, progressivamente, la libertà, la quale, a differenza dello sforzo, è tutt’altro che originariamente data19. Con ciò non si contesta solamente la posizione fatalista, ma anche la posizione che di quella è l’errore simmetrico e opposto. Quella posizione cioè che nel momento stesso in cui intende la libertà come una realtà originaria e incontestabile, la interpreta come capacità di creare o ricreare radicalmente il sé, di liberare da se stessi. Ma la difficoltà che sorgerebbe qui sarebbe evidente: chi è libero? Chi è il soggetto di tale opera di radicale (auto)emancipazione? Mi libero da me solo per dare origine o meglio solo come conseguenza di un meta-io che pure ha operato la liberazione dall’io del livello inferiore; oppure mi libero da ogni io? Ma che libertà è quest’ultima? È una libertà assoluta indeterminata che dilata i suoi confini fino a farli coincidere, in totale indistinzione, con il tutto? Se non si vuole però proporre una libertà astratta ed eterea, che incardinata su nulla giri a vuoto, occorre riprendere l’indicazione di Schelling [1821, 205] il quale aveva osservato come essere liberi da sé non andasse inteso in senso assoluto come essere liberi da ogni forma, ma come «libertà di rinchiudersi in una forma». Si tratterebbe quindi di trovare una forma di identità libera che sia sé senza essere necessariamente sé, che sia anche e non solo sé, che sia un sé che possa porsi di fronte (a) sé, che possa uscire da sé senza rinunciare a sé. Insomma un sé dynamico che non si irrigidisca nel proprio ruolo o identità (a sé): che possa essere altro da sé pur, al contempo, rimanendo sé.
Quelle posizioni che esigono come culmine della compiutezza della libertà la libertà anche da se stessi, dalla propria identità20, rischiano di formulare in modo errato un problema autentico. Il problema non è l’inevitabilità dell’imprigionamento (chi è libero da se stesso? Semplicemente un altro se stesso), ma se, nonostante l’imprigionamento, nonostante il nostro inevitabile essere noi, noi si possa essere ancora liberi: secondo un condizionamento circolare e reciproco per cui anche se il mio voler essere libero fosse dettato dal mio carattere pure esso, come libero, in un certa misura si oppone a tale carattere stesso. Ma si può ammettere questa libertà solo se da un lato la nostra identità è oggetto di un processo di costruzione (inevitabilmente limitato e condizionato), e non di assunzione destinalmente indiscussa; e dall’altro se si rifiuta la concezione assolutista (di un’originaria e assoluta autocreazione del sé) la quale, alla luce dell’impossibilità di entrare o uscire (assolutamente) da se stessi, svuota di senso la libertà stessa relegandola ad un’astrazione insignificante. Il problema dunque non è l’assunzione positiva o negativa del semplice truismo per il quale uno è pur sempre se stesso (e come potrebbe non esserlo? Si è già sempre qualcuno, non esiste punto di partenza neutro o indifferente), ma è quello di chiedere cosa fare a partire da tale sé: e questo nostro fare a partire da un fatto non nostro è lo sforzo — laddove a partire significa al tempo stesso essere iniziati e iniziare.
Se lo sforzo costruisce la libertà esso non è (ancora o non sarà mai) la libertà. La libertà è la realizzazione felice e positiva, finale e compiuta dello sforzo e non contempla più il limite, ormai superato, perché se io sono libero la situazione non mi determina più, ma sono io al massimo a determinarla. A differenza della libertà che è (tutto o niente, sta e cade con la) realizzazione positiva, lo sforzo è solo (relativo, si mantiene pur sempre come) un movimento di tensione tra un ideale di miglioramento e un’effettività inerte, un tentativo di oltrepassamento della resistenza che sancisce la reciprocità costituiva di sé e situazione così come l’intrascendibilità del loro dualismo.
Una libertà che sia talmente (autenticamente) libera da essere libera pure da se stessa può intendersi solo nel senso per cui essa è innanzi tutto libera da ogni sua autopresupposizione metafisica (come se fosse originariamente esistente e compiuta), e inoltre come libera dalla sua positiva realizzazione. Essa dovrebbe perciò identificarsi con lo sforzo processuale senza venir coniugata al presente o al participio passato (sono libero, liberato), quanto piuttosto al gerundio o al present progressive. Ma nemmeno è sostantivo-sostanza, la libertà, ma dynamismo di un’azione, liber-azione. Quando si parla di libertà non si dovrebbe intendere una (impossibile) libertà effettiva, come liberazione compiuta e definitiva, il libero-liberato, ma una lotta costante contro una resistenza come è lo sforzo21: un concetto debole di libertà, solo possibile, perché essa resta libera solo sottraendosi (libertà al gerundio) all’effettività (liber-re-azione). Parallelamente essere prigioniero significa trovarsi non tanto in una definitiva e completa prigionia, senza speranza, ma in un forse altrettanto disperato tentativo di liberarsi22.
Più originario della libertà è allora lo sforzo. Esso è spontanea e insopprimibile reazione, insofferenza pragmatica, conato (primo tra tutti il nostro conato di indipendenza che s’affaccia già nella prima infanzia, contro i limiti del mondo), intenzione a cui non fa seguito, necessariamente, un effetto positivo liberato: se lo sforzo dovesse soccombere in un esito non riuscito, non soccomberebbe però nella sua azione autofinalizzata o come tentativo, nella sua essenziale irrequietezza, nella sua richiesta di idealità in opposizione al factum brutum del mero essere. La libertà lungi dal porsi come origine, si propone allora come meta ideale e asintotica (dello sforzo). Ciò non significa però che essa tenda ad ampliarsi all’infinito fino a inglobare progressivamente in sé sfere sempre più ampie di realtà oggettiva, trasformandosi così in libertà assoluta, perché una libertà che voglia rimanere sforzo deve ammettere la coessenzialità del limite, forzato ma mai abolito.
A fondamento del dibattito passato e presente sul libero arbitrio si trova spesso l’idea erronea che della libertà possa darsi esperienza (fattuale, compiuta), che essa possa o si debba, attualmente, dimostrare. Non si ammette che non si tratta di dimostrare l’esistenza della libertà, attraverso l’esperienza, perché la libertà non è stato, saldo punto di partenza, fatto che si possa certificare ovvero smentire, ma idealità: percorso di emancipazione mai compiuto, sempre da intraprendere rinnovatamente; telos verso il quale sforzarsi ogni volta, senza mai pretendere di giungervi definitivamente23; tensione, compito, valore da costruire, e non condizione già presupposta della morale: la quale è essa stessa meno essere che dover essere. Non meraviglia allora che non trovandola laddove la si vuole — ma non si dovrebbe — cercare (nell’ambito dell’esperienza (f)attuale e presente) la libertà venga negata persino come sforzo o decretata inesistente. Inesistente lo è di certo, a patto però di non ridurre all’esistenza tutte le forme dell’essere e del darsi fenomenologico.
Per sfuggire a una certificazione della libertà che nel fondare accertante dimostri troppo, ovvero soffochi la libertà stessa, si potrebbe pensare di salvaguardarne l’indimostrabilità-infondatezza ancorandola ad un’Origine infondata, o facendola scaturire dal Nulla. Resta da chiedersi però se con ciò non si introduca un presupposto altrettanto forte e fondato (tale da permettere un saldo ancoraggio) che fa sì che in gioco vi sia sempre qualcosa d’altro che non la libertà (l’Origine, ad es.); oppure se non si innalzi la libertà stessa a presupposto originario, col risultato però di produrre una tale amplificazione metafisica in cui la libertà smarrisce la sua fisionomia: da un lato venendo ontologizzata come essenza o ragione ultima dell’essere, dall’altro venendo addirittura ricalcata su un modello teologico24. L’insopprimibile esigenza di liberazione dalla realtà, il rifiuto della reificazione quale ambito deiettivo in cui è impossibile qualunque discorso di valore, dignità o responsabilità, consiste certo in un richiamo alla trascendenza e all’idealizzazione, ma non a un fondamento (teologicamente o metafisicamente connotato) che segnerebbe il ritorno a quell’elemento di determinazione a cui si voleva sfuggire.
Il ricorso a un’origine (non all’Origine) avviene però anche in un contesto non metafisico, quando si richiede il riconoscimento di responsabilità ovvero di autoralità di un atto libero: d’altronde un atto senza autore è un atto meccanico o al massimo spontaneo, ma difficilmente libero, se per la libertà si richiede intenzionalità, responsabilità o una qualche forma di razionalità o finalità. Per il rinvenimento di responsabilità in un’azione libera occorre dunque individuare chi abbia compiuto un’azione e perché. Se si regredisce però all’infinito, risalendo la catena di autori o di determinazioni causali, assieme all’azione si dissolverà ogni speranza di contrassegnare come libera tale azione stessa. Se il fatto z è stato causato da w, il quale a sua volta da y etc. la concatenazione da un lato sarà deterministica perché poggerà sempre su qualcosa che l’ha condizionata25, dall’altro però, se non si chiude, tale catena poggerà alla fine su nulla, come un’azione senza un perché: in entrambi i casi è difficile rintracciare la libertà. Occorre allora arrestare tale regresso all’infinito. In questo senso il discorso metafisico sull’Origine ha svolto la sua funzione. Ma tale Origine oppure tale elemento ultimo, oltre il quale non si può più risalire, è esso stesso libero (in un modo che non sia misterioso, meramente pragmatico26 o solo presupposto), per poter avviare, inoltre, come tale, una causazione altrettanto libera? Oppure si dovrà riaprire la concatenazione, alla ricerca regressiva di un fondamento del fondamento, autenticamente libero, con lo svantaggio però di innescare un regresso senza fine e eternamente aperto — risultando questo movimento stesso originario e non più ulteriormente oltrepassabile?
4. La circolarità chiusa ma incompleta
Sia l’analisi del «prigioniero» che quella dello sforzo hanno evidenziato però da un punto di vista formale una struttura circolare chiusa: nel primo caso il carattere determina l’azione e l’azione esplica il carattere; nel secondo lo sforzo presuppone e trae alimento dal limite che a sua volta è tale solo per uno sforzo. Inoltre tale movimento che parte e torna a(l) sé presenta anche un carattere di autoriflessività. Quale sarà lo schema più adatto per interpretare tale movimento?
È stato osservato che il teorema di incompletezza di Gödel può leggersi come il «corrispettivo matematico del fatto che […] sono prigioniero dentro di me» [Hofstadter, 1981, 402]. Lo spunto per proporre questa corrispondenza sorge certo dal dubbio relativo alla possibilità di arrivare, per la questione del rapporto tra il sé e le proprie azioni, a un (meta) livello conclusivo e onninclusivo, a sua volta non più includibile, ma definitivo e terminale di completa autotrasparenza. Ma ammettere semplicemente quella corrispondenza significherebbe, per quanto riguarda la questione della libertà, arrendersi all’esito del «prigioniero» sottovalutando le potenziali implicazioni del teorema di Gödel. Di più. Intendere «prigionieri di noi stessi» in senso formale e non materiale significa riconoscere di essere non tanto prigionieri di determinati contenuti psichico-caratteriali, storico-ambientali, ma di strutture intrascendibili e autoriflessive. D’altronde anche nell’affermazione «prigionieri di se stessi» sarebbe errato porre l’enfasi sul «se stessi», come se si trattasse di un soggetto indipendente e determinato, perché allora esso sarebbe anche indipendente dall’effetto d’imprigionamento (che si creerebbe quindi solo a partire da lui, senza però ricomprenderlo o riguardarlo), sarebbe libero da ogni prigione; o meglio vi sarebbe un sé prigioniero e un sé carceriere, fuori di prigione, che incarcera senza essere incarcerato. Se al contrario non vi è un (sé) fuori prigione, è più corretto dire, come nella citazione precedente: prigionieri in noi stessi più che di noi stessi.
L’argomentazione gödeliana mette in questione il livello dell’Origine Ultima dell’azione. Essa vanifica il tentativo di uscir fuori dalla propria prospettiva da parte di una conoscenza di sé che si vorrebbe, ad un meta-livello superiore (ma quando finisce il meta- ovvero qual è l’ultimo livello onninclusivo? E se è veramente onni- include anche se stesso? E se include anche se stesso, se è chiuso in se stesso, come può guadagnare quella distanza che consente lo sguardo su se stesso, quell’autoriflessione in cui consiste la libertà e l’autocoscienza?), autotrasparente e assoluto, anche se ciò non impedisce, come abbiamo visto, una conoscenza limitata, ai livelli inferiori, di sé o della propria volontà. Ma se non esiste un meta-livello ultimativo, esterno e conclusivo, una scaturigine originaria e non più originata dell’azione, una libertà già costituita prima dell’azione libera, si potrebbe ipotizzare che il meta-livello inviolabile e ultimativo sia solo quello del circolo stesso, del rimando reciproco tra livelli (e cioè tra il livello derivato (azione) e quello superiore (sé, carattere), oppure tra sé e situazione)27 attraverso cui si costruisce, con sforzo, la libertà. Se l’originarietà è quella del gioco complessivo dei reciproci rimandi tra livelli, più che quella di un singolo superiore meta-livello (che agisce secondo lo schema causale, e cioè presupponendo un’estraneità reciproca o un’antecedenza irreversibile tra due elementi nettamente distinti) oppure della prigionia nel sé, si tratterebbe allora di una falsa alternativa quella per cui o si dà una catena chiusa, cioè una volontà già libera che come punto di partenza assoluto e completo, dall’esterno, inizia, origina, a senso unico, le successive azioni, oppure si dà un regresso infinito incompleto e aperto (e allora ogni azione o ragionamento sarebbe impossibile). Anche la libertà potrebbe allora risiedere in questa impossibilità di autotrasparenza, di risalimento completo e definitivo ad un livello esterno al sistema: il che è meno un’identificazione della libertà con l’ignoranza, che non la sua insussumibilità e incomprensibilità, nel senso di sottrarsi alla prensione.
E questo sottrarsi (che è anche un costituirsi, sebbene sempre incompiuto) viene illustrato da una certa interpretazione del teorema di Gödel28 che potremmo reinterpretare a nostra volta come un meccanismo di rincorsa all’infinito o del tapis roulant. La difficoltà denunciata da quel teorema era quella secondo cui il sistema (S) che tutto contiene, che è massimamente completo, deve contenere, per poter essere davvero completo, autoreferenzialmente, anche se stesso (come la mappa che mappa se stessa). A sua volta però questo nuovo super-sistema (SS), se vuole essere davvero completo, deve includere anche se stesso e così via all’infinito secondo lo schema, essenzialmente incompleto, ma anche estrinsecamente centrifugo S+1. Si potrebbe però trovare una soluzione alternativa pensando ad un sistema circolare di (auto)rimando che non spinga in avanti, sempre +1, ma che ritorni all’indietro (come Galleria di stampe di Escher), chiudendo, ripiegando l’anello su se stesso. Insomma nella rincorsa infinita del tapis roulant, ciò che permane è il tapis roulant stesso (che scorre, si svolge, autosvolgendosi continuamente, che si genera per autogenerazione): lo Strano Anello dell’intrascendibilità dell’«e così via» che non produce livelli apparentemente conclusivi e definitivi, o sempre ulteriori (il fuori), e nemmeno imprigiona in sé (il dentro), ma che continua a generare…solo se stesso. Questa soluzione consentirebbe quindi di stare simultaneamente dentro e fuori l’anello/tapis roulant (dentro e fuori se stessi), conciliando così chiusura e incompiutezza.
Dobbiamo approfondire ora le due strutture portanti di questo schema: l’autoriferimento e l’autoformazione.
5. L’autosussunzione
Anche secondo Nozick [1981, 297] le ragioni e i motivi delle azioni (libere) non determinano il processo decisionale a partire da una loro compiuta antecedenza, come se possedessero un peso determinante indipendentemente dal processo decisionale stesso. ll motivo non agisce indipendentemente da me, dai miei valori, ma al contrario sono io che attivamente lo lascio agire. Si tratta però qui di un io processuale e non sostanziale, che è interno e non esterno al circolo decisionale, e che costituisce i motivi nel momento stesso in cui costituisce sé. Assegnando pesi nel processo decisionale il soggetto, circolarmente, prende anche «la decisione su quale specie di persona desideri essere» [ivi, 294], la quale a sua volta appesantirà delle ragioni sulla base di questa scelta di se stesso: simultaneamente e reciprocamente, «il sé può sintetizzare se stesso attorno al suo attribuire [pesi]» [ivi, 306]29.
La circolarità del processo decisionale è così più propriamente una circolarità autoinclusiva, autosussumente. «L’autosussunzione è il modo in cui un principio ripiega su di sé, produce sé, si applica a sé, si riferisce a sé» [ivi, 136]. È questa inoltre «la nozione di riflessività» o di «decisione libera»: «la spiegazione del perché l’atto fu scelto si dovrà riferire al suo essere scelto» [ivi, 304] ed esso «si sosterrà o auto-applicherà in virtù di quel medesimo fatto di sostenersi o auto-applicarsi» [ivi, 136]. Ma non è tutto ciò una sterile tautologia o un’attribuzione necessaria che, in quanto «essenziale al sé», ci fa rimanere «bloccati nella nostra essenza» [ivi, 354]30, con la «conseguenza che quel sé non avrebbe potuto attribuire pesi in modo differente?» [ivi, 306 n.]. Si dice infatti: «ma tu non hai scelta, tu devi essere ciò che inevitabilmente sei!» [ivi, 354]. Per consentire un’azione libera che non resti imprigionata nell’essenza o nel carattere dell’agente si deve riconoscere che «solo ciò che sorge da un’essenza scelta non vincolerà. […] C’è un’essenza che non vincolerebbe: essere uno sceglitore di sé stessi» [ivi, 355]. Ma ciò significa che io — un me stesso già costituito perché per scegliere occorre essere un qualcuno — dovrei scegliere me stesso? E ciò non innescherebbe un regresso infinito alla ricerca di un sé originario, scegliente, ma non più a sua volta scelto? Come interpretare quindi questa scelta di sé in modo che allontani ad un tempo il pericolo di un regresso all’infinito e il sospetto che si tratti di una tautologica autoesplicazione emanativa del sé?
Si potrebbe intendere in prima battuta la scelta di sé secondo un modello idealistico ovvero destinale: scelgo di essere ciò che prima, a un livello precedente, solo ero, ovvero secondo un’assunzione cosciente e quindi libera, di secondo livello, di ciò che, al primo livello antepredicativo, non era tale. Ma che in fondo nemmeno era, se, come ricorda anche Nozick, è solo mediante l’autosussunzione che «il principio produce sé». Se il sé non precede o meglio è tutt’uno con la scelta del sé — scelta che solo allora lo costituisce, costituendo al tempo stesso quelle decisioni che contribuiscono a costituirlo [ivi, 300] — non può trattarsi di un processo autoesplicativo. Secondo questa circolarità autoriflessiva, non esplicativa ma costruttiva del sé, scelgo, divengo ciò che sono, mi faccio a partire da me: laddove i due me differiscono come Dass e Was, ovvero il me1 sarebbe un puro presupposto antepredicativo, mentre il me2 sorgerebbe dall’approfondimento autoripiegativo, ri-petitivo che si identifica con l’autocoscienza. Sono me stesso, consapevolmente e autenticamente, solo mediatamente, dopo essermi scelto e aver così riconosciuto la mia essenza, chi io sia: non però nel senso che la scelta manifesta un sé precostituito, ma nel senso che questo sé si costruisce attraverso la sua (gen. sogg. e caratterizzante: tipica di lui e gen. ogg. e riflessivo: di sé) scelta stessa. Senza il ritorno costitutivo e autoaccrescitivo su di sé si avrebbe solo la sterile ripetizione tautologica dello sdoppiamento speculare (io (non) sono (altro che) l’immagine-l’immagine (non) è (altro che) me): più che un autós mi rimanderebbe un tautós. Applicando tutto ciò al nostro tema si può dire che il «sono fatto così» non è già manifestazione della libertà (come vorrebbe il modello autoesplicativo), ma nemmeno sua negazione (come dimostra il modello autoriflessivo).
Tuttavia anche questo modello autoriflessivo non sembra completamente esente da interferenze autoesplicative: è infatti evidente che per sentire l’esigenza di sceglier(si) quel Dass è già un Was; è, come il germe, qualcosa di formato e non formato al tempo stesso: se uno non fosse già libero sceglierebbe ovvero desidererebbe mai di essere libero? Il ritorno riflessivo su di sé e autoaccrescitivo si limiterebbe così a portare alla coscienza un germe inconscio.
Inoltre cosa impedirebbe a sua volta a questa essenza di autosceglitori di vincolarci? Se scegliere se stessi non significa scegliere un sé già costituito prima della scelta, perché però si è pur sempre scelto quel sé che si è scelto e non un altro? Se si nega la germinalità originaria dobbiamo concludere, come suggerisce Nozick, che «lo sceglitore di sé, non avendo una ragione particolare di essere in un determinato modo, sceglierà di realizzare tutte le possibilità?» [ivi, 358] Si può evitare questo esito in due modi. O, come fa Nozick rimanendo in un quadro di autosussunzione riflessiva, affermare che «la scelta di uno sceglitore di sé» non è «differente dalla sua scelta stessa» [ivi, 359], oppure accettare come limite di quell’apertura di onnipossibilità la datità originaria e non ulteriormente indagabile del Dass, del me1, del «sono fatto così». In entrambi i casi però germinalità e scelta autosussuntiva non sarebbero un fatto bruto?
La soluzione autosussuntiva secondo Nozick consente però di risolvere il problema del regressus senza per questo doversi arrestare ad un fatto bruto inerte. Solo una cosa impedirebbe che, alla fine di un’indagine regressiva, un fatto venga «lasciato penzolare in quanto non spiegato da altro»: «un fatto che spiega se stesso». «Le spiegazioni della forma «p perché p» sono inadeguate e insoddisfacenti. Noi vogliamo una spiegazione di p che fornisca una ragione più profonda del perché p sia vero: e ciò non è fornito da p stesso» [ivi, 118]. Nel nostro caso dire che «sono così perché sono così» sarebbe allora un’insufficiente tautologia che si limita a proporre un mero sdoppiamento o un fatto bruto: si può evitare ciò solo se la decisione autosussumentesi attorno alla quale si costruisce sia la concezione di sé che l’attribuzione di pesi si propone come «esempio di quella stessa concezione e dei pesi scelti» [ivi, 300-1]. L’autosussunzione di per sé, però, non garantisce certo la sua verità, anzi talvolta certifica affermazioni del tutto false, sebbene si presentino «come esemplificazioni di se stess[e]» (cfr. «S: ogni frase di otto parole esatte è vera/S ha proprio otto parole/S perciò è vera»). Insomma: «se l’affermazione è vera, può la ragione di ciò essere il medesimo contenuto che essa stessa afferma?» [ivi, 119] Non rischia alla fine tale autosussunzione di essere anch’essa un fatto bruto o arbitrario? Ora «se un fatto bruto è qualcosa che non può essere spiegato da nulla, allora un principio autosussumibile non è un fatto bruto; ma se un fatto bruto è qualcosa che non può essere spiegato da nient’altro, tale principio conta come un fatto bruto» [ivi, 120]31.
La proposizione autosussuntiva che è vera in virtù dell’essere un esempio di se stessa, non trae allora la propria verità né da un principio interno meramente formale, né da una fondazione esterna e estranea. L’autosussunzione o anche l’autoriflessione — «il sé riflette (su di) sè» — in cui l’explanans si trova a un livello differente rispetto all’explanandum (sè1 non è sè2), esegue un lavoro di scavo in se stessa per aprire livelli di profondità (libertà) sempre più ampi; essa possiede così «una profondità logica» [Lomasky, 1983, 68] che è assente nella struttura bidimensionale e piatta della tautologia32, la quale, nella sua sterilità, rasenta la vanificazione del senso. Come es. di autosussunzione potremmo proporre quello della «mappa che mappa tutto e così se stessa, e quindi mappa se stessa nel mappare se stessa e così via» [ivi, 69]. Si potrebbe però obbiettare: un’autoriproduzione dominata dallo schema del «e così via» genererebbe un regresso all’infinito e non un’autosussunzione. La differenza sta nondimeno nel fatto che nel regresso si ha una gerarchizzazione verticale e una moltiplicazione (ad extra) di livelli diversi e esterni tra di loro, che si distaccano autonomizzandosi senza recare in sé più traccia — riflessiva — della loro fonte. Nell’autosussunzione si assiste invece ad un ritorno del medesimo su di sé che è al tempo stesso però un suo approfondimento (ab intra o meglio ab imo): questo medesimo infatti non è uno statico contenuto sostanziale (un sé compiuto, precedente il movimento circolare o come culmine autoriflessivo di questo), ma è, come vedremo, il costante e dinamico ritorno su di sé di un movimento che produce e racchiude circolarmente e al proprio interno progressivi livelli di profondità (secondo il modello del tapis roulant o del nastro di Moebius): si tratta di un ritorno su di un sé che non è mai attinto in modo definitivo o conclusivo, e che tanto meno è identico a quello da cui si è partiti — un sé che non è né prima né dopo ma solo durante questo movimento circolare.
Da un punto di vista più strettamente morale (e ciò distingue questo modello di autosussunzione da quello meramente teoretico dell’autoriflessione idealistica) si può infine osservare che l’autoesemplarità di un’azione che significa se stessa incarna il valore insussumibile e irriducibile della persona morale e della libertà, che non hanno altro scopo al di fuori di sé e che solo si mostrano in prima persona senza poter venire dimostrate33. «Non si può dire nulla sul perché sia stata presa una decisione autosussumente piuttosto che un’altra? No, i pesi [i perché] sono attribuiti in virtù dei pesi che si realizzano nell’atto stesso di attribuzione» [Nozick, 1981, 304]. Non è che non ci sia un perché e che quindi domini il caso: solo tale perché non si può dire, non si può formulare (con un meta-perché o tramite l’appello a una meta-autosussunzione), se non con l’autoesibizione esemplare della decisione stessa. E nemmeno ci si imbatte finalmente in un fatto bruto, che di per sé e per la sua necessità non sollecita nessuna decisione o scelta, quanto piuttosto con un’irriducibile contingenza non più ulteriormente deducibile, ma che per questo, e per la dimensione di altrimenti in cui, come contingenza, è immersa, rende possibile una scelta per l’alterità (sia questa il miglioramento del proprio sé o il rispetto per l’altro).
Se il ripiegamento autoriflessivo su di sé introduce un primo distanziamento del fatto bruto, del «sono fatto così», da se stesso, aprendo ad un primitivo desiderio di sforzo o di automiglioramento, analogamente solo questa «fatticità autoreferenziale» [Nancy, 1988, 21] può liberare la libertà dalla «fatticità» destinale di cui parlava Sartre. L’autoreferenzialità intransitiva di ciò che significa solo se stesso sottrae la libertà al suo destino, cioè al suo finire (cessare, ma anche transitare) in ciò che non è più libero fare o volere, ma fatto o voluto. Quel volere non più ulteriormente sussumibile di cui ha parlato Nozick a proposito della scelta originaria di sé e che colloca «in un desiderio così stretto che è esso stesso autoreferenziale» [Nozick, 1981, 357], non esce transitivamente fuori di sé (verso un oggetto esterno), ma offre intransitivamente a se stesso, come oggetto del proprio volere (e garanzia al tempo stesso della sua libertà), nient’altro che sé, si ripiega riflessivamente su di sé secondo la formula del «volere il volere» [Nancy, 1988, 22] — da non confondere con quell’actus elicitus o volontà di secondo grado34 che resta ancora prigioniera del meccanismo del regressus causale e della logica dell’origine.
Solo in quanto garantita e protetta dalla sua autoereferenzialità e intransitività «la fatticità della libertà è la fatticità di ciò che non è fatto, ma è da fare — non nel senso di un progetto o di un piano da eseguire», ma di qualcosa che «non ha ancora la presenza della propria realtà e deve liberarsi — all’infinito — per essa» [ivi, 25]. Volere il (per) volere è lo sforzo che ha per oggetto solo il movimento di liberazione fine a se stesso, che si nutre di possibilità piuttosto che di effettività.
Una volta ricondotto il fatto bruto a un fare più originario si riapre la questione della responsabilità. Se pensiamo che il carattere consista nella scelta si dovrà dire che siamo responsabili sempre e di ogni cosa; se al contrario pensiamo che «il difetto del carattere non venne scelto» perché lo puniamo? A ciò si può rispondere dicendo che noi non lo puniamo per il suo possesso, ma solo per le azioni che ne derivano [Nozick, 1981, 394-5]. Ed infatti se si può dubitare di punire chi non è responsabile per come è giunto ad avere il proprio difetto di carattere, «tuttavia è un’altra questione se si considera il suo continuare ad avere un tale difetto di carattere» [ivi, 396]. Cionondimeno potremmo obiettare: se non ebbe potere sul suo carattere allora, perché dovrebbe averlo oggi? Cosa è cambiato nel frattempo? La consapevolezza e lo sforzo: che sono intervenuti, modificandolo, sul condizionamento inizialmente passivo e inconscio da parte di una datità apparentemente immutabile. La consapevolezza acquisita di una decisione, non più subita né più completamente inesplicabile, consente di scegliere (ora per la prima volta) il proprio carattere e esserne perciò responsabile.
Si potrebbe però osservare: in seguito egli sceglierà o non sceglierà — tale possibilità gli si offrirà o non verrà colta — pur sempre a partire da un sé non scelto originariamente. Ad es. «il suo non star muovendo dei passi per mutare o eliminare il difetto di carattere può esso stesso essere un esercizio di qualche difetto del suo carattere, e dunque attribuibile a questo» [ib.]. In tal caso si avrebbe ancora una volta circolarità imprigionante e immutabilità: non posso cambiare perché son fatto così e son fatto così perché non posso cambiare35. Eppure è inconcepibile che tale sé o carattere determini in modo così meccanico e semplicistico (in maniera necessaria e unilineare) oppure che noi si possa essere il risultato passivo e sommativo, meramente quantitativo e non qualitativo, di un processo automatico, senza che il sé possa mai avere idea di uno sdoppiamento controfattuale che testimoni del suo poter-essere-diverso da quel che è, di ciò che vorrebbe o potrebbe essere ad un superiore livello ideale (e degli sforzi per costruirlo), di una (ri)possibilizzazione, di un’ipotesi di ravvedimento che consenta di modificare un esito apparentemente consolidato. Insomma è difficile che la persona, proprio per la sua complessità, sia completamente passiva e in balia del suo carattere: anche se, proprio per tale complessità, non si può accettare l’estremo opposto dell’ex nihilo, di un Io assoluto completamente autore di sé. Al difensivo e autogiustificativo «che ci posso fare se sono fatto così», si potrebbe perciò sempre rispondere: all’«esser fatto» nulla, al fare36 o rifare, o inversamente al persistere (rifiutandosi allo sforzo, alla reversibilità o ripossibilizzazione) in un carattere, tutto^[Senza con ciò aderire alla versione assolutistica kantiana che, dando per scontato il possesso aprioristico, o contrastato solo a posteriori, della libertà, afferma che un uomo può pure giustificarsi dicendo d’essere stato «travolto dalla corrente della necessità naturale», tuttavia «egli è conscio che, nel tempo in cui commise l’azione cattiva, egli era in sé, cioè aveva l’uso della sua libertà» [Kant, 1788, 120].
Più interessante (per la sua circolarità) l’analisi proposta da Pareyson [1959, 147]. A chi declini ogni responsabilità di fronte a ciò che è diventato, involontariamente, abitudine, si deve ricordare «non soltanto come gli atti derivano dagli abiti, ma anche come gli abiti non possono derivare che dagli atti». Per cui se gli atti che derivano dall’abito «tendono a essere ormai involontari, invece gli atti che lo formarono furono volontari, e su di essi ricade la responsabilità di quei primi» [ivi, 167]. In questo modo però il circolo viene rotto conferendo (immotivata) ultimità e primato all’azione del soggetto: si potrebbe infatti indicare proprio nel carattere pigro del soggetto la sua tendenza all’abitudinarietà.]. La prigionia (ma non la circolarità, perché almeno quella autosussuntiva contribuisce all’emancipazione) si è così infranta da sé: perché chi fa quell’affermazione (o meglio confessione) con intenti autogiustificativi non esprime una neutra e banale constatazione, ma mette in campo una tecnica di difesa nei confronti di un’accusa e di un’attribuzione di responsabilità sentite dall’accusato stesso che altrimenti non risponderebbe così (fosse basso e gli si chiedesse di prendere qualcosa in alto, risponderebbe semplicemente «non ci arrivo», non «che ci posso fare se sono basso»). In questo modo ri-conosce la propria essenza (che perciò non viene più subita ma agita, posta e continuata nuovamente), oppure dà l’avvio a una scelta rinnovata. Il riconoscimento del limite è già il suo possibile (sforzo) ma non effettivo oltrepassamento: d’altronde «sono fatto così» è la risposta di chi non è fatto (solo) così, il quale tutte le volte che lo dirà o meglio riconoscerà, sarà un poco meno fatto così. Parimenti il «fare così», più che destinale autoesplicazione del soggetto, costituisce quel riflesso attraverso il quale egli prende coscienza di sé, e senza del quale nemmeno potrebbe dire «sono fatto così».
6. L’autoformatività
Per cercare di comprendere come la circolarità (buona) del volere e del fare autoreferenziali possa inaugurare un movimento di emancipazione dalla circolarità (cattiva) dell’imprigionamento nel «fatto così», si può esplorare il concetto di autoformatività proposto da Kane.
Secondo Kane [1996, 127-8] i conflitti morali che sorgono all’interno delle persone mostrano che «la scelta non è spiegata solo dal carattere o da motivi precedenti» perché questi forniscono «ragioni per andare da entrambe le parti, ma non ragioni decisive che spieghino per quale via andrà inevitabilmente l’agente. Inversamente se le ragioni precedenti fossero decisive, gli agenti non farebbero esperienza di conflitti interiori». La libertà si genera in questo spazio interstiziale, mobile, im-pre-vedibile che si spalanca nel conflitto tra ragioni o tra condizionamenti diversi e opposti. Ma più originariamente è essa stessa spaccatura di un’inerte datità. Riprendendo un es. di Kane [ivi, 127ss.] il conflitto di motivi opera una frattura nel presunto monolitico «sono fatto così»: sono fatto così (egoista) (E), ma sento anche una tendenza altruistica (A) — o almeno la voce della coscienza — in competizione col mio esser fatto così. Ma è proprio questo ciò che a nostro parere ribadisce ancora una volta il primato dello sforzo perché ora non solo se decidessi di fare o essere (A) dovrei sforzarmi contro (E), ma una volta comparso (A) anche seguire la mia inclinazione naturale (E) è possibile ormai solo attraverso uno sforzo: almeno di dimenticare o ridimensionare (A). Come avevamo visto, chiunque (in questo caso l’egoista) si giustifichi dicendo «che ci posso fare», in quello stesso momento introduce un’alterità (non è più lo stesso, ha perso la sua innocenza, la sua ingenuità: ciò che doveva giustificarlo lo accusa), per cui ritornare a fare l’egoista sarà ormai un’azione contaminata — contaminata dallo sforzo o risultato di uno sforzo: sia per rimanere egoista che per migliorarsi.
Quelle scelte che «accadono in quei difficili momenti della vita in cui siamo scissi tra visioni in competizione» vengono definite da Kane azioni autoformative [2002, 416-7]. Si potrebbe obiettare che i motivi non sono mai equivalenti, ma già da sempre appesantiti: ma Kane, come Nozick, orienta l’analisi più a monte, chiedendosi come si formi quel sé che costituisce originariamente i motivi o che conferisce peso a questi. Le azioni autoformative sono quelle scelte o atti di volizione in virtù dei quali le ragioni ricevono i loro pesi relativi, ma prima ancora consistono in un «fare se stessi o formare le proprie volontà in un modo o in un altro, in una maniera che non fu determinata da carattere, motivi e circostanze del passato» [Kane, 1996, 127]. Ciò emerge in particolare attraverso quegli «atti nella nostra vita passata da cui formammo il nostro presente carattere» e che potevano essere differenti da ciò che furono effettivamente: «se non fosse così non ci sarebbe stato nulla che avremmo mai potuto fare per renderci diversi da ciò che siamo» [Kane, 2002, 408]. Non vi è dunque alcun sé che preceda tali azioni autoformative perché al contrario sono queste ciò attraverso cui «forgiamo i nostri sé non ancora creati» [Kane, 1996, 128] e decidiamo «che tipo di persona si vuole essere (almeno per il presente)» [ivi, 139] senza dover ricorrere alla fortuna, al sé noumenico (Kant), a io immateriali (Cartesio) o causazioni immanenti — che non farebbero altro che infittire il mistero [Kane, 2002, 415]37.
Per usare una formula di grande pregnanza filosofica si può dire che, come la libertà, l’azione autoformativa è un’azione che si fa nel corso del suo farsi38. In essa «le volontà degli agenti non sono già «poste a senso unico» prima che essi agiscano, ma piuttosto gli agenti impostano le loro volontà nell’esecuzione delle azioni stesse. Scelte o decisioni sono will-setting quando non risultano dal mero scoprire da parte degli agenti durante la deliberazione cosa essi (già) preferirono, ma quando gli agenti formano le ragioni per preferire che un’azione prevalga al momento della scelta attraverso lo scegliere o il decidere» [ivi, 412]. Nel farsi dell’autoformatività il si riflessivo è sia relativo al fare che si fa facendosi, che al sé il quale, assieme al fare, al tempo stesso fa se stesso. Nel processo autoformativo insomma non vi è un soggetto già formato, a partire dal quale vengono compiute le azioni come meri atti autoesplicativi. L’auto-formazione è «creativa in un modo in cui lo è l’arte: le forme che emergono contribuiscono alla costituzione di canoni dai quali esse sono giudicate» [Dennett, 1984, 91]. Per definire l’identità del sé si deve dunque fare appello a una «continuità narrativa» di «sequenze di significato», «al di là e al di sopra di relazioni causali» [Kane, 1996, 146], ed in cui gli agenti stessi «sono ad un tempo sia autori che personaggi delle loro storie» (ma, forse più spesso, spettatori). Per cui di fronte all’incompiutezza di un processo decisionale, privo di cogenti o precedenti ragioni determinanti, l’agente potrebbe pur sempre osservare: «se non furono ragioni sufficienti o conclusive è perché non fui una persona pienamente formata prima di scegliere […]. Sono nel processo di scrivere una storia non finita e di formare un carattere non finito» [Kane, 2002, 425]39.
All’interno di questo contesto narrativo si ribadisce anche il carattere semantico, sempre relativo e non assoluto, dell’autoriginazione (anche se nessuno ha preteso mai che l’agente possa essere origine materiale del proprio passato o delle circostanze storico-sociali in cui è immerso) come creazione non del nesso o degli antecedenti causali, ma del loro significato e del loro peso40. Anzi si può dire che per l’autoformatività il riferimento in generale ad un’origine passi del tutto in secondo piano: se la formatività, come dare forma a, è sempre a partire da, più importante dell’andare alla ricerca (all’indietro) di un’origine o di fissarsi sul nostro fatto costitutivo (sono-stato-fatto così) sarebbe allora decidere (in avanti) ciò che può risultare da esso, cosa, seppure a partire da esso, possiamo (ancora) fare. Ecco perché la giustificazione di ogni scelta auto-formante «giace nel futuro e non è pienamente esplicata dal passato», anche se «è coerente con il mio passato ed è una ramificazione che la mia vita può prendere» [Kane, 1996, 145]. Ma il modello dello sforzo autoformativo differisce non solo dall’autoriginazione assoluta, ma anche da quello che avevamo definito come il modello di autoriflessione idealistico-destinale. Se mi comporto (prendo decisioni, assegno pesi) come X, non è perché sono X (indifferentemente che lo sia fatalmente all’inizio o autocoscientemente alla fine), ma perché ho scelto di voler (il che implica lo sforzo di) essere come X. Parimenti, diversa è la posizione nei confronti del fatto costitutivo da cui si parte. Se nel modello autoriflessivo di tipo idealistico o destinale la libertà consiste solo, rispettivamente, o in una consapevole riassunzione (libertà solo teoretica) o in una tautologica esplicazione (mera duplicazione) di tale fatto, per il modello autoformativo si tratta invece di un intervento modificante e migliorativo, di una libertà pratica (liberazione da), che si confronta inoltre con un’autentica alterità, affacciatasi la quale, come abbiamo osservato prima, sia per continuare a essere ciò che si è in modo inerte che per migliorarsi, deve ora intervenire lo sforzo.
7. Conclusioni
Respinto quindi il modello autoriginativo e quello autoriflessivo di tipo idealistico o destinale, non ci resta che mettere insieme i risultati positivi maturati attraverso l’analisi del modello autoriflessivo di tipo autosussuntivo e autoformativo.
Per approfondire questo modello riprendiamo lo schema della circolazione ellittica dello Strano Anello in cui dentro e fuori si scambiano e sovrappongono reciprocamente i loro tratti. Questo scambio continuo generato dalla circolazione può considerarsi allora sia come un movimento che si allarga dal punto interno centrale verso i due fuochi esterni, sia all’inverso come il ritorno dai fuochi periferici al punto centrale chiasmatico in cui essi si incrociano e si riunificano. Punto di partenza e punto di arrivo sono identici e diversi al tempo stesso, proprio come avviene in quell’esempio di autoriflessione autosussuntiva che è «io sono io».
Come punto di partenza della circolazione, il centro interno che genera il movimento verso l’esterno, si può individuare un puro Dass contingente, indeterminato e antepredicativo, il fatto del «sono fatto così», o l’Io1 come fatto bruto prima del suo sdoppiamento riflessivo nell’Io2: il sé che è a se stesso situazione (SS: sé situato, cioè completamente condizionato al punto di identificarsi con una situazione interna, il proprio carattere, o con una esterna, l’ambiente). Il punto di arrivo è apparentemente il medesimo; è il punto in cui il movimento si ripiega su di sé (Io2), tornando all’incrocio chiasmatico dopo che questo si è scisso e ha attraversato, slargandosi, i due fuochi opposti e altrettanto antepredicativi di sforzo e resistenza, in cui esso acquista di quella loro originaria indistinzione di partenza una prima consapevolezza e determinazione predicativa che sarà più completa, cioè coinciderà con la costituzione separata di sé e situazione nelle loro rispettive forme autonome e distinte, nel momento in cui il movimento farà ritorno al punto centrale chiasmatico che non sarà più indistinta e indifferenziata identità, ma dualistica costituzione reciproca.
In altri termini l’opposizione tra sé e situazione (e, prima ancora, essi stessi) non è generata da due originari distinti autonomi, precedenti l’opposizione stessa, ma si fa nel farsi stesso della opposizione e della circolazione ellittica: il sé come sforzo nei confronti della situazione configura quest’ultima come resistenza, e la situazione come resistenza dà forma e consistenza allo sforzo come sé: lo sforzo può intaccare la situazione solo venendo di rimando intaccato dalla resistenza della situazione stessa, la quale a sua volta si scopre come resistente solo sotto gli attacchi dello sforzo. Se sforzo e resistenza sono un unicuum da un lato lo sforzo non è superamento completo della resistenza, e dall’altro la resistenza non è impedimento ma è condizione dell’esercizio dello sforzo.
Il sé situato, che è «fatto così», è al tempo stesso il fare che parte da tale fatto contingente e ritorna a esso conformandolo (e non solo ri-conoscendolo) in modo autoriflessivo. Anzi più precisamente, coinvolto nella circolazione continua nemmeno si può dire che SS sia l’origine del movimento perché nello scambio reciproco è esso stesso già originato, un inizio già iniziato (e analogamente l’ultimativo sarà solo un eterno penultimativo), per cui autentica origine sarà solo la circolazione stessa.
L’intrascendibilità (prigionia) di questa circolazione significherà allora che sono libero a partire da (nel cerchio magico di) quel me da cui pure mi libero, mai definitivamente però, senza infrangere cioè quel cerchio stesso. Solo parzialmente il sé costituisce la situazione perché esso è a sua volta imprigionato in una gabbia autosituazionale indipendente da lui. Però altrettanto solo parzialmente questa gabbia imprigiona perché lo sforzo pure ne dilata le sbarre. In ogni caso non esiste una libertà al di fuori o al di sopra del rimando circolare sè-situazione, o sè(libero)-sè (situato).
Questo modello auto-riflessivo-sussuntivo e autoformativo presenta infine uno schema di circolarità più complesso di quello degli altri modelli. In questi prevale un circolo semplice che può essere di due tipi: bidimensionale nel modello meramente tautologico (e in parte in quello idealistico o destinale) in cui sé e situazione, già costituiti (almeno germinalmente) extra- e pre-circolarmente, si limitano solo a rincorrersi o a esplicare l’uno nell’altro le loro identità preformate; monodimensionale in cui il circolo è in verità apparente in quanto è solo uno dei due poli quello che inaugura il movimento e stabilisce il suo primato sull’altro: il sé o l’iniziativa per il libertarismo vicino all’idealismo assoluto, la situazione per l’hard determinism. Il modello di circolazione ellittico-anulare presenta invece una struttura tridimensionale sia in quanto composto da tre elementi (anello e due fuochi) e sia in quanto a ogni ritorno o ripiegamento su di sé esso scava solchi di profondità sempre maggiore. Che cosa è questo solco scavato di ri-torno? Ogni solco, ovvero ogni completamento di circuito incrementa un processo di auto-formazione in cui si registra un aumento graduale (mai compiuto o definitivo) di trasparenza critica nei confronti della co-determinazione reciproca e circolare di sé e situazione, una progressiva autoconsapevolezza non del sé o della situazione, ma del movimento circolare che li ricomprende e rimette in circolo, avviando con ciò una fluida ripossibilizzazione di entrambi: sia del sé (reso una possibilità tra le altre, in quanto privato del suo potere di fondazione e iniziativa assolute) sia della situazione (la cui possibilità di modificazione da parte dello sforzo attesta tale fluidificazione). Lo stesso carattere, lungi dallo scegliersi in un’origine metafisica come completo e definitivo, si costruisce attraverso riconferme o modificazioni, in ogni caso attraverso ri-torni, nella temporalità fenomenica, su ciò che si è. Ma il ritorno tridimensionale non è mera ripetizione (mono o bidimensionale) non solo perché ciò che esso dovrebbe ripetere non esiste se non nel processo di ripetizione stesso ovvero viene costruito solo in questo, ma anche perché questa ri-petizione è già di per sé variazione e altrimenti: nuovamente è portatore di novità.
Per questo modello autoformativo — unitario (circolazione)-dualistico (fuochi) — che in definitiva riconosce verità autentica, ultimativa, solo al movimento della circolazione ellittico-anulare, e verità derivata, parziale, ai prodotti del movimento stesso, al sé e alla situazione, che si fondono nella fluidità della circolazione, si può dire che non vi è né sé e né situazione, e altrettanto che vi è sia sé che situazione. oppure che il sé e la situazione sarebbero al contempo tanto reali quanto apparenti. Reali perché in effetti si determinano; reciprocamente però, e in ciò consiste la loro apparenza, nel senso che senza l’uno non apparirebbe nemmeno l’altra e viceversa, ovvero che l’uno e l’altra si costituiscono solo nel reciproco rimando e nel ritorno su di sé del movimento stesso, e non si trovano precostituiti antecedentemente e indipendetemente da questo: come in un’improvvisazione musicale così nel fluido scambio del movimento autopoietico le figure si van formando via via (non sono formate prima) che si dispiega il processo formativo o il fare-farsi. Con ciò le loro posizioni si con-fondono, si contaminano, per cui davvero non si può stabilire a chi spetti il primato — se lo sforzo (sé) forzi e configuri la situazione, o la situazione (resistenza), sia esterna che interna al soggetto, origini tale sforzo, pur (proprio o sempre) con ciò venendo salvaguardati entrambi senza prevaricazione reciproca o unilaterale.
Ed infatti per quanto riguarda il sé questo modello autoformativo procede a un ridimensionamento del suo ruolo prioritario, riconosciuto invece da posizioni idealistico-soggettivistiche e attivistiche: si tratta qui dello sforzo del sé contro di sé (sforzo di uscire dalla prigione, di emanciparsi da sé per riconoscersi in una più ampia circolazione, che è in fondo quella della possibilità e del fare-farsi). Da questo punto di vista il processo autoriflessivo non è potenziamento del sé, ma suo inserimento ridimensionante nella circolazione del movimento anulare: autosussunzione, dove l’auto qui non è del sé, ma della sussunzione riflessiva, cioè della circolazione stessa41. Il sé però, nonostante il suo ridimensionamento, non scompare (ad es. in un impossibile panismo buddista42, che propone forse solo un rovescio del sé, ovvero un tutto che è solo negazione o evasione dal sé): è sforzo del sé contro di sé (mentre l’ingenuità buddista pretende di uscire da sé dimenticandone l’impossibilità). Uscire da sé non è una realtà — la realtà della meditazione, dello yoga, della santità — che possa conquistarsi, ma uno sforzo, una possibilità verso cui tendere, a partire da e contro un’insopprimibile zavorra o inevadibile prigione che però è al tempo stesso condizione medesima dello sforzo di evasione. Con la circolazione continua si tengono insieme i due fuochi: dall’imprigionamento del sé non si esce anche se è pur vero che ci si sforza.
Una volta ricondotto alle sue giuste dimensioni il sé può assumere un’attitudine intermedia anche tra deresponsabilizzazione assoluta («son fatto così»: primato del sé situato) e onniresponsabilità assoluta (primato del sé autocreativo), entrambi estremi astratti, ma soprattutto strettamente connessi: perché talmente elevata e impossibile è l’esigenza di onniresponsabilità che ci si rifugia nella fatalistica deresponsabilizzazione. Al contrario il sé che si sforza riconosce le proprie responsabilità nonostante l’inevitabile esser fatto così; limitando localmente le responsabilità, nega di poter o voler essere responsabili di tutto, perché in fondo ciò vanifica la responsabilità autentica tanto quanto il «sono fatto così».
Ciò consente inoltre di distinguere questa circolazione anulare dalla circolarità propria delle profezie che si autoavverano, in cui si vanifica ogni attribuzione di responsabilità. In questi meccanismi circolar-ricorsivi, di cui esempio eloquente è quello dei conflitti coniugali43, responsabili sono tutti oppure nessuno, perché vero responsabile è il sistema di co-determinazione, il semplice fatto spaziale e accidentale dell’interazione e della coesistenza tra agenti.
Secondo un modello di autoreferenzialità anulare si potrebbe però pensare che entrambi i livelli siano veri al tempo stesso, nel senso che responsabili potrebbero pure essere i singoli coniugi, ma al di sopra di essi vi è un superiore livello di irresponsabilità che coincide col destino di universale incomunicabilità. Ciò d’altronde caratterizza ogni ambito di socialità in cui se pure al livello di singola individualità si può certo indicare un grado consistente di libertà e responsabilità, ad un livello collettivo quegli stessi individui si trovano destinalmente oppressi dal sistema di cui nessuno in particolare è responsabile, ma che tutti contribuiscono a creare. In modo analogo quell’irriducibile libertà e responsabilità che si può attestare a livello individuale-morale scompare al livello nomologico delle analisi psico-sociologiche. Si può così dire che il livello del sé e della situazione, e quello della superiore circolazione che li costituisce non si contraddicono, e che l’irresponsabilità del livelli superiori non toglie la responsabilità del livelli inferiori e viceversa. Si ricordi inoltre l’improvvisazione musicale con cui il modello autoformativo è imparentato: chi è responsabile di essa iI musicista o il fare improvvisativo stesso che lo conduce dove (sia il primo che il secondo non) vuole? Oppure entrambi?
Se non c’è speranza di uscire in generale dal circolo, a quale speranza ci rimanda però la circolarità particolare dello Strano Anello? A nulla più che al doppio livello di una speranza che si spegne in disperazione e di una disperazione che genera speranza. In fondo Sisifo il suo masso lo risospinge nella speranza che possa essere l’ultima volta, l’ultimo sforzo: se fosse completamente disperato starebbe fermo per sempre ai piedi della montagna (è condannato sì, ma a sperare). E tuttavia al culmine dello sforzo, che pure è reale nella sua promessa di emancipazione, il masso rotola giù, eternamente. Solo sforzo, solo prigionia? Tutt’e due. Ma a ben vedere non solo di promessa di emancipazione si tratta ma di emancipazione stessa nel momento in cui non ci si arrende al destino. Lo sforzo e la libertà sono allora il rifiuto della resa, non del destino, la salvaguardia della nostra dignità a fronte della sua negazione.
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Questo problema si presenta anche ai teorici dell’autopoiesi. Il sé costituisce la membrana attraverso cui vengono filtrati gli stimoli per venire elaborati come moventi. Ciò segnerebbe un primato attivistico-idealistico del sé, la sua prevalente libertà nei confronti della situazione. Ma se la mia membrana è fatta così essa non tanto selezionerà ma farà passare, per omogeneità, solo ciò che potrà, in base alla sua conformazione; oppure selezionerà sì, ma a partire da una struttura mai selezionata che costituisce invece, a priori, e in modo involontario, la membrana (il sé). Si tratterà dunque di una libertà nei confronti della determinazione esterna ma non di quella interna. ↩︎
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Se si tratta di rottura assoluta («brusca») chi la compie, da dove proviene la decisione? Dal nulla? Sarebbe casuale. Da un io già deciso in quel senso? Non sarebbe rottura. Nel caso invece di graduale dis-continuità («metamorfosi») si avrebbe o una trasformazione dell’identico o al suo punto terminale una sua irriconoscibile dissoluzione: in entrambi i casi sembra difficile tenere insieme identità e alterità. Ma altrettanto difficile sarebbe concepire la libertà in una sua incomprensibile provenienza ex nihilo oppure in una fin troppo comprensibile concatenazione di segmenti: essa sarebbe infatti impossibile rispettivamente per eccesso o per carenza di interruzione. Si tratta allora di proporre un modello di cambiamento nell’identità e viceversa, di contaminazione reciproca che non proceda per salti, né bruschi né graduali. Vedremo più avanti che nei conflitti morali il disonesto non diventa improvvisamente, ex nihilo, onesto, né che vi è transizione discreta dall’uno all’altro: non si comprenderebbe come questo possa essere uscito fuori da quello, se questo non fosse già quello, se non si trattasse di una coesistenza di entrambi i poli nel medesimo. Secondo questo modello si ha mutamento ma non metamorfosi, perché i due poli rimangono compresenti, né mera gradualità perché i poli sono in netta opposizione. ↩︎
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È questa come è noto una delle tesi fondamentali del cosiddetto compatibilismo. Cfr. ad es. P.H. Nowell-Smith [1948, 5]: solo «se Nerone fosse stato Seneca, avrebbe preferito il suicidio al matricidio». ↩︎
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Per il noto es. dell’escursionista, che qui adattiamo per sostenere le nostre obiezioni, cfr. [Sartre 1943, 547]. ↩︎
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Come es. di identità e alterità in uno cfr. Chisholm [1989, 36-7]: «Jones non è più quello di una volta» non significa che c’era il vecchio Jones che ora non c’è più e al suo posto c’è il nuovo Jones. Piuttosto si deve dire che il vecchio Jones «divenne il nuovo Jones», laddove divenire non significa radicalmente «venire all’essere», ma presuppone sia che «Jones si è alterato in modo significativo» e sia la sua «identità attraverso il tempo». Per contro cfr. Leibniz [1672-73, 107]. Proprio perché non si può essere un altro, se non ab origine, proprio perché non si può essere un altro pur continuando a essere il medesimo, colui che dispiacendosi «di non essere nato da una regina si dispiace[sse] di non essere un altro uomo, si indignerebbe di un nulla». A meno che con «essere nato da una regina» non si intenda una patente impossibilità, non è insensato lamentarsi (o pentirsi) per non essere ciò che non si è pur desiderando esserlo, perché ciò dimostra la nostra contemporanea appartenenza a una duplicità di livelli (reale e ideale). ↩︎
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Che lo sforzo solo con difficoltà estrema modifichi l’abitudine non attesta la necessità essenziale di questa, ma solo la sua resistenza. ↩︎
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Per Nowell-Smith [1957, 251] però il fatto che non possa scegliere come agire perché ciò dipende dal mio carattere «non costituisce una restrizione alla mia libertà d’azione», né che «il mio carattere mi obbliga a fare ciò che faccio, ma dice che la scelta è caratteristica di me». Ma ciò sarebbe una semplice esplicazione, passiva e derivata, di un’essenza (già) data: non si analizza cioè il livello precedente, quello della costituzione del carattere. ↩︎
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Scelgo X ma non la sua esistenza. Si tratta con ciò solo di scelta condizionata in quanto 1) ho a che fare solo con X, e non mi si mostra invece Y o Z; 2) mi limito solo ad accettare o rifiutare X. ↩︎
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Il «che ci posso fare se son fatto così» viene inteso da Wittgenstein [1939, 74] come una proposizione il cui significato consiste nient’altro che nell’uso. «Se dite: “il carattere non cambia” qual è il vostro obbiettivo? […] Voi date per scontate certe cose che non cambieranno e le chiamate il carattere». ↩︎
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La situazione «prigioniero di se stesso» è analoga alla procedura di rilevazione quantistica secondo cui l’osservatore, col suo semplice osservare, interagisce e influisce su ciò che osserva (invischiandosi in una tela di cui lui è soggetto attivo e passivo al tempo stesso), per cui non vi è netta, rigida e statica distinzione tra un soggetto e un Gegen-stand, il quale più che stare esternamente di fronte, del soggetto è il riflesso. ↩︎
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Ribaltando l’esito del presupposto negativo del «prigioniero» così scrive Schelling [1795, 55 n. 5]: «Del fatto che noi non possiamo mai affrancarci dal nostro proprio io, il solo motivo si trova nell’assoluta libertà del nostro essere […]. Da ciò deriva […] che l’io agente, sebbene in ogni caso determinato, pure nel contempo non è determinato, poiché sfugge a ogni determinazione obiettiva, e può essere determinato solo attraverso se stesso». «Sforzati di essere immutabilmente te stesso, sforzati verso l’incondizionata libertà e l’illimitata attività» [ivi, 75]: qui il soggetto non è limite alla libertà, ma è il limite della libertà all’interno della quale essa ha fagocitato la realtà oggettiva e con essa ogni limite. Libertà assoluta che, come vedremo, vanifica però il significato stesso della libertà e prima ancora dello sforzo che di quella è l’essenza autentica. ↩︎
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Saggio sull’intelletto umano, lib. II cap. XXI. ↩︎
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Al punto che la responsabilità e la scelta sono non solo sempre, ma anche proprio o solamente possibili in mezzo alle pastoie e ai condizionamenti fisici, politici etc.: che scelta è quella che non rischia o che non sorge in un contesto di lacerante conflittualità? ↩︎
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Per cui non sarebbe altro che «un falso dilemma pensare che o siamo “un sé completamente fatto da sé, cento per cento responsabile del proprio carattere” oppure siamo “semplici domino” nella catena causale» [Russell, 2002, 242]. ↩︎
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Richiamandosi inconsapevolmente a quanto già osservava Schelling [1795, 37], secondo Kane [1996, 98-9] sostenere o meno la libertà «è più una questione di attitudine o di aspirazione che di conoscenza». «I disaccordi riguardo il libero arbitrio» sono «disaccordi circa i valori [che] non possono essere conclusivamente risolti solo da analisi concettuali e da appelli fattuali»: riguardano «il significato delle nostre vite». ↩︎
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«Che qualcosa sia essenziale alla condizione umana non fa che esso sia considerato di valore» [Nozick, 1981, 361]. ↩︎
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«Spesso si usa l’asserzione “sono nella determinazione di fare questo” come sinonimo di “ho scelto di far questo”» [Smullyan, 1981, 327] e con grande ammirazione morale diciamo: «quella persona dà prova di tale determinazione» [Dennett, 2003, 288]. Come si evince però anche da questo es. «sono determinato a fare questo» implica il superamento attraverso uno sforzo di uno scenario alternativo e egualmente possibile che mi si è presentato in una situazione di conflitto morale e non di neutralità o di banale routine: «sono determinato a sparare» (per vendetta, per difender la patria, per proteggere i miei cari) è diverso da «sono determinato a sparare» pronunciato da chi organizza una battuta di caccia o da un campione di tiro al piattello (che van lì ovviamente e solo per far quello). ↩︎
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Se sono eguali fenomeni di malafede quelli per cui affermo che «io sono ciò che sono stato (l’uomo che si ferma deliberatamente ad un periodo della vita e rifiuta di prendere in considerazione i cambiamenti ulteriori) e che io non sono ciò che sono stato (l’uomo che di fronte ai rimproveri rompe con la solidarietà col suo passato insistendo sulla sua libertà e sulla sua perpetua ricreazione)» — si deve concludere che «l’uomo sia per se stesso soltanto ciò che è, insomma sia pienamente e unicamente ciò che è»? [Sartre, 1943, 94]. «Ma questa è proprio la definizione dell’in-sè o il principio d’identità» [ivi, 95]. Chi in modo rassicurante e definitivo conclude: «Bah, è un pederasta», sottintendendo: «è fatto così: cosa vuoi?», «cancella un’inquietante libertà e mira a costituire gli atti altrui come delle conseguenze che sgorgano rigorosamente dalla sua essenza», e perciò anche in questo caso è in malafede [ivi, 101].Occorre allora «che la realtà umana non sia necessariamente ciò che è, ma possa essere ciò che non è» [ivi, 94]. Più che struttura statica e aprioristica l’identità deve costruirsi dynamicamente come ideale, come compito. Noi non siamo i nostri ruoli, non ci identifichiamo risolutivamente in essi, ma piuttosto giochiamo a essi. «E proprio questo soggetto io ho da essere, ma non lo sono affatto […] non posso esserlo, non posso che giocare a esserlo», liberamente, perché altrettanto liberamente potrei restare a letto invece di andare a fare il cameriere. Senza dubbio «sono cameriere», «ma se lo sono» ciò non avviene «nel modo dell’essere in sé» [ivi, 96], secondo cui egli «aderisce a se stesso, è ciò che è» [ivi, 101]. ↩︎
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Persino l’esigenza (spirituale) della libertà è tutt’altro che presupposta, come dimostra la sua assenza in popoli e individui limitati ad uno stadio ancora naturale. ↩︎
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Berofsky [1995, 225] afferma che «l’autonomia non è la libertà di esprimere le nostre origini; è la libertà da tali origini», «libertà dal sé», «liberazione dalla propria storia». ↩︎
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Lo sforzo è allora lo stigma dell’autentica libertà. Ad es. se un tossicodipendente — o meglio se il suo corpo — decide di disintossicarsi quando non ce la fa più, quando non ha più alternative, non fa alcuno sforzo (perché non v’è conflitto) e nemmeno quindi v’è libertà perché a un condizionamento del corpo (assumere droga) se ne sostituisce semplicemente un altro (istinto di sopravvivenza); ma nemmeno vi è autentica liberazione perché senza libero sforzo egli non si è messo al riparo da future dipendenze. ↩︎
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La ribellione è assurda? Se si punta solo al risultato sì, se si considera la spontaneità autotelica del gesto di autodifesa o di rifiuto, no. ↩︎
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Costituisce allora una grande lezione etico-politica per un’epoca come la nostra in cui la libertà si è estenuata proprio in quanto si pretende presupposta o si crede definitivamente consolidata, ricordare con Jankélévitch [19802, 389] che «la libertà era una grande cosa sotto l’oppressione». ↩︎
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Non potendo qui approfondire un discorso che ci porterebbe troppo lontano, e per rimanere nel limite dell’esplorazione di quel confine in cui la riflessione etica anglo-americana s’incrocia con temi rilevanti della tradizione cosiddetta continentale (si pensi al tema della meontologia da Heidegger a Pareyson), rimanderemo qui solo a Chisholm. Secondo Chisholm [1989, 12] «noi abbiamo una prerogativa che alcuni attribuiscono solo a Dio: ognuno di noi, quando agisce, è un primo motore immoto […] e nulla o nessuno ci causa a causare l’accadimento di quegli eventi». Ma si dà davvero una libertà preceduta da nulla? Già James [1907, 117] espresse a questo proposito alcuni dubbi: «se un atto ‘libero’ fosse qualcosa di assolutamente nuovo, che non viene da me, dall’io che ero prima, ma ex nihilo […] come posso io, l’io che ero prima, essere responsabile?» È una libertà che vale al massimo per Dio, ma non per l’uomo. ↩︎
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È allora in generale il modello causalistico, irrigidito nella scansione di una serie graduale di istantanee discrete a rendere incomprensibile il movimento unitario, fluido e disteso (del significato) della libertà. ↩︎
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Negli ordinamenti giuridici l’attribuzione di responsabilità avviene a maglie larghe: si tende a trovare sempre un responsabile o una colpa, mentre una più precisa distinzione di responsabilità viene ammessa solo come concessione di attenuanti. ↩︎
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È lo Strano Anello: «un’interazione tra livelli in cui il livello più alto torna indietro fino a raggiungere il livello più basso e lo influenza, mentre allo stesso tempo viene determinato da esso» [Hofstadter, 1979, 769]. ↩︎
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Oltre al noto testo di Hofstadter [1979], cfr. anche J. R. Lucas, The Freedom of the Will, Clarendon Press, Oxford, 1970. ↩︎
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Questa circolarità esclude sia una plastica indifferenza originaria, secondo la quale dipenderebbe solo dalla scelta chi uno voglia essere, sia un’autoriginazione assoluta. ↩︎
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L’autodeterminazione (libera) è il rovesciamento della determinazione dell’autós (autoimprigionamento) o ne è il mero rovescio — nel senso che ogni determinazione dell’io (gen. sogg.) non può prescindere da una più originaria determinazione dell’io (gen. ogg.), da come questo io è configurato? ↩︎
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Cfr. anche Hegel [SL 623]: ciò che «è soltanto perché è» «è però anche pura essenza, il suo essere è la semplice riflessione in sé; è perché è. Come riflessione ha una ragion d’essere» non è un fatto bruto, sebbene non abbia «che sé per ragion d’essere». ↩︎
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In ciò risiede anche la differenza tra ripetizione e tautologia. La riproduzione reiterativa del medesimo produce un effetto di profondità che mostra come lo sdoppiamento non equivalga a rimanere sullo stesso livello: S1=S1, ma sia produzione di livelli di progressiva profondità (S1=S1) ≠ S1 →S2 e così via. Ad es. una frase ripetuta assume, per il suo stesso venire ripetuta, un significato diverso, un’importanza maggiore che non aveva quando venne enunciata la prima volta, quando pareva confusa con il resto del contesto da cui l’ha sollevata proprio la ripetizione stessa. ↩︎
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E ciò per due motivi: dimostrare significa 1) determinare attraverso ragioni vincolanti, 2) ricondurre a categorie che per essere esplicative debbono essere universali. Al contrario il simbolo che significa se stesso intende un evento che, per la sua unicità e peculiarità indescrivibili, è mostrabile al limite solo con un’apparente tautologia (’Napoli(1) è Napoli(2)’, laddove 2 dice di più, nonostante formalmente si limiti a ripeterlo, di 1; è come se nella ripetizione, lungo di essa, 1 si arricchisse di ciò che in partenza non aveva, ma che solo all’arrivo svela, non ricevendolo però da un altrove, ma dall’approfondimento circolare in se stesso). Si può dire allora che l’autossussunzione quanto più si sprofonda in sé tanto più apre all’autentico riconoscimento dell’altro. ↩︎
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Cfr. ad es. Chisholm [1989, 12]. ↩︎
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Cfr. G. Strawson [2002, 448-9]: «se uno tenta di cambiare se stesso» lo fa «nelle situazioni in cui si trova, interamente a causa del modo in cui uno già è». «Forse il carattere è una scelta, ma la scelta è carattere: il carattere determina la scelta, persino la scelta del carattere». ↩︎
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Analogamente per Nowell-Smith [1957, 259] non può costituire una giustificazione della propria azione dire: «che ci posso fare se sono fatto così», perché si potrebbe sempre chiedere di chiarire «come venni ad essere quel tale tipo di persona» (consapevoli però che tale domanda innesca la ricerca di ulteriori (infiniti?) livelli esplicativi e ultimativi). «Scoprire le cause di qualcosa non prova che esso sia inevitabile»: al contrario, «è il primo passo per prevenirlo». Si potrebbe allora dire che la responsabilità non sta nell’autoposizione, ma nell’assecondare il carattere. Solo con questa premessa possiamo intendere il seguente passo: anche «colui che per scusare un’azione ingiusta, dice: così io sono fatto, è ben consapevole di essere tale per propria colpa, per quanto abbia ragione di dire che gli è stato impossibile agire diversamente» [Schelling 1809, 115]. ↩︎
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Il primato dello sforzo emerge anche nei confronti della libertà originaria del carattere intelligibile. Qui oltre al fatto (misterioso) per cui si tratterebbe pur sempre di postulare una libertà (ma da dove proverrebbe?) prima della libertà, questa dovrebbe poi ammettersi solo all’origine (si è scelto solo una volta) e non potrebbe più farsi autenticamente valere nel divenire temporale, nel corso delle azioni dell’uomo, perché questi non può più agire altrimenti né può modificare il suo carattere intelligibile, proprio in quanto essenziale: «come l’uomo agisce qui, così ha agito dall’eternità e già nel principio della creazione. Il suo agire non diviene, così come lui stesso non diviene in quanto essere morale, ma è per natura eterno» [Schelling, 1809, 116]. Da qui l’identificazione problematica della libertà con la necessità e soprattutto l’imprigionamento all’interno di un’inerte tautologia: «di un atto di assoluta libertà non si può dare altra ragione: esso è così perché è così, cioè è senz’altro, e perciò necessariamente» [Schelling, 1810, 149]. Da qui la difficoltà — riconosciuta da Schelling stesso [1809, 117] — di dover escludere, sulla base di questa teoria, «ogni mutamento dell’uomo dal male al bene, e viceversa, almeno per questa vita». ↩︎
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Rimandiamo a uno studio futuro l’analisi di questa idea fondamentale di Pareyson, e soprattutto della sua fortuna nel panorama filosofico contemporaneo. ↩︎
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E se l’identità è rappresentata, recitata, e non stata, essa non si esaurisce nei suoi atti, né questi ne sono la mera esplicazione. La coscienza «è perché si fa […] ha da essere il proprio essere, non è mai sostenuta dall’essere […] non è ciò che è» [Sartre, 1943, 99], perché ciò significherebbe «superare l’essere che sfugge e che scorre via, di tra le proprie dita, essendo il proprio fluire, e farne un dato che è ciò che è», significherebbe «raccogliere nell’unità di uno sguardo questa totalità incompiuta […] sfuggire alla sfera del perpetuo rinvio» [ivi, 193]: la stessa permanenza «non è un dato puramente constatato, ma una potenzialità» [ivi, 235]. Come su un tapis roulant, «corriamo verso di noi e per questo siamo l’essere che non può mai raggiungersi» [ivi, 245]. ↩︎
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Come abbiamo visto, che il «sono fatto così» venga brandito come autogiustificazione, dimostra il suo essere meno una natura immediata che determina inesorabilmente, che un’assunzione mediata già dal significato e consapevole: libera si potrebbe anche dire. ↩︎
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La circolazione autoriflessiva non apre le porte ad una morale dell’autonomia (Kant-Chisholm), perché qui sia l’autós che il nomós sono presupposti, precostituiti e autoimpositivi, incontestabili e autoevidenti o inaugurano un’iniziativa lineare, a senso unico (irreversibile), al contrario del modello di circolazione ricorsiva, auto-ri-in-flessiva che sottolinea la reciprocità tra i due fuochi secondo un movimento bidirezionale e reversibile, e soprattutto, almeno parzialmente, imprevedibile prima del suo farsi stesso. Anche il «se stesso» subisce una diversa lettura: per la morale dell’autonomia l’accento cade su sé (sul carattere preformato, de-finito); per la logica dell’autosussunzione su stesso. In A=A ciò che conta non è l’identità di A ma A come identità. Il sé fonda sé non a partire da un sé anteriormente precostituito, superfluamente autoesplicativo, ma attraverso l’autoriferimento stesso: non si assiste a un formarsi del sé (gen. sogg.), ma ad un formarsi (soggetto) che si ripiega, costituendolo, su di sé (oggetto). È la piega e il raddoppiamento che fanno il sé, non viceversa. ↩︎
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L’aspetto positivo che si può però scorgere a partire dalle posizioni panteistiche o buddiste consiste nel fatto che il ridimensionamento del sé non coincide con una sua svalutazione, ma solo con la negazione del suo valore esclusivo; da ciò non consegue tanto la negazione della sua dignità, ma il riconoscimento di una dignità superiore che non consiste però nel particolarizzarsi del sè, ma nel suo prendere parte ad una realtà più ampia da cui solo riceve valore. ↩︎
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Qui si instaura una causalità circolare (lei brontola perché lui si ritrae/lui si ritrae perché lei brontola) in cui «la questione di chi abbia cominciato è irrilevante» [Watzlawick, 1981, 89]. ↩︎