Coscienza profetica e Rivelazione nel pensiero di Heschel

Melodia, musicalità interiore, poesia, ma anche analisi penetrante, rigore filosofico in Abraham Joshua Heschel,1 che nei suoi scritti, al modo di spartiti musicali, come un’artista straordinario, dipinge la sua prospettiva antropologica partendo non dal dilemma dell’essere o non essere, ma dal «come essere». L’uomo contemporaneo, secondo questo autore, vive in una situazione di isolamento radicale fino a quando non si lascia incontrare da Colui che fonda il suo esserci, e le sue pagine vogliono fargli riscoprire la solitudine, come condizione di possibilità per un’autentica ricerca di una forma diversa e superiore di comunicazione. Per Heschel, cantore dello “stupore”, fare la domanda sull’«uomo» significa porre l’interrogazione su «Dio» e viceversa; affermando così l’inscindibilità delle due questioni.

La domanda originaria rivolta oggi, come da sempre, all’uomo secondo Heschel, lo vedremo nelle pagine che seguiranno, è: «Dove sei?».2 L’assunzione totale, senza alienazioni, della portata di questa interrogazione originaria, non si riduce a concepire heideggerianamente la questione ontologica dell’esistenza come Dasein («esserci»), nel mondo, ma porta, più radicalmente, l’uomo a «tornare verso se stesso»,3 andando oltre. Solo questo “esodo” fa ritrovare autenticamente se stessi e può trasfigurare l’esistenza in «cammino verso Qualcuno»; nella scoperta di essere già cercati da Lui. Heschel propone con forza, ancora oggi, alla cultura contemporanea il bisogno dell’istanza antidolatrica posta dalla trascendenza per una comprensione olistica dell’umano. Già perché, secondo il nostro autore, non ci sono atei ma idolatri: l’uomo, vivendo nella “terra di mezzo” (secondo la bella espressione tolkieniana4) è chiamato costantemente a scegliere fra l’ascoltare la voce di Dio o quella del «serpente». È l’idolatria che getta l’uomo in un assurdo caratterizzato, non tanto dal non-senso ma, dall’isolamento degli innumerevoli sensi, dall’assenza di un senso che li orienti. Con Heschel possiamo dire che per comprendere l’uomo dobbiamo estrarre dalle dimensioni più profonde che ci abitano, quel desiderio, non solo speculativo ma soprattutto esistentivo, di pervenire a ciò che rende autentico l’esserci umano: la dimensione santa della vita intesa, come rivelazione dell’amore altro, partecipazione di una “com-passione”, una forma di vita intesa come «proesistenza», come «essere per- l’altro». L’itinerario che intendo proporre, nelle pagine che seguiranno, si dipanerà attraverso due dei tre mondi culturali che hanno determinato il formarsi non solo del pensiero, ma soprattutto dell’esistenza del nostro autore: cioè la cultura chassidico-polacca,5 la cultura filosofica tedesca e infine l’universo culturale nord-americano per giungere alla formulazione corretta, metodologicamente ed epistemologicamente, della proposta di Heschel; la quale ci apparirà alla fine di questo percorso come straordinaria indicazione di senso: "la religione [è] la fine di ogni isolamento di ogni uomo’6 e annuncio ineditamente profetico e ricco di speranza, perché «Dio significa: nessuno è mai solo».7

1. Coscienza Profetica

Come abbiamo accennato, uno dei mondi culturali vissuti da Heschel è stato il pensiero ebraico tedesco. Nel 1927 infatti egli si recò a studiare nella culla intellettuale e culturale dell’Europa di allora: Berlino, e precisamente alla Hochschule für die Wissenschaft des Judentums e alla Friedrich Wilhelm-Universität, conoscendo figure della statura di: Chanoch Albeck, Julius Guttmann, Leo Baeck, Ismar Elbogen. Furono quegli gli anni fino al "31 in cui Heschel consolida la propria identità spirituale ed intellettuale nella in questa città cosmopolita.

Il giovane Heschel in quel periodo si trova ad affrontare il problema di come conciliare il mondo culturale e spirituale della sua patria d’origine, con la «civiltà ospitante, quella tedesca», che reclamavano entrambi totale dedizione. Egli intuisce che per costruire il fondamento della propria identità religiosa deve, come impresa ormai divenuta ineludibile, apprendere «criticamente» il modello speculativo e la cultura della patria che lo ospitava. Il 23 febbraio 1933, ci ricorda Susannah,8 suo padre sostenne gli esami orali della sua tesi dottorale intitolata Das prophetische Bewubtsein (La coscienza profetica).9 Ebbene proprio questo studio è fortemente debitore degli studi filosofici nel periodo berlinese di Heschel, ed in particolare è evidente l’influenza della fenomenologia.10

Servendosi della metodologia e delle scienze dello spirito, egli cerca di determinare la peculiarità del «profetismo biblico».11 Quando Husserl parla di «spettatore disinteressato» non fa solo riferimento al compito e allo scopo della filosofia, che è quello di realizzare l’ideale greco “vita teoretica”, ma fa riferimento a quell’atteggiamento che deve sostenere l’analisi della «scienza eidetica»12 (che si occupa cioè delle essenze) che è l’epoché ovvero la messa tra parentesi dell’esistenza del mondo in generale.13 Solo in questa dimensione il mondo appare un puro fenomeno di coscienza, che non viene annullato, e l’attenzione del filosofo può spostarsi dalla sua realtà ai fenomeni con cui si manifesta nella coscienza, cioè alla coscienza stessa e alle sue strutture fondamentali. Dato che la coscienza non viene toccata, dopo aver applicata l’’epoché", in questo senso si può parlare di residuo fenomenologico, diventando così il campo specifico dell’indagine fenomenologica. Secondo Husserl l’evidenza sola è la forma della verità che permette il dispiegarsi della manifestazione dell’oggetto, il suo rivelarsi nella sua essenza e quindi nella sua «purezza». Ma la filosofia per realizzare una «conoscenza scientifica» della coscienza non può non studiare ciò che la coscienza «significa», cioè il metodo fenomenologico deve comprendere scientificamente anche quanto accade nei suoi atti intenzionali14 verso oggetti da lei indipendenti. Poiché la coscienza è sempre coscienza di qualcosa, l’analisi di questa realtà implica l’esame dei modi in cui questi oggetti si danno alla coscienza. Gli atti della coscienza o le modalità di datità degli oggetti di essa costituiscono l’intenzionalità di questa realtà (=la tendenza della coscienza verso un oggetto). Ma l’intenzionalità non esaurisce l’essenza della coscienza; essa postula un portatore che è l’esperienza vissuta (Erlebnis) di cui è una proprietà e a sua volta l’esperienza vissuta esige un soggetto che è l’io.

Questa rapidissima carrellata ci permette di capire l’orizzonte entro cui si muove Heschel quando precisa che «la profezia non verrà trattata come processo in sé, ma solo per quanto riguarda i «fatti di consapevolezza» (Bewusstseintatsachen)».15 Infatti per portare avanti la sua indagine utilizza proprio il metodo fenomenologico perché «il mondo interiore del profeta è rimasto finora quasi una terra incognita».16 Secondo Heschel17 l’ottica che scaturisce dall’analisi della natura dell’atto profetico, ci esorta al superamento dell’antitesi fra soggettivo e oggettivo in quanto «vuole riguardare la totalità della personalità profetica come unità di ispirazione e di vissuto (ricorre il termine Erlebnis)».18 Data la centralità di questa sintesi, Heschel intende adottare, prima di tutto, un punto di vista religioso;19 e prendere in considerazione solo «gli scritti profetici prima dell’esilio».20 L’impianto strutturale di Die Prophetie si fonda su tre parti fondamentali.

La prima è una pars destruens in cui viene scartata l’assimilazione dell’esperienza profetica con l’estasi e con l’ispirazione poetica. Il punto d’inizio delle ricerche hescheliane è l’incrollabile convinzione che i profeti hanno, espressa sovente nel modo più formale, di comunicare al popolo non delle invenzioni, frutto della loro soggettività spirituale, ma delle ispirazioni ricevute direttamente da Dio. Lo stato profetico non è da confondersi con l’estasi, infatti secondo Heschel le suggestioni divine che i veggenti d’Israele ricevevano non si possono paragonare al fenomeno psichico estatico di origine cananea e nord-asiatica, al quale le hanno avvicinate molti esegeti, Filone compreso.21 In sintesi, mentre l’estasi ha come fine l’unione intima con la divinità, i profeti hanno un tale senso di timore di fronte alla santità, alla trascendenza di Dio e una tale percezione della propria indegnità, da non osare avvicinarsi a Dio22 e quindi «La profezia non deve essere intesa a partire dall’estasi, ma dalla teofania».23 D’altra parte, ecco una differenza anche rispetto alla mistica cristiana secondo Heschel, l’estatico elude le realtà terrestri e si rifugia nell’aldilà, al contrario il profeta rimane inseparabilmente connesso alla situazione religiosa e socio-politica del suo tempo al fine di elevarla, in quanto «il suo scopo è di venire istruito sull’accadere del mondo».24 L’estatico cerca, nella negazione di tutto e nell’annullamento del suo io cosciente, uno strumento per entrare in comunicazione con Dio mentre il profeta affermare la sua personalità e la sua attività. Da questa analisi il nostro autore conclude che «il termine di profezia estatica è una contradictio in adiecto». Sempre in questa prima fase della sua indagine Heschel critica, non meno energicamente, ogni tentativo di vedere nelle ispirazioni profetiche delle elaborazioni immaginarie confrontabili con le creazioni dei grandi poeti, per il fatto che essi talvolta dicono di pensare e scrivere più sotto la spinta di forze misteriose ed enigmatiche, che per la loro iniziativa.25

Dopo aver fatta piazza pulita di ogni pseudo-concezione dell’atto profetico inizia una seconda fase: una pars construens in cui Heschel si sforza di stabilire, positivamente, in che cosa consista questa esperienza. Egli ravvisa l’elemento caratterizzante dell’atto profetico nel concetto di «pàthos», che «accompagna l’agire di Dio»: «Il profeta non sperimenta qualcosa di indeterminato, ma chiare parole, giudizi e desideri del Signore»26 e ancora: «Il contenuto dell’ispirazione è più importante che l’atto, e il risultato più del vissuto».27 Andando poco oltre sempre il nostro autore afferma, non senza un forte debito verso la filosofia «dialogica» buberiana, che: «L’ispirazione profetica è un rapporto vissuto»,28 in quanto la sua natura ha una «forma dialogica».29 Heschel arriva, in questo modo, ad un’affermazione di capitale importanza: «l’atto profetico ha una struttura di soggetto-soggetto (Subjekt-Subjekt-Stuktur): l’io autocosciente ed attivo del profeta incontra la realtà soggettiva di colui che da l’ispirazione».30 Questo paradigma interpretativo del rapporto Dio-profeta è visto in funzione comunicativa nei riguardi del popolo31 e lungi dall’essere un’astrazione, la comunicazione divina che il profeta riceve è motivata dalla condotta del popolo, e in questa prospettiva è influenzata ora dai sentimenti dell’ira e della delusione, ora di benevolenza e di gioia.

2. Il concetto di «simpatia»

A questo «pathos divino», che lo anima, il profeta risponde — e qui siamo ad un’altra grande acquisizione della speculazione hescheliana sul profetismo — con la più viva «dedizione compassionevole»: «Lo stato profetico è un esser presi, un sentire-insieme, una simpatia per il pathos divino. La simpatia è la risposta divina profetica all’ispirazione, il correlato umano alla rivelazione divina».32 Munito di questa sorta di dispositivo che gli permette di entrare in empatia con il sentire di Dio, il profeta vive a sua volta in prima persona i sentimenti divini. A questo punto non possiamo non registare la vicinanza di queste nostre analisi con il concetto scheleriano di «simpatia», come richiamo all’atteggiamento di pathos nei riguardi dell’«altro». Il Nostro non avrà mancato, molto probabilmente di leggere, l’impianto teoretico scheleriano e in particolare le riflessioni sulla simpatia.33 Max Scheler (1874-1928), che rispetto al suo maestro privilegia il mondo dei valori e degli atti emozionali, in Essenza e forme della simpatia del ’23,34 vede la simpatia, diversamente dal contagio emotivo, come pietra angolare dell’autenticità delle relazioni interumane, perché capace di fondare sia all’autonomia della persona e sia alla possibilità del loro comunicare.35 Nella sua funzione di attaccamento affettivo inoltre, contribuisce a creare la relazione di alterità fra le persone.36 Nella visione scheleriana la simpatia è, insieme all’amore, fra le forme più alte di decifrazione della «diversità» nelle relazioni personali; ma mentre con la prima viviamo i medesimi sentimenti dell’altro senza che egli venga ancora colto nel suo valore intrinsecamente specifico, invece solo nella dimensione di amore il mio interlocutore si dà autenticamente nella sua trascendenza, unicità, individualità e si può realizzare secondo le proprie peculiari caratteristiche. Anche nei riguardi di Dio, secondo Scheler, la relazione è di natura personale, perché coinvolge nel rapporto, non solo una persona «finita», ma anche la Persona assoluta e Infinita di Dio. Assistiamo allora nella concezione simpatetica scheleriana ad una presenza di due direttrici sempre coesistenti: da una parte la simpatia porta l’uomo ad una simbiosi emotiva con la realtà cosmica e dall’altra vi è una vera e propria «unione mistica tra l’essenza della persona spirituale e l’idea di questa essenza quale riposa in Dio».37

3. «Antropotropismo» e «Teotropismo»

Heschel giunge poi all’enucleazione di un’altra questione della massima importanza: che cos’è l’ispirazione in sé, per il profeta, indipendentemente da ogni impressione e dal suo essere ricevuta per suo tramite? L’ispirazione diventa per il profeta, risponde Heschel, non solo un’esperienza vissuta (Erlebnis), ma: «anche non tenendo conto di chi da o di chi riceve l’ispirazione, del suo motivo o contenuto, del come essa effettivamente si manifesti, l’ispirazione resta sempre accadimento (Ereignis)».38 L’Ereignis presenta inoltre due elementi costitutivi: la svolta (Wendung) e la direzione (Richtung): «In ogni atto-accadimento si compie non solo un’intenzione, un essere diretto della coscienza ad un oggetto. L’intenzione è preceduta da un momento in cui si determina la svolta, in cui la direzione diviene. Una direzione senza svolta non si dà».39 La svolta non solo è un elemento essenziale alla Rivelazione,40 ma trova il suo pieno compimento nella direzione: «L’autenticità e pienezza della svolta trapassano nella direzione».41 La definizione di questi elementi servono a Heschel per affermare un principio molto importante: che è l’uomo colui al quale è indirizzato l’orientarsi della direzione della svolta: «Chiamiamo pertanto antropotropismo (Anthropotropismus) il processo essenziale della Rivelazione, la legge della sua funzione».42 Il volgersi della Rivelazione all’uomo trova connessione con il pàthos proprio del processo profetico: «l’inclinazione al tròpos, la tendenza tropica dell’interno è ciò a cui bisogna ricondurre l’accadimento della Rivelazione. Il tròpos è essenziale ad esso come il pàthos. La volontà di partecipazione, di rivelazione, costituisce l’ultimo presupposto della profezia».43 Heschel passa poi a svelare la tendenza antitetica: il teotropismo, in cui è l’uomo che si dirige a Dio di sua iniziativa. Questa tendenza ha una particolare manifestazione: «l’espressione del teotropismo è il culto».44 Poco più avanti Heschel ci tiene ad una precisazione col dire che l’antropotropismo non equivale ad antropomorfismo: «La svolta è un accadimento di Dio. Sgorga immediatamente da un motivo divino, perché corrisponde ad un modo di sentire divino il comunicare al profeta i propri sentimenti. L’ispirazione come accadimento, come svolta, non è condizionata dalla storia, ma dal carattere di Dio».45 Dio sta in una relazione dinamica con l’uomo quindi è influenzato, toccato dalle azioni umane ed è evidente che nel parlare di un Dio personale c’è ovviamente il rischio di cadere nell’antropomorfismo, ma il linguaggio umano non dispone di uno strumento comunicativo migliore dell’analogia.46 In sintesi spiegando che l’atto profetico è da ricollegare con un antropotropismo, e non un teotropismo, Heschel vuole affermare che l’iniziativa della profezia viene sempre da Dio ed è in questa ottica che bisogna vedere il paragone che egli fa fra la profezia dell’Antico Testamento e la divinazione dell’Antico Oriente, per mostrare che non c’è alcuna analogia fra le due.

4. «Pathetische Theologie» e «religione della simpatia»

La caratterizzazione del rapporto di pensiero del profeta con Dio e della gnoseologia è così illustrato dal nostro autore: «In contrasto con il conoscere speculativo, il riflettente rapporto del profeta a Dio, nel quale Dio fu sperimentato a partire dalle sue espressioni sensibilmente percepibili, è da indicare come comprendere (Verstehen)».47 Da questo si evince che: «il più alto grado del profetico aver a che fare con Dio è l’intesa (non un’unificazione)»48 e quindi: «anche se i profeti avessero affermato l’inconoscibilità di Dio, essi avrebbero tenuta ferma la sua comprensibilità. Il comprendere, diversamente dal conoscere, rende possibile una molteplicità di rapporti con la persona “compresa”. Il profeta si comporta in modo emozionale ed intellettuale, esigendo e pregando».49 In questa affermazione si può cogliere la distinzione che fa Wilhelm Dilthey (1833-1911), fra il «conoscere» (erkennen) ed il «comprendere» (verstehen),50 applicata qui da Heschel per ridefinire la diversa modalità di rapportarsi con Dio, rispettivamente del pensiero speculativo e del profetismo biblico. Il nostro autore conclude la sua dissertazione con una terza ed ultima parte dedicata sia alla teologia patetica e alla religione della simpatia.

A proposito della prima Heschel vuole mostrare che per i profeti non si trattava mai di una conoscenza generale e astratta di Dio e dei suoi attributi, ma erano interessati alla modalità con la quale JHWH entrava in relazione col mondo, in particolare con Israele, e ai sentimenti che Egli provava alla vista delle azioni degli uomini. Heschel incomincia col dire che nella profezia sono in risalto non gli attributi eterni di Dio, ma ciò che si determina dall’incontro tra Dio e l’uomo: «Il pàthos, come qualità di rapporto, è solo possibile in un essere dato di Dio e dell’uomo, ma non come una qualità divina in generale»;51 per questo esso è: «non è attributo, ma un atto».52 Di conseguenza l’«occasionalità» del pàthos dipende dal fatto che «è decisiva la libertà di Dio»53 e dal momento che il pàthos ha una dimensione personalistica s’impreziosisce anche della dimensione etica.54 Insomma il Dio dei profeti è il Dio patetico ed è stata la filosofia occidentale, secondo Heschel, a sminuire il rilievo della soggettività e del pàthos in Dio: «Sotto l’influsso della dottrina kantiana dell’autonomia della morale si è talvolta fatto del Dio profetico il primo cittadino nel regno della morale, trascurando così la soggettività divina del pàthos profetico».55 Il concetto di pàthos infatti offre ad Heschel l’occasione di polemizzare esplicitamente con la tradizione filosofica di origine greca che affermava l’assoluta impassibilità divina e manifesta una costante della sua riflessione: la coscienza della differenza fra il «Dio dei filosofi» e il «Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe», tra i presupposti della metafisica occidentale e le categorie bibliche. Il pensatore polacco-statunitense nota inoltre come già i profeti avevano superato la trappola dell’antropomorfismo con una distinzione chiave: «Il profeta trovò una significativa via d’uscita da un punto di vista logico e religioso compiendo — consapevolmente o inconsapevolmente — la separazione fra essenza ed espressione; l’essenza, che resta inconoscibile, può lasciare uscire da sé una espressione che può essere ricevuta e compresa».56 Alla «teologia patetica» corrisponde infine una «religione della simpatia», come abbiamo già accennato sopra, che costituisce la dimensione fondamentale della vita religiosa del profeta: «La struttura della simpatia manifesta la presenzialità di un sentimento attuale, l’oggetto del rapportamento. Ciò si compie in una modalità del dialogo fra un senziente e un consenziente».57 A questo livello di descrizione della simpatia è sbarrato l’accesso ad un’incondizionata apertura all’intendimento: «La religione della simpatia non conosce alcun confine all’interno della dimensione umana orizzontale. La sicurezza di valore, la legittimazione religiosa dei sentimenti e degli affetti è posta nell’intenzionalità verticale del pàthos».58 Proseguendo la sua indagine Heschel arriva ad una prima distinzione importante, ai fini di una maggiore penetrazione conoscitiva di tale concetto, in quanto in virtù della loro «compassione» i profeti raggiungevano il massimo d’intensità unitiva: la loro anima pensava, voleva e sentiva a tal punto con Dio che ne risultava per loro stessi una unio sympathetica con Lui: «Questa unio sympathetica è, in un certo senso, l’antitesi dell’unio mystica».59

5. The Prophets

In The Prophets,60 datato 1962 e che costituisce il testo-rielaborazione di Die Prophetie, si parla ormai esplicitamente di teologia del pàthos, espressione con cui Heschel intende esprimere un linguaggio e una logica di approccio al divino, che passa non per un freddo conoscere logico e razionale, ma si apre a una “comprensione altra”. Heschel afferma che questa profonda capacità penetrativa della realtà, da parte del profeta, è resa possibile dall’assunzione dello stesso sguardo di Dio sulla realtà. La presenza di Dio non è dimostrata per via argomentativa ma testimoniata per via esistenziale, infatti proprio perché sta alla sua presenza, il profeta non solo comunica ma «rivela Dio […]: nelle sue parole, il Dio invisibile diviene udibile. Non prova, non argomenta. Il pensiero che deve comunicare supera la capacità del linguaggio […]. Non c’è nessuna prova dell’esistenza del Dio di Abramo. Ci sono solo testimonianze […] Il profeta è un testimone».61 Heschel afferma la completa implicazione di Dio nella storia. Il profeta è quell’uomo capace per primo di cogliere l’unità della storia, nella consapevolezza profonda che un unico Dio “giudica” tutti gli eventi che accadono in essa. Nel capitolo sulle «punizioni» Heschel afferma che la storia dell’umanità trova il suo senso attorno a due perni: da una parte la volontà di Dio che plasma la storia, dall’altra le azioni degli uomini, da cui dipende la configurazione che la storia assume.62 Ciò che fa rivolgere Dio a interessarsi della giustizia, trova spiegazione nella Sua compassione per la sua creatura: «The prophets do not speak of a divine relationship to an absolute principle or idea, called justice. They are intoxicated with the awareness of God’s relationship to His people and to all men. Justice is not important for its own sake; the validity of justice and the motivation for its exercise lie in the blessings it brings to man. For justice, at stated above, is not an abstraction, a value. Justice exists in relation to a person, and is something done by a person».63 Soltanto abbandonando la nostra «idolatria» di vederci separati da Colui che è «supremamente significante», e assumendo i nostri criteri razionali in una comprensione misterica dell’alterità di Dio, possiamo comprendere la compresenza, nel Suo agire nel mondo, di atteggiamenti apparentemente paradossali fra loro, come ad esempio la giustizia e l’amore.64 Heschel definisce la profezia, come già in Die Prophetie, con la categoria del «pàthos», essenzialmente come: «comunicazione ispirata degli atteggiamenti divini (of divine attitudes) alla coscienza profetica. […] Dio […] è anche commosso e toccato da ciò che capita al mondo, e reagisce di conseguenza. Eventi e azioni umane suscitano in Lui gioia e dolore, piacere o ira».65 Questo pàthos, definito dall’autore a più riprese come «transitivo», ha una caratteristica «relazionale»: «il pàthos divino è l’unità dell’eterno e del temporale, di significato e di mistero, del metafisico e dello storico. È la base reale della relazione fra Dio e l’uomo, della correlazione del Creatore e della creazione».66 Da qui deriva una concezione di Dio, che lungi dall’essere equiparata a quella della divina apàtheia degli stoici e in generale della filosofia greca in cui il divino era distaccato e privo di emozioni, nella visione biblica: «In contrasto con il primum movens immobile, il Dio dei profeti si prende cura delle sue creature, i suoi pensieri sono rivolti al mondo. Egli è coinvolto nella storia umana».67

Da questa concezione del pàthos, non scaturisce solo la rilevanza della centralità dell’uomo per Dio,68 ma anche il presupposto ontologico della dinamicità di Dio; in quanto non solo il punto di partenza biblico è Dio e non l’essere, ma «l’ontologia biblica non separa l’essere dal fare».69 Il nostro autore operando una distinzione importante fra aspetto oggettivo e aspetto soggettivo, attribuisce la realtà del pàthos rispettivamente al primo aspetto (teologia profetica) e la simpatia al secondo, come la risposta del profeta alla realtà di Dio e quindi di «religione profetica».70 Heschel passando poi a descrivere analiticamente la natura di questa «simpatia», e quindi dell’esperienza profetica, fa ormai esplicito riferimento, rispetto al testo del ’36, della classificazione scheleriana della simpatia.71 Ciò che sta a fondamento della realtà profetica è: «La certezza di essere ispirati da Dio, di parlare a nome Suo, di essere stato mandato da Lui al popolo»;72 ecco perché per il profeta l’atto profetico «è più che un’esperienza, è un evento oggettivo»,73 quindi esterno e questo spiega perché esso si connota come «un’estasi di Dio».74 Tuttavia, secondo Heschel, l’intersoggettività del rapporto non deve mettere in ombra un assunto secondo lui decisivo: l’«antropotropismo»,75 cioè che la profezia è un dono libero e gratuito di Dio all’uomo, di conseguenza questo significa che non si può entrare in una mentalità di contraccambio: esso non può essere esigito in virtù di una vita vissuta in questa dimensione. Riassumendo le caratteristiche fondamentali dell’esperienza profetica sono che essa: 1) Non è frutto dell’azione del profeta; 2) procede dal Dio conosciuto; 3) È un evento; 4) Avviene in Dio in relazione col profeta, un atto trascendente; 5) È la comunicazione personale di Dio; 6) È un apprendimento di uno stato mentale divino; 7) Comprende un fatto trans-personale (l’ispirazione) e un fatto personale (esperienza).76 Le analisi hescheliane sul profetismo, influenzate dalla impostazione maimonidea della limitatezza della ragione umana nel cogliere e nell’esprimere la realtà ineffabile di Dio, si concludono con l’affermare che l’«oggetto» del conoscere del profeta non tocca l’essenza divina che rimane inconoscibile, ma il suo pàthos; in quanto il manifestarsi divino non è «autorivelazione» ma rivelazione della sua volontà salvifica e amorosa verso l’uomo. Solo Dio in questo senso è il «Soggetto»: «il profeta non trova Dio nella sua mente come oggetto, ma trova se stesso un oggetto nella mente di Dio».77 In questa prospettiva viene capovolto il principio delfico: «Conosci il tuo Dio […] più che “Conosci te stesso”, è l’imperativo categorico dell’uomo biblico. Non c’è conoscenza di sé senza la conoscenza di Dio».78

Possiamo sinteticamente definire questa teologia del pàthos ma un paradigma ermeneutico che «se, da un lato rimanda alla sua matrice chassidica, dall’altro permette di descrivere […] Dio, uomo e mondo nei termini della relazionalità. Il pàthos assume il senso di una griglia interpretativa attraverso cui ripensare i rapporti in termini di interesse e partecipazione e quindi preliminarmente di eventi che coinvolgono in atti di reciprocità relazionale».79 Questa profonda interpretazione ci permette di capire il nesso che lo stesso Heschel ha saputo compiere nella sua esistenza fra sapere e vita.80 Rileggendo i suoi scritti Heschel comprende che la conoscenza, anzi l’esperienza del Dio dei profeti non può rimanere confinata in un puro speculare accademico, avulso dal legame profondo che unisce ogni uomo con «il volto» dell’altro che gli sta di-fronte. Prendere pienamente coscienza del significato della teologia del pàthos ha rappresentato per Heschel, un imperativo a fare scelte concrete e a non rimanere in una neutralità codarda e disumana, in quanto essa diverrebbe disumanizzante: «Più mi immergo nel pensiero dei Profeti, più mi risulta palese ciò che le loro vite hanno cercato di trasmettere: il fatto che, dal punto di vista morale, non ci sono limiti alla sollecitudine che si deve provare nei confronti della sofferenza degli esseri umani, che l’indifferenza è peggiore del male stesso».81 Ciò che studiava e scriveva, non solo del profetismo, ma in generale della conoscenza del vero Dio, si rifletteva in una capacità empatica e in una umanità ricca e accogliente verso gli altri. Una conoscenza «reale» di Dio come ebbe a scrivere nel ’62 a proposito dei profeti: «non avevano né teorie né «idee» di Dio. Essi avevano una comprensione (understanding) di Dio. La loro comprensione di Dio non era il risultato di uno studio teorico, di un andare a tentoni tra alternative sull’essenza e gli attributi di Dio. Per i profeti Dio era reale in maniera travolgente e la sua presenza era schiacciante».82 Se l’uomo, nella prospettiva profetica, è fondamentalmente «risposta a-» al Dio che si mette sulle sue tracce, ebbene Dio deve essere, in modo cogente, sperimentato come «realtà vivente»e non ridursi a «simbolo» come nell’impostazione neokantiana di matrice coheniana,83 che Heschel incontrò prima nel periodo berlinese e dopo, dal ’40 in poi, negli Stati Uniti come modalità di leggere il rapporto con il trascendente.84

6. La categoria della «Rivelazione»

Anche la Rivelazione è indagata da Heschel col metodo fenomenologico, e questa categoria è talmente importante da far parlare in questo modo uno degli studiosi che ha maggiormente studiato questo aspetto nel pensiero di Heschel: «I remain convinced that any reading of Heschel that ignores this aspect of his work, by necessity, misconstruens the ideas of that remarkable man».85 Sempre Perlman afferma che Heschel perviene all’uso «onnipresente» del metodo fenomenologico per «controbilanciare» non solo la grave «assenza» della Bibbia nel panorama della storia della filosofia, ma soprattutto per «indicare la possibilità della rivelazione», negata da quella corrente di pensiero di cui fanno parte Spinoza e Kant.86 Secondo Perlman, in Heschel si deve distinguere tra l’«idea di Rivelazione»,87 e il «contenuto della Rivelazione».88 Il capitolo sesto ruota attorno a tre direttrici: l’«idea» di Rivelazione (contenuta nella Bibbia, e accessibile tramite il metodo fenomenologico), «the claim of revelation» che conducono infine al «the result of revelation or the words».89 Perlman sostiene infatti che nell’idea di rivelazione in Heschel troviamo due poli fondamentali: la coscienza e la rivelazione che: «are two dimensional acts, in which the noetic and noematic planes must correspond».90 La rivelazione infatti non trova collocazione, o meglio non viene rinvenuta solamente nella Scrittura, ma: «the post-prophetic mind can gain an awareness of it, through phenomenological intuition»,91 infatti «the phenomenological significance of Heschel’s idea of revelation resides in the prophet’s self-consciousness as it is related to God’s pathos».92 Perlman conclude il capitolo affermando la struttura fondamentalmente fenomenologia della rivelazione, in cui troviamo la correlazione dell’«io» profetico e il pathos divino come oggetto sperimentato.93 Per capire la categoria della Rivelazione,94 che secondo B. Borowitz è «centrale nella teologia di Heschel»,95 dobbiamo necessariamente volgersi ad una delle opere più famose del repertorio hescheliano: Dio alla ricerca dell’uomo.96 Ed in particolare dobbiamo, appunto, rivolgere la nostra attenzione alla II° parte ivi contenuta. In questa parte centrale di «Dio alla ricerca dell’uomo», dedicata appunto a spiegare il concetto di Rivelazione, ci troviamo subito al cuore di tutta la visione speculativa di Heschel. Egli afferma che se si vuole capire la Rivelazione dobbiamo recuperare l’interrogativo cui essa intende dare risposta, infatti: «L’idea della rivelazione rimane un assurdo finché siamo incapaci di comprendere l’impeto con cui la realtà di Dio insegue l’uomo, ogni uomo».97

L’analisi di queste pagine verte sul problema del linguaggio, sulla comprensione dell’espressione, da parte della letteratura profetica: «Dio parlò». Un ostacolo preliminare che rischia di fraintenderne il senso e chiudersi o in un «fondamentalismo» che si ferma ad una comprensione «letterale» della Rivelazione oppure in un atteggiamento di razionalismo astratto che ne rarefa il contenuto «reale».98 Il solo modo di comprendere il significato di quella affermazione è quello di rispondere ad esso, al concetto cui allude: «Dio parlò» è un’espressione indicativa e non descrittiva,99 che comporta un’interpretazione rispondente: «Non dobbiamo cercare di leggere i capitoli della Bibbia che trattano dell’evento sul Sinai come se fossero i testi di una teologia sistematica. Il loro intento è di celebrare il mistero, di introdurci ad esso più che di […] spiegarlo […] Qualsiasi descrizione empirica dell’atto della rivelazione avrebbe prodotto l’effetto di una caricatura. Questo è il motivo per cui la Bibbia si limita ad affermare che la rivelazione è avvenuta; quanto al come è avvenuta, si tratta di qualcosa che i profeti hanno potuto esprimere soltanto con parole che sono evocative e allusive».100 A questo proposito sono illuminanti le chiarificazioni di Perlman quando parla del «contenuto della rivelazione»,101 dato dalla natura funzionale del pathos. Egli dopo aver esordito col dire che l’aspetto più problematico è l’aspetto «noematico» afferma che è“ solo tramite lo strumento della fenomenologia che si può accedere a questo contenuto rivelativo, che è impossibile ”da definire e da descrivere“, per l’aspetto di «ineffabilità» della Rivelazione.102 Quindi la soluzione della natura del contenuto rivelativo si ha solo nel «linguaggio responsivo» o «indicative language»103(presente in ogni esame fenomenologico, secondo questo autore). Da quanto detto si arguisce che nella ”costruzione“, se così si può dire, del contenuto rivelativo non troviamo esclusivamente la presenza dell’«oggetto», ma anche l’interrelazione di questo con la «coscienza» che produce un significato.104 Da quanto emerso fin qui si può cogliere il passo in avanti che Perlman fa compiere allo schema rivelativo-relazionale del «primo Heschel». Non avremo più la primigenia struttura noetica-noematica «subject to subject, that is «I» directed to «I»»,105 ma la sinergia di due modelli relazionali: «Clearly Heschel conceives of two mutually reciprocal structures in the relationship of God and man. There is a subject-subject and a subject-object structure. Ideally, revelation is the product of the cooperation of these structures».106 Questo studioso conclude la sua trattazione di questo argomento dimostrando che l’inseparabilità di queste due «strutture», nel saper ”intrappolare" la «divine personality in human consciousness is the mechanism which allows the method and content of revelation to coexist».107

7. «Evento» e «risposta»

Da quanto detto capiamo perché Heschel spiega fondamentalmente la rivelazione con il concetto di «evento»,108 avvalendosi sempre della fenomenologia.109 L’«evento» è la chiave che ci permette di leggere la rivelazione in una luce nuova. Esso non solo ci introduce nella visione dell’agire libero e sovrano di Dio sugli eventi della natura, non più determinati dalle leggi di causa ed effetto, ma immette un elemento qualitativamente differente, di carattere «kairologico», capace non solo di determinarli, ma anzi di «ri-crearli».110 Heschel nel dare risposta alla domanda su quale realtà generi l’evento sinaitico risponde: «Da una parte apriva una nuovo rapporto tra Dio e l’uomo, legandolo intimamente al popolo di Israele; dall’altra parte accettava tale rapporto, tale intimo legame con Dio».111 La rivelazione è per ogni ebreo, in un certo senso, un «entrare a far parte di una eredità spirituale» nel momento della scelta consapevole di appartenere al popolo dell’Alleanza: «Questa parola d’onore non fu data da una generazione soltanto. Tutte le generazioni di Israele erano presenti al Sinai. Quell’evento si verificò in un preciso istante temporale ma accade anche in ogni tempo».112 Accettare la Rivelazione e la proposta di Dio significa, per Heschel, ricapitolare, in quell’atto creativo, tutta la propria esistenza: «Nel fare una promessa noi impegniamo tutto il nostro futuro. È un momento che non svanisce; è un momento che determina tutti quelli che seguono».113 Infatti dire sì a Colui che si rivela è un atto «di trascendenza del presente, storia all’inverso: pensare il futuro al tempo presente».114 Il Giudaismo non è per Heschel solo una «modalità di pensare», ma un modus vivendi: «Al Sinai abbiamo appreso che i valori spirituali non sono soltanto aspirazioni presenti in noi ma una risposta all’appello del trascendente che ci è stato rivolto […] il pensiero ebraico consiste nei precetti (mitzwot)».115 Ridurre la categoria dell’evento a descrizione del puro accadimento, significa non solo renderlo una nozione astratta, cioè fine a se stesso, ma limitare il dinamismo della Rivelazione stessa solo al primo polo, di cui essa è costituita. La Rivelazione, nella dimensione di «evento», è categoria dinamica,116 che trovando compiutezza nel significato di una prassi esistenziale, implica un inveramento nella dimensione etica: «Il movimento della rivelazione non deve essere separato dal suo contenuto. La fedeltà a ciò che fu detto nell’evento è altrettanto essenziale della fede nella realtà dell’evento stesso. L’evento deve essere realizzato, non semplicemente creduto. La rivelazione è l’inizio, i nostri gesti devono continuarla, le nostre vite devono adempierla».117

Secondo il nostro autore possiamo rinvenire questo dinamismo della rivelazione oltre che nella coscienza dell’uomo soprattutto nella «Torâh». Il nostro autore, come abbiamo già accennato nella breve biografia, compose tre volumi sull’antica teologia rabbinica intitolandola «Torâh min ha-shamayim be-ispaqlariah shel ha-dorot»,118 in cui vuole ripristinare l’equilibrio originario fra i due poli della fede ebraica: Haggadah e Halakhah ovvero fra interiorità e spontaneità da una parte e normatività e azione dall’altra.119 Heschel riconfermando la sua interpretazione della Rivelazione («Evento» e «risposta»), afferma che l’amore per la Torâh trova compimento ed il suo momento veritativo nel «timore di Dio» e nel «farsi carico dell’altro».120

8. La «Depth Theology»

Abbiamo già accennato come, secondo Perlman, la categoria della rivelazione deve essere letta in stretta connessione con la «teologia del profondo».121 Ebbene anche questo concetto, che per Heschel è quella categoria interpretativa dell’esistenza umana, si configura come quel «pensare profondo» in cui il secondo termine è «disponibile», solo attraverso l’uso del metodo fenomenologico.122 Perlman per descrivere questo concetto ricorre al paragone con il livello noetico dell’atto di “auto-comprensione”, che in filosofia precede il pensiero:123 la «teologia del profondo» è la dimensione o meglio il momento «pre-teologico, pre-simbolico e pre-concettuale»124dell’atto di fede; ma questo non vuol dire che possa esistere indipendentemente da contenuto della fede.125 Non senza aver intuito la natura dialogica di questa categoria,126 possiamo provare a definire la «depth theology» come quella visione unitaria e totalizzante della realtà, che deve essere collocata tra «i metodi della moderna filosofia».127 Visione totalizzante perché connota l’approccio personale di Dio stesso nella forma dell’incontro e del totale coinvolgimento della vita. Con la formula sintetica della depth-theology, Heschel vuole indicare le dinamiche specifiche del suo pensiero religioso. Se potessimo definire questo tipo di «teologia», che intende «evocare» più che descrivere, diremmo che esso è un tentativo di cogliere l’uomo nelle dimensioni in cui la persona tutta è implicata, con la sua ragione, volontà, sentimenti e attività; a fronte del totale coinvolgimento di Dio nella storia umana. Proprio perché sia l’agire divino che la persona umana, costituiscono quel mistero, che difficilmente si lascia intrappolare dal linguaggio «oggettivante». Heschel stesso ricorre a dei paragoni con ciò che è più facilmente comprensibile, per tentare di mostrare la natura di questa prospettiva con cui guardare non solo la teologia, ma anche il nostro relazionarci con Dio. Come modalità di approccio conoscitivo alla realtà essa si configura, secondo Heschel stesso, come «un metodo».

Infatti nel già citato «Dio alla ricerca dell’uomo», in cui l’autore intende delineare la sua «Filosofia del Giudaismo», incomincia col distinguere tra «pensiero concettuale» e «pensiero situazionale».128 Mentre il primo si rivolge alla conoscenza del mondo e si connota come atto razionale che presuppone il distacco dall’oggetto investigato, partendo dal dubbio e dalla curiosità; il pensiero situazionale è fondamentalmente «autocomprensione»: non si interessa all’analisi di principi, dottrine, teorizzazioni, ma è un osservare l’io in atto, un’analisi di eventi e intuizioni. A livello filosofico-religioso troviamo, in parallelo, la distinzione fra l’analisi del «contenuto del credere» e analisi dell’«atto del credere». La filosofia della religione, che si muove nell’ambito del pensiero situazionale, polarizza la sua attenzione alle situazioni concrete e non a rapporti concettuali.129 Partendo dall’assunto che «ciò che deve essere discusso per primo non è la credenza, il rituale o l’esperienza religiosa, bensì la sorgente di tutti questi fenomeni: la situazione totale dell’uomo; non come egli sperimenta il soprannaturale, ma perché lo sperimenta e lo accetta»,130 questa differenza essenziale sul piano teologico, ed è questo il nostro punto di arrivo, si delinea, secondo il nostro autore così: «Mentre la teologia si interessa del contenuto del credere, il presente studio ha come oggetto l’atto del credere».131 Ma Heschel continua ed enuclea, secondo noi, il cuore di ciò che egli chiama depth theology: «Esso (cioè il presente studio) si propone, cioè, di esaminare la profondità (corsivo mio) della fede, il substrato (corsivo mio) dal quale questa nasce, e il suo metodo può essere definito teologia del profondo».132 Perché sempre secondo il Nostro: «Possono comprendere la religione soltanto coloro che sanno sondarne la profondità».133 Heschel vuole essere uno dei pochi “folli” di Dio, disposto ad indagare quel: «sottosuolo spirituale (spiritual underground) dove poche menti coraggiose continuano a combattere. Ma il nostro interesse non è come adorare nelle catacombe, bensì come restare umani nei grattacieli».134 Per analizzare più approfonditamente questa visione dobbiamo rivolgerci ad uno degli articoli più stimolanti della raccolta «The Insecurity of Freedom», in cui c’è proprio un articolo135 intitolato appunto depth theology. Heschel afferma che è la quarta componente del fatto religioso ad essere il cuore pulsante: «l’interiorità (innerness) della religione»,136 sennò le precedenti permangono nello spazio della mera esteriorità, in quanto «non c’è una risposta che scaturisce dall’intimo della persona, un momento di identificazione e penetrazione che li interiorizza».137 Ricorrendo ad un’interessante analogia, Heschel definisce la studio di questa realtà fondante come la «semantica»138 dell’esistenza religiosa. Tentando di rispondere agli interrogativi di questa portata: «che cosa accade all’interno della persona quando nasce la fede? Che cosa induce l’uomo a credere?»,139 vediamo giungere il nostro autore ad una distinzione già incontrata: mentre la teologia “convenzionale” si preoccupa del contenuto della fede, la “teologia del profondo” invece si rivolge all’atto del credere. Questo tipo di “teologia” si prefigge di «esplorare le profondità (depth) della fede, il substrato (substratum) dal quale nasce la fede. Essa prende in considerazione quelle opzioni interiori che precedono l’articolazione e si sottrae ad ogni tipo di definizione».140

Nello sforzo di far prendere coscienza dell’alterità di questo approccio, il solo che sa cogliere l’unicità del reale, e che libera l’uomo dal fissismo idolatrico della dogmatizzazione, dalla sciocca auto-giustificazione della vanagloria intellettuale e lo restituisce alla autentica intuizione che egli è “irripetibile” e che Dio è sempre al di là dei nostri tentativi di rinchiuderlo nelle nostre concettualizzazioni, Heschel enuncia le differenze fra le due teologie: «La teologia formula; la teologia del profondo evoca. La teologia chiede fede e ubbidienza; la teologia del profondo auspica risposte e apprezzamenti personali. La teologia tratta dati di fatto permanenti; la teologia del profondo sonda momenti […]. La teologia astrae e generalizza. Essa sussiste indipendentemente da tutto quello che accade nel mondo. È suo intento serbare l’eredità del passato; perpetuare la tradizione. Ma senza la spontaneità della persona, se mancano la risposta e il coinvolgimento interiori, senza la simpatia della comprensione, il corpo della tradizione si sbriciola tra le dita […]. Ci teniamo lontani dalla teologia del profondo perché non è agevole coglierne le tematiche con le parole, e noi abbiamo paura dell’indeterminatezza […] La teologia parla per il popolo; la teologia del profondo parla al singolo. La teologia cerca la comunicazione, l’universalità; la teologia del profondo cerca la comprensione, l’unicità. La teologia è come la scultura, la teologia del profondo è come la musica. La teologia del profondo si trova nei libri; la teologia del profondo nei cuori. La prima è dottrina, la seconda evento. Le teologie ci dividono; la teologia del profondo ci unisce».141 Heschel ci mette in guardia, in modo equilibrato e sapiente, dal separare questi due modi di leggere la realtà,142 in quanto non possiamo mai separarci del tutto dal linguaggio convenzionale e dall’aspetto razionale del nostro vivere, infatti non sempre «possiamo rapportarci personalmente alla realtà divina, se non in rari momenti»,143 e dobbiamo rispondere alle questioni: «in quale modo comunicare questi momenti […] a tutte le ore della nostra vita? Come affidare l’intuizione ai concetti, l’ineffabile alle parole, la comunione alla comprensione razionale? […] È il credo che cerca di dare una risposta a questi problemi».144 Heschel conclude affermando che la teologia del profondo ci fa accedere ad una nuova dimensione: il mistero. È come se ci venissero donati dei sensi ulteriori per saper leggere e vivere la realtà non più solo unidimensionalmente, ma approntandoci del «senso del mistero», ci viene concessa la capacità di penetrare in ciò che «non riguarda le cose non ancora conosciute, bensì quella realtà che non sarà mai conosciuta. È una realtà in cui c’imbattiamo, ma alla quale non siamo in grado di rapportarci. Stiamo alla sua presenza, ma siamo incapaci di coglierne l’essenza. Siamo sordi, quasi vedessimo i suoni ma senza possibilità di sentirli».145 Comprendere la depth theology è capire che il paradigma speculativo non è più interpretabile solo per via razionale, ma bisogna passare per la «profondità» che è «la porta» per accedere al pensiero che si fa preghiera: «Esiste una sola forma legittima di espressione religiosa: la preghiera. Tutte le altre forme sono commentari: le descrizioni, i discorsi, tendono a diventare diversivi».146


  1. Per informazioni su questo grande autore filosofo, teologo e poeta: cfr. voce Abraham Joshua Heschel di A. Babolin in Mysterium Salutis/ Supplemento (vol. XIII), Lessico dei Teologi del sec. XX, P. Vanzan e H.J. Schultz (a cura di), Queriniana, Brescia, 1978, pp. 593-596; voce Heschel, Abraham Joshua di F.A. Rothschild in The Encyclopedia of Religion, Mircea Eliade (Editor in chief), vol. 6, MacMillan Publishing, New York, Collier MacMillan Publishers, London, 1987; voce Heschel, Abraham Joshua in Encyclopedia Judaica (vol. 8), Jerusalem, 1971, pp. 426-7; voce Heschel A. J. di G. Iammarrone in Lexicon. Dizionario dei teologi, Piemme, Casale Monferrato, 1998, pp. 660-661; voce Heschel, Abraham Joshua in L’Enciclopedia della Filosofia e delle scienze umane, De Agostini, Novara, 1996, p. 414; A. Lorini, Introduzione all’edizione italiana di A.J. Heschel, Israele: un eco di eternità, Queriniana, Brescia, 1977, pp. 9-17; E. Poli Abraham Joshua Heshel: un profilo in A.J. Heschel, La terra è del Signore, Marietti, Genova, 1989, pp. 107-130 (interessante anche la Prefazione, sempre nello stesso libro, di E. Mortara Di Veroli, pp. VII-XVII); Introduzione di Susannah Heschel in A.J. Heschel, Grandezza morale e audacia di spirito (trad. S. Campanini), ECIG, Genova, 2000, pp. 13-47; Id., Postfazione. L’uomo Heschel: la testimonianza di sua figlia Susannah, in A.J. Heschel (J. Neusner-Noam M.M. Neusner a cura di), Crescere in saggezza (titolo orig. To Grow in Wsdow), Gribaudi, Milano, 2001, pp. 206-221; E. Mortara Di Veroli, Ricordo di Heschel, in «La Rassegna Mensile di Israel», n. 2 (1973), pp. 75-83; E.K. Kaplan & S.H. Dresner, Abraham Joshua Heschel: Prophetic Witness, New Haven & London, 1998; P. Ricci Sindoni, Heschel. Dio è pathos, Messaggero, Padova, 2002; M. Giuliani, Il pensiero ebraico contemporaneo, Morcelliana, Brescia, 2003, p. 19: il libro è un ottimo e completo panorama del pensiero ebraico nell’età contemporanea da Cohen a Greenberg. Ad Heschel sono dedicate le pp. 403-411. ↩︎

  2. Gen 3, 9. ↩︎

  3. Leki-Lak: Ct. 2, 10. ↩︎

  4. Cfr. J.R. R. Tolkien, The Lord of the Rings, trad. ital. Il Signore degli anelli, Bompiani, Milano, 2000. ↩︎

  5. Per motivi di spazio non tratterò questo mondo culturale di A. Heschel ma rimando a D. Leoni, Il Chassidismo: storia e spiritualità, in D. Lifschitz, La saggezza dei Chassidim, Piemme, Casale Monferrato, 1997, pp. 243-289; G. Giannini, Etica e religione in Abraham Joshua Heschel, Guida, Napoli, 2001, pp. 39-63; G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Il Melangolo, Genova, 1986; E. Baccarini, Il Chassidismo come mistica del quotidiano, in «Filosofia e teologia» (Mistica, religione, pensiero), n. 2 (1997), pp. 298-312; M. Giuliani, Il pluralismo religioso nel Giudaismo, in «Humanitas» 52 (2/97), pp. 274-283; voce «mistica ebraica» in Dizionario di Mistica (L. Borriello-E. Caruana-M. R. Del Genio-N. Suffi a cura di), Libreria Vaticana, Città del Vaticano, 1998, pp. 838-848; voce «chassidismo» di J. Maier, Nuovo Dizionario delle Religioni, op. cit., pp. 114-116; D. Lifschitz, I Chassidim, Dehoniane, Roma, 1994. Cfr. anche J. Langer, Le nove porte. I segreti del chassidismo, Adelphi, Milano, 1982; E. Wiesel, Celebrazione chassidica. Ritratti e leggende, Spirali, Milano, 1983; M. Buber, I racconti dei chassidim, Garzanti, Milano, 1979; Id., Sette discorsi sull’ebraismo, Carucci, Assisi, 1976; D. Leoni (a cura di), I maestri del Chassidismo, Città Nuova, Roma, 1993 (con ricca bibliografia); E. Bartolini, Dio ci chiederà conto dei beni di cui non abbiamo goduto in «Parola Spirito e Vita» 45 (2002/1), pp. 55-68; Id., L’esperienza di Dio nel chassidismo, in AA.VV., Narrare l’esperienza mistica (Ebraismo/ottavo quaderno), Ed. Studio Domenicano, Bologna, 1999, pp. 99-149. ↩︎

  6. Cfr. A.J. Heschel, L’uomo non è solo, Mondadori, Milano, 2001, p. 68. ↩︎

  7. Ibid., p. 100. ↩︎

  8. Cfr. A.J. Heschel, Grandezza morale e audacia di spirito, op. cit., p. 19. ↩︎

  9. Cfr. Die Prophetie. Das prophetische Bewusstsein, Krakow, 1936; per Giuliani è tutta la ricerca del Nostro che prende «le mosse dal metodo fenomenologico Husserliano in seguito abbandonato», M. Giuliani, Il pensiero ebraico…, op. cit., p. 404. ↩︎

  10. È interessante notare come la formazione filosofica e speculativa di Heschel sia di impronta chiaramente fenomenologica, infatti il titolo della sua dissertazione non lascia spazio a dubbi. Per la fenomenologia cfr. E. Baccarini, La fenomenologia. La filosofia come vocazione, Studium, Roma, 1981; anche G. Piana, I problemi della fenomenologia (V. Costa a cura di), II ediz., biblioteca moderna Mondadori, 2000, disponibile su : <http://filosofia.dipafilo.unimi.it/~piana/problemi/p-idx-01.htm>, [consultato il 20/11/2002]; A. Ales Bello, Edmund Husserl: riflessioni sull’antropologia, in AA. VV., Antropologie contemporanee a confronto, in «Per la filosofia (Filosofia e insegnamento)», 2 (2000), pp. 29-30. ↩︎

  11. L’importanza dell’esperienza vissuta dai profeti era già stata sottolineata, dieci anni prima, da M. Buber, ma questi aveva finito per dare una lettura meramente “soggettiva” e quindi riduttiva della Bibbia e del esperienza contenuto oggettivo di questa, cfr. M. Buber (a cura di A. Poma), La fede dei profeti, Marietti, Casale Monferrato, 1983. Su questo tema cfr. anche J. Moltmann, Il Dio crocifisso, Queriniana, Brescia, 1973, pp. 314-327; A. Neher, L’essenza del profetismo, Marietti, Casale Monferrato, 1984; su quest’ultimo vedi M.T. Cappellini, André Neher: l’uomo e l’opera, in «Humanitas», 54 (1/1999), pp. 107-119 (in particolare le pp. 115-117 dedicate al pathos divino in dialogo con Heschel). ↩︎

  12. La fenomenologia è la rigorosa scienza del fenomeno, vale a dire dell’immediato, di ciò che è «presente di persona» alla coscienza. La scienza fenomenologica, in alternativa al «naturalismo» e allo «storicismo» di Dilthey, è scienza «pura», in quanto invece di considerare i fatti o le cose naturali si occupa dei fenomeni irreali, le «essenze». Non facendo quindi alcun uso della posizione esistenziale della natura, può essere solo ricerca di essenze e per nulla mai ricerca di esistenze↩︎

  13. Rispetto all’epoché degli antichi Scettici e del «dubbio cartesiano», quella fenomenologica è quella sospensione dell’affermazione di realtà (tesi) che è connaturale in tutti gli atteggiamenti naturali e in tutte le scienze naturali. ↩︎

  14. Cfr. E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa, Torino, pp. 22-23 cit. in F. Restaino, Storia della filosofia, vol. 4/1, Utet, Torino, 1999, p. 272; la intentio, «intenzionalità» è un concetto mutuato dalla scolastica medioevale. ↩︎

  15. A.J. Heschel, Die Prophetie. Das prophetische Bewusstsein, Krakow, 1936, p. 1, citato in A. Babolin, Abraham Joshua Heschel. Filosofo della religione, Benucci, Perugia, 1978, p. 37. ↩︎

  16. Ibid., p.3. ↩︎

  17. A. J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo. Una filosofia dell’ebraismo (trad. it. a cura di E. Mortara Di Veroli), Borla, Roma, 1983, p. 271, corsivo mio. ↩︎

  18. A.J. Heschel, Die Prophetie…, op. cit., p. 3. Da tenere presente è la distinzione che Franz Rosenzweig in Der Stern der Erlösung (1921) [tr. it. di G. Bonola, La Stella della redenzione, Marietti, Casale Monferrato, 1985], opera fra Erfahrung ed Erlebnis. A differenza del primo senso di «esperienza» che si muove ancora nell’ambito della relazione fra soggetto e oggetto, Erlebnis indica si il rapporto immediato con la trascendenza, il vissuto della rivelazione nell’incontro personale, ma anche la «presenza di un rapporto già sempre in atto fra differenti, che non è l’uomo a costituire, ma in cui egli risponde all’iniziativa di Dio», A. Fabris, Il problema dell’esperienza religiosa nel pensiero ebraico del Novecento, in «Filosofia e Teologia» n. 1 (1994), p. 80. ↩︎

  19. «l’oggetto della presente ricerca è puramente il rapporto fra Dio e il profeta», A.J. Heschel, Die Prophetie…, op. cit., p. 5. ↩︎

  20. Ibid. ↩︎

  21. Cfr. ibid., p. 16. ↩︎

  22. Cfr. ibid., p. 28. ↩︎

  23. Ibid., p. 29. ↩︎

  24. Ibid., p. 31. ↩︎

  25. Ebbene anche qui Heschel mostra come anche questa visione risulti totalmente smentita da ciò che dicevano i profeti nel momento in cui si trovavano in presenza dell’influsso divino: lungi dal trovarsi davanti ad una presenza enigmatica, essi avevano la chiara coscienza di trovarsi di fronte a Dio. ↩︎

  26. Ibid., p. 35. ↩︎

  27. Ibid. ↩︎

  28. Ibid., p. 36. ↩︎

  29. Ibid. ↩︎

  30. Ibid., p. 53. ↩︎

  31. Cfr. ibid., p. 54. ↩︎

  32. Ibid., p. 70. ↩︎

  33. Cosi Kaplan e Dresner, cfr. E.K. Kaplan & S.H. Dresner, Abraham Joshua Heschel: Prophetic Witness, op. cit., p. 165. ↩︎

  34. Per l’impianto e i contenuti di quest’opera cfr. M.F. Canonico, Antropologie filosofiche del nostro tempo a confronto, LAS, Roma, 2001, e quando parla dell’antropologia personalistica di Scheler in particolare le pp. 149-161. ↩︎

  35. «La simpatia nel suo complesso implica l’intenzione di avvertire la gioia e la sofferenza che accompagna i fatti psichici d’altri», M. Scheler, Wesen und Formen der Sympathie, in ID., Werke (Vol. VII), Bern & München, 1973, p. 24. citato in G. Giannini, Etica e religione…, op. cit., p. 107. ↩︎

  36. «La vera funzione della simpatia consiste nel distruggere l’illusione solipsistica e nel rivelarci come dotata di un valore uguale alla nostra la realtà dell’altro in quanto altro», A.J. Heschel, Die Prophetie…, op. cit., p. 82. ↩︎

  37. G. Giannini, Etica e religione…, op. cit., p. 108. ↩︎

  38. A.J. Heschel, Die Prophetie…, op. cit., p. 100. ↩︎

  39. Ibid., p. 104. ↩︎

  40. «La svolta è un costitutivo della Rivelazione. Senza di essa c’è un aldilà, una “trascendenza-in sé”, ma non una Rivelazione», Ibid., p. 107. ↩︎

  41. Ibid., p. 110. ↩︎

  42. Ibid., p. 111. ↩︎

  43. Ibid., p. 113. ↩︎

  44. Ibid., p. 118. ↩︎

  45. A.J. Heschel, Die Prophetie…, op. cit., p. 121. ↩︎

  46. Infatti il Rothschild afferma: «Sebbene l’essenza di Dio sia incomprensibile ed egli sia conosciuto solo attraverso i suoi atti e le sue espressioni, il linguaggio umano deve correre il rischio di riferirsi a Lui come persona: il più stretto analogo all’incontro profetico con Dio è l’incontro che ha luogo fra persone umane», F.A. Rothschild, Abraham Joshua Heschel, in «Modern Theologians: Christians and Jews», Notre-Dame, 1967, p. 178 cit. in A. Babolin, Abraham Joshua Heschel. Filosofo…, op. cit., p. 297. ↩︎

  47. A.J. Heschel, Die Prophetie…, op. cit., p. 128. Comprensione, per Heschel, si oppone immediatamente a conoscenza speculativa. In questa dimensione non c’è «più niente della nostra conoscenza speculativa. Quest’ultima, difatti, è elevata a com-prensione, ove il prendere della stessa non è un afferrare logico e razionale, bensì un intuire il nostro debito creaturale» (G. Giannini, Etica e religione…, op. cit., p. 87). ↩︎

  48. Ibid. ↩︎

  49. A.J. Heschel, Die Prophetie…, op. cit., p. 129. ↩︎

  50. Il «comprendere» in Dilthey è l’operazione conoscitiva fondamentale nel campo della «scienze dello spirito», e di questa operazione l’’esperienza vissuta" (Erlebnis) ne è il punto di partenza e il fondamento. L’oggetto del comprendere è l’individualità ma poiché essa non può essere raggiunta se non attraverso un complesso di atti generalizzanti, questa si presenta sotto la forma del tipo (oggetto specifico della poesia e dell’arte in generale). Quindi il «comprendere» viene così a distinguersi dal «conoscere» o «spiegare», che è l’operazione generalizzante propria delle scienze naturali e che consiste nel mettere in luce la connessione causale tra gli oggetti esterni dell’esperienza sensibile. Non solo ma per questo filosofo il «comprendere» è anche il rivivere e il riprodurre l’esperienza altrui: perciò anche un sentire insieme con gli altri e partecipare simpateticamente alle loro emozioni, realizzando quell’unità di soggetto e oggetto, che è il contrassegno delle scienze dello spirito. ↩︎

  51. Ibid., p. 133. ↩︎

  52. Ibid., p. 134. ↩︎

  53. Ibid. ↩︎

  54. Cfr. ibid., p. 135. ↩︎

  55. Ibid., p. 136. ↩︎

  56. Ibid., p. 161. ↩︎

  57. Ibid., p. 168. ↩︎

  58. Ibid., p. 170. ↩︎

  59. Ibid., p. 176. ↩︎

  60. Cfr. The Prophets, (2 voll.), Harper & Row Publishers, New York-Philadelphia, 1962, trad. it. a cura di A. Dal Bianco, Il messaggio dei profeti, Borla, Roma, 1993 (2a ed.) [che è praticamente la traduzione solo del II volume di The Prophets]. ↩︎

  61. Ibid., p. 22. ↩︎

  62. «The central message of the prophets is the insistence that the human situation can be understood only in conjunction with the divine situation. The absurdity of isolating the human situation and treating it in disregard of the divine involvement is exemplified by the self-defeating course of manmade history», Ibid., p. 190. ↩︎

  63. Ibid., p. 216 è mia la sottolineatura. ↩︎

  64. Cfr. ibid., pp. 219-220. ↩︎

  65. Ibid., pp. 223-224 ed. inglese; invece la trad. it. a cura di A. Dal Bianco, Il messaggio dei profeti, op. cit., p. 8. ↩︎

  66. Ibid., p. 19. ↩︎

  67. Ibid., p. 56. ↩︎

  68. Cfr. ibid., pp. 56-57. ↩︎

  69. Ibid., p. 60. ↩︎

  70. Cfr. ibid., p. 116. ↩︎

  71. «La simpatia […] è la focalizzazione della tensione su Dio, la coscienza dell’emozione divina, intensa sollecitudine per il pàthos divino e solidarietà simpatizzante per Dio. Seguendo però la classificazione di Max Scheler, potremmo distinguere due tipi di simpatia: 1. comunione di sentimento con Dio; 2. consonanza, o simpatia per Dio. Il primo tipo di rapporto esiste quando due persone stanno davanti alla bara di un caro amico. Provano assieme lo «stesso» dolore, la «stessa» pena. […] Essi hanno un sentimento comune, nel senso che essi sentono e sperimentano in comune non solo la stessa e medesima scala di valori, ma anche lo stesso ardore di emozione che ne deriva. […] Il secondo tipo di rapporto è quello della consonanza, o della simpatia per Dio, ed include l’intenzionale riferimento profetico dei sentimenti di gioia o di dolore all’esperienza di Dio […] Tale simpatia per Dio deriva da una comprensione della situazione e del pathos del Signore. La divinità evoca nel profeta un pathos analogo. Il profeta può rispondere al pathos divino solo intuendo ciò che il pathos può essere. Anche la sollecitudine personale del profeta nei confronti di Dio è servita a focalizzare le sue emozioni direttamente sul pathos di Dio», ibid., pp. 124-126. ↩︎

  72. Ibid., p. 272. ↩︎

  73. Ibid., p. 278. Un processo è reiterabile, accade regolarmente, un evento è straordinario, unico. ↩︎

  74. Ibid., p. 281. ↩︎

  75. È quando Dio si volge all’uomo e trova la su tipologia nel «profeta», mentre il Teotropismo è il volgersi dell’uomo verso Dio e ha la sua esemplificazione tipologica nel «sacerdote», cfr. ibid., p. 291. ↩︎

  76. Cfr. p. 293. ↩︎

  77. Ibid., p. 348; cfr. anche A.J. Heschel, Die Prophetie…, op. cit., p. 183. ↩︎

  78. Ibid., p. 352. ↩︎

  79. E. Baccarini, «Pensare ebraicamente»: F. Rosenzweig e A.J. Heschel, in «Archivio di Filosofia», (1993), p. 385. ↩︎

  80. «Come ebbe a spiegare in un’intervista rilasciata in seguito, fu solo la revisione della propria dissertazione sui profeti per la pubblicazione in lingua inglese all’inizio degli anni ’60 a convincerlo della necessità di impegnarsi nelle vicende umane, nelle sofferenze degli uomini», Introduz. di S. Heschel in A.J. Heschel, Grandezza morale.., op. cit., p. 36. ↩︎

  81. S. Heschel, Postfazione. L’uomo Heschel: la testimonianza di.., op. cit., p. 215. ↩︎

  82. A.J. Heschel, Il messaggio dei profeti, op. cit., p. 5, sottolineatura mia. ↩︎

  83. H. Cohen (1842-1918) fondatore della «Scuola di Marburgo» afferma in sostanza che: la nostra conoscenza non è mai vera, ma solo simbolicamente vera, cfr. N. Abbagnano, Storia della filosofia, Vol. VI, op. cit., pp. 163-167; E. Baccarini, La religione della ragione. Un paradigma della modernità, in «Filosofia e Teologia», n. 2 (1994), pp. 246-251; M. Giuliani, Il pensiero ebraico…, op. cit., pp. 31-38. ↩︎

  84. È preziosa, a riguardo, la testimonianza che Heschel stesso fa della sua esperienza a Berlino, in una conferenza di rabbini americani in A.J. Heschel, Grandezza morale e audacia di spirito, op. cit., pp. 217-220. ↩︎

  85. L. Perlman, Abraham Heschel’s Idea of Revelation, Brown Judaic studies, Atlanta, 1989, p. 2. Più volte L. Perlman lamenta, in alcuni punti del libro, il misconoscimento da parte, non solo dei denigratori, ma anche dei discepoli di Heschel, dei due aspetti citati, cioè: del metodo della depht theology, con la sua base fenomenologica, e l’idea di rivelazione, cfr. ibid., p. 4; quest’autore in sintesi vuole dimostrare che: a) nel parlare della sua «idea di Rivelazione», Heschel faccia uso delle categorie fenomenologiche (essenzialmente della intenzionalità e della struttura di correlazione noetica-noematica), in quanto tale categoria è strettamente connessa al concetto di depht-theology; e b) la categoria hescheliana della Rivelazione è debitrice dalla teologia rabbinica (cfr. ibidem pp. 4. 24-25). ↩︎

  86. Cfr. ibid., pp. 7-8. ↩︎

  87. Cfr. L. Perlman, Abraham Heschel’s Idea of Revelation, op. cit., pp. 77-85. ↩︎

  88. Cfr. ibid., pp. 103-113. ↩︎

  89. Ibid., p. 82. ↩︎

  90. Ibid., 77; cfr. anche ibid., p. 83. ↩︎

  91. Ibid. ↩︎

  92. Ibid., p. 84. ↩︎

  93. Ibid., p. 85. ↩︎

  94. La Rivelazione rientra per il Rothschild nel concetto di personal concern di Dio, che ha la caratteristica della «transitività»: «L’interesse di Dio […] si esprime in tre modi differenti, come creazione, rivelazione, e redenzione», F.A. Rothschild, Introduction a Between God and Man. An interpretation of Judaism from the Writings of Abaham J. Heschel, MacMillan, New York, 1965, p. 24, corsivo mio. ↩︎

  95. E.B. Borowitz, The Problem of the Form of a Jewish Theology, in Hebrew Union College Annual, XL-XLI (1969-1970), p. 394, cit. in A. Babolin, Abraham Joshua Heschel filosofo…., op. cit., p. 300. ↩︎

  96. God in Search of Man. A Philosophy of Judaism, New York, 1955, trad. it. a cura di E. Mortara Di Veroli, Dio alla ricerca dell’uomo. Una filosofia dell’ebraismo, Borla, Roma, 1983. È interessante la proposta del Perlman, di vedere la struttura fenomenologica della prima parte di quest’opera, come il fondamento per la seconda parte: la Rivelazione, cfr. L. Perlman, Abraham Heschel’s Idea of Revelation, op. cit., p. 23. ↩︎

  97. «In verità, le loro parole non vanno prese alla lettera, perché […] il significato letterale è soltanto un minimo di significato […] Bisogna forse intenderlo simbolicamente: egli non parlò, ma era come se avesse parlato? La verità è che ciò che è letteralmente vero per noi è una metafora in confronto a ciò che è metafisicamente reale per Dio […] le nostre parole più potenti, quando si riferiscono a lui, diventano affermazioni deboli e inadeguate. E tuttavia, il fatto che «Dio parlò» non costituisce un simbolo. Un simbolo non fa scaturire un mondo dal nulla. E neppure fa venire alla luce la Bibbia. Il discorso di Dio ha una realtà che non è inferiore bensì superiore al significato letterale», A.J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo., op. cit., p. 197 (ediz. ital.), corsivo mio. ↩︎

  98. A.J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo., op. cit., p. 202. ↩︎

  99. «Le parole descrittive che stanno in un rapporto fisso con dei significati convenzionali e ben definiti, come i nomi concreti, la sedia, il tavolo […] e le parole indicative, che stanno al contrario in un rapporto stabile, con significato ineffabile e che invece di descrivere, semplicemente alludono a qualcosa che noi intuiamo ma siamo incapaci di comprendere a pieno […] La loro funzione non consiste nel richiamare alla mente una definizione, ma nell’introdurci alla realtà di ciò che esse significano […] Ciò che esse suscitano non è tanto un ricordo quanto una risposta», ibid., p. 204. ↩︎

  100. A.J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo., op. cit., pp. 207-208 ↩︎

  101. Cfr. L. Perlman, Abraham Heschel’s Idea of Revelation, op. cit., pp. 103-113. ↩︎

  102. Ibid., p. 106. Il metodo fenomenologico lo preserva infatti, secondo il Perlman, dal «letteralismo» perché la «Parola di Dio», — questo Perlman lo ripete fino alla noia — è il risultato dell’evento della Rivelazione e non il frutto dell" identificazione con questa. Heschel, sempre secondo Perlman, evita anche il «simbolismo», in quanto: «is examining (Heschel) the immediacy of God’s reality and not its logical representation», Ibid., p. 107. ↩︎

  103. Ibid., p. 108. ↩︎

  104. «According to Heschel, there is an objective content in indicative words but the response of the participant is essential to the formation of that content», ibid., 108; e più avanti: «Not God in His essence, but God in a relation of mutual significance to man, in a presentive intuition, creates the content of revelation», ibid., p. 110. ↩︎

  105. Ibid., p. 136. ↩︎

  106. Ibid., p. 137. ↩︎

  107. Ibid., p. 138. L’autore afferma inoltre che entrambi le strutture utilizzano anche due differenti tipi di linguaggi per descrivere l’atto rivelativi, come esso si rivolge al suo contenuto, cfr. ibid., p. 141. ↩︎

  108. Il «processo», secondo Heschel è tipico, l’«evento» è unico, mentre il primo obbedisce ad una legge il secondo crea un precedente. ↩︎

  109. «Revelation can only be phenomenologically explicated because it is an event and not a component of genetic knowledge […] The uniqueness of revelation that precludes accessibility via rationalism or empiricism demands phenomenological treatment», L. Perlman, Abraham Heschel’s Idea of…, op. cit., pp. 24-25. ↩︎

  110. «in altre parole, supporre che l’intero complesso delle leggi naturali sia superato dalla libertà di Dio, implicherebbe la comprensione metafisica del fatto che le leggi di natura non derivano da una cieca necessità ma dalla libertà, che la realtà ultima non è il fato ma Dio. La rivelazione non è un’interferenza nello svolgimento normale degli eventi naturali ma l’atto di istillare un nuovo momento creativo nel loro corso. La catena causale, e quella del ragionamento sillogistico, nella quale le cose e i pensieri sono imprigionati, è fissata nello spazio delle possibilità infinite come il battaglio che pende in una campana silente. È come se tutto l’universo fosse fissato a un singolo punto. Nella rivelazione la campana suona e le parole vibrano attraverso il mondo», The moment at Sinai (trad. ital. «L’istante del Sinai»), in «American Zionist», vol. 43, n. 7 (1953), p. 18, in A.J. Heschel, Grandezza morale…, op. cit., pp. 65-66. ↩︎

  111. Ibid. p. 67. ↩︎

  112. Ibid. I Rabbini dicevano: «La Torah, ogni volta che la studiamo, deve essere per noi «come se ci fosse data oggi», A.J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo…, op. cit., p. 237. ↩︎

  113. A.J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo…, op. cit., p. 237. ↩︎

  114. The moment at Sinai, in A.J. Heschel, Grandezza morale…, op. cit., p. 67. ↩︎

  115. Ibid., p. 69. ↩︎

  116. Dio parlò e l’uomo non si limitò a percepire ma accettò la volontà di Dio. La rivelazione dura un istante, l’accettazione continua» The moment at Sinai, art. cit., p. 64. ↩︎

  117. Ibid. ↩︎

  118. Dal 1962 al 1965 Heschel pubblica, in due volumi, uno studio sulla teologia del Giudaismo rabbinico col titolo Torah min ha-shamayim be-ispaqlariah shel ha-dorot cioè «la Torah (=Rivelazione) è dal cielo, nello specchio delle generazioni». Ora alcuni capp. dei primi due volumi sono stati tradotti in A.J. Heschel, La discesa della Shekinah, Qiqajon, Magnano, 2003, con introduz. di A. Mello. ↩︎

  119. Heschel fa risalire, in nuce, ai due differenti modi di vedere la rivelazione e la profezia, da parte delle scuole teologiche di Rabbi Aqiba e di Rabbi Jishmael, tutte le future controversie sulle quali si sarebbe divisa la futura riflessione ebraica. Sappiamo che la visione di Heschel venne criticata, perché accusata di lasciare in penombra l’elemento halachico, ad esempio M. Fox, Heschel, Intuition, and the Halakhah, in «Tradition», III (1960), n. 1, pp. 5-15. cit. in A. Babolin, Abraham Joshua Heschel. Filosofo…, op. cit., p. 260. ↩︎

  120. «Colui che si dedica soltanto alla torah e non coltiva il timore di Dio è considerato in errore […] Lo studio della torah è privo di valore se non è accompagnato da rispetto e timore del cielo […] La torah non va intesa in splendido isolamento. Amore per la torah e timore per Dio sono reciprocamente intrecciati. Atti di carità e studio della torah devono andare insieme. La torah non sta da sola. Sta insieme all’uomo e insieme a Dio. L’amore per la torah collega il timore di Dio con il compimento di atti di amore del singolo verso il prossimo. La torah è il nodo in cui si intrecciano Dio e l’uomo», A.J. Heschel, Dio, Torah e Israele («God, Torah and Israel»), tradotto dall’ebraico Torah min ha-shamayim, vol. III, da Byron Sherwin in «Theology and Church in Times of Change: Essays in Honor of J.C. Bennett, Philadelphia 1970, p. 71, cit. in A.J. Heschel, Grandezza morale…, op. cit., p. 312. ↩︎

  121. Cfr. ad esempio L. Perlman, Abraham Heschel’s Idea of…, op. cit., p. 5; cfr. anche J.C. Merkle, The Genesis of Faith. The Depth Theology of Abraham Joshua Heschel, New York, Macmillan, 1985, definito dallo stesso Perlman un esame completo e ben fatto sul contenuto della depht-theology, ibid., p. 11. ↩︎

  122. «Depth, which is at the root of human existence […]. The depth is the philosophical dimension available through the use of the phenomenological method», ibid. ↩︎

  123. Cfr. ibid., p. 19. ↩︎

  124. Ibid., p. 21, cfr. anche p. 138. ↩︎

  125. Cfr. ibid., pp. 24 e 31; che quindi rappresenta l’aspetto «concettuale, simbolico e teologico», Ibid., p. 31. ↩︎

  126. Cfr. ibid., p. 136. ↩︎

  127. Ibid., p. 165. ↩︎

  128. Cfr. A.J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo…, op. cit., pp. 21-24. ↩︎

  129. Sotto questa ottica, occuparsi dell’atto del credere, significherà che: «i concetti della fede non devono essere studiati in totale separazione dai momenti della fede», ibid., p. 24. ↩︎

  130. Ibid., p. 24, corsivo mio. ↩︎

  131. Ibid., corsivo mio, questa distinzione è operata, secondo Perlman, sulla scorta dell’approccio fenomenologico, cfr. L. Perlman, Abraham Heschel’s Idea of…, op. cit., p. 18. ↩︎

  132. Ibid. ↩︎

  133. Ibid., p. 25, corsivo mio. ↩︎

  134. A.J. Heschel, Religion in a Free Society, in «The Insecurity of Freedom», Schocken Books, New York, 1966, p. 23, corsivo mio. ↩︎

  135. Cfr. A.J. Heschel, Depth Theology, in «The Insecurity of Freedom», op. cit., pp. 115-126, trad. ital. in A.J. Heschel (a cura di E. Gatti), Il canto della libertà, Qiqajon, Magnano, 1999, pp. 9-27. ↩︎

  136. Ibid, le prime tre sono: «il rito e il mito, il sacramento e il dogma, l’azione e la scrittura», ibid. ↩︎

  137. Ibid. ↩︎

  138. Ibid., p. 117. ↩︎

  139. Ibid. ↩︎

  140. Ibid., p. 118. ↩︎

  141. Ibid., pp. 118-119. ↩︎

  142. «La teologia e la teologia del profondo sono in un rapporto di reciproca dipendenza», Ibid., p. 120. ↩︎

  143. Ibid., p. 120. ↩︎

  144. Ibid., pp. 120-121. ↩︎

  145. Ibid., p. 123. ↩︎

  146. Ibid., p. 124, corsivo mio. ↩︎