1. Svelerò le cose nascoste sin dalla fondazione del mondo (Mt 13, 35)
«L’uomo, per natura, ricerca la verità»,1 la verità delle cose, il senso della vita. Indagatore del vero, così Giovanni Paolo II definisce l’uomo. Ma che cos’è la verità e quale è il suo senso? Il significante ‘Verità, Veritas o Aletheia’ di per sé non riveste senso alcuno se ad esso non si attribuisce un significato tale da renderlo associabile a un contenuto di valore. L’etimo greco stabilisce le direttive di comprensione entro cui elaborare il senso del termine ‘verità’.2 Ti estin aletheia?
Nel Vangelo di Giovanni, la curiosità di Pilato dinanzi a un uomo che si professava «venuto al mondo per rendere testimonianza alla verità»,3 proruppe nella domanda: che cos’è la verità? Non vi fu risposta alla questione del prefetto romano. È sorprendente questo silenzio? L’imputato non risponde, Pilato non ripropone la domanda. Quel silenzio ha velato di mistero e incertezza il dialogo oppure l’ha reso chiaro? Giovanni prosegue nella narrazione descrivendo Pilato come affatto turbato dal silenzio di Gesù, anzi, paradossalmente la mancata risposta sembra sostenere, nelle successive parole del rappresentante romano, il riscontro di una assenza di colpevolezza nell’imputato. Scrisse a tal proposito Nietzsche in Umano troppo umano: «Pilato, con la sua domanda «che cos’è la verità?» viene ora volentieri presentato come avvocato di Cristo, per tacciare di parvenza tutto il conosciuto e il conoscibile e per innalzare la croce sul raccapricciante sfondo del non-poter-sapere».4 La croce è davvero un baluardo eretto sul terreno di una illiceità conoscitiva? La verità e il silenzio sulla sua onticità più profonda frappongono un velo fra l’uomo e la conoscenza, nascondendo quest’ultima?
L’Aletheia greca è di per sé chiara ed evidente, essa è ciò che non sfugge all’attenzione, ciò che non resta ignorato, il non nascosto, il non segreto, la realtà opposta all’apparenza. Che cos’è, dunque, evidente per l’autorità romana? Oudemia aitia. L’innocenza dell’imputato. Per tre volte Pilato ripete alla folla dei Giudei questa assenza di colpa. A suo giudizio viene a mancare il capo di imputazione necessario alla condanna. È pertanto evidente (aletheia) che la vittima condannata dalla folla è innocente. Eppure i Giudei accusano Gesù di una colpa per la quale, kata ton nomon, deve morire: oti uion theou eauton epoiesen.5
La folla lo accusa, Pilato difende la sua innocenza e Gesù stesso proclama poco prima l’oppressione di un odio collettivo contro di lui, privo di ragione, gratuito: Emisesan me dorean.6 Di lì a breve tutto diverrà folla: Pilato,7 che fino ad allora l’aveva difeso in nome del diritto; lo stesso Pietro, che sarà travolto e partecipe nel tumulto ostile al proprio Maestro. La ragione del mondo, il diritto, soccombe alla folla; la ragione del cuore, l’affetto dei discepoli, vacilla risucchiato dalla folla. Un richiamo oscuro trascina la volontà di ogni singolo verso un unico unanime bersaglio: la vittima, Cristo. Un odio cieco, implacabile, violento, collerico riversato unanimemente sul presunto responsabile della crisi. Eppure la vittima non cerca lo scontro, né il confronto, non con l’autorità romana, non con i Giudei. La vittima non resiste, non si oppone alla folla, lascia che agisca. Che cosa stanno descrivendo i vangeli, il Vangelo di Giovanni, in particolare?
La vittima e la folla. Un archetipo millenario? Un mito? La storia? La rivelazione? Molti passi del Nuovo Testamento risultano spesso non immediatamente comprensibili, paradossali, eppure esiste una direttrice interpretativa in grado di chiarire e rivelare il senso sotteso alla verità di essi. Menzogna romantica e verità romanzesca, La violenza e il sacro, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Il capro espiatorio, La vittima e la folla, La pietra dello scandalo, La voce inascoltata della realtà, sono questi i titoli di alcune opere del grande antropologo francese René Girard, il quale riassume in esse le sue due grandi teorie interpretative della rivelazione evangelica: teoria mimetica e meccanismo vittimario del capro espiatorio. Considerate spesso stravaganti in ambito accademico, in realtà, ad un’attenta lettura di tipo antropologico, filologico, storico, archeologico, teologico e filosofico, le teorie girardiane mostrano un’intelligenza mirabile e geniale, un sapiente spirito di ricerca, in cui la ragione sposa la fede, in un sodalizio perfetto.
2. To mimeisthai symphyton tois anthropois
«L’imitare è connaturato agli uomini fin da fanciulli e in ciò l’uomo si differenzia dagli altri animali, nell’essere mimetikotaton».8 In natura e per natura l’uomo è, tra i viventi, il più portato ad imitare. L’imitazione, quella che i Greci chiamavano mimesis, costituirebbe, dunque, il sostrato comportamentale originario dell’essere umano. Presente come archetipo istintuale già negli animali più evoluti, l’imitare, inteso non come processo passivo di ricezione, ma come forma stabile del funzionamento mentale ha uno sviluppo di tipo dinamico e interattivo, capace di «trasformare il cervello umano in una prodigiosa macchina da simulazione».9 Due domande fondamentali vanno sottoposte all’attenzione: chi o che cosa imitiamo? Perché imitiamo?
La risposta viene fornita e articolata da Girard stesso nelle sue opere. Ogni mimesis ha a proprio fondamento un modello, chiamato mediatore, il quale determina il quid desiderandum di colui che imita. Si stabilisce una struttura ternaria, triangolare, entro il cui schema sussistono costantemente un soggetto imitatore, un modello-mediatore imitato, un oggetto configurato come desiderabile dal modello stesso. L’imitazione è strettamente connessa al desiderio e, nella lunga serie di relazioni o schemi imitativi triangolari che accompagnano il processo di crescita umano, si stabilisce una sequela di desideri riferiti a particolari modelli (individui, famiglia, società), i quali danno vita allo sviluppo personale e interpersonale di ciò che viene definito individuo. Ma quale pericolo può celarsi dietro un sistema così strutturato e apparentemente innocuo? Jung sosteneva che «l’uomo ha una facoltà che per gli intenti collettivi è utilissima, e dannosissima per l’individuazione: quella di imitare». È davvero utile la mimesis all’interno di una compagine collettiva? E in che senso può essa essere dannosa per l’individuazione? L’utilità o la dannosità di qualsiasi processo mimetico risiedono su un dato imprescindibile: la rivalità originata a seguito del mimetismo. Il desiderio dell’imitante il modello si orienta in direzione dell’oggetto posto come desiderabile dal modello-mediatore — desiderabile in quanto posseduto da quest’ultimo — e in tale situazione la mimesis va associandosi alla rivalità che, in termini di imitazione acquisitiva o per il possesso, conduce il soggetto imitante a considerare il modello-mediatore come proprio rivale, un ostacolo al possesso dell’oggetto. In realtà l’oggetto in sé è desiderato solo in quanto posseduto dall’altro e non è che un mezzo per raggiungere il modello-mediatore: «è all’essere del mediatore che mira il desiderio […] e ogni desiderio è desiderio d’essere».10 Il desiderio che passa attraverso la relazione imitativa è il fondamento ontologico dell’essere umano e reca in sé un qualcosa di metafisico. È il vecchio cliché dell’«Essere o Avere». L’uomo non desidera mai qualcosa di definito o un oggetto particolare perché, se così fosse, ne conseguirebbe un appagamento una tantum, immediato e definitivo, valevole per qualsiasi soggetto desiderante, il quale, a seguito dell’ottenimento di ciò che desidera, del proprio piacere, deporrebbe ogni ulteriore atto di desiderio, essendo stato colmato il vuoto che l’assenza del desideratum poneva in essere. L’uomo è un essere finito con desideri infiniti o un essere finito con un unico desiderio d’infinito? Quale definizione sarebbe più corretta? Prendiamo Leopardi e le sue struggenti considerazioni sull’insoddisfazione sofferente dell’uomo che desidera sempre senza limiti, in modo infinito l’infinito e, anche nella Teoria del piacere, ritroveremo le medesime considerazioni sul desiderio poste da Girard.11 L’uomo è incline all’infinito, nasce con una tendenza innata al piacere, non a un tal piacere, bensì al piacere infinito, che, nell’istante di coscienza della sua irraggiungibilità, provoca dolore, noia, sofferenza. L’uomo parrebbe voler essere più che avere, o avere nei termini in cui il possesso conferisca una parvenza d’essere. L’infinità universale contrapposta alla finitezza particolare: su questa opposizione si devasta il dissidio interiore dell’uomo.
Il desiderio d’essere, che in via fisica inerisce alla contesa di oggetti non divisibili né condivisibili, in via metafisica, proprio in virtù dell’impossibilità acquisitiva dell’esse altrui, genera e fomenta un’azione desiderativa continua causata dal modello rivale, il quale, a sua volta, «[…] ispira e ostacola il mio desiderio, desiderando lui stesso ciò che io credo di desiderare in modo indipendente da lui».12 Tale reciprocità comportamentale, detta anche reciprocità desiderativa di natura mimetica, reca in sé due caratteristiche: intensità diffusiva e indifferenziazione. Il perpetuarsi di atteggiamenti desiderativi inappagati suscita un’ostilità di tipo intensivo, in grado di diffondere la rivalità mimetica in una progressione violenta che, da limitata e particolare, diviene unanime e indifferenziata. L’indifferenziazione mimetica necessita di una valvola di sfogo per evitare e risolvere la crisi interna alla comunità o all’universo sociale entro cui si è scatenata e, in genere, così come riscontrato da Girard nelle culture antiche e moderne, essa tende all’annullamento di sé, polarizzando la violenza contro un’unica, incolpevole vittima, ritenuta aition originante la crisi. L’uccisione del considerato artefice dell’antagonismo collettivo placa il disordine, ristabilendo la pace turbata.
3. Ille homicida erat ab initio (Gv 8,44)
In principio era il sacrificio. Nelle società antiche, alla base di ogni patto di convivenza tra esseri umani, esiste ciò che Girard definisce linciaggio fondatore. All’origine di ogni fenomeno relazionale umano esisterebbe un’ancestrale brama di violenza, connaturata all’uomo stesso, la quale, in un momento di crisi, ingenera la formazione di folle, associate dall’unanime indifferenziazione rivalitaria mimetica. Una radice profonda di rivalità imitativa, la quale ab origine, per poi ripetersi periodicamente, si manifesta recando un potenziale di violenza annientante la comunità entro cui si sviluppa e necessitante, perciò, di un processo contrastivo di nullificazione dell’odio generato. Nelle culture arcaiche la violenza accumulata nei rapporti di reciprocità, dipendente sostanzialmente da un umano senso di inferiorità e di inazione su elementi quali il Fato, gli Dei, la Natura e l’uomo stesso, alimentante nelle profondità dell’animo sentimenti fortemente ostili, che si riversavano poi nella dimensione sociale, tendeva a scaricare se stessa entro un meccanismo vittimario di pacificazione. Tale processo, anticamente, trovava risoluzione attraverso l’immolazione di un’hostia, umana o animale, atta a placare e ad espiare la violenza critica: il sacrificio del pharmakòs o capro espiatorio.13 L’uccisione collettiva, la quale aveva luogo in un temenos rituale, intimamente connesso al sacro e al religioso, rivestiva un valore apotropaico e salvifico, sedativo delle folle in preda alla crisi mimetica.
Ma che cos’era esattamente un capro espiatorio?
Nel mondo ebraico il capro emissario o espiatorio era un animale che veniva allontanato nella natura selvaggia, come parte delle cerimonie ebraiche dello Yom Kippur, il Giorno dell’Espiazione, all’epoca del Tempio di Gerusalemme. Il rito viene descritto nell’Antico Testamento (Lv 16, 21-22)
[21] Aronne poserà le mani sul capo del capro vivo, confesserà sopra di esso tutte le iniquità degli Israeliti, tutte le loro trasgressioni, tutti i loro peccati e li riverserà sulla testa del capro; poi, per mano di un uomo incaricato di ciò, lo manderà via nel deserto. [22] Quel capro, portandosi addosso tutte le loro iniquità in una regione solitaria, sarà lasciato andare nel deserto.14
Nella cultura greca classica esisteva un rituale molto simile, di origine probabilmente ittita, tipico dell’Asia Minore: il rito annuale dei pharmakoi. Così lo descrive, nel II d. C., il grammatico greco Valerio Arpocrazione
Ad Atene, nel corso delle Thargelie, si espellevano dalla polis due individui, che dovevano purificare la città, uno per gli uomini e l’altro per le donne: la parola corrente (che li designa) è ho Pharmakòs […]^[15]
Le Thargelia erano feste in onore del dio purificatore Apollo e della dea Artemide. Il 6 maggio di ogni anno, la città di Atene espiava e si purificava dal miasma, o mysos, una macchia sporca che, contratta in circostanze contaminanti (omicidi, atti sacrileghi, profanazioni varie, contatto con cadaveri o sangue), rendeva impure cose e persone, esponendole come invise a dei e uomini.15 Il miaros, l’impuro, l’empio, se non opportunamente isolato, poteva costituire un pericoloso veicolo d’ammorbamento e maledizione per l’intera comunità e, per tale motivo, doveva essere allontanato, affinché si attuasse la katharsis, la purificazione rituale. Scrive Girard in Verità o fede debole?
Il sacrificio unanime del capro espiatorio trasferisce efficacemente sulla vittima tutte le tensioni e l’aggressività sociale che divide i persecutori, riconciliandoli autenticamente. In altre parole, mette fine alla crisi con cui tutte le storie delle persecuzioni espiatorie hanno inizio.16
L’azione catartica originaria avverrebbe perseguitando e sacrificando una vittima innocente, mediante un linciaggio originario spontaneo, che apparentemente ristabilisce l’ordine nella società nascente e che, per tale benefico valore, necessita di una riproposizione rituale ogni qual volta le relazioni tra i membri della comunità entrino successivamente in crisi.17 Il complesso dei riti antichi, presenti anche in molte comunità moderne del pianeta, non sarebbe altro che la forma sacrificale, rituale e religiosa assunta simbolicamente nel riproporre il primo omicidio fondatore e i suoi conseguenti effetti catartici. Il controllo del caos violento, che passa attraverso il sangue, risultò, agli albori della civiltà, talmente efficace «da dover essere ripetuto in modo regolare e con finalità preventive».18 «Ogni comunità è una comunità di sangue»19 scrisse Nietzsche, «bere sangue in comune è il mezzo più antico per stringere un’alleanza, per fare un patto […] L’animale che versa il sangue dell’alleanza è una vittima; in ogni sacrificio avviene il compimento di un’alleanza».20 Esistevano non solo vittime sacrificali animali, sostitutive dei supposti originari sacrifici umani, ma addirittura le fonti antiche attestano la presenza individui indigenti, storpi, deformi, mutilati o affetti da patologie mentali che, incapaci per la loro disabilità fisica a sostentarsi e sopravvivere in società, si offrivano, in molti casi spontaneamente, come vittime dei rituali d’espiazione e venivano mantenuti a spese dello Stato, «allo scopo esclusivo di essere sacrificati, all’occorrenza, per espellere il male dalla città».21 La violenza tende a polarizzarsi, per Girard, su individui anomali, al di fuori di ogni dimensione normativa, estranei al nomos e per tale motivo avvertiti come minaccia. Qui i casi citabili in merito alle relazioni di interazione ostile fra esseri umani nel mondo antico sarebbero sterminati e tutti veicolabili entro lo schema generale dei rapporti di identità e alterità. Per la mentalità propria dell’antichità classica, — e, per l’antropologia, ravvisabile in generale in dinamiche archetipiche proprie dell’uomo in senso universale- l’Altro, che fosse esso uno xenos (o peregrinus, extraneus, alienus, hostis) oppure una minoranza etnica o un individuo infermo e menomato per un qualsivoglia motivo, era avvertito da colui che vi entrava in contatto (individuo o comunità) come latore di un potenziale eversivo e destabilizzante la norma definente l’ordine identitario di quell’individuo o di quella comunità. Un pericolo cui opporsi, da eliminare e neutralizzare per non essere eliminati o neutralizzati. Tale atavico e ancestrale meccanismo di difesa sarebbe alla base di un’angoscia collettiva di derivazione mimetica, incapace di sedarsi se non uccidendo il presunto responsabile dell’instabilità. È lo stesso fenomeno riscontrabile nella xenofobia. Scrive Girard: «Non è l’altro nomos che si vede nell’altro ma l’anomalia; non è l’altra norma, ma l’anormalità».22 Ciò che sfugge ai canoni, alla logica o alle leggi mina alla base l’ordine sociale e va soppresso in virtù della sua diversità. Testimonianze di autori quali Ipponatte, Lisia, Giovanni Tzetzes, Dione Crisostomo, Istros, Demostene, Erodiano ed altri, recano notizia del rituale dei pharmakoi, sia per la Grecia sia per le colonie d’Asia Minore, ma spesso non risulta chiaro se la vittima venisse uccisa o semplicemente caricata simbolicamente del peso del miasma ed espulsa o bandita dalla comunità.23 Sta di fatto che il rito del capro espiatorio fosse la riproposizione religiosa di un antico e spontaneo assassinio fondatore, consolidatosi poi in forma mitica, che periodicamente andava reiterato sotto forma di sacrificio rituale. Esso era parte del sacro, quel sacro che è archetipo dell’inconscio collettivo, universale elemento connaturato all’esperienza umana, che fonda e informa di sé i rapporti tra gli uomini associati in comunità, legando e dissolvendo il tessuto sociale. Il sacro è il principio celatamente sotteso alle forme del mito.24 Perché si parla di mito fondatore? Quale ruolo riveste la mitologia nel contesto delle primigenie forme di organizzazione collettiva umane? Secondo Girard, il mito sarebbe un’elaborazione menzognera, riflesso di un’inconscia e distorta maschera persecutoria, profusa a celare l’originaria violenza assassina unanime contro una vittima innocente. «La violenza è il soggetto di ogni struttura mitica e culturale»25 e secondo Mircea Eliade «all’origine del mito esiste una vittima reale e una violenza collettiva».26 La ferocia o barbarie del meccanismo persecutorio unanime e indifferenziato di una folla contro un solo individuo, ristabilisce, sì, l’ordine compromesso dalla crisi, ma il potenziale benefico insito nella malvagità orrenda dell’atto, della soluzione sacrificale, è qualcosa che di necessità viene occultato ed elaborato in sovrastrutture narrative di tipo mitico, al fine di nascondere all’uomo la tragicità su cui si edifica il suo «ordine pacifico».27 L’uomo misconosce la verità della violenza, rintracciando sempre quest’ultima in qualcosa di alieno e da sé separato, attribuibile ad un altro uomo, ad altri gruppi umani, ad altro dall’umano, alla divinità. Ciò detto, chi agisce, il persecutore, sarà inconsciamente innocente e vittima di quella vittima, di fatto incolpevole, ma percepita ciecamente come rea del caos.28 La verità è terribile, va misconosciuta e perpetuata nell’occultamento della sua perversione attraverso le narrazioni mitiche. Si pensi al mito di Edipo o all’uccisione di Tersite o Penteo o Dioniso, alla morte di Osiride, all’assassinio di Remo o al sacrificio di Ifigenia o Codro, a Caino e Abele, a Isacco. Non si cita la passione di Cristo in quanto dissimile dai suddetti esempi, per senso e per ambito. Se ne tratterà in seguito. Che cos’è dunque un sacrificio nelle religioni arcaiche? Risponde Girard: «è uno sforzo per rinnovare gli effetti riconciliatori della violenza unanime, sostituendo una vittima di ricambio al capro espiatorio iniziale».29 Prosegue, inoltre, rintracciando, attraverso le parole del vangelo di Giovanni, il principio trascendente del furore violento ancestrale e mitico antico, nel Satana homicida ab initio del Nuovo Testamento
Voi avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli era omicida fin dal principio e non si mantenne nella verità, perché la verità non è in lui. Quando dice il falso, dice ciò che è suo, perché è menzognero e padre della menzogna.30
In un colloquio avuto da Girard con Giuseppe Fornari a Stanford nell’agosto del 1997, parlando delle tentazioni nel deserto, l’antropologo francese definì Satana sia come il disordine collettivo, che dev’essere espulso sia come colui che lo espelle. «[…] (Egli) è sia l’arché, il principio, l’origine, sia l’àrchon, «il principie di questo mondo». La cultura umana ha bisogno di Satana che espelle Satana, della pace violenta che rende possibile agli esseri umani la sopravvivenza».31 Non v’è scampo per l’uomo dalla violenza se non per la violenza stessa. Ho Satanas ton Satanan ekballei, ephH heauton emeristhe.32 Se Satana viene a configurarsi come il principio oggettivo e trascendente della cultura umana, esso non apparterrà, certo, alla schiera degli dei mitici, non è un essere divino, ma è il «principio-principe» «di tutti gli dei arcaici, che esigono un certo tipo di sacrificio»:33 egli è l’arcana origine fondante i miti e la violenza loro sottesa e per essi celata e, in questo universo così strutturato apH arches, a ragione, viene definito da Giovanni ho archon tou kosmou toutou.34
4. Sermo in monte: l’abbattimento della rivalità mimetica
Il mito, che nel mondo antico si poneva come veicolo trasmissivo di verità fondanti e sconvolgenti, entro le cui trame l’aletheia viveva imbrigliata in legacci dissimulativi, al fine di garantire la sopravvivenza e la pace di questo mondo, costituiva l’archetipo tragico-eirenico del sacro. La vita, la morte, la violenza, il senso della trascendenza o dell’immanenza, ogni elemento fenomenico proprio dell’agire e del pensare umano trovava ricomprensione più alta e solenne nei racconti del mito.35
Le Muse e le favole dispiegavano i loro veli adamantini sui dissidi tragici dell’esistere, sì che l’uomo conoscesse senza sapere.
Gli studi e le analisi minuziose di testi e tradizioni propri del patrimonio culturale umano, attraverso i quali Girard rintraccia un filo conduttore che percorre la storia delle storie dell’uomo sin dal suo primo apparire sulla Terra, e che lui stesso definisce in vari modi come misconoscimento mitico della violenza persecutrice, sembrano garantire l’autenticità scientifica e la portata straordinaria delle sue riflessioni. Riflessioni che, inevitabilmente, nel loro procedere dal mondo classico al mondo cristiano hanno posto all’attenzione dell’antropologo francese l’evento della Passione di Cristo. Nel panorama dei miti classici, egli si chiede, si può assimilare il sacrificio di questo dio ad un mito, ad uno dei tanti? Lo schema del capro espiatorio è valevole e universalmente applicabile come prova disvelante l’arcano della violenza persecutoria, ogni volta che un racconto parla della morte di un dio o di una vittima, glorificata come divina a seguito della sua morte?
La fede degli antichi s’ingenerava nei miti e nel mito trovava compimento. E il Cristianesimo? Il mimetismo violento, la persecuzione vittimaria unanime, il pharmakòs, l’illusione della pace del mondo, il furore cieco e omicida, la violenza di tutti contro uno, la vittima e la folla, se queste sono le costanti che il pensiero girardiano individua in merito alle verità nascoste nelle originarie mitopoiesi umane, e che sono riscontrabili a livello antropologico, letterario, sociologico, religioso, filologico nelle narrazioni mitologiche in maniera universale, come non pensare che esse possano esistere, sussistere ed essere rintracciate anche nei racconti della Passione? Numerose traversie si profilano laddove si voglia codificare la morte di Cristo entro la suddetta costante antropologica che Girard ravvisa nella mitologia. L’impossibilità è spiegata dall’autore stesso. L’evento enigmatico della Passione non è tanto la morte di dio, molti dei morirono anticamente, basti fare accenno alla morte di Pan, di Dioniso etc. ,36 il problema, l’ostacolo, l’enigma, lo scandalo è la croce. Il sacrificio della vittima innocente, che si rivela tale attraverso il servile supplicium. Se nei mitemi classici, spiega Girard, in forma continua e costante l’occultamento del sacrificio fondatore, come vettore di sfogo della violenza rivalitaria mimetica, unanime e indifferenziata, inconsciamente giusta e restitutiva dell’ordine e della pace, taceva, in realtà, la colpevolezza dei persecutori e il loro odio senza causa riversato su un’unica vittima innocente, ma inconsapevolmente ritenuta colpevole del caos e se, in quegli stessi racconti del mito, tale diabolico meccanismo era mantenuto segreto come dovere inconscio da parte dei rei reali, dalle voci indistinte della folla assassina incapace di riconoscere l’orrore e il prezzo della propria pace creata e perpetuata a detrimento dell’in-nocens, dell’impossibilitato a nuocere e, dunque, ingiustamente perseguitato, di fronte a tale perverso sistema ancestrale, come rivolgersi a testi, racconti, narrazioni che evocano e ripropongono un sacrificio in cui la voce della vittima proclama la sua innocenza e perdona i ciechi persecutori che agiscono, come sempre hanno fatto, senza sapere, per non voler sapere, ciò che realmente fanno? «I miti ingannano invertendo il rapporto reale tra vittime e comunità […]».37 I miti hanno acquisito un potere criptico, non immediatamente comprensibile, che lascia sopravvivere la comunità dei persecutori come se fossero innocenti, imputando al deforme, al più brutto, l’assassinio, e la colpevolezza di una morte recante la pace.38 «Per proteggersi dalla loro stessa violenza, gli uomini sono disposti a canalizzarla contro degli innocenti».39 Come può definirsi una comunità che edifica pace sull’odio e che occulta in segreti regni oscuri di morte la verità che non vuole né può sapere, pena la sua caduta nell’abisso del tragico? Koinonia kakon? Comunità di malvagi? Se il mito vela e misconosce la logica sacrificale e persecutoria, scrive Girard, «gli unici testi che tengono conto del mimetismo che domina i nostri rapporti sono i Vangeli».40 Esiste una differenza fondamentale fra il mito e il Vangelo, che solo quest’ultimo è la verità.
E se il mito è molto spesso allegoria, il suo dire altro è nient’altro che una verità scomoda ascosa sotto al velo di una bella menzogna. L’Euangelos è verità e «la «buona novella» è appunto questa, che non esistono più contrasti»:41 questa frase è stata pronunciata non da un fervente cattolico né da un semplice cristiano, bensì da colui che viene considerato, oggigiorno, quasi un «theoktonos», il dissacratore del Cristianesimo, il proclamatore della morte di Dio: Nietzsche. Il filosofo viene spesso citato da René Girard nelle sue opere come colui che, a dispetto della Rivelazione, ha rimesso il mito al posto d’onore. L’opera nietzscheana, se riletta su base classica, come ricerca di una via greca e latina verso il vero antico, si manifesta come opposta all’hodos cristiano, che ha invece in sé lo scopo di rinsaldare l’uomo al Regno e non alla falsa mitopoiesi dell’antichità.42 Ne La pietra dello scandalo leggiamo
In che cosa la tradizione giudaico-cristiana differisce sistematicamente dai miti? Nietzsche ha dato la vera risposta a questa domanda. Nella tradizione giudaico-cristiana le vittime sono innocenti e la violenza collettiva è colpevole. Nei miti le vittime sono invece colpevoli e le comunità sempre innocenti. […] Nietzsche e i moderni vedono comunque in questo una differenza essenzialmente morale, e la parola «morale», pronunciata da loro, assume una connotazione vagamente spregevole. È proprio in Nietzsche che questo disprezzo raggiunge il suo limite estremo. Questo filosofo non esita infatti a schierarsi in favore dei miti contro la rivelazione giudaico-cristiana. Il pensatore tedesco non si rende conto che, se la difesa giudaico-cristiana delle vittime è di sicuro più morale della loro condanna pronunciata nei miti, questo non avviene per le ragioni da lui immaginate, ossia la rivincita subdola dei deboli sui forti, ciò che egli chiama la «morale da schiavi», bensì perché la difesa giudaico-cristiana di chi è condannato è la verità.43
Girard si rammarica, tuttavia, del fatto che sia il filosofo tedesco sia i moderni abbiano stentato a riconoscere la teoria del capro espiatorio e il suo antico effetto catartico nel sedare l’unanimità violenta. Eppure affermazioni, o meglio, aforismi quali «La verità non vuole nessun altro Dio oltre sé. La fede nella verità comincia col dubbio su tutte le «verità» fino ad allora credute»44 o «Il capro di virtù. Per ciò che uno fa di meglio, coloro che a quest’uno vogliono bene, ma che non sono all’altezza di ciò che egli ha fatto, cercano subito un capro per immolarlo, immaginando che sia il capro del peccato, mentre è il capro della virtù»45 appartengono a quello stesso pensatore che tanto avversò il Cristianesimo, definendo, però, e ammirando in Gesù colui che non resiste, non si difende, non si sdegna, non attribuisce responsabilità, ma neppure resiste al malvagio, lo ama. Il pensiero di Nietzsche, dell’ultimo Nietzsche, autore de L’Anticristo, a solo un anno di distanza dalla follia, sembra avesse spiegato le vele verso l’interpretazione autentica del messaggio e della rivelazione evangelica. Scrisse: «(«non contrastare al male!» sono le più profonde parole dei Vangeli, in un certo senso sono la loro chiave)»,46 ma più avanti aggiunse «Dio dette suo figlio per la remissione dei peccati, come vittima. Fu di punto in bianco la fine del Vangelo! Il sacrificio espiatorio, e proprio nella sua forma più ripugnante e più barbara, il sacrificio dell’innocente per i peccati dei rei! Quale raccapricciante paganesimo!».47 Le intuizioni contenute ne L’Anticristo sono sorprendentemente in sintonia con la rilettura girardiana delle narrazioni neotestamentarie. Eppure Nietzsche, alla fine, scelse il mondo classico, o forse, laddove la conoscenza profonda dell’antichità nei suoi aspetti storici e filologici si andò ad innestare sulle indagini teologiche mostrandogli che cos’era stato il Cristianesimo di Gesù e che cosa era stato fatto diventare dai disangelisti e dalla Chiesa, egli se ne ritrasse, preferendogli la forza classica, la potenza degli aristoi più che la debole compassione di miseri e preti, enunciando però, nella sua ultima opera, la verità di quell’unico cristiano morto in croce e frainteso per i successivi diciannove secoli da una Chiesa «in contrasto col Vangelo»?48 Qualunque supposizione o illazione sarebbe lecita o illecita, Nietzsche è morto e non può rispondere che attraverso le sue opere, ammesso che le sue opere mirassero a rispondere a una qualche questione. Sta di fatto che, poco tempo prima di deporre le armi della ragione al caos della follia, egli intuì la stessa chiave di lettura dei Vangeli individuata, in senso antropologico, da Girard: «non resistere malo».49 Se si ripercorre brevemente quanto esposto in precedenza si vedrà che l’unico atto capace di spezzare il giogo della rivalità mimetica sfociante in violenza è la non-resistenza. Non un mito ha mai parlato di questo, solo il Vangelo lo rivela. Nel Sermo in monte Gesù abbatte «i bastioni di Satana»:
Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Io invece vi dico di non resistere al male; anzi, se uno ti colpisce alla guancia destra, volgigli anche la sinistra. A uno che vuol trascinarti in giudizio per prendersi la tunica, dagli anche il mantello; se uno ti vuol costringere per un miglio, va’con lui per due. A chi ti chiede, da’; se uno ti chiede un prestito non volgergli le spalle. Avete inteso che fu detto: Amerai il prossimo tuo e odierai il tuo nemico. Io invece vi dico amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli, il quale fa sorgere il suo sole sui cattivi come sui buoni e fa piovere sui giusti come sugli empi. Qualora infatti amiate quelli che vi amano, che ricompensa avreste? […] Voi dunque sarete perfetti, come perfetto è il Padre vostro che è nei cieli.50
Che cos’altro è questo entolen kainen, agapate, se non la via per abbattere la rivalità mimetica, la rivalità di quel principio omicida antico che è Satana? Cristo porta la spada che divide i rivali, annientando le resistenze della violenza.51 La «buona novella» è appunto questa, scrisse Nietzsche, che non esistono più contrasti»: la rivelazione della verità è la via verso di essa. Agapate allelous, kathos egapesa hymas. È questo il nomos del Regno, il nomos tes agapes.
5. Io ho vinto il mondo (Gv 16, 33)
«Il «Vangelo» morì sulla croce».52 Questa frase lapidaria, pronunciata da Nietzsche nel trentanovesimo aforisma de L’Anticristo, è tanto vera quanto falsa se il suo senso ulteriore va ad approfondirsi e caricarsi di una semantica più intima e profonda, riscattata dai consueti vincoli irriverenti e dissacratori cui il pensiero del filosofo viene irrimediabilmente associato ogni qual volta esso voglia affrontare la «questione Cristianesimo». Se la buona novella è la rivelazione delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo53 (la rivalità mimetica, il capro espiatorio, il meccanismo vittimario, il principio diabolico omicida ab initio, la catarsi dalla violenza attraverso la violenza, il velo potente del mito), essa non poteva scegliere altra via per svelare l’arcano oscuro che detiene e sostiene le comunità di questo mondo, se non il sacrificio stesso, per poi sovvertirlo al fine di mostrarne le evidenti insussistenza e labilità, che apo kataboles [kosmou], perpetrano, ingannevoli, le icone delle belle favole intessute da Calliope e le sue sorelle, abili inventrici di menzogne simili al vero.54 Il Vangelo deve di necessità morire sulla croce, che è simbolo di martirio e testimonianza di innocenza della vittima, la quale ha voce divina per perdonare le menti e i cuori ottenebrati dei persecutori incoscienti dell’abominio. Un solo cristiano è esistito e morto sulla croce, in questo Nietzsche ha ragione, ma è da questo punto in poi che la fede si diparte dal genio e il genio dalla fede, per ritrarsi dalla verità dello scandalo. Il filosofo si arresta alle soglie del Regno, rinnegando il presunto fraintendimento paolino, padre del Dysangelium e della vindice invenzione degli apostoli del ressentiment, nonché madre della Chiesa corruttrice d’ogni verità.55 Girard va avanti. Il suo genio non ripercorre più la via antica, procede verso la Verità. «Il paradosso della Croce sta nel suo riprodurre la struttura arcaica del sacrificio per rovesciarla, ma tale rovesciamento è un rimettere al dritto ciò che era a rovescio «sin dall’inizio» del mondo: la vittima non è colpevole, e quindi non ha più il potere di assorbire la violenza. La Croce è la rivelazione di una verità destabilizzante sul piano sociale»,56 il meccanismo vittimario viene completamente rovesciato, destrutturato, decomposto: la vittima offre volontariamente se stessa a questo mondo in questo modo, sferrando il colpo ferale e veritiero a Satana. La morte depone arrendevole il suo dardo,57 Colui che divide e accusa soccombe al re dei cieli e della terra. Cristo provoca la Passione, attrae su di sé la peste del contagio mimetico, fino a perdere tra la moltitudine anche la pietra fondante la sua ecclesia, Pietro, l’apostolo invescato nella turba unanime assassina, corrotto egli stesso dalla mimesi persecutoria; i due ladroni, corpi moribondi e ostili contro il Cristo morente e fratello di ignava sorte;58 la folla, orda cieca, grottesca e deforme, che odia senza causa e non sa ciò che fa. La vittima e la folla. Tutti contro un solo uomo. «Voi non capite niente, né vi rendete conto che è più vantaggioso per voi hina eis anthropos apothane hyper tou laou, e non perisca tutta intera la nazione», così proruppe Caifa, sommo sacerdote, voce delle voci vessatorie. Cristo non resiste all’imminente esecrazione, non può, come dio e come uomo, come Figlio di Dio e come figlio dell’uomo. Egli è la vittima cosciente della propria innocenza, che volontariamente prostra la propria carne ai carnefici. Non esiste altra via, Egli è la via e per esso passa la Rivelazione, dalle tenebre alla luce. «Io offro la mia vita per riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro ap’emautou. Ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».59 In un’intervista sul tema «Verità o fede debole», Girard ricapitolò il senso della sue teorie su mito e Rivelazione asserendo che «ogni mito è una Passione fallita. Non nel senso che la vittima non sia stata uccisa, ma che la verità antropologica di questa morte, di questa morte innocente, non è stata rivelata».60 L’ultimo sacrificio cruento, atto spirituale, in cui Dio è vittima designata e offerta, pone fine all’antico, nel riverbero della luce di verità che irradia la tenebra del mondo. Ogni arcaica, tragica vendetta di sangue viene annientata, laddove l’unica legge diviene il perdono e l’amore. Ogni mito avvizzisce, discinto dai suoi veli ingannevoli. «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi»,61 così Gesù si congeda dai suoi discepoli, con la promessa del Paraclito, il difensore delle vittime, «lo Spirito di verità (to pneuma tes aletheias), che il mondo non può accogliere, perché non lo vede (ou theorei) né lo conosce (oude ginoskei)».62 Cristo concede agli uomini la pace del Regno, la pace serena che danza nei cieli sugli abissi del tragico, la pace di Dio, nella cui imitazione abbattente ogni rivalità rende gli uomini perfettibili e perfetti sicut Pater caelestis est.63
Ego nenikeka ton kosmon.^[65] Io ho vinto il mondo. Le roccaforti del male, della morte, dei miti e della sofferenza prostrano la loro alterigia al Dio della croce. Cristo rivela agli uomini lo scandalo della persecuzione ingiusta, rivela l’innocenza delle vittime di tutti i miti, di tutte le storie e le belle icone di menzogna dell’uomo. «Dio non mandò il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui».64
Hieronymus Bosch, Cristo portacroce (1510-1535). Museum voor Schone Kunsten (Gand)
Dipinto da H. Bosch nella prima metà del ’500, Cristo portacroce è la muta poesia che traduce in immagine il paradigma girardiano di La vittima e la folla.65 Cristo, solo, al centro della scena. Sospeso nell’istante immobile e perfetto. Sospinto dalla bestialità spietata di deformi e malvagi, scellerati e ladroni, empi e dissacratori, inumane strida distorte, creature inquiete e raccapriccianti, violente, nutrite al seno di un inganno infecondo che ammanta di splendore l’abominio. Tinte oscure offuscano lo sfondo come nebbia fumosa di morte. Ciechi persecutori tiranneggiano la vittima, confabulano, si accalcano, la avvolgono, vocianti, in drappi d’odio e sangue. Nessuno sguardo loro si posa sul Cristo assorto nelle tenebre della propria luce, nessuno può né vuole riconoscere il crimine e lo scempio. Ou theorei, oude ginoskei: tutti i personaggi hanno la mente e gli occhi rivolti altrove. Cristo, come un’onda quieta tra scrosci di burrasca, lascia che accada ciò che è scritto, a che tutto si compia. Nessuno ne è consapevole. Presto ogni cosa sarà rivelata. Maschere orrende, occhiate fugaci verso l’altare del sacrificio, che sempre, da sempre, porta la pace al mondo, a questo mondo. Ma la pace di Cristo, che scorge senza guardare ciò che la folla non vede, sebbene i suoi occhi siano aperti, è la pace del Regno. La pace che porta la spada per abbattere i «bastioni di Satana», dividendo l’unanimità violenta. Già nel quadro di Bosch la folla è divisa in Cristo: Veronica, ricevuto il sigillo del volto di passione, affronta la morte inevitabile del suo Signore ad occhi chiusi, il volto distolto dall’orrore, così come celato è il viso del Cireneo. Schiere astiose scherniscono la vittima, flagelli imperiosi percuotono il tormento del Cristo, torme armate di vendetta, legioni oscure in preda a brame incantate di false verità incompiute, mendaci coorti di morte che anelano sprezzanti al patibolo di «salvezza». Divisione, unione, caos satanico e diabolico, disperata seduzione di pace senza pace. Diretti unanimi alla forca delle illusioni, dove i sogni si infrangono e la tenebra si dirada in luce di Verità.
La folla sale al Calvario della propria fine. Il Vangelo dell’amore e del perdono viene crocifisso e muore da schiavo per rendere l’uomo libero nella verità. Il volto di Cristo impresso sul lino, icona delle icone, sacra effigie, posa lo sguardo fisso su di noi. Tetelestai.66 Tutto è compiuto. «Io sono la resurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se morisse vivrà.67 Non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvarlo.68 Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi.69 Ora lascio il mondo e vado al Padre70 […] Non m’intratterrò più a lungo con voi, perché viene il principe del mondo; egli non può nulla contro di me.71 […] Non sono solo perché il Padre è con me. Questo vi ho detto perché abbiate pace in me.72 Vi lascio la pace vi do la mia pace. Non come la dà il mondo io la do a voi.73 In questo mondo avete da soffrire; ma abbiate coraggio: Ego nenikeka ton kosmon^[76]».
«La nostra fede non nasce da un mito, né da un’idea, bensì dall’incontro con il Risorto, nella vita della Chiesa».74
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Giovanni Paolo II, Fides et ratio. Lettera enciclica circa i rapporti tra fede e ragione, Paoline Ed., Milano 1998, n. 33. ↩︎
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Cfr. G. Semerano, L’infinito: un equivoco millenario. Le antiche civiltà del Vicino Oriente e le origini del pensiero greco, Bruno Mondadori editore, Milano 2004², pp. 159-168. Cfr. E. Severino, La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia antica e medievale, BUR, Milano 2004, pp. 21-26; M. Fongaro, Logos: proposte etimologiche per il lessico filosofico, in Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia, anno 9 (2007), (https://mondodomani.org/dialegesthai/massimo-fongaro-01), passim. ↩︎
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Gv 18, 37-38. ↩︎
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Friedrich Nietzsche, Umano troppo umano, II. Frammenti postumi (1878-1879), Scetticismo dei cristiani. Cfr. Id., Il caso Wagner. Crepuscolo degli idoli. L’Anticristo. Ecce homo. Nietzsche contra Wagner, af. 46, «[…] in tutto il Nuovo Testamento c’è soltanto un’unica figura degna di essere onorata […] Pilato, il governatore romano. Prendere sul serio un affare tra Ebrei — è una cosa di cui non riesce a convincersi. Un Ebreo di più o di meno — che importa?… Il nobile sarcasmo di un romano, dinanzi al quale si sta facendo un vergognoso abuso della parola «verità», ha arricchito il Nuovo Testamento dell’unica parola che abbia un valore — la quale è la sua critica, persino il suo annullamento: «che cos’è la verità?»…». Cfr. Id., Aurora. Frammenti postumi (1879-1881), af. 93. ↩︎
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Gv 19, 7. ↩︎
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Gv 15, 25. Cfr. Sal 35, 19; 69, 5. Cfr. R. GIRARD, Celui par qui le scandale arrive, Desclée de Brouwer, Paris 2001, tr. it. G. Fornari (a cura di), La pietra dello scandalo, Adelphi, Milano 2004, p. 64. ↩︎
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R. Girard, Le bouc émissaire, Éditions Grasset & Fasquelle, Paris 1982, tr. it. Ch. Leverd-F. Bovoli, Il capro espiatorio, Adelphi 1987, p. 170. ↩︎
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Arist., Poetica, 48b, 5-7. ↩︎
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R. Girard, Mensonge romantique et verité romanesque, Grasset, Paris 1961, tr. it. L. Verdi-Vighetti (a cura di), Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani, Milano 1965, passim. ↩︎
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Ibid., p. 49. Cfr. Id., La Violence et le sacré, Éditions Bernard Grasset, Paris 1972, tr. it. O. Fatica — E. Czerkl, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1980, p. 205 «Il desiderio adulto non è diverso in nulla, se non per il fatto che l’adulto, specie nel nostro contesto culturale, si vergogna, il più delle volte, di modellarsi sugli altri; ha paura di rivelare la sua mancanza d’essere». ↩︎
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G. Leopardi, Zibaldone, R. Damiani (a cura di), 3 voll., Mondadori, Milano 1997, 165-172 [La teoria del piacere]. ↩︎
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R. Girard, Il sacrificio, Raffaello Cortina, Milano 2004, p. 25. ↩︎
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Cfr. E. Cantarella, op. cit., p. 64; G. Deiana, Levitico. Nuova versione, introduzione e commento, Paoline Editoriale Libri, Milano 2005; J.N. Bremmer, The Scapegoat between Hittites, Greeks, Israelites and Christians, in R. Albertz (ed.), Kult, Konflikt und Versöhnung, München 2001, pp. 174-210; W. Burkert, La religione greca di epoca arcaica e classica, Jaca Book, Milano 2003, pp. 190-194; V. Gebhard, Die Pharmakoi in Ionien und die Sybakchoi in Athen, München 1826, p. 118; R. Flacelière, La vie quotidienne en Grèce au siècle de Périclès, tr. it. M. G. Meriggi, La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle, BUR, Milano 2000, pp. 258-259; I. Chirassi Colombo, La religione in Grecia, Laterza, Roma-Bari 1983. ↩︎
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Lv 16, 21-22. ↩︎
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Cfr. R. Parker, Miasma, Pollution and Purification in Early Greek Religion, Clarendon paperbacks, Oxford 1983, pp. 257 ss.; D.H. Hughes, Human sacrifice in Ancient Greece, Routledege, London-New York 1991, pp. 139 ss. ↩︎
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R. Girard, Verità o fede debole?, Transeuropa, Massa 2006, p. 87. ↩︎
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Id., La Violence et le sacré, cit., p. 130: il rito è «[…] la ripetizione di un primo linciaggio spontaneo che ha riportato l’ordine nella comunità perché ha ricreato contro la vittima espiatoria e attorno ad essa l’unità perduta nella violenza reciproca». ↩︎
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Id., La vittima e la folla. Violenza del mito e cristianesimo, G. Fornari (a cura di), Santi Quaranta Editrice, Treviso 1998. ↩︎
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Friedrich Nietzsche, La volontà di potenza. Scritti postumi per un progetto, af. 292. ↩︎
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Ibid., af. 293. ↩︎
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Cfr. E. Cantarella, op. cit., p. 64. ↩︎
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R. Girard, Le bouc émissaire, cit., p. 43. ↩︎
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Nelle fonti sopra citate, in riferimento al rituale del capro espiatorio o pharmakòs, ricorrono spesso i verbi apopempein e exagein, i quali, di per sé, non implicano un’uccisione, ma l’allontanamento da una comunità. Cfr. M. Gras, Cité grecque et lapidation. Du châtiment dans la cité, in Supplices corporeles et peine de mort dans le monde antique, Roma 1984, pp. 75-88. ↩︎
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Cfr. R. Buxton, Imaginary Greece: The Contexts of Mythology, Cambridge University Press 1994; É. Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse. Le système totemique en Australie, Alcan, Paris 1912, p.454 ss.; M. Eliade, The Quest-History and Meaning in Religion, The University of Chicago Press, Chicago and London 1969, ed. it. La nostalgia delle origini, Morcelliana, Brescia 1972; Id., Le sacré et le profane, Alcan, Paris 1964, ed. it. Il sacro e il profano, Bollati Boringhieri, Torino 1973. Vd. anche R. Girard, La Violence et le sacré, cit., pp. 52-53: «[…] È la violenza che costituisce il vero cuore e l’anima segreta del sacro». ↩︎
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R. Girard, Des choses cachées depuis la fondation du monde, Éditions Grasset & Fasquelle, Paris 1978, tr. it. R. Damiani, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Adelphi, Milano 1983, p. 279. ↩︎
-
M. Eliade, The myth of the Eternal Return or Cosmos and History, Princeton 1954, tr.it. G. Cantoni, Il mito dell’eterno ritorno, Borla, Milano 1989, p. 62. ↩︎
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R. Girard, Le bouc émissaire, Éditions Grasset & Fasquelle, Paris 1982, tr. it. Ch. Leverd e F. Bovoli, Il capro espiatorio, Adelphi 1987, p. 74 «La conclusione della maggior parte dei miti ci suggerisce proprio. Ci fa vedere un vero e proprio ritorno all’ordine che era stato compromesso nella crisi, e più spesso ancora la nascita di un ordine completamente nuovo nell’unione religiosa della comunità vivificata dalla prova che ha appena subito». ↩︎
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Id., La Violence et le sacré, cit., p. 193. ↩︎
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Id., Celui par qui le scandale arrive, cit., passim. ↩︎
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Gv 8, 44. ↩︎
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R. Girard, La lotta fra Gesù e Satana, in Id., La vittima e la folla. Violenza del mito e cristianesimo, cit., p.157. ↩︎
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Mt 12, 26. ↩︎
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R. Girard, La lotta fra Gesù e Satana, in Id., La vittima e la folla. Violenza del mito e cristianesimo, cit., pp. 158-159. ↩︎
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Gv 12, 31. ↩︎
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Per una semantica dei termini myhtos e logos in relazione al loro potenziale insito di aletheia, vd. M. Fongaro, cit., passim. ↩︎
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R. Girard, Celui par qui le scandale arrive, cit., pp. 65-66 «È dall’antichità che i difensori del paganesimo negano la singolarità della religione cristiana sulla base delle somiglianze tra la sequenza evangelica e innumerevoli altre sequenze mitiche. Certi dei e semidei pagani, come Dioniso, Osiride, Adone e così via, subiscono un supplizio collettivo, o di ispirazione collettiva, che fa pensare alla Passione. Questa violenza si colloca al parossismo di un disordine sociale o di un’assenza completa di tale ordine, ed è seguita da una specie di «resurrezione», da una riapparizione trionfale della vittima, che ristabilisce l’ordine e così facendo rivela la propria natura divina». Cfr. Friedrich Nietzsche, La volontà di potenza. Scritti postumi per un progetto, Newton Compton, Roma 2005, af. 282, pp. 118-119. ↩︎
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Ibid., p. 68. ↩︎
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Confronta alcune considerazioni interessanti contenute in M. Cacciari, L’Arcipelago, Adelphi, Milano 1997, nel capitolo THEÒS XÉNOS, Il viaggio, pp. 135-143. Cfr. ASZ, IV, L’uomo più brutto, pp. 248-253. ↩︎
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R. Girard, cit., p. 75. ↩︎
-
Ibid., p. 42. ↩︎
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Friedrich Nietzsche, Il caso Wagner. Crepuscolo degli idoli. L’Anticristo. Ecce homo. Nietzsche contra Wagner, af. 32. ↩︎
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R. Girard, Le bouc émissaire, Éditions Grasset & Fasquelle, Paris 1982, tr. it. Ch. Leverd e F. Bovoli, Il capro espiatorio, Adelphi 1987, p. 169 «Soprattutto dopo Nietzsche, si fa risalire a questi salmi (Sal 35, 19) l’invenzione di tutti i cattivi sentimenti che ci infettano, l’umiliazione e il risentimento. Ai loro veleni si contrappone la bella serenità delle mitologie, in particolare greca e germanica». ↩︎
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R. Girard, Celui par qui le scandale arrive, cit., pp. 67-68. Cfr. Id., La lotta fra Gesù e Satana, cit., p. 160. ↩︎
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Friedrich Nietzsche, Umano troppo umano, II, La verità non vuole nessun altro Dio oltre sé. ↩︎
-
Ibid., Il capro della virtù. ↩︎
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Id., L’Anticristo, af. 29. ↩︎
-
Ibid., af. 41. ↩︎
-
Ibid., af. 36. ↩︎
-
Mt 5, 39. ↩︎
-
Mt 5, 38-48. ↩︎
-
Mt 10, 34. ↩︎
-
Friedrich Nietzsche, L’Anticristo, af. 39. ↩︎
-
Mt 13, 35. ↩︎
-
Hes., Th., vv. 27-28. ↩︎
-
Friedrich Nietzsche, L’Anticristo, passim. ↩︎
-
R. Girard, Celui par qui le scandale arrive, cit., p. 98. ↩︎
-
Gv 8, 51. ↩︎
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Cfr. Mt 27, 44; Mc 15, 32; Lc 23, 29. ↩︎
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Gv 10, 17-18. ↩︎
-
R. Girard, Origine della cultura e fine della storia. Dialogo con Pierpaolo Antonello e Joao de Castro Rocha, Raffaello Cortina, Milano, 2003. ↩︎
-
Gv 14, 27. ↩︎
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Gv 14, 17. ↩︎
-
Mt 5, 48. ↩︎
-
Gv 3, 17. ↩︎
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È lo stesso Girard a segnalare come rappresentativo del suo pensiero il quadro di H. Bosch. Cfr. R. Girard, La lotta fra Gesù e Satana, in Id., La vittima e la folla. Violenza del mito e cristianesimo, cit., pp.166-167. ↩︎
-
Gv 19, 30. ↩︎
-
Gv 11, 25. ↩︎
-
Gv 12, 47. ↩︎
-
Gv 13, 34. ↩︎
-
Gv 16, 28. ↩︎
-
Gv 14, 30. ↩︎
-
Gv 16, 32. ↩︎
-
Gv 14, 27. ↩︎
-
Benedetto XVI, Udienza generale. Piazza San Pietro (24 settembre 2008), LEV 2008. ↩︎