L’opera di Levinas comprende due tipologie di scritti: quelli filosofico-fenomenologici, di cui Totalità e Infinito1 rappresenta un esempio eccellente, e quelli ebraico-talmudici, come Difficile libertà e Letture talmudiche. In una lettera che il professor Francesco Paolo Ciglia mi ha inviato dopo il colloquio di Gerusalemme, egli mi esprimeva con precisione l’esigenza che incombe su ogni lettore di Levinas: considerare Levinas come filosofo, senza mai dimenticare la profondissima ispirazione ebraica che anima la sua opera; considerare la sua ebraicità — come dice Levinas, il suo «essere ebreo» —, senza mai dimenticare la dimensione filosofica, ovvero universale, del suo pensiero.
Grazie al vostro professore scoprirete Totalità e Infinito, una delle maggiori opere filosofiche del XX secolo e uno dei capolavori di Emmanuel Levinas, proprio nell’anno in cui si celebra il cinquantenario della sua pubblicazione.
Io vivo in Israele, dove partecipo attivamente alla diffusione dell’opera di Levinas, che è molto apprezzato non soltanto in ambito accademico ma anche presso un vasto pubblico. Ho curato l’edizione scientifica della traduzione in ebraico di Totalità e Infinito, pubblicata quasi un anno fa, nell’aprile del 2010, che ha ottenuto un grande successo tra i lettori israeliani. Ho quindi avuto recentemente l’occasione di rileggere attentamente — direi parola per parola — quest’opera di Levinas che ho scoperto all’età di 18 anni e che, da allora, mi accompagna in tutte le tappe della mia vita.
Posso dirvi che, anche dopo averlo letto e riletto, non si finisce mai con Totalità e Infinito, essendo così ricco di meraviglie! Secondo l’espressione ebraica che Levinas amava citare per evocare l’infinità della responsabilità nei confronti di altri: ein la davar sof, «ciò non sarebbe mai finito»!
Levinas non ha nascosto le difficoltà nelle quali il suo lettore rischia di incappare. Ecco che cosa scrive nella prefazione del suo volume: « [Totalità e Infinito] apparirà agli occhi del lettore […] come una selva di difficoltà dove nulla garantisce un buon carniere. Lo si vorrebbe almeno invitare a non lasciarsi scoraggiare dall’aridità di certi sentieri, dall’asprezza della prima sezione, della quale si deve sottolineare il carattere preparatorio, ma dove si delinea l’orizzonte di tutte queste ricerche». Nello stesso tempo, Levinas ha fatto di tutto per rassicurarci. Ci dà, nella sua Prefazione, una serie di consigli sulla maniera di leggere la sua opera, tentando, per quanto possibile, di prevenire i malintesi. Ci dice, per esempio, che questo libro, in cui egli dà la priorità all’Altro che è più in alto dell’io, che è perfino il mio «maestro», è anche una «difesa della soggettività» — dei diritti di un io che, pur essendo votato ad altri, conserva la sua identità, la sua personalità.
Prenderò esempio da lui proponendovi alcune idee che spero vi faciliteranno l’accesso a Totalità e Infinito. E se a tratti vi scoraggiate — cosa legittima — ricordatevi la celebre massima nell’Etica di Spinoza: «Tutto ciò che è bello è tanto difficile quanto raro».
Ecco dunque i tre compiti che mi sono assegnata.
- Chiarire una questione che tocca uno degli aspetti maggiori del progetto filosofico di Levinas in Totalità e Infinito: qual è il senso e la portata della critica della metafisica o della tradizione filosofica occidentale che egli effettua nella sua opera?
- Trattare un altro aspetto essenziale di questo progetto: l’etica esposta in Totalità e Infinito non è un dato immediato ma il frutto d’un lungo itinerario. Per dimostrarlo, evocherò le tappe che conducono dalle opere dell’immediato dopoguerra — Dall’esistenza all’esistente (EE) e Il Tempo e l’altro (TA) — a Totalità e Infinito (TI).
- Descrivere la struttura di Totalità e Infinito, le tappe dell’itinerario che conduce dall’io isolato, che gode egoisticamente del mondo, al faccia a faccia con altri, e anche a quelle relazioni che Levinas situa «al di là del volto» (titolo della quarta sezione di Totalità e Infinito): l’amore e la fecondità.
1. La critica della metafisica
Vengo al mio primo punto: il senso della critica della metafisica e della tradizione filosofica occidentale effettuata da Levinas in Totalità e Infinito. Questa critica ha contribuito ampiamente al successo della sua opera. Già dalla Prefazione di Totalità e Infinito, Levinas mette in discussione «il volto dell’essere che si manifesta nella guerra» e che «si fissa nel concetto di totalità che domina la filosofia occidentale». Sottomessi alla necessità della ragione politica, ridotti a un momento della storia universale, gli individui sono negati nella loro unicità e nella loro singolarità. Come dice Levinas: «Ci sono lacrime, se volete, che un funzionario non può vedere: le lacrime di Altri».2 Alla maniera di Franz Rosenzweig, Levinas mette così in discussione una visione della storia o del mondo come totalità che egli non attribuisce unicamente a Hegel — questa risale per lui fino ai Presocratici, anche se nota che «non si ha bisogno di dimostrare tramite oscuri frammenti di Eraclito che l’essere si rivela al pensiero filosofico come guerra» — l’esperienza tragica della storia del XX secolo, della quale Levinas è stato testimone, è sufficiente.
Tuttavia si deve cogliere bene il senso di tale critica e, soprattutto, evitare un’assurdità: Levinas non intendeva affatto porre fine alla metafisica occidentale e ancor meno rompere con quest’ultima. A chi gli attribuiva tale pretesa rispondeva umoristicamente: «È come se si contestasse l’altezza dell’Himalaya».3 Quindi precisava: «Quest’insegnamento filosofico è così importante, così essenziale. Esige così tanto di essere attraversato prima di cominciare altrimenti». Pur scuotendo i pilastri sui quali si basa la tradizione filosofica dell’Occidente, Levinas non si è mai posto al di fuori di quest’ultima. Al contrario, la critica condotta in Totalità e Infinito si alimenta attingendo alle fonti stesse di questa tradizione, si appoggia su temi tanto classici quanto il «Bene al di là dell’essere» di Platone e di Plotino, o «l’idea dell’infinito in noi» di Cartesio. Essa è anche il frutto, come precisa Levinas, «di una lunga frequentazione dei testi husserliani e di un’incessante attenzione a Sein und Zeit», l’opera maggiore di Heidegger.4
Invece di rigettare in blocco la storia della filosofia, Levinas compie un gesto più sottile. Egli reintegra in questa storia quei pensatori che essa ha relegato ai suoi margini: il già citato Franz Rosenzweig, Martin Buber e Gabriel Marcel, pensatori del dialogo, e Bergson, ingiustamente dimenticato dopo l’immensa fama di cui ha goduto nei primi decenni del XX secolo.
Il gesto di Levinas nella Francia degli anni ’60 era particolarmente audace. Martin Buber era diventato illustre presso quelle cerchie di filosofi d’anteguerra grazie alla sua opera Io e Tu. Ma, con il passar del tempo, la sua opera si era diffusa solo negli ambiti ebraici e cristiani. Per quanto riguarda Rosenzweig, era praticamente sconosciuto al pubblico francese. I pochi specialisti che apprezzavano il suo studio su Hegel e lo Stato, come Eric Weil, non dedicavano nessuna attenzione al suo capolavoro, la Stella della redenzione. In un contesto in cui ogni opera ispirata dall’ebraismo e dalle sue fonti era ritenuta un saggio di pensiero religioso, Levinas rivendicava il titolo di filosofo per Rosenzweig, interprete del Cantico dei cantici, per Jehuda Halevy, il grande filosofo e poeta ebreo medievale, e per Buber, commentatore dei racconti chassidici. Meglio ancora: evidenziava la fecondità filosofica delle loro opere. In Totalità e Infinito, Levinas prende come modello la relazione Io-Tu per pensare la prima forma di socialità che si stabilisce con la Femminilità nell’intimità della casa. Soprattutto, si appropria della «critica della totalità» effettuata da Rosenzweig in La Stella della Redenzione per farne il tema centrale di Totalità e Infinito e del suo personale confronto con Hegel.
All’epoca in cui l’opera di Henri Bergson era considerata l’espressione di una filosofia borghese o d’un amabile spiritualismo, Levinas non era il solo a tentare di riabilitarla.5 Ma la maniera in cui lo fa è assolutamente particolare: nella Prefazione all’edizione tedesca di Totalità e Infinito, Levinas considera Bergson come il precursore, o addirittura l’ispiratore, di Husserl e Heidegger, dei quali «rese possibili numerose posizioni essenziali»! Non si farà scrupolo, d’altronde, di ritornarci su, dimostrando in altri testi tutto ciò che Heidegger, così ingiusto nei confronti di Bergson, deve alla concezione della temporalità di quest’ultimo.6
Il dibattito costante che Levinas intrattiene con i suoi predecessori e i suoi contemporanei, la maestria con la quale percorre la storia della filosofia, giustificano ampiamente la lettura di Totalità e Infinito. Tuttavia, l’interesse di quest’opera non risiede in un confronto filosofico, per quanto possa essere brillante. Per essere precisi, questo confronto acquisisce il suo senso solo se lo si colloca nella prospettiva dell’etica, «eros filosofico»7 del pensiero levinasiano. Distinta dalla morale,8 l’etica non è, come sostenuto da Cartesio, un ramo della filosofia, fosse anche il più nobile. Non è neppure, come preteso da Aristotele, una disciplina di vita che garantisce la perfezione individuale, non consiste in una gerarchia delle virtù entro i cui gradi bisognerebbe elevarsi. Consiste in un modo di relazione con altri, nel faccia a faccia in cui altri mi chiama ad una responsabilità infinita nei suoi confronti. Più fondamentale dell’ontologia, che è in relazione con l’essere anonimo, l’etica o il rapporto con altri e il suo volto è «filosofia prima».
Tale concezione rivoluzionaria dell’etica è considerata, a giusto titolo, come uno dei principali apporti di Levinas e come il cuore stesso della sua opera. Ma, a forza di parlarne, si ha tendenza a considerare le tematiche del volto e della responsabilità come scontate. Ora se, come Levinas afferma, l’esteriorità o la relazione sociale è effettivamente una «meraviglia», essa tuttavia non è in nessun caso un miracolo! Levinas ha sempre rispettato l’esigenza propriamente filosofica che consiste, come insegnava il suo maestro Léon Brunschvicg, nel procedere «per gradus debito»,9 senza saltare nessuna delle tappe che scandiscono il cammino della verità.
Pur essendo «filosofia prima», l’etica presentata in Totalità e Infinito non rappresenta un dato immediato. Si tratta del punto di arrivo di un itinerario che ha portato Levinas «dall’esistenza all’esistente» e poi «dall’esistente ad altri» o ancora, seguendo il sottotitolo del suo studio sul poeta Paul Celan, «dall’essere all’altro». Nella seconda parte della mia esposizione, ricostruirò le tappe di tale itinerario.
2. In cammino verso l’etica
L’origine dell’itinerario di pensiero che si conclude in Totalità e Infinito risale al 1940 e a «L’ontologia nel temporale».10 Questa conferenza fu tenuta da Levinas alla Sorbona, davanti agli studenti del suo amico Jean Wahl, appena prima del suo richiamo alle armi nell’esercito francese e della sua partenza per il fronte dove sarà fatto prigioniero. In questa conferenza, che viene considerata, giustamente, come la «prima replica all’ontologia fondamentale» di Heidegger, il tema dell’alterità si presenta per la prima volta.11 La relazione con altri costituisce una «nuova via» che Levinas cercava fin dal 1935, alla fine di Dell’evasione, il suo primo saggio filosofico. Nel clima cupo dell’anteguerra, cercava il mezzo per «uscire dall’essere» trovando una via d’uscita dalla sua presenza totale e autarchica, o ancora, dal fatto bruto e alienante — fino alla nausea — del «c’è dell’essere».12 Tuttavia non precisava in che cosa questa via d’uscita potesse consistere.
Introducendo in «L’ontologia nel temporale» il tema dell’alterità, Levinas offre dunque una soluzione ad una questione lasciata aperta. Benché non abbia ancora un significato etico, la comparsa di questo tema segna una svolta nell’evoluzione del suo pensiero. La contestazione, nell’articolo del 1940, del primato della «questione ontologica che si pone in seno al Medesimo» a vantaggio della «verità ontica che si dirige verso l’altro» annuncia le tesi che troveranno la loro piena espressione in Totalità e Infinito.
Di nuovo, il cammino che porta da Dall’esistenza all’esistente e da Il Tempo e l’altro, pubblicati nell’immediato dopoguerra, fino a Totalità e Infinito si sviluppa seguendo delle tappe importanti da rispettare. Man mano, la critica dell’ontologia si approfondisce; parallelamente, l’alterità assume un posto centrale, rivestendo a poco a poco un significato etico.
In Dall’esistenza all’esistente, pubblicato nel 1947, un cambiamento importante si produce nella maniera di pensare l’essere. Al posto dell’autarchia e della chiusura su di sé che costituiva, in Dell’evasione, la struttura stessa dell’essere, Levinas mette in discussione, attraverso la nozione del «c’è [il y a] »,13 il suo anonimato e la sua neutralità. Opponendosi a Heidegger — ma anche a Louis Lavelle, rappresentante di ciò che definisco «l’ontologia alla francese» —, spoglia in questo modo l’essere dalle sue «connotazioni d’abbondanza e generosità».14 La relazione primordiale con l’essere non è la fonte dalla quale l’esistenza umana trae il suo senso e la sua dignità; è, invece, l’esperienza dello spavento suscitato dal «carattere desertico, ossessivo e orribile dell’essere».15
In Dall’esistenza all’esistente «l’uscita dall’essere» resta all’ordine del giorno. La celebre formula platonica che pone il «Bene al di là dell’essere» indica, fin dalla Prefazione dell’opera, la direzione verso la quale si compie tale uscita, così come la radicalità che le è propria. Come precisa Levinas, «il movimento che porta un esistente verso il Bene non è una trascendenza attraverso la quale l’esistente s’innalza ad un’esistenza superiore». Per innalzarsi verso il Bene, non basta superare la nostra condizione finita per accedere a una forma d’esistenza più completa, addirittura infinita. Tale movimento di trascendenza consisterebbe unicamente nel «cercare un rifugio» in un’altra regione dell’essere, permanendovi. Per operare «l’uscita dall’essere e dalle categorie che lo descrivono», si deve compiere un gesto più radicale, che Levinas definisce con il neologismo «ex-scendenza [excendance] ». Con questo termine descrive il movimento che porta «al di là dell’essere», verso il «Bene, il tempo e la relazione con altri».
Si coglie già in Dall’esistenza all’esistente il metodo di «deformalizzazione» o di «concretizzazione» che assume un posto centrale in Totalità e Infinito. Da buon fenomenologo, Levinas non tratta mai il Bene o l’Infinito — o il tempo — come concetti astratti e formali. Al contrario, li colloca proprio nelle situazioni concrete nelle quali il loro significato appare in tutta pienezza. Perciò, il Bene non è più, come in Platone, un modello o un ideale generale e astratto verso il quale il filosofo s’innalza uscendo dalla «Caverna» e lasciando lo spazio delle relazioni umane.16 Esso si identifica con la relazione sociale, con i gesti concreti grazie ai quali si manifesta la nostra sollecitudine per altri e il rispetto della sua irriducibile alterità.
Ben lungi dall’essere un’Idea puramente intelligibile, il Bene o la relazione con l’altro riconosciuto come assolutamente altro si manifesta come Desiderio. Citiamo qui uno dei più bei passaggi di Dall’esistenza all’esistente, dove Levinas distingue l’amore dal semplice bisogno, «mangiare» da «amare»: «L’amore è caratterizzato da una fame essenziale e inestinguibile. Stringere la mano ad un amico, vuol dire esprimergli la propria amicizia, ma dirgliela come qualcosa di inesprimibile, o meglio ancora, come qualcosa di incompiuto, come un desiderio permanente. La positività stessa dell’amore è nella sua negatività. Il roveto che alimenta la fiamma non si consuma».17 Si ritrova quasi parola per parola all’inizio di Totalità e Infinito questa descrizione d’un desiderio inestinguibile che si alimenta della propria fame.
Annunciato fin dall’esordio, l’orientamento verso il Bene acquisisce tutto il suo senso alla fine di Dall’esistenza all’esistente e di Il Tempo e l’altro, dove compaiono le figure dell’alterità che svolgeranno un ruolo così importante in Totalità e Infinito: la Femminilità o la relazione erotica «dove, nella prossimità d’altri, è integralmente mantenuta la distanza».18 La filialità o il rapporto con la prole, relazione paradossale «dove altri è radicalmente altro e dove tuttavia, egli è, in qualche modo, me».19
In questi scritti dell’immediato dopoguerra, la relazione con altri non ha ancora il carattere etico che essa assumerà in Totalità e Infinito. Pur essendo «il debole», «il povero», «la vedova e l’orfano», altri è anche «lo straniero, il nemico, il potente».20 In Il Tempo e l’altro, il tema del volto d’altri appare già.21 Tuttavia, la responsabilità è ancora concepita come responsabilità per sé, obbligo, per l’io libero ma incatenato irremissibilmente a sé, di portare il peso della propria esistenza. Come scrive Levinas in Dall’esistenza all’esistente, «la libertà del presente non è leggera come la grazia, ma è peso e responsabilità».22
Nei circa dieci anni che separano Dall’esistenza all’esistente da Totalità e Infinito, Levinas pubblica una serie di articoli i cui titoli stessi annunciano le tesi portanti della sua opera: «L’ontologia è fondamentale? » (1951); «Libertà e comando» (1953), «L’Io e la totalità» (1954). Pubblicato nel 1957, «La filosofia e l’idea dell’Infinito» contiene in sintesi le idee che saranno sviluppate, quattro anni dopo, in Totalità e Infinito.23 In questo articolo si trova una concezione originale della filosofia occidentale. Per Levinas, quest’ultima ha seguito, nel corso di tutta la sua storia, due vie diverse, ha elaborato due concezioni divergenti della verità: da una parte, la verità concepita come eteronomia, come «esperienza», o rapporto del pensatore «con una verità distinta da lui, altra rispetto a lui», «movimento che parte da un mondo intimo e familiare […] verso ciò che è estraneo, verso un laggiù»; dall’altra parte, la verità definita come autonomia, «adesione libera ad una proposizione, punto di approdo di una libera ricerca». Da questo punto di vista, il pensatore «rimane il Medesimo nonostante le terre sconosciute dove sembra che il pensiero conduca». Tra autonomia e eteronomia, la filosofia occidentale ha scelto nella maggior parte dei casi la prima opzione.
3. Dal godimento alle figure dell’alterità
Giungo dunque al mio terzo punto: la struttura di Totalità e Infinito, le tappe del movimento che conduce l’io egoista e solitario all’incontro con altri.
Al momento della sua pubblicazione, nel 1961, Totalità e Infinito segna il punto d’arrivo di tutte le ricerche ed analisi condotte dal 1940. La struttura che Levinas conferisce alla sua opera rivela la sua volontà di formulare attraverso essa la sua etica in maniera sistematica. Le tesi principali del suo libro sono esposte immediatamente nella prima sezione intitolata «Il Medesimo e l’Altro».24 Queste sono riprese nelle Conclusioni con le quali l’opera si chiude. A prima vista, questa struttura — nella quale tutto sembra già contenuto nella prima sezione, nella quale le conclusioni riprendono le introduzioni, nella quale l’inizio e la fine si ricollegano — sembra paradossale, considerando il progetto levinasiano. In che modo Levinas, che ha tanto criticato le nozioni di totalità e di sistema, può permettersi di dare alla sua opera — alla sua esposizione dell’etica — una forma sistematica?
Il procedimento che Levinas adotta nel suo volume smentisce però tale impressione: nel sistema hegeliano, ogni momento è soppresso in quanto tale e superato da quello che segue; invece, nel “sistema” levinasiano, questa dialettica non si trova affatto. Diversamente dalla “coscienza sensibile” della Fenomenologia dello Spirito, il godimento dell’io solitario descritto in Totalità e Infinito non è un contatto primitivo con il mondo destinato ad essere superato in forme più alte come il linguaggio o il lavoro. Allo stesso modo, il finito non si definisce per la sua opposizione all’infinito, né l’Altro per la sua opposizione al Medesimo.25
Inoltre, il fatto che Levinas enunci immediatamente le sue “conclusioni” non gli impedisce di dare al seguito della sua opera un carattere genetico. Nella seconda sezione di Totalità e Infinito, egli descrive pazientemente, tappa dopo tappa, l’itinerario che conduce dal solipsismo iniziale — dalla situazione dell’io che gode del mondo — all’incontro con altri, che mette in discussione la sua gioia di vivere. Levinas non formula nessun giudizio assiologico sull’egoismo di base dell’io che «ignora Altri».26 Al contrario, descrive senza alcuna prevenzione la felicità dell’io assolutamente indipendente, immerso negli elementi, che gode degli alimenti terrestri, che vive di «’grana’, aria, luce… ».27 Questa descrizione è agli antipodi della visione heideggeriana del Dasein gettato nel mondo, «l’essere umano non si trova in un mondo assurdo dove sarebbe geworfen», consegnato a se stesso e abbandonato alla sua sorte. Levinas esprime con humour la distanza che lo separa dall’autore di Sein und Zeit: «È curioso constatare come Heidegger non prenda in considerazione la relazione del godimento […] Il Dasein in Heidegger non ha mai fame».28
Per descrivere la situazione dell’«io separato», Levinas ricorre alla nozione di «ateismo», tema centrale dell’esistenzialismo sartriano, per pensarla in modalità assolutamente altre. Privata della sua risonanza teologica29 (o anti-teologica), questa nozione pone in risalto l’indipendenza assoluta dell’io. L’«io ateo» non è separato da altri che non ha ancora incontrato, ma dalla totalità, che minaccia sempre di inglobarlo. Ben prima dell’incontro con il volto, il primo atto di resistenza alla totalità — la «rottura della totalità» — è opera d’un io il cui «psichismo» o la cui «vita interiore» si manifesta come sensibilità e godimento.
Apparentemente, siamo ben lontani dal soggetto cartesiano la cui intera essenza consiste esclusivamente nel pensare. Eppure Levinas non esita ad appoggiarsi a Cartesio per descrivere in tutta la sua radicalità l’ateismo dell’io. La posizione del cogito che si afferma, nel corso della seconda delle Meditazioni metafisiche, come un essere sovrano, che non ha bisogno di null’altro al di fuori di se stesso, denota un’indipendenza che può andare — come nota Levinas — fino alla separazione dall’Infinito. Questa separazione è effettiva, quand’anche durasse «anche solo per un secondo, lo spazio d’un cogito», il momento nel quale affermo «penso quindi sono». Anche quando il godimento è turbato dall’«inquietudine per l’indomani», l’ateismo dell’io non viene pertanto abolito. Il lavoro che attenua l’inquietudine o l’incertezza dell’avvenire mantiene, invece, tale separazione dandogli la forma dell’indipendenza economica.
Ma, che si tratti del godimento o del lavoro, l’io separato non è mai messo a confronto con una vera e propria alterità. Come nota Levinas, «nella soddisfazione del bisogno, l’estraneità al mondo che mi fonda perde la sua alterità: nella sazietà, la realtà sulla quale facevo presa si assimila, le forze che erano nell’altro diventano le mie forze, diventano me […] Con il lavoro e il possesso l’alterità degli alimenti entra nel Medesimo». Solo la relazione con l’altra persona può mettere in discussione la felicità di essere e l’egoismo dell’io30 che gode e possiede, la sua libertà che si crede sovrana.
La prima figura dell’alterità è la Femminilità che l’io incontra nella casa. La casa non è un semplice «utensile» destinato a fornirci un riparo o un rifugio.31 Si tratta del luogo dove si instaura una prima forma di socialità attraverso la relazione coniugale. Rompendo con la lunga tradizione filosofica che ha spiegato l’istituzione della famiglia e della vita «economica» — la vita nella casa (oikos) — con delle necessità puramente biologiche — la sopravvivenza dell’individuo e la riproduzione della specie —, Levinas ne sviluppa il significato spirituale o metafisico. Ritirandosi nella sua dimora, chiudendo le porte dietro di sé, l’io può raccogliersi su se stesso, e vivere nell’intimità della presenza d’altri, della relazione amorosa e dei legami famigliari, al riparo dagli sguardi indiscreti. Mentre il caffè è la «casa aperta, allo stesso livello della strada»,32 la dimora è la casa con le porte chiuse, lo spazio della vita privata. Come un’ambasciata in un paese straniero, essa gode di tutti i privilegi dell’extraterritorialità, nello stesso tempo dentro e fuori, situata «sulla strada», nello spazio pubblico, e in disparte rispetto ad esso.
Tuttavia, Levinas non intende promuovere una forma estrema di liberalismo che, in nome del rispetto della vita privata, rinchiuderebbe l’individuo tra le quattro mura di casa sua. Come precisa in Totalità e Infinito, «la possibilità per la casa di aprirsi ad Altri, è altrettanto essenziale all’essenza della casa quanto le porte e le finestre chiuse». Nella prospettiva etica propria della filosofia di Levinas, il raccoglimento nella casa è la condizione che rende possibile l’accoglienza d’altri — dello sconosciuto, dello straniero. L’apertura verso l’esterno, il di fuori, lo spazio della società umana è possibile solo a partire dal ritrovarsi iniziale con se stessi, da questa coscienza della singolarità e dell’unicità della persona.
L’ateismo tramite il quale l’io si separa dalla totalità si arricchisce quindi di un nuovo significato. A differenza del soggetto etereo o del puro spirito dell’idealismo, «essere io» significa, per Levinas, essere «da qualche parte». Come notava già in Dall’esistenza all’esistente, la «localizzazione», il fatto di essere «qui» — «essere in un corpo», «essere in casa» — condiziona la posizione della soggettività.33
Il fatto di abitare dentro la dimora riveste un ruolo essenziale nella genesi della relazione con altri. Ma, come Levinas notava nel 1954, «la società dell’amore è una società a due, società di solitudini». La coppia è una «società chiusa»; l’amore stesso è esclusivo, è sempre «amore per un essere a detrimento di un altro».34 Il dialogo amoroso presuppone che regnino, tra i due partner, l’uguaglianza e la reciprocità propria della relazione Io-Tu. Tutti questi tratti sono contrari «all’asimmetria dell’interpersonale»,35 al dislivello proprio della relazione con altri, alla dimensione di altezza nella quale questi si colloca, in poche parole, alla sua trascendenza.
È ben noto il prestigio di cui gode il dialogo nella nostra società. Lo si considera spesso come la soluzione di tutti i conflitti e come la condizione per una concreta relazione con altri. Ora, per Levinas, altri non è il partner di un dialogo, «l’interlocutore non è un Tu, è un Lei» — è questo il punto sul quale egli si discosta profondamente da Martin Buber. Contrariamente al dialogo che, nell’opinione comune, riduce la distanza che mi separa da altri, «il discorso» la mantiene nella sua integralità.36 Prima di essere uno strumento di comunicazione, la parola d’altri, venuta da più in alto rispetto a me — da un «maestro» —, è un ordine, un comando, un appello alla responsabilità. Il significato etico originario del linguaggio non è un’idea teorica ma rinvia a una situazione concreta, al faccia a faccia con altri. Lungi dall’essere una forma plastica offerta alla vista e alla descrizione, il volto d’altri è una «presenza vivente, è espressione». «Non commetterai omicidio», questo è, per Levinas, «l’espressione originaria», la «prima parola» del volto.
Si tocca qui uno degli aspetti più originali del metodo levinasiano: il volto o la relazione sociale è la «deformalizzazione» o la concretizzazione» dell’idea dell’Infinito. L’infinito si manifesta concretamente nella relazione con altri. Come scrive Levinas in «La filosofia e l’idea dell’infinito»: «L’idea dell’infinito sta nel rapporto con Altri. L’idea dell’infinito è il rapporto sociale».
A tale proposito Levinas riprende una tematica filosofica classica: «L’idea dell’infinito in noi» trattata da Cartesio nella sua terza Meditazione. Collocando questo tema nella prospettiva etica propria di Totalità e Infinito, egli ne dà un’interpretazione innovativa. Per contrasto con il cogito sovrano della seconda Meditazione, il soggetto pensante scopre in sé, nella terza Meditazione, un’idea della quale non può essere la causa: l’idea di Dio o dell’infinito che oltrepassa la nostra coscienza che è, per sua natura, finita. Come nota Cartesio, anche se «conosciamo» l’infinito — anche se ne abbiamo una concezione chiara e distinta —, non possiamo «comprenderlo», non possiamo abbracciarlo con il pensiero, coglierlo e dominarlo.37 Levinas trae spunto dall’analisi cartesiana per mettere in discussione una tesi che domina la tradizione filosofica, da Platone a Husserl: la conoscenza consiste nell’adeguazione e nella correlazione tra l’idea e il suo oggetto. Alla maniera di Cartesio, egli mette in evidenza ciò che distingue radicalmente l’idea dell’infinito da tutte le altre idee: «essa mira a ciò che non può abbracciare e in tal senso, precisamente, all’Infinito», «l’ideatum sorpassa la sua idea». Il pensiero è oltrepassato dall’infinito, «il più sta nel meno».
Alla fine della terza Meditazione, Cartesio mette in evidenza il carattere straordinario di questa idea di Dio inadeguata al pensiero che la pensa, segno dell’esistenza di un essere non solo esterno all’io ma assolutamente trascendente. In un passaggio spesso citato da Levinas, egli esprime la sua estasi e la sua ammirazione davanti a questa idea la cui «meditazione […] ci fa godere del più grande appagamento che si possa provare in questa vita». Come si sa dai tempi di Aristotele, lo stupore è all’origine della filosofia. Venticinque anni dopo la pubblicazione di Totalità e Infinito — nel 1987 — Levinas nota che questa idea dell’infinito — la rottura della correlazione e dell’adeguazione tra il pensiero finito e l’infinito che esso pensa — ha suscitato in lui lo stupore che l’ha spinto a scrivere il suo libro.
Tuttavia alcune differenze sostanziali separano Levinas da Cartesio. In Cartesio, la scoperta dell’idea dell’Infinito permette al soggetto di uscire dal dubbio riguardante l’esistenza delle cose esteriori. Essa è la prova che esiste una realtà al di fuori di me: quella dell’Infinito o di Dio che ha messo in me l’idea di sé. Ma se l’Infinito è ben esteriore rispetto a me, la sua idea è «in me»: per prendere coscienza dell’esistenza di questo essere altro rispetto a me e più alto di me, devo rientrare in me stesso. È nel più profondo della mia interiorità che scopro l’idea di Dio o dell’infinito che è «innata» o «nata e prodotta con me sin da quando sono stato creato» (Cartesio, Meditazione III). Per Levinas, invece, altri resta del tutto esterno a me. L’infinito «mi viene all’idea [me vient à l’idée] » nel momento in cui l’altra persona — e non Dio — si pone di fronte a me e si presenta «nell’epifania» della suo volto.
Come scrive Levinas nella prefazione di Totalità e Infinito, «l’infinito si produce nella relazione del Medesimo con l’Altro», si manifesta nello spazio delle relazioni interumane. In che cosa consiste quindi questa «produzione» o questa concretizzazione — questa deformalizzazione dell’infinito? Un testo della fine di Totalità e Infinito, dove compaiono le nozioni di elezione e di sostituzione tanto centrali negli scritti a venire — in Altrimenti che essere o al di là dell’essenza (1974) —, permette di chiarire tale questione. L’infinito qualifica la responsabilità alla quale mi chiama il volto d’altri e alla quale non posso sottrarmi: «L’infinito della responsabilità non traduce la sua immensità attuale, ma un accrescimento della responsabilità, man mano che essa viene assunta; i doveri si ampliano man mano che li si adempie. Meglio compio il mio dovere, meno diritti ho; più sono giusto, più sono colpevole».
Il linguaggio utilizzato da Levinas in Totalità e Infinito è impregnato della nuova sonorità che egli ha dato ai termini «metafisica» e «trascendenza». «Al di là del volto»: il titolo dell’ultima sezione di Totalità e Infinito illustra il movimento trascendente verso l’altrimenti e l’altrove che anima l’insieme del suo libro. Pur presentando quest’ultimo come una «difesa della soggettività», Levinas ha precisato che non si tratta di far valere i diritti dell’io egoista: «L’Io che difendo contro la gerarchia, è quello che è necessario per realizzare il diritto dell’Altro». Ugualmente, la relazione con altri non deve cedere alla tentazione che minaccia ogni relazione intersoggettiva. Nonostante il fatto che l’altra persona sia privilegiata, nonostante il fatto che essa è «l’Altissimo» o il «maestro», la relazione che intrattengo con essa non è, come l’amore, esclusiva; non è «un egoismo a due», vissuto nella «complicità con l’essere preferito» (TI, 234; it., 264).
Il volto apre verso ciò che è al di là rispetto ad esso. L’orientamento verso «gli Altri» si produce proprio in seno al faccia a faccia, in modo che «l’epifania del volto come volto apra l’umanità». Nella terza sezione dell’opera appare il «terzo», vale a dire non solo il terzo uomo ma tutti gli «altri». In Altrimenti che essere, Levinas presenterà la comparsa del terzo come una specie di coup de théâtre: il terzo entra in scena, segnando l’avvento dell’ordine politico della giustizia, obbligandomi a limitare la mia responsabilità nei confronti di altri per non danneggiarlo. In Totalità e Infinito, questa presenza del terzo è inscritta nella struttura stessa della relazione con altri, impedendo a quest’ultima immediatamente di evolvere in un rapporto privato e clandestino. Così, «tutto ciò che accade qui ‘tra di noi’ riguarda tutti, il volto che lo guarda si pone alla luce piena dell’ordine pubblico»; allo stesso modo « il terzo mi guarda negli occhi d’altri — il linguaggio è giustizia ». E Levinas precisa: «Non che ci sia volto prima e che in seguito l’essere, che egli manifesta o esprime, si preoccupi di giustizia». Benché il termine giustizia abbia ancora in Totalità e Infinito un senso strettamente etico, esso accenna già a un «ordine pubblico», a una «comunità umana» (TI, 225; it., 253).
Il volto conduce a ciò che è al di là rispetto ad esso in un altro senso. Il movimento di trascendenza apre ad un tipo di rapporto umano il cui significato metafisico è stato generalmente misconosciuto: la «fecondità» o la relazione con il figlio. Basandosi sull’ambiguità propria della «fenomenologia dell’eros», Levinas chiarisce i due aspetti dell’amore. Il rapporto amoroso può, certamente, approdare alla costituzione di una «società chiusa», quella della coppia ripiegata su se stessa. Ma l’amore non è estraneo al movimento di trascendenza che apre l’infinito del tempo. Come scrive Levinas, «l’amore va anche al di là dell’amato. Ecco perché attraverso il volto filtra l’oscura luce proveniente dall’al di là del volto, da ciò che non è ancora, da un futuro mai abbastanza futuro, più lontano che mai» (TI, 232; it., 262). Così «il Medesimo e l’Altro generano il figlio», in virtù d’una trascendenza che Levinas definisce «totale» (TI, 229; it., 257) e più audacemente, come «trans-sustanziazione» togliendo al termine ogni connotazione religiosa. Si misura l’ampiezza del cammino percorso dall’inizio di Totalità e Infinito: separato — o «ateo» — all’origine, immerso nel suo godimento egoistico, «l’io è, nel figlio, un altro». Ma la soggettività levinasiana non può dissolversi in un rapporto in cui essa è assorbita dall’altro, in cui essa si fonde in lui al punto da perdere la sua identità. Qui risiede il paradosso della paternità: il figlio è me, pur essendo assolutamente altro rispetto a me. La trascendenza relazionale è, ipso facto, una trascendenza temporale.38 Così la relazione con il figlio apre verso un avvenire nello stesso tempo «mio e non-mio».
Levinas attribuiva un valore supremo alla relazione tra il maestro e l’allievo. In Etica e Infinito, evoca con emozione i suoi maestri dell’Università di Strasburgo. Con quale entusiasmo dice: «Erano uomini! ». Parla anche delle «filiazioni spirituali» che si stabiliscono tra maestro e discepolo. In Totalità e Infinito, la figura d’altri come un maestro che mi insegna l’idea dell’infinito assume un posto centrale. Per Levinas, il maestro non è colui che — come nella maieutica socratica — mi insegna ciò che già sapevo; al contrario, è colui che mi apre, con la sua «presenza viva», al nuovo e all’inedito, all’alterità d’altri. Voi avete la fortuna di avere, nella persona di Francesco Paolo Ciglia, un professore che unisce l’eccellenza intellettuale con un’alta umanità. Vi auguro di approfittare della vostra lettura di Totalità e Infinito con lui.
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E. Levinas, Totalité et infini. Essai sur l’extériorité, Martinus Nijhoff, La Haye 1961 (per le successive citazioni, l’edizione di riferimento è: Totalité et infini, Livre de Poche, Paris 1990; tr. it., Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, a cura di Silvano Petrosino, Jaca Book, Milano 1990²). ↩︎
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E. Levinas, Transcendance et hauteur, in Cahier de l’Herne. Emmanuel Levinas, L’Herne, Paris 1991, p. 63; tr. it., Trascendenza e altezza, in Dall’altro all’io, Maltemi, Roma 2002, p. 114. ↩︎
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Intervista rilasciata a France Guwy, poi pubblicata con il titolo: L’asymétrie du visage, in Emmanuel Levinas. Une philosophie de l’évasion, «Cités. Philosophie Politique Histoire», n. 25, gen. 2006, pp. 115-124. ↩︎
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Cfr. la Prefazione (1987) all’edizione tedesca di Totalité et Infini, Le Livre de poche, Paris 1990. ↩︎
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Pensiamo in particolare a Vladimir Jankélévitch. ↩︎
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Prefazione all’edizione tedesca di Totalité et Infini (v. nota 4). ↩︎
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Prendiamo in prestito questa espressione da Jacob Gordin, amico di Levinas, che evocava, nel 1934, “l’eros filosofico” del pensiero di Maimonide. Si veda J. Gordin, L’actualité de Maïmonide, in Ecrits. Le renouveau de la pensée juive en France, ed. M. Goldmann, Albin Michel, Parigi 1995. ↩︎
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Si veda Georges Hansel, Ethique et politique dans la pensée d’Emmanuel Levinas, in Levinas à Jérusalem, a cura di Joëlle Hansel, Klincksieck, Parigi 2007. In questo articolo, G. Hansel descrive l’evoluzione del pensiero di Levinas in generale, e della sua riflessione sulla politica in particolare. ↩︎
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Alla lettera: “secondo i gradi dovuti”, “secondo i livelli”, “seguendo le tappe necessarie”. ↩︎
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Pubblicato in En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Parigi 1967; tr. it., Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, R. Cortina, Milano 1998. ↩︎
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Si veda Jacques Taminiaux, La première réplique à l’ontologie fondamentale, in Emmanuel Levinas, L’Herne, cit. ↩︎
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Si veda Joëlle Hansel, ’L’être est’ et ‘Il y a’: autarcie et anonymat de l’être dans les premiers écrits d’Emmanuel Levinas, in «Etudes phénoménologiques», 43-44, 2006; sul senso della critica levinasiana all’ontologia negli scritti prima della guerra, si veda: Id., Penser l’être autrement que Heidegger: Levinas et l’ontologie à la française, in Levinas: De l’Etre à l’autre, a cura di Joëlle Hansel, PUF, Paris 2006. ↩︎
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Georges Hansel ha descritto le differenti funzioni dell’«il y a» nell’itinerario del pensiero di Levinas. Si veda il suo articolo: “L’il y a” au foyer de la discorde, in Emmanuel Levinas. Philosophie, théologie, politique, Institut Adam Mickiewicz, Varsavia 2006, pp. 34-46. ↩︎
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Si veda la Prefazione alla seconda edizione, De l’existence à l’existant, Vrin, Paris 1947; tr. it., Dall’esistenza all’esistente, Marietti, Genova 1986, pp. 5-7. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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«Platone non ha colto il femminile nella sua nozione specificatamene erotica. Nella sua filosofia dell’amore ha lasciato al femminile la sola funzione di fornire un esempio dell’Idea, l’unica che può essere oggetto d’amore». Le Temps et l’autre, Puf, Paris 1991, p. 87; tr. it., Il tempo e l’altro, a cura di Francesco Paolo Ciglia, Il Nuovo Melangolo, Genova 2005, p. 61. ↩︎
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De l’existence à l’existant, cit., pp. 64-66; tr. it., p. 37. ↩︎
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Ivi, p. 162 (tr. it., p. 87), poi ripreso parola per parola in Le Temps et l’autre, p. 88 (tr. it., p. 62). ↩︎
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Si veda E. Levinas, L’amour et la filiation, in Ethique et Infini. Dialogues avec Philippe Nemo, Paris, 1982; tr. it., Etica e Infinito, Città Aperta, Troina 2008, p. 80. ↩︎
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De l’existence à l’existant, cit., p. 162; tr. it., p. 87. ↩︎
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«La relazione con altri, il faccia a faccia con altri, l’incontro con un volto che, contemporaneamente, dà e toglie ad altri». Le Temps et l’autre, cit., p. 66; tr. it., p. 48. ↩︎
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De l’existence à l’existant, cit., p. 149; tr. it., p. 80. ↩︎
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Si vedano le parole di Levinas nella Introduzione a En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, cit. ↩︎
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Si veda la fine della Prefazione di Totalité et Infini. ↩︎
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«L’identificazione del Medesimo non è […] un’opposizione dialettica all’Altro», allo stesso modo: «L’Altro metafisico è altro secondo un’alterità che non è formale, secondo un’alterità che non è un semplice rovescio dell’identità, né secondo un’alterità fatta di resistenza al Medesimo». Totalité et Infini, cit., pp. 28-29; tr. it., p. 36. ↩︎
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Ivi, p. 57; tr. it., p. 60. ↩︎
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Ivi, p. 112; tr. it., p. 110. ↩︎
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Ivi, p. 108; tr. it., pp. 135-136. ↩︎
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Si veda a questo proposito il commento di Levinas in Transcendance et hauteur, cit., p. 71; tr. it., p. 122: «Il mio punto di partenza è assolutamente non-teologico. Ci tengo molto. Non faccio teologia, ma filosofia». ↩︎
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«La presenza d’Altri equivale a questa messa in questione del mio indisturbato possesso del mondo». Totalité et Infini, cit., p. 73; tr. it., p. 74. ↩︎
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Già in De l’existence à l’existant, cit., p. 64; tr. it., p. 36: «La formula “la casa è un mezzo d’abitazione” è palesemente falsa, e in ogni caso non riesce a dar ragione del posto eccezionale che l’essere “presso di sé” occupa nella vita dell’uomo». ↩︎
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E. Levinas, Judaïsme et révolution, in Du sacré au saint, Minuit, Paris 1977; tr. it., Giudaismo e rivoluzione, in Dal sacro al santo, Città nuova, Roma 1985. ↩︎
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De l’existence à l’existant, cit., p. 117; tr. it., pp. 62-63. ↩︎
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E. Levinas, Le moi et la totalité, in Entre nous, Grasset, Paris 1991, p. 34; tr. it., L’io e la totalità, in Tra noi, Jaca book, Milano 1998, p. 49. ↩︎
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Titolo di una delle sottoparti della terza sezione di Totalité et Infini. ↩︎
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Totalié et Infini, cit., p. 10; tr. it., p. 38: «Il discorso, proprio per il fatto che mantiene la distanza tra me ed Altri, la separazione radicale che impedisce la ricostituzione della totalità (…)». ↩︎
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Cfr.: «L’incomprensibilità stessa è contenuta nella ragione formale dell’infinito». Cartesio, Réponses aux Cinquièmes objections. ↩︎
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Su questi due significati della trascendenza, si veda Jan Sokol, La fécondité: un thème négligé, in Levinas autrement, a cura di R. Burggraeve, J. Hansel, M. A. Lescourret, J. F. Rey, J. M. Salanskis, Peeters, Louvain 2012. ↩︎