La strada dell’emotivismo etico. Autori, strutture e percorribilità

1. Introduzione

Il termine «emotivismo» è un termine introdotto recentemente all’interno della sintassi dei discorsi scientifici. La storia del termine è meno controversa della storia del termine «naturalismo».1 Più recente del termine «naturalismo» il termine «emotivismo» nasce nel secolo scorso con il riconoscimento di una semantica dell’uso2 e — scendendo nel concreto- con il riconoscimento della distinzione tra valenza indicativa e valenza emotivo/direttiva dei discorsi umani attuato nell’articolo The meaning of meaning scritto da C. K. Ogden e I. A. Richards.3 Perché il termine «emotivismo» arrivi ad avere un senso meno esteso è necessario attenderne la definizione di Ayer. Per Ayer il termine «emotivismo» si limiterebbe ad indicare il tentativo di riduzione del discorso etico all’uso emotivo:

La presenza del simbolo etico nella proposizione non aggiunge nulla al suo contenuto fattuale. Così, per esempio, se dico a qualcuno: «Hai agito male rubando quel denaro», non sto dicendo nulla di più che se avessi detto semplicemente: «Hai rubato quel denaro», Aggiungendo che questa azione è male, non faccio nessun’altra affermazione in proposito. Vengo semplicemente a mettere in evidenza la mia disapprovazione morale del fatto. E’come se avessi detto «Tu hai rubato quel denaro» con un particolare tono di ripugnanza, o lo avessi scritto con l’aggiunta speciale di alcuni punti esclamativi. Il tono di ripugnanza o i punti esclamativi non aggiungono nulla al significato letterale dell’enunciato. Servono solo a mostrare che in chi parla l’espressione dell’enunciato si accompagna a certi sentimenti […] Infatti dicendo che un certo tipo di azione è giusto o ingiusto, io non faccio nessuna affermazione fattuale, neppure intorno alle mie condizioni di mente. Esprimo semplicemente certi sentimenti morali. E chi si prende la pena di contraddirmi sta semplicemente esprimendo i propri sentimenti morali. Cosicché evidentemente non ha senso chiedere quale dei due abbia ragione. . .4

Con Stevenson infine il senso del termine si stabilizza.5

Per il nostro modello di classificazione della meta-etica moderna, molto vicino al modello di Nino, l’emotivismo è sotto-corrente del non-conoscitivismo etico insieme al normativismo hareiano. Emotivismo e normativismo considerano termini enunciazioni e discorsi etici come non-descrizioni non-razionali di fatti. Però l’emotivismo si discrimina dal non-conoscitivismo normativista dal momento che considera tali termini enunciazioni e discorsi come comunicazioni di fatti idonei a suscitare reazioni emotive altrui. Questi fatti nel concreto sono emozioni e/o sentimenti.

L’emotivismo etico non è una corrente unitaria. Per alcuni emotivismo tali comunicazioni di emozioni niente sarebbero se non interiezioni emotivamente cariche dell’enunciante. Per altri sarebbero combinazioni di credenze e sentimenti. Per un emotivista interiezionista termini enunciazioni e discorsi etici sono comunicazioni di emozioni sotto forma di interiezioni (Vailati e Calderoni in maniera moderata; Ayer in maniera estrema). Per un emotivista combinazionista termini enunciazioni e discorsi etici sono comunicazioni di emozioni sotto forma di combinazioni tra credenze e sentimenti (Stevenson). Prenderemo innanzitutto in considerazione le radici italiane dell’emotivismo etico (Vailati e Calderoni). Poi considereremo in maniera accurata emotivismo interiezionista ayeriano e emotivismo combinazionista stevensoniano. Ed infine tireremo le nostre conclusioni sulla convenienza dell’incamminarsi sulla strada dell’emotivismo in meta-etica.

2. Le radici italiane dell’emotivismo etico

Pochi autori hanno ricondotto le radici continentali della meta-etica analitica all’analitica italiana.6 I nostri riferimenti sono Vailati e Calderoni. La visione meta-etica dei nostri due autori è indicata dal maestro (Vailati) e entusiasticamente accettata e diffusa dallo scolaro (Calderoni). Proviamo a «illuminare» tale visione introducendo una minuziosa ricostruzione della meta-etica calderoniana. La nostra tesi ri-costruttiva consiste nel rilevare come Calderoni tenda a modificare la sua concezione meta-etica su indicazione diretta del maestro. L’interesse meta-etico calderoniano nasce da una domanda. Può esistere conoscenza etica? Possiamo scindere in due momenti il meta-discorso calderoniano sulla conoscenza etica. Primo momento è il momento di I Postulati della Scienza Positiva ed il Diritto Penale.7 Poi viene il momento di Disarmonie economiche e disarmonie morali.8 Nella tesi di laurea Calderoni non metabolizza totalmente i concetti introdotti da Vailati all’interno dell’articolo del 1900 Sulla portata logica della classificazione dei fatti mentali proposta dal prof. Franz Brentano.9 Questo articolo/ intervento vailatiano introduce due idee. La necessità anzitutto di enunciare una esauriente classificazione di stati mentali alla luce della antecedente classificazione brentaniana. Poi l’intuizione di confrontare e connettere classi di enunciazioni umane a stati mentali, distaccando il concetto di illocutorietà10 di una enunciazione dalla sintassi della medesima. Brentano — a detta di Vailati- mette in rilievo tre classi di stati mentali:

  1. idee che, non riferendosi direttamente a «sensazioni» immediate (Brentano) o remote (Berkeley), non sono suscettibili di verità/ falsità.
  2. credenze che, riferendosi direttamente a sensazioni, sono suscettibili di verità/ falsità, vale a dire di conoscenza.
  3. sentimenti/ valutazioni che, non riferendosi — come le idee — direttamente a sensazioni immediate o remote, non sono suscettibili di verità/ falsità, cioè di conoscenza.

L’autore cremasco riconduce le tre classi di stati mentali a tre classi di enunciazioni:

  1. idee a enunciazioni analitiche, o «definizioni».
  2. credenze ad enunciazioni descrittive, o «affermazioni propriamente dette, quelle cioè che esprimono il grado del nostro assenso, o del nostro dubbio».
  3. sentimenti ad enunciazioni valutative, o «Werth-Urtheile».

Vailati sostiene direttamente che le enunciazioni analitiche non siano suscettibili di verità/ falsità e che le enunciazioni descrittive siano suscettibili di verità/ falsità (conoscenza); non risolve direttamente il caso delle enunciazioni valutative. Tuttavia l’insuscettibilità a verità/ falsità (conoscenza) delle enunciazioni valutative è lasciata intendere dall’economia del discorso.11

Calderoni — come detto- ne I Postulati della Scienza Positiva ed il Diritto Penale non si accosta a Vailati. C’è un uso reiterato della classificazione brentaniana di stati mentali ai fini di fondare l’atto volontario e differenziarlo dall’atto involontario,12 senza che vi sia una riconduzione — come accade in Vailati- di stati mentali ad enunciazioni e di enunciazioni a stime di conoscibilità. Se intendiamo il termine «morale» all’interno dell’affermazione successiva come sinonimo di «scienza etica» Calderoni sembra arrivare a conclusioni meta-etiche obiettivistiche e conoscitiviste molto simili alle conclusioni di un Moore nel momento in cui affermi «scopo della morale è di determinare i fini che l’uomo deve porsi nell’operare"13 e consideri i fini umani come verità morali.14 Cambia tutto con Disarmonie economiche e disarmonie morali. L’incidenza su Calderoni dell’articolo vailatiano del 1905 La distinzione fra Conoscere e Volere15 è decisiva. Finalmente in maniera diretta Vailati afferma l’insuscettibiltà a verità/ falsità delle enunciazioni valutative, il fatto che tali enunciazioni abbiano unicamente forza illocutoria emotivo/ sentimentale e l’insussistenza dei disaccordi etici. Vailati introduce ciò che Pontara considera come «nichilismo etico»,16 scrivendo:

La differenza tra l’un caso [credenze] e l’altro [valutazioni] si può brevemente caratterizzare dicendo che, mentre nel primo le nostre affermazioni implicano, direttamente o indirettamente, delle previsioni su ciò che avverrà o avverrebbe se date circostanze si verificassero, nel secondo invece si esprime soltanto il nostro desiderio che date circostanze si verifichino o no, e la nostra disposizione ad agire in modo da provocarle o impedirle. Mentre per le prime ha vigore quello che i logici chiamano il principio di contraddizione — in quanto, se due persone sono di diverso parere e prevedono, l’una che avvenga, e l’altra che non avvenga, uno stesso fatto, esse non possono avere ragione ambedue-, nel secondo caso invece lo stesso non si può dire […] Mentre infatti le prime indicano delle vie e dei mezzi a cui è possibile ricorrere per realizzare qualche fatto che non esiste ancora, le seconde si limitano a descrivere un nostro stato di coscienza o di fatto, che riconosciamo come presente. Le prime si riferiscono non a ciò che vogliamo ma a ciò che potremmo fare se volessimo.17

Calderoni modifica il suo conoscitivismo obiettivistico alla luce di tali ricerche vailatiane tendendo decisamente in buon numero di scritti18 verso le tesi del nichilismo etico.

Concludiamo. Le valutazioni — secondo Calderoni — coincidono con comunicazioni di volontà.19 L’enunciazione «essere caritatevoli è bene» coinciderebbe con le esclamazioni «ho interesse a che ci sia carità!» o «ho desiderio che carità sussista!». Il discorso di Calderoni sembra simile in determinati tratti al discorso dell’Ayer di Language, Truth and Logic (1936); a volte al discorso dello Stevenson di Ethics and Language (1944). Visto il continuo riferimento alle tesi dell’insuscettibilità delle valutazioni a verità/falsità e della emotività/sentimentalità delle enunciazioni valutative, i nostri due autori sembrano avvicinarsi meno estremisticamente alla concezione emotivista radicale — che vedremo successivamente- di Ayer. La riflessione meta-etica accomuna Calderoni a Vailati, e mostra un mutamento calderoniano in direzione di Vailati.20 Per essi non è data conoscenza etica.

3. L’emotivismo etico interiezionista di A.J. Ayer

L’emotivismo etico — come abbiamo visto — considera termini enunciazioni e discorsi etici come comunicazioni di sentimenti e/o stati emotivi atte a suscitare reazioni emotive altrui. Questa definizione è estremamente indeterminata; manca una determinazione universalmente accettata della struttura di esse comunicazioni. E all’interno dell’indeterminatezza di tale termine si inserisce l’interiezionismo etico radicale. Per l’interiezionismo etico termini enunciazioni e discorsi etici sono comunicazioni di emozioni sotto forma di interiezioni. Un caso concreto. L’enunciazione «essere caritatevoli è bene» vuole dire in breve «evviva la carità!»; l’enunciazione «essere caritatevoli è male» vuole dire «abbasso la carità!».

Padre e sistematizzatore — involontariamente sulle orme delle radici italiane della teoria emotivista- dell’interiezionismo radicale è A. J. Ayer.21 Per Ayer il discorso etico è costituito da una certa varietà di enunciazioni:

Vi sono, in primo luogo, proposizioni che esprimono definizioni di termini etici, ovvero giudizi intorno alla legittimità o possibilità di certe definizioni. In secondo luogo si dànno proposizioni che descrivono i fenomeni dell’esperienza morale e le loro cause. In terzo luogo vi sono esortazioni alla virtù morale. E, da ultimo, si danno effettivi giudizi etici. Purtroppo si dà il caso che la distinzione, pur così lineare, di queste quattro classi sia comunemente ignorata dai filosofi…22

Alla luce di tale varietà non sarebbe scorretto il tentativo di ridurre l’intero discorso etico ad un unico determinato modello di enunciazione. Per Ayer il riduzionismo semantico dei discorsi etici non è un male. Quale è tuttavia il modello di enunciazione adatto? A detta del nostro autore23 non è ciò che all’interno della odierna letteratura sulla meta-etica comunemente si indica come naturalismo subiettivistico24 o invece come naturalismo obiettivistico.25 E — a detta di Ayer- non è neanche ciò che comunemente si definisce come non-naturalismo intuizionista.26 L’unica teoria meta-etica conforme al radicale verificazionismo sensorialista dell’Ayer è un emotivismo altrettanto radicale. Per Ayer infatti i concetti etici non sono suscettibili di analisi. Ayer — come abbiamo mostrato nella nostra breve introduzione — afferma:

La presenza del simbolo etico nella proposizione non aggiunge nulla al suo contenuto fattuale. Così, per esempio, se dico a qualcuno: «Hai agito male rubando quel denaro», non sto dicendo nulla di più che se avessi detto semplicemente: «Hai rubato quel denaro». Aggiungendo che questa azione è male, non faccio nessun’altra affermazione in proposito. Vengo semplicemente a mettere in evidenza la mia disapprovazione morale del fatto. E’come se avessi detto «Tu hai rubato quel denaro», con un particolare tono di ripugnanza, o lo avessi scritto con l’aggiunta speciale di alcuni punti esclamativi. Il tono di ripugnanza o i punti esclamativi non aggiungono nulla al significato letterale dell’enunciato. Servono solo a mostrare che in chi parla l’espressione dell’enunciato si accompagna a certi sentimenti.27

Oltre a non essere suscettibili di analisi termini enunciazioni e discorsi etici non tollererebbero conflitti morali.28 Però essi non si limitano a comunicare emozioni sotto forma d’interiezione; infatti servono all’individuo a suscitare emozioni in chi è destinatario/ ascoltatore.29 Nella riflessione meta-etica ayeriana termini enunciazioni e discorsi etici sono insieme comunicazioni di emozioni sotto forma di interiezione e comunicazioni atte a suscitare emozioni nell’ascoltatore.

C’è la tendenza — comune a molti altri autori30- ad incamminarsi sulla strada del riconoscimento dell’insensatezza dei discorsi etici:

Ora comprendiamo perché è impossibile trovare un criterio che determini la validità dei giudizi etici. Non è perché essi abbiano una validità «assoluta» misteriosamente indipendente dall’esperienza comune, ma piuttosto perché di validità obiettiva, quale si voglia, non ne hanno nessuna. Se l’enunciato non afferma nulla, ovviamente non ha senso chiedere se ciò che afferma è vero o falso. E abbiamo visto che gli enunciati esprimenti puri e semplici giudizi morali non dicono nulla. Sono mere espressioni di sentimento e come tali non cadono sotto la categoria del vero e del falso.31

Ayer conclude sostenendo:

Dopo averla difesa contro la sola critica che sembrava minacciarla, possiamo ora usare la nostra teoria per definire la natura di tutte le ricerche etiche. Per noi la filosofia etica consiste semplicemente nel dire che i concetti etici sono pseudo-concetti, e che pertanto non sono analizzabili. Il compito successivo, di descrivere i diversi sentimenti espressi nell’uso dei diversi termini etici e le diverse reazioni che tali termini sogliono provocare, è di pertinenza della psicologia […] Risulta allora che l’etica, quale ramo del sapere, non è nulla più che un settore della psicologia e della sociologia.32

4. L’emotivismo etico combinazionista di C.L. Stevenson

L’emotivismo etico radicale ayeriano conduce al riconoscimento dell’inesistenza dei disaccordi morali. Per contrastare la critica mooriana contro il naturalismo subiettivistico secondo cui nell’everyday life la tesi dell’inesistenza dei disaccordi etici sarebbe concretamente insostenibile e salvare insieme l’emotivismo Stevenson introduce una forma meno radicale di emotivismo etico. Per l’emotivismo moderato di Stevenson termini enunciazioni e discorsi etici sono — come in Ayer- comunicazioni di emozioni atte a suscitare emozioni nel destinatario. Stevenson inizia dove termina Ayer. Però tra i due c’è una sostanziale differenza. Mentre Ayer sostiene recisamente l’inconsistenza dei disaccordi morali, il nostro autore rifiuta di affermare l’inesistenza di tali disaccordi all’interno dell’everyday life. Il fondamento del tentativo stevensoniano di moderare l’emotivismo radicale di Ayer deve essere considerato la distinzione tra disagreement in belief e disagreement in attitude.33 Per Stevenson avviene disaccordo di credenza (disagreement in belief) nel momento in cui un individuo consideri l’esistenza di x e un altro ne consideri la non-esistenza. Mentre disaccordo di tendenza (disagreement in attitude) accade nel momento in cui un individuo tenda favorevolmente nei confronti di x e un altro invece vi tenda in maniera sfavorevole.34 Per Stevenson i disaccordi morali — a differenza di Ayer- esistono, essendo meri disaccordi di tendenza. Il «carattere differenziale» dei discorsi morali consiste nel fatto di fondarsi anzitutto su disaccordi di tendenza. Lo stesso autore in relazione alla centralità di tali disaccordi all’interno dei disaccordi morali sostiene:

Disagreement in attitudes determine what beliefs are relevant to the argument […] and ethical argument usually terminates when disagreement in attitude terminates, even though a certain amount of disagreement in belief remains.35

Può accadere — è vero — che i disaccordi morali si incentrino su disaccordi di credenza. Però di norma soluzioni di disaccordi di credenza non conducono necessariamente a soluzioni del disaccordo morale dal momento che non necessariamente un cambiamento del disaccordo di credenza in accordo conduce a cambiamenti di disaccordi di tendenza in accordi.36 Potrebbero infatti esistere — a detta di Stevenson- disaccordi di tendenza in situazione di accordo di credenza. Ma è assai raro che vi siano disaccordi di credenza in situazione di accordo di tendenza (a meno che non vi sia un errore di credenza). Per Stevenson fondamento dei disaccordi morali è anzitutto il disaccordo di tendenza. Però ne è costituente in maniera secondaria/ accessoria anche il disaccordo di credenza. Entrambi i disaccordi costituiscono i disaccordi morali; i disaccordi morali sottendono due costituenti: credenze e tendenze. La tendenza è tuttavia tra i due il costituente dominante.

L’attacco indiretto di Moore ad Ayer è sventato se si ammette che l’insensatezza del discorso etico non conduca all’affermazione dell’inesistenza dei disaccordi morali.

Come affronta Stevenson il dilemma della insensatezza del discorso etico? La riflessione sullo statuto dei disaccordi morali è utile a fondare l’affermazione dell’insensatezza di termini enunciazioni e discorsi etici. Due — come abbiamo detto- sono i costituenti del disaccordo morale. L’uno è costituente razionale, riferendosi alla credenze dell’uomo; l’altro è costituente irrazionale, riferendosi alle tendenze del medesimo. Gli stessi termini enunciazioni e discorsi etici sottendono due elementi costitutivi. Prima di tutto un elemento emotivo. Poi un elemento descrittivo. L’elemento emotivo del discorso etico non sarebbe suscettibile di verità/ falsità; l’elemento descrittivo lo sarebbe. Vista la rilevanza massima del costituente tendenza in relazione ai disaccordi morali e dell’elemento costitutivo emozione in relazione all’uso del discorso morale, termini enunciazioni e discorsi etici non saranno suscettibili di verità/ falsità.37 L’emotivismo etico moderato stevensoniano considera tali strutture etiche come descrizioni di emozioni dell’enunciante e comunicazioni di tali emozioni atte a suscitare cambiamenti di tendenza nel destinatario. La valenza semantica del discorso etico è insieme descrittiva ed emotiva. La radicalità della concezione ayeriana è attenuata da Stevenson senza intaccare l’affermazione d’esistenza dei disaccordi etici. L’enunciazione «essere caritatevoli è bene» vuole dire «io accetto che si faccia la carità. Accettalo anche tu!»; l’enunciazione «essere caritatevoli è male» vuole dire «Io non accetto che si faccia la carità. Anche tu non accettarlo!».

Riassumiamo. Possiamo innanzitutto utilizzare l’ottimo schema di Nino:

Stevenson ravviserebbe tre tratti distintivi del discorso morale: in primo luogo, il fatto che si danno dei veri accordi e disaccordi etici, in secondo luogo, il fatto che i termini morali possiedono una certa «forza attrattiva», ossia contengono un appello all’azione; in terzo luogo, il fatto che in etica il metodo empirico di verificazione non è sufficiente.38

Per Stevenson — a differenza di Ayer- termini enunciazioni e discorsi etici sono insieme descrizioni di emozioni dell’enunciante, comunicazioni di emozioni dall’enunciante all’ascoltatore e comunicazioni atte a suscitare un cambiamento di tendenza nell’ascoltatore. La valenza emotiva è massimamente rilevante:

[l’uso dei termini e delle enunciazioni etici innanzitutto] … is not to indicate facts, but to create an influence. Instead of merely describing people’s interests, they change or intensify them;39

Stevenson — a differenza di Ayer- si indirizza sulla strada della insensatezza del discorso etico senza calcare la strada dell’inesistenza dei disaccordi morali. E — a differenza di Ayer- si accosta ad una innovativa teoria semantica mentalistico-causale.40

Questo è l’interesse meta-etico stevensoniano. Vincere l’accusa indiretta mooriana verso l’emotivismo radicale ayeriano attraverso l’ammissione dell’esistenza dei disaccordi etici all’interno della everyday life e attraverso l’uso di una teoria semantica mentalistico-causale.

5. Emotivismo etico: critiche e obiezioni

La dottrina recente e meno recente ha introdotto un numero abbondante di critiche nei confronti dei nostri tre modelli novecenteschi di emotivismo etico. Innanzitutto c’è la riformulazione dell’accusa mooriana nei confronti dell’ethical subjectivism. Per Moore i disaccordi morali sono evidenti all’interno della everyday life. La tesi ayeriana dell’inesistenza dei disaccordi morali è concretamente insostenibile. L’emotivismo etico radicale ayeriano è messo sotto scacco da un’osservazione di senso comune. Per evitare tale scacco mooriano — come abbiamo visto — Stevenson avanza una teoria meta-etica emotivista meno radicale.41

Poi nei confronti dell’emotivismo radicale ayeriano c’è una interessante critica di C. Nino. Per l’autore sud-americano se si riconducesse l’intera etica umana all’ambito dell’emotività si otterrebbe l’esito nefasto di escludere le «motivazioni razionali» da tale discorso. Chi si introducesse con entusiasmo ai discorsi etici arriverebbe veramente a rifiutare l’attribuzione di motivi (razionali) come criterio di un’etica soddisfacente? Per Nino, no. L’addurre motivazioni (razionali) è caratteristica essenziale dell’etica.42 Anche se — come sostiene lo stesso Nino al termine della sua critica con un richiamo ad Hume- sostenere il fatto che l’emotivismo radicale metta in crisi i fondamenti dell’etica non è un motivo sufficiente a dichiararne l’invalidità.43 C’è un’alternativa. Chi desideri sostenere l’emotivismo in meta-etica è titolare dell’onere di rinunziare alla tesi dello statuto scientifico dell’etica. Chi desideri sostenere la scientificità dell’etica è titolare dell’onere a rinunziare alla tesi emotivista in meta-etica. Per Nino accostarsi all’emotivismo vuole dire rinunziare alla scientificità dell’etica; e viceversa.44

La stessa strada dell’autore sud-americano è battuta — a dire il vero antecedentemente- da autori come Warnock e Toulmin; e successivamente ad essi da un numero assai rilevante di autori vicini all’analitica moderna statunitense.45 La seconda critica si riferisce nella stessa misura all’emotivismo radicale di Ayer e all’emotivismo moderato di Stevenson.

C’è una terza critica idonea a riferirsi concorrentemente all’emotivismo ayeriano e all’emotivismo stevensoniano. Ed è una critica connessa all’uso dei termini, delle enunciazioni e dei discorsi etici. Punto d’inizio di tale insieme di critiche si mostra essere l’accusa di Frankena nei confronti dell’emotivismo ayeriano. Per Frankena è scorretto escludere la valenza normativa dalla semantica dei discorsi etici. Frankena sostiene:

I giudizi etici non dicono semplicemente che qualcosa ha o non ha una certa proprietà, e non sono neppure mere espressioni di emozioni, volontà, decisioni. Essi non si limitano ad esprimere o indicare gli atteggiamenti di colui che parla. Valutano, danno istruzioni, raccomandano, prescrivono, avvisano e così via; e sostengono o implicano che quel che fanno è razionalmente giustificato o giustificabile […] Perciò le teorie più radicali sono sbagliate come descrizione della natura dei giudizi etici.46

Al riconoscimento della non esclusiva emotività del discorso morale era arrivato antecedentemente lo stesso Ayer in maniera meno estesa e camminando su una strada diversa. Per Ayer infatti non sarebbe scorretto sottendere una valenza descrittiva ai discorsi etici. Però tali conclusioni vicine ai descrittivismi etici non menomano assolutamente la tesi dell’emotivismo interiezionista.47

Prima di Frankena la strada del non-riduzionismo emotivista etico è battuta da autori come Warnock ed Hare. Per essi — come in Frankena- è scorretto definire termini enunciazioni e discorsi etici senza riferimento all’uso descrittivo e all’uso normativo dei discorsi umani. Perché ridurre il discorso etico unicamente o anzitutto all’uso emotivo?

Un’altra critica connessa all’uso dei termini, delle enunciazioni e dei discorsi etici è l’ottima critica di Giulio Preti. Preti — tra l’altro48 — nello scritto Praxis ed empirismo afferma nei confronti dell’emotivismo etico stevensoniano:

Un particolare interesse, soprattutto per una filosofia democratica, rivestono due tipi di discorso, entrambi appartenenti a questo gruppo: il discorso propagandistico e il discorso etico. Il primo, che ha oggi il suo esempio più tipico nei discorsi di propaganda politica (per esempio, elettorale), si può definire come un discorso che mira ad ingenerare nell’ascoltatore persuasione — cioè atteggiamenti che prima o poi dovranno tradursi in determinati atti particolarmente significanti per colui che fa propaganda […] Il secondo… Ecco, qui sta il problema: poiché, definito il discorso etico come appartenente alla classe dei discorsi valutativi-normativi, diventa assai difficile distinguerlo dal discorso propagandistico in generale.49

La stessa idea è accennata successivamente da Demetrio Neri, che arriva a sostenere:

Al tempo stesso, tuttavia, si è sottolineato che tale carattere dinamico viene interpretato dagli emotivisti in modo molto limitativo, riducendolo cioè ad un problema di tecniche di persuasione e di influenza che non permetterebbero di distinguere il discorso morale dalla propaganda o da varie forme di manipolazione o di persuasione più o meno occulta.50

Per i due autori la tesi meta-etica del non-riduzionismo emotivistico si unisce alla tesi etico normativa della inassimilabilità di norma morale e rinforzo sociale.51 Persuasione elettorale e discorso etico non sarebbero inter-traducibili né avrebbero radice comune.

Pur se ad un’occhiata disattenta rischi di sembrare banale un’ultima critica nei confronti dei tre emotivismi si mostra conclusiva. Quale è l’intelaiatura di tale accusa? Per alcuni autori52 ridurre l’intero discorso etico alla valenza emotiva e alla funzione di comunicare e/o suscitare emozioni vuole dire rinunciare a ciò che comunemente si indica come il «tra sé e sé» dell’etica. Perdendo il tra sé e sé a causa di un orientamento meta-etico emotivista l’intera etica normativa smarrirebbe senso. Se infatti il discorso etico avesse unicamente la funzione di comunicare e suscitare emozioni, un discorso etico tra sé e sé (e il tra sé e sé etico) non avrebbero senso di esistere non comunicando né desiderando suscitare alcunché all’altro e nell’altro. Però nella everyday life i discorsi etici tra sé esistono concretamente, sono una delle manifestazioni del discorso etico e, una volta formulati, non sono considerati come vuoti di senso.

Anche se assai costruttiva la strada dell’emotivismo è — come abbiamo visto — un cammino non del tutto soddisfacente. È cammino utile a mostrare come il riduzionismo descrittivistico del conoscitivismo etico non sia sufficiente, a meno di trascurare ciò che d’emotivo e sentimentale sia nascosto sotto termini enunciazioni e discorsi etici. Però se si consideri a sua volta l’emotivismo come una teoria meta-etica che trascuri l’esistenza dei disaccordi morali, rinunzi alla scientificità dell’etica, non ammetta la valenza normativa delle valutazioni e dimentichi il «tra sé e sé etico», esso stesso verrebbe ad incorrere nella medesima accusa di riduzionismo che introduce nei confronti di altre teorie. La strada dell’emotivismo imbocca il vicolo cieco del riduzionismo. L’onere del teorico dell’etica se vuole che la strada della meta-etica conduca al «mare» dell’etica normativa senza inutili deviazioni e dannose stasi deve essere il liberare tale strada dall’ostacolo del riduzionismo, costruendo una teoria meta-etica idonea a non trascurare alcuna valenza illocutoria di termini enunciazioni e discorsi etici.

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  1. Il termine «naturalismo» in meta-etica si riconduce a due contesti semantici. Prima del novecento analitico è termine sinonimo di «anti-metafisico» (Aristotele; Hume; Mill). Per aristotelismo e millismo contra Platone è naturalistico tutto ciò che non si riferisca alla metafisica. Da Moore in avanti invece al termine «naturalismo» è attribuito in meta-etica un contesto semantico diverso. Per Moore — critico dell’idealismo e fondatore del non-naturalismo etico- sono teorie meta-etiche naturalistiche tutte le teorie che sollecitino una riduzione delle enunciazioni etiche a descrizioni di fatti naturali [G. E. Moore, Principia ethica, Cambridge, University Press, 1903, 44/73]. ↩︎

  2. Padre della teoria semantica del senso come uso è il secondo Wittgenstein. Esorta il Wittgenstein delle Philosophische Untersuchungen: «Pensa agli strumenti che si trovano in una cassetta di utensili: c’è un martello, una tenaglia, una sega, un cacciavite, un metro, un pentolino per la colla, la colla, chiodi e viti. — Quanto differenti sono le funzioni di questi oggetti, tanto differenti sono le funzioni delle parole… "! [L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, Oxford, Blackwell, 1953, trad. it. Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1999, § 11, 15]. Per il filosofo viennese come il «senso» di uno strumento della casetta-attrezzi è la sua funzione, così il «senso» di una enunciazione è il suo uso all’interno di un contesto enunciativo. La semantica wittgensteiniana dell’uso è continuata dalla c. d. scuola dell’«atto discorsivo». L’ideazione della «teoria dell’atto discorsivo» — intelaiatura alla nozione di illocutorietà delle enunciazioni- è riconducibile alla seconda Oxbridge Philosophy di Austin e Searle. Austin — a causa della morte immatura- si limita ad introdurre tale nozione in via schematica [J. Austin, How to do things with words (1962), trad. it. Come fare cose con le parole, Genova, Marietti, 1987, 71-76]. È Searle a rifinirla all’interno di J. R. Searle, Speech Acts, trad. it. Atti linguistici, Torino, Bollati Boringhieri, 1976, 47-49. ↩︎

  3. Cfr. C. K. Ogden- I. A. Richards, The meanings of meaning. A Study of the Influence of Language upon Thought and of the Science of Symbolism, New York, Brace & Co., (1923) trad. it. Il significato del significato. Studio sull’influsso del linguaggio sul pensiero e della scienza del simbolismo, Milano, Garzanti, 1975. Per i due autori è necessario mettere in chiaro due usi dei discorsi umani. Innanzitutto un uso simbolico idoneo ad indicare referenti reali. Poi un uso emotivo idoneo a suscitare sentimenti ed intenzioni attraverso una comunicazione di emozioni. I due scrivono: «Nel linguaggio simbolico rigoroso, gli effetti emozionali delle parole, diretti o indiretti che siano, sono irrilevanti ai fini del loro impiego. Nel linguaggio evocativo, viceversa, interessano tutti i mezzi mediante i quali possono essere verbalmente suscitati in un uditorio atteggiamenti, umori, sentimenti, emozioni» [257]. Successivamente alla distinzione tra valenza simbolica e valenza emotiva i due autori introducono un abbozzo di emotivismo etico sostenendo che «… nella frase ‘Questo è buono’ ci riferiamo esclusivamente a questo, e l’aggiunta di ‘è buono’ non introduce differenza alcuna nel nostro riferimento […] [tale affermazione] serve soltanto come segno emotivo che esprime il nostro atteggiamento verso questo, ed evoca forse atteggiamenti analoghi in altre persone, o le incita a agire in un modo o nell’altro» [150-151]. Il termine «emotivismo» — come risulta chiaro- nasce come sinonimo di non-conoscitivismo, non differenziando uso strettamente emotivo ed uso direttivo dei discorsi umani. Non dimentichiamo l’incidenza massima della Welby sui due autori, e la stretta connessione in semantica tra Welby e Vailati. ↩︎

  4. Cfr. il celebre brano A. J. Ayer, Language, Truth and Logic, London, V. Gollancz, (1946), trad. it. Linguaggio, verità e logica, Milano, Feltrinelli, 1961, 136-37. ↩︎

  5. Per Stevenson valenza emotiva di un termine è «il potere che il termine acquisisce, in virtù della sua storia in situazioni emotivamente caratterizzate, di evocare o esprimere direttamente atteggiamenti» [C. L. Stevenson, Ethics and Language, New Haven, Yale University Press, (1944), trad. it. Etica e linguaggio, Milano, Longanesi, 1962, 33]. Diviene termine chiave della definizione stevensoniana il termine «attitude». Per Stevenson altrove attitude vuole dire «qualunque disposizione psicologica consistente nell’essere a favore di o contro qualcosa» [C. L. Stevenson, The nature of ethical disagreement, ried. in C. L. Stevenson, Facts and values: studies in ethical analysis, New Haven, Yale University Press, 1963, 2]. Le antinomie etiche — come vedremo successivamente- saranno allora meri disagreement in attitude↩︎

  6. L’esistere di un nesso di continuità critica tra Positivismi ottocenteschi e neo-Positivismo novecentesco è situazione oramai accertata da dottrina e critica moderne. Tuttavia raramente è riconosciuta la rilevanza dei nostri due autori come nodi di connessione tra Positivismi e neo-Positivismo. M. Mori nell’Introduzione all’edizione italiana dello scritto Ethics di W. K. Frankena scrive: «Coltivata sin dall’inizio del secolo da ingegni di talento come Giovanni Vailati, Mario Calderoni e Erminio Juvalta, la filosofia analitica ha avuto nel dopoguerra una nuova fioritura grazie all’opera di vari filosofi, tra cui Ludovico Geymonat, Giulio Preti, Norberto Bobbio, Uberto Scarpelli…» [W. Frankena, Ethics, 1973, trad. it. Etica, Segrate, Ed. Comunità, 1996, 9]. Gli altri tendono a trascurare i nostri due autori ancorando neo-Positivismo e filosofia analitica a tutt’altre radici. E’il caso dell’ottima F. D’Agostini che cercando di delineare in maniera minuziosa ascendenze e derivazioni dell’analitica moderna scrive «… si può ammettere che i «precursori» del movimento analitico siano stati Frege, alcuni allievi di Brentano, i primi logici polacchi, Russell, Moore, il primo Wittgenstein…» [F. D’Agostini, Analitici e continentali, Milano, Cortina, 1997, 215], estendendo tale tesi a tutti i suoi successivi scritti ricostruttivi. ↩︎

  7. Cfr. M. Calderoni, I Postulati della Scienza Positiva ed il Diritto Penale, tesi di laurea, Ramelli, Firenze, 1901, [vol. I, 33-167]. D’ora in avanti i riferimenti testuali a Calderoni saranno indicati in base a M. Calderoni, Scritti, Firenze, La Voce, 1924, IX-X, voll. I e II. ↩︎

  8. Cfr. M. Calderoni, Disarmonie economiche e disarmonie morali, Lumachi, Firenze, 1906, [vol. I, 285-344]. ↩︎

  9. Cfr. G. Vailati, Sulla portata logica della classificazione dei fatti mentali proposta dal prof. Franz Brentano, in «Rivista filosofica», anno II, fasc. I, Gennaio-Febbraio, 1901, [vol. II, 87-91]. L’articolo — citato da Calderoni ne I Postulati della Scienza Positiva ed il Diritto Penale sotto il riferimento Comptes rendus des séances du IV Congrès de Psych. [vol. I, 121, nt. 1]- è la traduzione in italiano di un intervento di Vailati al III Congresso Internazionale di Psicologia di Parigi. D’ora in avanti i riferimenti testuali a Vailati saranno indicati — a meno di un avviso contrario- in base all’edizione curata da M. Quaranta G. Vailati, Scritti, Bologna, Forni, 1987, voll. I-II-III. ↩︎

  10. Per «forza illocutoria» di un enunciato si intende la «funzione» che un enunciato attua all’interno di un certo contesto enunciativo. La dottrina tradizionale attribuisce illocutorietà descrittiva ad enunciati idonei ad attuare funzione di trasmettere informazioni sulla realtà, illocutorietà emotiva ad enunciati idonei ad attuare funzione di comunicare emozioni e stati d’animo, illocutorietà normativa ad enunciati idonei ad attuare funzione di influenzare la condotta o l’azione del destinatario [N. Bobbio, Teoria Generale del diritto, Torino, Giappichelli, 1993, 53-54]. ↩︎

  11. Cfr. G. Vailati, Sulla portata logica della classificazione dei fatti mentali proposta dal prof. Franz Brentano, cit., [vol. II, 88]. Per Calderoni si vedano i due articoli M. Calderoni, La previsione nella teoria della conoscenza, in «Il Rinnovamento», I, fasc. 2, Febbraio, 1907, [vol. II, 10-11] e M. Calderoni, Le origini e l’idea fondamentale del Pragmatismo, in «Rivista di psicologia applicata», V, 1, Gennaio- Febbraio, 1909 (in collaborazione con G. Vailati), [vol. II, 104]. Mentre una sensazione attuale non è suscettibile di verità/ falsità, all’interno della classe delle sensazioni unicamente l’attesa di sensazioni è suscettibile di conferma o smentita. ↩︎

  12. Cfr. M. Calderoni, I Postulati della Scienza Positiva ed il Diritto Penale, cit., [vol. I, 98]. E’citata direttamente la distinzione tra idee e credenze. La distinzione tra i due stati mentali antecedenti e le valutazioni è destinata a fasi successive dello scritto. ↩︎

  13. Cfr. M. Calderoni, I Postulati della Scienza Positiva ed il Diritto Penale, cit., [vol. I, 116]. Calderoni riferendosi allo scritto Vom Ursprung sittlicher Erkenntnis di Brentano sembra introdurre un’idea di etica come «scienza normativa hard» totalmente contraria all’idea vailatiana di etica e all’idea di etica a cui il nostro autore aderirà con lo scritto Disarmonie economiche e disarmonie morali (etica normativa soft). ↩︎

  14. Prima di diventare non-conoscitivista emotivista in altri termini Calderoni si avvicina ad un conoscitivismo non-naturalistico à la Moore. Questa è un’altra conferma — oltre al riferimento testuale dell’autrice a Vailati- della necessaria «adiacenza» meta-etica tra conoscitivismo non-naturalistico e non-conoscitivismo emotivista affermata da C. Bagnoli, Etica, in F. D’Agostini- N. Vassallo (a cura di), Storia della filosofia analitica, Torino, Einaudi, 2002, 304. ↩︎

  15. Cfr. G. Vailati, La distinzione tra Conoscere e Volere, in «Leonardo», anno III, Giugno-Agosto, 1905, [vol. I, 55-58]. ↩︎

  16. Cfr. G. Pontara, Conoscenza e valutazione: lo scetticismo etico di Calderoni, in «Rivista critica di storia della filosofia», Firenze, La Nuova Italia, Luglio- Settembre, 1979, 349-366. Pontara considera un sotto-insieme dello scetticismo etico il nichilismo etico di Vailati e Calderoni caratterizzato dalla tesi dell’insuscettibilità delle valutazioni a criteri di verità/ falsità. ↩︎

  17. Cfr. G. Vailati, La distinzione tra Conoscere e Volere, cit., [vol. I, 56-57]. Vailati introduce una distinzione netta tra valenza emotiva e valenza normativa. Funzione del discorso etico sarebbe comunicare desideri e tendenze. Il riferimento finale alla descrizione di stati d’animo sembra una svista inidonea a vanificare il tenore dell’emotivismo vailatiano. ↩︎

  18. L’insuscettibilità delle valutazioni a verità/ falsità diviene una tesi ricorrente nella letteratura calderoniana da Disarmonie economiche e disarmonie morali [vol. I, 289]. Si vedano: M. Calderoni, La previsione nella teoria della conoscenza, cit., [vol. II, 20-21]; M. Calderoni, L’arbitrario nel funzionamento della vita psichica, in «Rivista di Psicologia applicata», VII, 2, Gennaio-Aprile, 1910, [vol. II, 190-191]; M. Calderoni, Il filosofo di fronte alla vita morale, in «Bollettino della biblioteca filosofica di Firenze», III, 20, Marzo, 1911, [vol. II, 341-342]. Ecco fondato il «nichilismo etico» calderoniano. ↩︎

  19. Calderoni nella sua tesi di laurea chiarisce il termine «volontà» utilizzando tale enunciazione: «Gli è che tali impulsi, istinti e passioni sono bensì fra i coefficienti della volontà, fra gli elementi che combinandosi danno origine al fatto complesso della volizione […] Ma i movimenti che questi impulsi producono possono considerarsi come volontari o no a seconda del contenuto intellettuale […] della nostra mente al momento in cui si eseguiscono e che su di essi infierisce» (M. Calderoni, I Postulati della Scienza Positiva ed il Diritto Penale, cit., [vol. I, 96]. Per Calderoni sono costituenti della volontà strutture interne all’uomo come sensazioni, istinti, attese, emozioni e sentimenti; è da sottolineare come il nostro autore consideri volontà e volontarietà cose ben distinte. ↩︎

  20. Per la tesi dell’esistenza di una stretta relazione di «continuità innovante» tra Calderoni e Vailati si veda il mio articolo I. Pozzoni, Calderoni erede e continuatore della tradizione di ricerca vailatiana, in «Annuario del centro Studi Giovanni Vailati», Crema, Centro Studi Giovanni Vailati, 2003, 55-78. Calderoni infatti è attento ascoltatore, nel momento in cui Vailati desideri introdurre nuove teorie o ottiche nuove nei confronti di teorie vecchie. È abile coadiutore, nel momento in cui Vailati abbia necessità di un’ulteriore fidata cassa di risonanza. E’coerente concretizzatore, nel momento in cui Vailati non riesca a o non desideri esaminare a fondo una determinata area della conoscenza umana. E’scaltro innovatore, nel momento in cui Vailati si disinteressi o non si senta adatto ad affrontare una determinata tematica. È vero il fatto che Calderoni esista unicamente in relazione a Vailati. Pronto tuttavia a brillare di luce autonoma. Non umile imitatore. ↩︎

  21. Per una consistente trattazione della meta-etica ayeriana si consulti la sezione VI del celebre scritto Language, Truth and Logic. L’autore comunica i suoi intenti analitici scrivendo «… Ci disporremo a mostrare che, nella misura in cui sono significative, le affermazioni di valore sono normali affermazioni «scientifiche»; e, nella misura in cui non risultano scientifiche, non sono significative nel senso letterale della parola ma sono semplicemente espressioni di emozione, che non possono essere né vere né false…» [A. J. Ayer, Language, Truth and Logic, cit., 128-129]. ↩︎

  22. Cfr. A. J. Ayer, Language, Truth and Logic, cit., 129. Per Ayer — come lo stesso sostiene successivamente- i discorsi etici devono ridursi a insiemi di enunciazioni consistenti in «definizioni di termini etici». ↩︎

  23. Cfr. A. J. Ayer, Language, Truth and Logic, cit., 131-132. Per ciò che concerne il naturalismo subiettivistico scrive: «… Rifiutiamo la prospettiva soggettivistica, per cui chiamare giusta l’azione, o moralmente buona la cosa, equivale a dirle generalmente approvate, perché non risulta in sé contraddittorio asserire che alcune azioni generalmente approvate non sono giuste, o che alcune cose generalmente approvate non sono moralmente buone…» [131]. Per ciò che concerne invece l’«utilitarismo» meta-etico — come Ayer chiama il naturalismo obiettivistico- sostiene: «… E una critica consimile riesce fatale all’utilitarismo. Non possiamo concedere l’equivalenza fra il chiamare giusta l’azione e il dire che fra tutte le azioni possibili nelle date circostanze questa causerebbe, o avrebbe probabilità di causare, la massima felicità, o il massimo equilibrio con prevalenza del piacere sul dolore, o dei desideri soddisfatti su quelli insoddisfatti, perché non troviamo in sé contraddittorio dire che a volte è ingiusto compiere l’azione che effettivamente, o probabilmente, causerebbe la massima felicità o il massimo equilibrio a favore del piacere sul dolore, o del desiderio soddisfatto su quello insoddisfatto…» [132]. Nell’uno e nell’altro commento il nostro autore sembra utilizzare una critica molto simile ad un open question’s argument a contario. E conclude dicendo «[…] Cioè, non rifiutiamo l’utilitarismo e il soggettivismo quali proposte di sostituire i concetti etici attuali con altri nuovi, ma proprio e solo come analisi inadeguate dei nostri effettivi concetti etici…» [133]. ↩︎

  24. La matrice culturale di naturalismo subiettivistico e convenzionalismo etico è la tradizione relativistica delle moderne scienze della mente e delle scienze sociali. Il Cultural relativism nasce nell’ambito delle moderne scienze della mente e scienze sociali con l’articolo R. Benedict, A Defense of Moral Relativism, in «The Journal of General Psychology», vol. X, 1934, 59-82. E’sistematizzato con lo scritto E. Westermarck, The origin and development of the moral ideas, London, MacMillan, 1912 e si evolve moderandosi e de-scientificizzandosi nei lavori di un autore recente come Gilbert Harman [G. Harman, Moral Relativism Defended, in «Philosophical Rewiew», vol. 84, 1975, 3-22; G. Harman, Relativistic Ethics: Morality as Politics, in «Midwest Studies in Philosophy», vol. 3, 1978, 109-121; G. Harman, What is Moral Relativism? , in A. I. Goldman-J. Kim, Values and Morals, Dordrecht, D. Reidel, 1978, 143-161]. Per una trattazione esaustiva delle recenti trasformazioni del Cultural relativism si consulti l’articolo R. M. Stewart-L. L. Thomas, Recent work on ethical relativism, in «American Philosophical Quarterly», vol. 28, 1991, 85-100. Per alcuni (naturalismo subiettivistico scaturente dalle moderne scienze della mente) è necessario considerare i «fatti naturali» come «sentimenti dell’enunciante». Il naturalismo subiettivistico considera allora termini enunciazioni e discorsi etici come descrizioni dei sentimenti dell’enunciante in relazione ad una determinata situazione individuale. Per altri (convenzionalismo etico scaturente dalle moderne scienze sociali) è necessario considerare i «fatti naturali» come sentimenti della società cui storicamente l’enunciante si riferisce. Il convenzionalismo etico/ naturalismo relativistico considera termini enunciazioni e discorsi etici come descrizioni dei sentimenti della società storica in cui l’enunciante vive. ↩︎

  25. Un altro modo di intendere i «fatti naturali» consiste nell’assimilarli a fatti osservabili e verificabili direttamente attraverso i sensi. Questo è ciò che assume la sotto-classe obiettivista del naturalismo. Per alcuni (naturalismo definizionista) è necessario considerare i «fatti naturali» come descrizioni di fatti obiettivi sociali. Termini enunciazioni e discorsi etici sarebbero allora descrizioni di fatti reali sociali, suscettibili di osservazione e verificazione attraverso i sensi umani. Per una coerente illustrazione del naturalismo definizionista meno recente si vedano R. B. Perry, Realms of Value, Cambridge, Harvard University Press, 1953, 3 e 107, e F. C. Sharp, Ethics, New York, The Century Co., 1928, 410-411. Per visioni recenti si vedano P. B. Rice, On the knowledge of Good and Evil, New York, Random House, 1955, 87 e J. O. Urmson, The Emotive Theory of Ethics, London, Hutchinson, 1968, 12. Per altri (naturalismo riduzionista) è necessario considerare i «fatti naturali» come descrizioni di fatti obiettivi naturali. Termini enunciazioni e discorsi etici sarebbero allora descrizioni di fatti reali naturali, suscettibili di osservazione e verificazione attraverso lo strumentario delle scienze naturali. Per Boyd i termini etici sarebbero del tutto assimilabili ai termini in uso nelle scienze naturali [R. Boyd, How to be a moral realist, in G. Sayre-McCord, Essays on Moral Realism, Ithaca, Cornell University Press, 1988, 200]; la medesima tesi è difesa anche da Brink [D. O. Brink, Moral Realism and Skeptical Arguments from Disagreement and Queerness, in «Australasian Journal of Philosophy», 62, 1984, 111-125; D. O. Brink, Moral realism and the foundations of ethics, Cambridge, Cambridge University Press, 1989] e da Railton [P. Railton, Moral realism, in «Philosophical Rewiew», 95, 1986, 163-207]. ↩︎

  26. Padre e sistematizzatore del non-naturalismo intuizionista etico è l’autore britannico G. E. Moore. Per costui «If I am asked, «What is good?» my answer is that good is good, and that is the end of the matter. Or if I am asked, ‘How good is to be defined? ‘ my answer is that it cannot be defined, and that is all I have to say about it […] My point is that ‘good’ is a simple notion, just as ‘yellow’ is a simple notion; that, just as you cannot, by any manner of means, explain to anyone who does not already know it, what yellow is, so you cannot explain what good is» [G. E. Moore, Principia ethica, cit., 51]. Molto vicino al non-naturalismo mooriano è — senza riferimento all’intuizionismo consequentialist di Moore medesimo- l’intuizionismo di D. W. Ross. Per un esaustivo resoconto dell’orientamento rossiano in meta-etica si consulti D. W. Ross, The right and the good, Oxford, Clarendon Press, 1930. ↩︎

  27. Cfr. A. J. Ayer, Language, Truth and Logic, cit., 136. Ecco il centro dell’emotivismo radicale di Ayer: termini enunciazioni e discorsi etici non sarebbero altro che comunicazioni di interiezioni cariche d’emozione. ↩︎

  28. Cfr. A. J. Ayer, Language, Truth and Logic, cit., 137. ↩︎

  29. Cfr. A. J. Ayer, Language, Truth and Logic, cit., 138. Ayer scrive infatti: «Vale la pena di ricordare che i termini etici non servono solo ad esprimere sentimento. A questi termini si ricorre anche per far sorgere il sentimento, e così stimolare l’azione […] Per esempio, l’enunciato «E’tuo dovere dire la verità» si può considerare sia come la espressione di un certo tipo di sentimento etico verso la sincerità, sia come l’espressione del comando «Dì la verità"». ↩︎

  30. Tra tutti si veda il caso del Wittgenstein iniziale. Questo autore scrive «[…] ora vedo come queste espressioni prive di senso erano tali non perché non avessi trovato l’espressione corretta, ma perché la loro mancanza di senso era la loro essenza peculiare. Perché, infatti, con esse io mi proponevo proprio di andare al di là del mondo, ossia al di là del linguaggio significante. La mia tendenza e, io ritengo, la tendenza di tutti coloro che hanno mai cercato di scrivere e parlare di etica o di religione, è stata di avventarsi contro i limiti del linguaggio» [L. Wittgenstein, Vortrag uber ethik, in M. Ranchetti (a cura di), Lezioni e conversazioni, Milano, Adelphi, 1967, 18]. Per costui l’etica all’interno di un orientamento referenziale della semantica è un discorso senza senso. ↩︎

  31. Cfr. A. J. Ayer, Language, Truth and Logic, cit., 139. Ayer arriva ad asserire — contro la rilevazione mooriana dell’esistenza dei conflitti morali- che l’insensatezza del discorso etico conduce all’inesistenza dei conflitti morali. Il nostro infatti scrive «… Sosteniamo che in realtà non si discute mai su questioni di valore. Può essere che a prima vista quest’ultima suoni una asserzione molto paradossale. E’certo che la gente si impegna di fatto in dispute comunemente considerate relative a questioni di valore. Ma esaminando la situazione più da vicino in ogni caso del genere noi troviamo che la disputa non riguarda realmente una questione di valore, ma una questione di fatto…» precorrendo in maniera rudimentale la distinzione stevensoniana tra modalità di disaccordo etico. ↩︎

  32. Cfr. A. J. Ayer, Language, Truth and Logic, cit., 145. ↩︎

  33. Per una breve storia della distinzione tra disaccordi di credenza e disaccordi di tendenza all’interno della riflessione meta-etica stevensoniana si veda innanzitutto l’accenno in C. L. Stevenson, The Emotive Meaning of Ethical Terms, in A. J. Ayer (a cura di), Logical Positivism, Glencoe, Free Press, 1959, 277-79; e successivamente la riformulazione in maniera sistematica della medesima tesi nella sezione iniziale del libro C. L. Stevenson, Ethics and Language, cit., I, passim↩︎

  34. Il termine «attitude» non è traducibile senza riserve. Stevenson inizia col definire un «disagreement in attitude» come «… un’opposizione tra scopi, aspirazioni, volontà, preferenze, desideri…» [C. L. Stevenson, Ethics and Language, cit., 3]. Poi introduce un’ulteriore definizione di «attitude» — da noi citata antecedentemente- come «… qualunque disposizione psicologica consistente nell’essere a favore di o contro qualcosa…». Ed infine in una successiva riedizione dell’articolo Ethical Fallibility riutilizza la seconda definizione indicando con il termine «attitude» «… tendencies [corsivo mio] to be for or against something, as typified by like, disliking, approving, disapproving, favoring, disfavoring, and so on…» [C. L. Stevenson, Ethical Fallibility, in R. T. DeGeorge (a cura di), Ethics and Society: Original Essays on Contemporary Moral Problems, Garden City NY, Anchor Books, 1966, 199]. Perciò d’ora in avanti useremo il termine «attitude» come sinonimo del termine «tendenza» e la locuzione «disagreement in attitude» come sinonima della locuzione italiana «disaccordi di tendenza». ↩︎

  35. Cfr. C. L. Stevenson, The nature of ethical disagreement, cit., 4-5. ↩︎

  36. Cfr. C. L. Stevenson, The nature of ethical disagreement, cit., 7. ↩︎

  37. Cfr. C. L. Stevenson, Ethics and Language, cit., 71. Stevenson sostiene in relazione allo statuto semantico dell’enunciazione etica «… ha allo stesso tempo una disposizione a modificare sentimenti e atteggiamenti e una disposizione a modificare la cognizione…». Lo stesso Nino intuisce in toto tale caratteristica dualità semantica delle enunciazioni etiche stevensoniane affermando: «Secondo Stevenson, un giudizio morale come «questo è buono» potrebbe essere tradotto da quest’altro: io lo approvo, approvalo anche tu». La prima parte avrebbe significato descrittivo, ossia darebbe delle informazioni sull’atteggiamento di chi parla, mentre la seconda parte (“approvalo anche tu”) avrebbe un significato emotivo, ossia sarebbe volta a suscitare un certo atteggiamento nell’interlocutore» [C. S. Nino, Notas de introducciòn al derecho, (1975), trad. it. Introduzione all’analisi del diritto, Torino, Giappichelli, 1996, 321-22]. ↩︎

  38. Cfr. C. S. Nino, Notas de introducciòn al derecho, cit., 320-321. Nino cita una antecedente schematizzazione hudsoniana. ↩︎

  39. Cfr. C. L. Stevenson, The Emotive Meaning of Ethical Terms, cit., 268. L’autore continua successivamente sostenendo che valenza emotiva di un termine o di una enunciazione etica non è altro che «… a tendency of a word, arising through the history of its usage, to produce (result from) affective responses in people…», cioè idoneità a sucitare reazioni emotive in colui che ascolta. ↩︎

  40. Per Stevenson — come sostiene Nino riferendosi allo scritto Modern Moral Philosophy di W. D. Hudson- senso di un enunciato è l’uso del medesimo in relazione ai meccanismi mentali che causano e che sono causati dall’uso stesso. E’senso di una enunciazione l’idoneità della medesima a causare/ essere causato da meccanismi mentali. ↩︎

  41. La medesima osservazione è sottolineata nel manuale di Neri, che sostiene «Per gli emotivisti, inoltre, non esiste neppure — o almeno non ha il significato usuale che noi gli attribuiamo- l’esperienza comune e concreta del disaccordo morale: posto infatti che le persone esprimano sinceramente i propri sentimenti, tutto si riduce ad una differenza di gusto morale, non a un disaccordo reale» [D. Neri, Filosofia morale, Milano, Guerini Studio, 1999, 40]. Questa situazione è intuita anche dall’Ayer che alla fine del classico A. J. Ayer, Language, Truth and Logic, cit., 241-242 nel momento in cui considera l’obiezione mooriana tende ad avvicinarsi in maniera meno elaborata alle conclusioni stevensoniane. L’affermazione dell’inesistenza dei disaccordi etici è una tesi difficile da sostenere senza incorrere nelle accuse della vita concreta. ↩︎

  42. Cfr. C. S. Nino, Notas de introducciòn al derecho, cit., 323. Nino scrive: «Se ad esempio essere a favore o a sfavore della pena di morte fosse una mera questione di atteggiamento emotivo — come il sentirsi attratti o meno dai paesaggi di montagna, dalle persone con gli occhi verdi o dalle sinfonie di Brahms- le «argomentazioni» producibili a favore della nostra posizione stessero sullo stesso piano dei vari mezzi che possono essere impiegati per esercitare un’influenza causale sulla gente (fatta eccezione per le credenze che vi sarebbero frammischiate), molti di noi ne concluderebbero che discutere della moralità della pena di morte equivarrebbe né più né meno che a gridare «Forza Napoli!» allo stadio». Per Nino non vi sarebbe che un esito all’emotivismo ayeriano: il rifiuto della scienza etica↩︎

  43. Cfr. C. S. Nino, Notas de introducciòn al derecho, cit., ibidem↩︎

  44. Accostarsi all’emotivismo — a detta nostra- vuole dire rinunziare alla scientificità dell’etica a meno di attribuire ai termini «razionalità» e «scientificità» un senso nuovo, lontano dall’ambito della motivabilità (attribuzione di motivazioni). ↩︎

  45. L’affermazione stevensoniana che ha scatenato tanta reazione all’interno dell’analitica successiva è «… the purely intellectual methods of science, and, indeed, all methods or reasoning, may be insufficient to settle disputes about values…» [C. L. Stevenson, Ethics and Language, cit., 138]. A tale affermazione, sottendendo contenuti simili, ribattono due autori abbastanza distanti come G. J. Warnock [G. J. Warnock, Contemporary Moral Philosophy, 1967, trad. it. Filosofia morale contemporanea. Logica e semantica del discorso etico, Roma, Armando, 1974, 62] e S. E. Toulmin [S. E. Toulmin, An examination of the place of reason in ethics, 1950, trad. it. Ragione e etica, Roma, Ubaldini, 1970, 47-49]. Per entambi in maniera diversa fondamento dell’etica intesa come scienza sarebbe il vertere su motivazioni razionali (dialettiche) e non retoriche. Il rifiuto a riconoscere esistenza e validità della decisione razionale tra valutazioni discordanti condanna l’emotivismo etico ayeriano ad essere un’aberrazione etica. La tesi mooriana dell’esistenza concreta dei disaccordi etici si salda con la tendenza a mantenere l’ideale di razionalità dell’etica. ↩︎

  46. Frankena si avvicina tuttavia all’emotivismo moderato stevensoniano concludendo «Le emozioni ed i comandi, almeno in genere, hanno uno sfondo di credenze e sono giustificati o ingiustificati, razionali o irrazionali a seconda che lo siano le credenze stesse» [W. K. Frankena, Ethics, cit., 205]. ↩︎

  47. Per tale visione ayeriana si veda innanzitutto l’affermazione «… una grande quantità di affermazioni etiche contiene come elemento fattuale interno qualche descrizione dell’azione o della situazione per cui il termine etico in parola deve valere. Ma, sebbene si possa dare un certo numero di casi dove questo termine etico per sé va inteso in senso descrittivo, io non penso che sia sempre così. Penso sussistano molte affermazioni dove il termine etico è usato in modo puramente descrittivo, ed è per affermazioni di questo genere che intendo far valere la teoria emotiva dell’etica» [A. J. Ayer, Language, Truth and Logic, cit., 241]; e successivamente un brano dell’articolo On the analysis of moral judgments dove sembra che Ayer desideri suddividere le enunciazioni etiche in due classi, valutazioni di fatto (cosa in un determinato ambiente si consideri morale o immorale) e valutazioni di diritto (cosa in un determinato ambiente dovrebbe considerarsi morale o immorale) [A. J. Ayer, On the analysis of moral judgments, in idem, Philosophical Essays, London. MacMillan, 1954, 23]. Ayer cerca di mettere in crisi le critiche «semantiche» all’emotivismo etico radicale riconoscendo l’esistenza di varie forme di enunciazioni valutative, ciascuna subordinata ad una teoria meta-etica differente. ↩︎

  48. Cfr. G. Preti, Praxis ed empirismo, Torino, Einaudi, 1975 (ed. III), 206-207. Preti si riferisce innanzitutto alla teoria emotivista radicale ayeriana accusandola a] di ricondursi «ad una psicologia trogloditica», b] di sottendere che «mere interiezioni, o anche meri imperativi, non si organizzano in un discorso» e c] di considerare l’ambito delle emozioni come «il bidone delle spazzature in cui si butta alla rinfusa tutto ciò che non serve». ↩︎

  49. Cfr. G. Preti, Praxis ed empirismo, cit., 207. Preti conclude: «Diremo dunque che il discorso propagandistico e il discorso moralistico sono la stessa cosa? Alcuni pensatori, come lo Stevenson, alla cui interpretazione del discorso etico noi siamo molto vicini, propendono proprio per questa soluzione. Essa però […] sembra implicare: la distruzione di una ragione morale e l’identificazione simpliciter di questa con alcune delle cose più sporche della civiltà contemporanea, come le propagande commerciali e politiche». I riferimenti meta-etici di Preti sono autori come Hare e von Wright nella loro analisi della struttura semantica dei discorsi morali. ↩︎

  50. Cfr. D. Neri, Filosofia morale, cit., 40. ↩︎

  51. Cfr. N. Bobbio, Teoria Generale del diritto, cit., 121 ss. Per Bobbio la «caratteristica differenziale» della norma morale, sociale e del diritto è il riferimento ad un determinato modello di sanzione. La natura della sanzione caratterizza i modi di intendere le classi normative. Le caratteristiche della norma sociale sono esternalità (la sanzione deriva dall’altro sociale) e arbitrarietà (attribuzione ed esecuzione della norma sono subordinate all’incertezza). Le caratteristiche della norma morale sono individualità (la sanzione deriva dall’individuo medesimo) e arbitrarietà (scarsa efficacia in situazione di scarsa coscienza). La caratteristica differenziale della norma del diritto — secondo Bobbio- è l’avere una sanzione esterna e non arbitraria (ordinata istituzionalmente), vale a dire l’avere un’efficacia rinforzata. Il rinforzo sarebbe allora una caratteristica delle norme sociali e del diritto. ↩︎

  52. La formulazione sistematica di tale critica conclusiva è attribuibile al Warnock di Contemporary Moral Philosophy. La tesi di Warnock è riferita in toto all’interno dell’esame storico e meta-etico di Nino, dove si cita: «G. J. Warnock osserva inoltre che le teorie che spiegano il significato del linguaggio morale attraverso gli effetti del suo impiego non rendono conto del discorso morale che viene compiuto fra sé e sé. Spesso discutiamo mentalmente su quale sia la linea d’azione giusta, senza avere alcuna intenzione di dare libero corso alle nostre emozioni, né di produrle in qualcun altro» [C. S. Nino, Notas de introducciòn al derecho, cit., 323]. ↩︎