1. Introduzione
Questo lavoro1 presenta l’intento fondamentale di approfondire e interpretare uno degli orientamenti della filosofia che, attualmente, prospettano nuove ipotesi teoriche e pratiche: quello della «Pratica Filosofica» (Philosophical Counseling, Philosophische Praxis), in generale e in particolare, le prospettive della «Consulenza filosofica». La ricerca inizia, a mio avviso, scandagliando le cause di una crisi di senso iniziata un secolo, fa che ha colpito l’esistenza di ognuno, ciò è stato colto sin dall’inizio dalla filosofia. Ed è proprio a lei, infine, chiusa nelle aule accademiche, restata in disparte in un angolo per troppo tempo, che l’uomo si rivolge ogni volta chiedendo consiglio, dopo aver cercato invano intorno a sé. La filosofia ha compreso (da sempre), che la soluzione alla domanda sul senso dell’esistenza non è una risposta diretta (come nel caso in cui si definisce la sofferenza psichica come malattia, spegnendo nell’individuo il suo bisogno di domandarsi e domandare), ma è una ricerca nella relazione; «Filosofare è, per prima cosa, ascoltare. Il filosofo non è colui che dispone di una risposta per tutte le domande. È colui, piuttosto, che si incuriosisce delle risposte già date, sia di quelle predominanti che delle loro rivali […]».2
2. Un’esigenza fondamentale: la ricerca del Senso
La risposta alla crisi è stata il bisogno di una filosofia che, recuperando il senso pratico, quello proprio delle origini, è rinata in Germania come pratica filosofica. Le prime avvisaglie risalgono al 1980, quando è apparso, sulla rivista «The Humanist», un articolo scritto da Seymon Hersh e intitolato: The Counseling Philosopher. In questo articolo, il filosofo consulente è paragonato a un istruttore, un esperto del settore; anzi ad un reasoner, ragionatore, o meglio, ad un ragionatore creativo, terminologia mutuata dalla recente ricerca anglo-americana in materia di logica induttiva applicata.3 I suoi clienti non sono individui affetti da un qualche tipo di male o in cerca di cure per nevrosi ma investitori intelligenti che vogliono trarre maggiore profitto dal loro investimento nella vita. Ma la rinascita vera e propria di una filosofia o meglio, una Pratica filosofica che risorgendo recupera una tradizione, quella della Cura dell’anima, si ha in Germania:
Sono stato io a dare forma nel 1981 alla nozione di «Pratica Filosofica», istituendola per la prima volta nel mondo. Nel 1982 è stata fondata, sempre a Bergish-Gladbach, la «Società per la Pratica Filosofica», che nel frattempo è diventata la «Società Internazionale per la Pratica Filosofica». Oggigiorno il consiglio filosofico di vita, mediato dalla pratica di un filosofo, è diventato un’alternativa alle psicoterapie […]. In breve: si visita uno studio di consulenza filosofica per comprendere e per essere compresi. Non è quasi mai la domanda kantiana «Come devo vivere?» a spingere la gente; più spesso a farlo è la domanda di Montaigne «Che cosa sto davvero facendo? .4
A scrivere è Gerd Böttcher Achenbach che nel 1981, con la fondazione del suo istituto per la Pratica Filosofica, ha dato forma al concetto di «Pratica Filosofica», intendendo con questa, un esercizio professionale di consulenza filosofica sulla vita, che ha luogo nello «studio» del filosofo.5 Nella «Pratica Filosofica», secondo Achenbach, non viene richiesto di essere insegnanti di filosofia, bensì filosofi; inoltre, la «Pratica Filosofica»
è un libero dialogo […]. Essa non prescrive alcun filosofema […], non somministra alcuna conoscenza filosofica, piuttosto mette il pensiero in movimento: filosofeggia insieme con il consultante — che essa non assume come un «caso» tra schemi di problemi e di soluzioni già definiti, ma si rivolge a lui come individuo — e può cosi essere d’aiuto smuovendo e superando i suoi blocchi nell’orientamento: Ia Pratica Filosofica non sa, ma spesso sa come procedere.6
Schopenhauer ha scritto:
Guardando indietro, la maggior parte delle persone troverà di aver vissuto sempre ad interim, e rimarrà sorpresa nel vedere che ciò che lasciava scivolare via inconsciamente e senza controllo era per l’appunto la propria vita, ciò che si era sempre rimasti ad aspettare. Così, il corso usuale della vita di un uomo vuole che lui, gabbato dalla speranza, danzi tenendo la morte fra le braccia.
Di solito, vi sono certi motivi che spingono l’ospite (in quest’ambito non si vedrà mai scritta la parola paziente), della consulenza filosofica a cercare il dialogo con un filosofo pratico. Questi motivi normalmente consistono in delusioni, esperienze inaspettate, collisioni con altri esseri umani, brutti scherzi del destino, fallimenti, casi della vita cattivi o solo noiosi. Muovendo i primi passi nella consulenza, egli comincia a farsi un’idea di quello che Karl Popper, anche se solo in maniera imprecisa, ha indicato come il compito della Pratica Filosofica, prima che questa esistesse:
Tutti abbiamo, che ce ne accorgiamo oppure no, la nostra propria filosofia, ed essa è quasi priva di valore. I suoi effetti sul nostro agire e sulle nostre vite, tuttavia, sono molto spesso disastrosi. Pertanto, bisogna necessariamente tentare di migliorare la nostra filosofia attraverso la critica. Questa è la mia unica giustificazione per l’esistenza della filosofia in generale.7
Gerd. B. Achenbach, sintetizza così la pratica filosofica, come istituzione: «La figura in cui la filosofia si concretizza è il filosofo: e lui, il filosofo come istituzione della filosofia, in un caso solo, è la pratica filosofica». È la filosofia che si fa istituzione ma in modo diverso, inedito rispetto a come, storicamente, la vecchia «regina delle scienze» si è organizzata: scuole dell’antichità greco-romana, cultura monacale, università e, certo, la psicoanalisi. Di queste, il modello che più assomiglia al modo con cui il movimento si è sviluppato, è proprio l’ultimo: comune e peculiare ad ambedue gli ambiti è, infatti, l’interazione consulente paziente. Un rapporto fondato su uno scambio di saperi dietro compenso monetario: questo sapere è la filosofia; soprattutto la tradizione della filosofia occidentale, ovvero la nostra. «Non è un caso, che la pratica filosofica nasca, diventi istituzione, proprio a causa dell’insoddisfazione provata da Achenbach verso il modello universitario e quello psicoanalitico:8 egli si è adoperato, fin dall’inizio, per diffondere, sviluppare e difendere questo nuovo orientamento della filosofia».9 Nei suoi articoli e libri che cominciano a circolare in italiano (come del resto la grande maggioranza degli scritti sulla “Pratica Filosofica”, scritti in tedesco o in inglese), Achenbach espone, il proprio approccio tipico alla filosofia quale attività pratica, cercando però di non chiudersi, almeno inizialmente, in una definizione. La mancanza di sistematicità, come obiettivo fondamentale, può forse essere spiegata con il distacco che la Philosophische Praxis vorrebbe mantenere nei confronti dell’isolamento intellettuale in cui è caduta la filosofia accademica: non volendo essere una disciplina teorica, specialistica, astratta, la “Pratica Filosofica”, ha scelto la via della relazione piuttosto che quella della teorizzazione, il dialogo con i clienti, piuttosto che intrattenere rapporti teoretici tra ricercatori e specialisti.
Ho iniziato ad investigate quale fosse il problema che la filosofia ha con se stessa. — sottolinea Achenbach — Quello che ho pensato e che la filosofia avesse la possibilità di pensare senza doversi mettere alla prova con la realtà. Questo potrebbe essere sia un vantaggio, in quanto la rende libera nel pensare, sia uno svantaggio dal momento che potrebbe renderla vuota. Tale situazione della filosofia è unica: nessun’altra scienza, neanche di tipo umanistico, la possiede. Mentre le ipotesi scientifiche devono confrontarsi con la prassi, ed è proprio questo che rende possibile il progresso della scienza, le ipotesi filosofiche non devono obbedire a questo tipo di necessità. Il mio obiettivo è stato proprio quello di mettere alla prova la filosofia al fine di renderla idonea, eliminando lo svantaggio insito nella sua natura, allo svolgimento del suo scopo, che è sempre stato quello di aiutare, sostenere […]. Come ho detto, la filosofia manca di un rapporto con la pratica, ma la psicoterapia, pur avendo questa dimensione pratica, non può essere adatta allo scopo, in quanto incapace di creare e fondare la propria teoria. Questo solo la filosofia lo può fare e per questo la prassi filosofica potrebbe essere una risposta a questo tipo di difficoltà.10
Dalle parole di Achenbach si evince un altro aspetto: la critica, in generale, del concetto di psicoterapia e nel particolare verso l’aspetto pedagogico delle psicoterapie, nel senso negativo del termine; la libertà dell’individuo di poter essere è subordinata all’obiettivo pedagogico, cioè alla cura della patologia. È tuttavia evidente che la risposta del counselor tedesco, pur cogliendo una prospettiva importante della «Pratica Filosofica» e mostrando un punto debole della filosofia teorica, così come è condotta attualmente, rimane debole per quanto riguarda le basi della disciplina e la chiarezza di fondo, in particolare per quel che riguarda la metodologia o un sistema di regole ben definito, le modalità del dialogo di consulenza, i fondamenti epistemologici, le implicazioni etiche. Tuttavia nei suoi scritti — in particolare in quelli dei primi anni, raccolti in due volumi, Philosophische Praxis e Das Prinzip Heilung, è possibile cogliere intuizioni e prospettive variegate, polemiche e coinvolgenti prese di posizione, ma, coerentemente con i suoi presupposti, una non organica caratterizzazione della disciplina.
In Philosophie als Beruf, dissertazione del 1982, Achenbach, scrive che la Philosophische Praxis, al contrario della filosofia accademica, è orientata a riproporre il filosofo quale «partner di dialogo degli individui». Ne consegue che, attraverso questo tipo di approccio, la posizione del filosofo non può essere assimilata a quella di un terapeuta:
- Per le condizioni della psicologia e delle psicoterapie, le quali presentano aspetti di inadeguatezza nella misura in cui “offrono soluzioni universali per problemi individuali”; ma soprattutto della psicanalisi, accusata di aver esaurito il suo tono vivificante, di essere rimasto vittima della propria ricerca di linguaggi alternativi. Nasce da qui il grande ritorno, perché proprio di una riscoperta si tratta, alla filosofia come pratica di vita. Di colpo, ci si è svegliati e ci si è accorti che la filosofia per secoli è stata guida dell’azione, della quotidianità e che forse era giunto il tempo di riattualizzare quell’inestimabile tesoro.11
- Per la conseguente necessità di fornire nuovi spunti alle psicoterapie, attraverso la peculiare superiorità della filosofia sulle scienze teoriche: la capacità di restituire una dialettica critica alle formazioni di pensiero di discipline consolidate.
Da queste considerazioni emerge chiaramente che Achenbach, pensa la «Pratica Filosofica» come una disciplina intermedia tra la filosofia e le psicoterapie, criticandole entrambe. Già qui si evince la contrapposizione da un lato, alla filosofia accademica: la pratica filosofica non deve essere l’applicazione a casi concreti di una filosofia determinata, sistematicamente teorizzata e fondata, ma piuttosto il tentativo di «riflettere produttivamente su casi concreti», dall’altro alle psicoterapie. Dalla Praxis deve essere escluso, infatti, il tradizionale rapporto terapeutico delle psicoterapie, definito «una forma di comunicazione distorta», perché in essa “l’uomo deve trovare un luogo nel quale poter trattare i suoi problemi, senza venir trattato a sua volta”. È proprio in questa occasione che Achenbach presenta, per la prima volta, quello che diventerà il “motto” della Philosophische Praxis: la frase di Novalis “filosofare è deflemmatizzare — vivificare”, fornendo uno degli spunti metodologici più interessanti presenti nei suoi scritti e spiegandone, inoltre, il significato. Dopo aver criticato l’approccio psicoanalitico, definito “metodo del sospetto” (causa per cui oggi la psicoanalisi vive, o ha vissuto, la sua più grande crisi metodologico-pratica), egli propone un abbozzo di quello che lui chiama metodologia dialettico-fenomenologica hegeliana:
nella Philosophische Praxis si tratta anzitutto e decisamente, di prendere ciò che viene esposto come «la cosa stessa», atteggiamento che si dimostra di solito utile: la «cosa stessa» si mostra contraddittoria e inizia a muoversi e a svilupparsi — diviene «dialettica». Ma ciò solo nella misura in cui si rinuncia ad interrogare il narratore o ad aggredirlo con domande come: cosa vuol dire con questo? A che scopo lo dice? Perché lo dice? Nella misura in cui, dunque, non si vuole scoprirlo, ma ci si interessa a ciò che esso ci dice.12
Quale argomentazione vuole proporre Achenbach? Che cosa intende dire ai filosofi? Cosa vuole proporre, forse un metodo ermeneutico? Di quale sensibilità ha bisogno il filosofo, empatia relazionale? Sicuramente di umiltà e rispetto per la vita di quell’Uomo che gli sta di fronte. Senza dubbio, è questo un orientamento che non sembra dare per scontata la conoscenza delle persone che hanno tracciato, con la loro vita e le loro opere, il percorso della filosofia e soprattutto delle principali correnti filosofiche del XX secolo, le quali hanno fornito spunti critici autorevoli, alla nascita della “Pratica Filosofica”. Ciò è ancor più chiaro in un suo articolo del 1983 dal titolo Die Eröffnung, dove si leggono le motivazioni, che portano alla scelta della Praxis, i visitatori:
tutti coloro che sono finora giunti al nostro istituto avevano, senza eccezioni, problemi con loro stessi o con gli altri, ma non con la filosofia. Solo qualcuno aveva avuto un interesse diretto per le questioni filosofiche. Ciò che tutti si aspettavano era comprensione filosofica, non comprensione per la filosofia. E ciò significa: nella Philosophische Praxis siamo ricercati non come insegnanti di filosofia, ma come filosofi.13
Il loro stato d’animo, poi, era sostanzialmente univoco: «di regola vengono uomini che soffrono di un sintomo».14 Ciò accade perché il «sintomo è l’estraneo in me e si offre come ciò che può essere comunicato agli estranei. È contemporaneamente il problema latente, che, vissuto come impotenza, ha proprio per questo la forza di porre gli altri in suo potere: trova così ciò di cui ha urgentemente bisogno — considerazione, rispetto, partecipazione».15
Altrettanto valga per la malattia:
Nel sintomo si esprime ciò che è stato escluso, non realizzato, rimosso, trascurato. Ma ciò può esser discusso solo in un dialogo nel quale non abbia parte la rimozione universale, il potere della censura dominante, l’incomprensibile congiura contro ciò che si ritiene ‘impossibile’, ‘impensabile’, ‘superato’o ‘umiliato’dalla storia, la repressione di ciò che è privato di diritti. Può esser discusso cioè in un dialogo filosofico, nel quale vi sia la libertà di non lasciarsi abbagliare da ciò che é ratificato, valido, decretato, certo […]. Nella Philosophische Praxis la filosofia ed il soggetto, come luogo della contraddizione, si uniscono contro l’oblio di quest’ultimo;16
che è proprio quanto diviene possibile grazie alla Philosophische Praxis. La Philosophische Praxis non è una terapia,17 deve diventare Praxis, «azione comunicativa, esplorazione ed organizzazione dialogica dei problemi, critica della «comunicazione distorta» e di ogni «trattamento»».18
Ancora una volta, si è di fronte ad una definizione «in negativo» della materia, che Achenbach cerca poi di tradurre «in positivo»:
L’uomo è un essere complesso e per vivere, volente o nolente, deve prendere posizione sulla propria vita. Per questa ragione egli produce pensieri. Ma non è tutto: l’uomo è anche in grado di riflettere sui propri pensieri e spesso fa uso di tale capacità. Che egli sia capace di riflessione sui suoi propri pensieri significa che l’uomo è un essere costituzionalmente filosofante.19
Achenbach è inoltre convinto dalla sua esperienza, cioè che gli uomini non abbiano prioritariamente bisogno di stabilità e sicurezza ma che, al contrario, «sentono la mancanza di esperienze di pensiero e brillanti intuizioni spirituali, che destino la loro interiorità».20 Tutto ciò, naturalmente, non può prescindere da un’esigenza di rinnovamento della filosofia interna all’ambito della filosofia stessa, dovuta anche, ad un’insoddisfazione per la psicoterapia analoga a quella mostrata per la filosofia accademica. Esse sarebbero, infatti, inadeguate ad affrontare le difficoltà che si incontrano nel vivere quotidiano, perchè offrono «a problemi individuali soluzioni generali».21 Sono spesso (come nel caso della psicoanalisi), basate sul «metodo del sospetto» e il loro potere nelle moderne società è diventato così pervasivo, che le normali difficoltà che gli uomini incontrano nella vita sono state interamente trasformate in «patologie». L’individuo non riceve dagli psicoterapeuti «ciò di cui ha più urgentemente bisogno: riguardo, ritegno, assenza di giudizio e partecipazione»,22 perchè sintomo e malattia sono usati strumentalmente e routinariamente, sulla base di una precomprensione scientista e positivista di cosa è «normale» e «sano», con la conseguenza che l’individuo concreto è pre-giudicato, formato, «trattato» e «curato», senza rispetto per la sua peculiare unicità. È importante inoltre sottolineare, come quelle sopra citate non siano solo polemiche astratte, dato che Achenbach si confronta almeno in certa misura, con l’identità delle psicoterapie.
L’utilizzo strumentale della conoscenza psicologica, l’impiego di tecniche, la finalizzazione, il riferimento a teorie e a comportamenti normali o patologici, la caratterizzazione di elementi come la standardizzazione del tirocinio, non fanno altro che confermare le perplessità sulla reale capacità delle psicoterapie di confrontarsi con l’individuo, di averne cura in senso esistenziale, anziché medico. Perplessità, queste, che si acuiscono se si va ad analizzare la necessità, oggi tanto diffusa, di «autorealizzazione» e «ricerca di sé», che viene spesso guardata con sospetto dalle psicoterapie, in quanto minaccia ogni ordine costituito e ogni tutela, alla quale si cerca in genere di dare risposta incanalandola entro schermi, almeno in parte, preordinati. In questo modo, sostiene Achenbach, anche l’autorealizzazione viene ridotta a patologia, secondo uno schema che definisce «sano» l’uomo che «non ha problemi, o ha solo quelli che è in grado di sciogliere» e «paziente» chi abbia problemi che non riesce a sciogliere: «In tal modo, è già fissato anche il fine della terapia: ciò che serve è un ‘processo di maturazione’, perché solo esso, sorvegliato e adeguatamente assistito dal terapeuta, può aiutare l’uomo infelice a giungere più vicino a sé stesso nel proprio attivo sentire, vivere, patire e fare». Cosi, continua Achenbach, anche «l’autorealizzazione è diventata un programma» del più generale quadro di «psichiatrizzazione della società», nel quale «la terapia è l’ultima forma oggi attiva di ideologia del dominio».23
Quindi, la Philosophische Praxis, diversamente dalla modalità operativa di tutte le teorie che pretendono di possedere verità e giustizia, deve prevalentemente mantenere una totale «tolleranza» e«apertura» nei confronti del cliente. Inoltre, molto importante, essa «"non dispone di nessuna teoria da applicare»:24 […] la consulenza esistenziale filosofica si trova in forte contrasto con quella forma di positivismo teorico che per il resto domina ovunque il panorama della consulenza e della terapia».25
Detto ciò, cosa succede durante un incontro, tra cliente e consulente? Così ci viene descritto:
La conseguenza è che ambedue si vedono privati di ogni sicurezza […], la consulenza filosofica è per entrambi uno sbalordimento […], che solleva decisamente la questione, se ciò possa venir offerto come consulenza ed aiuto esistenziale;26 […] entrando in questo spazio incerto e sicuramente libero, abbiamo adesso, potenzialmente a disposizione la totalità di quanto la storia della filosofia ci ha tramandato.27
La consulenza filosofica esistenziale è filosofica nella misura in cui, sebbene ne sia in grado, non «impartisce» consigli, ma problematizza il bisogno di cercare consiglio. In tal modo […] essa non si pone al servizio del desiderio che causa la visita del consulente filosofico, ma si confronta con esso in modo trasversale, nonostante le sia contemporaneamente debitrice del proprio status di professione.28
In questa ottica la Philosophische Praxis è «attività critica» e, come tale, non ha per fine il raggiungimento di una verità, l’omogeneità delle forze vitali o una relazione non conflittuale tra l’uomo e la realtà interna esterna ma costituisce un aiuto, che Achenbach non definisce a priori, una «cura»: «solo una coscienza ottusa sa cos’è l’aiuto, solo la stupidità militante sa, quando l’uomo è aiutato. Ma la filosofia mette in questione ciò che gli altri fanno passare per ovvio».29 La volontà di non dare una definizione certa di cosa sia la «Pratica Filosofica» e di non individuare una metodologia precisa è, come accennato, una costante in Achenbach che, fino alla sua presunta svolta nel 1997, lo ha contraddistinto anche in tempi recenti (ribadendolo ancora chiaramente nel 1995, durante un intervento al congresso internazionale di Hannover). Teoria, quindi, che nasce e muore, rigenerandosi sempre, ma all’interno della relazione con gli altri.
Presumo che ciò sia stata una scelta ponderata attentamente da Achenbach, per non cadere anche lui e ancora una volta, nella pura teoria e lasciare che attraverso la pratica emergesse una definizione non definitiva. Lo stesso discorso vale per l’aspetto metodologico, legato per Achenbach, al rapporto originale e unico che si viene a instaurare tra consulente e cliente. Riguardo al metodo ha indicato nel tempo, riassumendole (prima della «svolta, però), quattro regole fondamentali che fungerebbero da guida nelle applicazioni della «Pratica Filosofica»:
- il filosofo dovrebbe adattarsi alla particolare persona che gli si presenta, mai trattare clienti diversi in modi analoghi;
- il filosofo dovrebbe cercare di comprendere il consultante e aiutarlo ad amare la conoscenza;
- il filosofo dovrebbe inoltre evitare ogni intenzione ed obiettivo predeterminato e non cercare mai di cambiare il suo consultante;
- Il filosofo dovrebbe aiutarlo, ampliando le sue prospettive e il quadro della sua storia, coltivandolo con ogni mezzo gli sembri appropriato.30
In quell’occasione, Achenbach ha anche descritto metaforicamente ciò che può accadere nella situazione che si crea all’interno della relazione di consulenza e la paradossale mancanza di uno «strumento» d’elezione per condurla:
il filosofo appare come un istruttore di navigazione; egli sale su una barca che ha perso velocità o direzione e si affianca al capitano; guarda le carte, controlla gli strumenti, parla con lui delle correnti, dei venti, e via dicendo. Nel far questo, egli fornisce un aiuto al capitano, ma non prende il suo posto alla guida della nave per renderglielo, quando tutto è tornato a posto.31
In questa metafora si nasconde il metodo, sostiene Achenbach, ma non è possibile definirlo chiaramente, indicare quali delle attività che costituiscono la pratica di consulenza, sono decisive o determinanti e codificare questo tipo di «metodo» nella sua interezza.
Nella consulenza filosofica mi interessa innanzitutto e decisamente prendere ciò che viene esposto come ‘la cosa stessa’e questo si dimostra di norma un atteggiamento fruttuoso: presa cosi, la ‘cosa stessa’si mostra contraddittoria e comincia a muoversi e a svilupparsi ulteriormente. La ‘cosa’diviene ‘dialettica’. Ma questo solamente nel momento in cui rinuncio a interrogare colui che racconta o a incalzarlo con domande del tipo: cosa vuole dire con questo? A che scopo lo dice? Perchè? fin tanto cioè che non voglio ‘scoprirlo’, andando oltre quello che dice, ma interessarmi a ciò che dice.32
In Philosophische Lebensberatung, Achenbach si chiede:
non c’è da temere che la filosofia degeneri e si adegui alla banalità del mondo, diventando una professione? […] Cosa sacrifichiamo noi filosofi, facendoci pagare? La filosofia può diventare una professione borghese, senza danno per sé stessa?33
dandosi lui stesso la risposta:
invece di servire senza riserve i bisogni con i quali viene in contatto, così come le sono sottoposti, la filosofia è giustappunto la loro approfondita critica […], è la coltivazione delle necessità, non la loro copertura […], è la cultura della domanda, non delle soluzioni e delle risposte che vengono richieste. […] la ragione filosofica si è mostrata decisamente abile a scoprire deformazioni nascoste, […] ma essa non lo fa con facilità, anzi va incontro alle inevitabili difficoltà. Invece di individuare forme di alleggerimento per problemi, preoccupazioni, questioni, dubbi, confusioni, essa procura il combustibile per infiammarli. Tira fuori ciò che non vogliamo vedere, mette in mezzo alla strada come una barricata tutto ciò che minaccia di spingerci fuori dei binari.34
Per quanto riguarda quest’ultimo interrogativo sollevato, non a caso, dal filosofo tedesco (se la filosofia può essere una professione), viene messo in luce una problematica, non irrilevante, a cui Achenbach risponde ancora, con la critica alla filosofia accademica e l’esigenza per la filosofia di
luoghi ove i filosofi possano vivere senza l’obbligo di doversi dividere in due, una mente filosoficamente interessante da un lato e un rimanente senza importanza dall’altro […], ove possano conoscere, meditare, riflettere, litigare, dubitare, domandare, ricercare, inventare, sperimentare, amare e imparare a disprezzare il disprezzo e la sottovalutazione di tutto ciò. La filosofia dell’Università dovrebbe, in altre parole, svilupparsi da istituzione del pensiero a istituzione del pensatore: poiché la forma concreta della filosofia è il filosofo […]. In breve: la filosofia diviene pratica nel filosofo come essere pensante dialogicamente, in comune con altri.35
Procedendo, è interessante mettere in luce gli ultimi sviluppi del lavoro del maestro tedesco. In Vom Richtigen im Falschen. Wege philosophischer Lebenskönnerschaft,36 un testo uscito qualche anno fa, Achenbach prosegue il lavoro «nella» Lebenskönnerschaft. Questo cammino, iniziato nel 2001, tratta, infatti, di veri e propri «sentieri» intagliati all’interno di questo orizzonte concettuale inventato da Achenbach, mentre il termine Lebenskönnerschaft significa qualcosa come «padronanza della vita». Protagonista e destinatario del testo è lo Jedermann: «poiché una cosa è sicura, che un singolo, forse è tutti gli uomini, per quanto siano differenti l’uno dall’altro e in maniera cosi forte e incontrovertibile». Così, come all’inizio degli anni Ottanta diede vita al neologismo Philosophische Praxis, tutto giocato sulla ambivalenza tra prassi e studio medico, al passaggio del terzo millennio Achenbach conia un altro termine «non occupato». Come la definizione di Philosophische Praxis veniva coniata in negativo o per contrasto, rispetto alla psicoterapia in generale e alla psicoanalisi in particolare, nello stesso modo, la nozione di Lebenskönnerschaft si definisce nel confronto con la nozione di Lebenskunst, letteralmente «arte di vivere».37 In una conferenza svoltasi ad Oslo nel 2000, Achenbach elenca nove elementi che segnano la distanza tra «l’esperto in Lebenskönnerschaft» e «l’esperto in Lebenskunst»38. Il Lebenskönner «rafforza» il proprio visitatore e si fa esempio in quanto individuo virtuoso. La Lebenskönnerchaft è più che un prendersi cura prudente e saggio di sé: è conoscenza del mondo di cui si dà prova in maniera pratica. E non si è Lebenskönner se non si è capaci di comprendere le condizioni entro le quali la propria vita deve essere «provata» in termini pratici. Quest’ultimo trova la misura per sé in coloro che sono stati esempi, il cui destino è stato la disobbedienza, come nel caso di Socrate. La filosofia, ci ricorda Achenbach, rappresenta il coraggio di pensare in maniera diversa, che non significa arbitrariamente. Ciò che riesce a raggiungere il cuore dell’essere umano sono figure e storie, e solo questo elemento rappresentativo, rende comprensibile ciò che significa saggezza; e ciò in modo tale da non lasciare le persone prive d’emozioni. Per citare Hans Kudzus, un autore molto caro ad Achenbach, «se non possiamo convincere la mente non possiamo convincere il cuore». La Lebenskonnerschaf quindi, è una condizione più che una scienza e può essere raggiunta tramite la Philosophische Praxis, e la seconda è il mezzo per raggiungere lo scopo rappresentato dalla prima.
È interessante osservare, infine, facendo cronologicamente un passo indietro, l’elaborazione del lavoro di ricerca condotto da Achenbach nel discorso di laurea, sulla relazione tra Philosophische Praxis e psicoterapie, e che lo stesso ripresenta nell’articolo del 1982: Selbsverwirklichung. Therapeutische Ambition und philosophischer Begriff. La riflessione filosofica è incentrata sul processo di autorealizzazione del soggetto individuale che viene tematizzata da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito. In questo lavoro, Achenbach indaga la tendenza a «patologizzare», quella che invece è la necessità moderna di strutturazione di una domanda soggettiva e di «ricerca di sé».38 In questo modo una soggettività nascente viene ridotta a «patologia» da etichettare e curare:
- chi ha un vistoso bisogno di realizzarsi o non riesce ad abbandonare il desiderio di trovare se stesso, ha un evidente «problema», alla cui base vi è un «disturbo». L’uomo sano, cioè, non ha problemi, o ha solo quelli che è in grado di «sciogliere»;
- chi ha problemi, di fatto è un «paziente» (la parola si può sostituire con «cliente»), o comunque un caso problematico maturo per una diagnosi;
- in tal modo, è già fissato anche il fine della terapia: ciò che serve è un «processo di maturazione», perché solo esso, sorvegliato e adeguatamente assistito dal terapeuta, può aiutare l’uomo infelice «a giungere più vicino a se stesso nel proprio attivo sentire, vivere, patire e fare».39
Attraverso il processo descritto da Hegel e ripreso da Achenbach, si presuppone che l’individuo riesca a strutturare “i propri limiti” individuali, trascendendo l’io ed il sé. In questo modo, sottolinea Achenbach, “l’autorealizzazione è diventata un programma” del più generale modello di “psichiatrizzazione della società”, nel quale “la terapia è l’ultima forma oggi attiva di ideologia del dominio […]”. Di contro, al «vecchio pensiero» che considerava l’uomo come un problema e lo misurava con il metro di un mondo al quale doveva rifarsi, corrisponde «quel pensiero che sorge con l’idea dell’autorealizzazione e penetra come contraddizione ed obiezione, come delusione e protesta, vede il mondo dell’uomo come problema e cioè: valuta il mondo in funzione di quanto permette all’uomo di venire a sé e di essere sé stesso».40 Questa parte, al di là della tendenza a «patologizzare» che caratterizza le psicoterapie e da cui, le pratiche filosofiche prendono le distanze (questa è una, dell’importanti differenze e che caratterizza essenzialmente queste ultime), assume un’importanza cruciale per il mio lavoro per l’importanza che ne ho data, naturalmente supportata, alla relazione Io-Tu e al riconoscimento di un Tu da parte di un Io.
Recentemente, Achenbach parlando del ruolo della «Saggezza» nella Philosophische Praxis e definendola, nella relazione del congresso di New York del 1997, come un suo «concetto chiave»: «La Philosophische Praxis è impegno verso la saggezza pratica». A proposito, Achenbach (si noti che siamo già all’epoca della sua cosiddetta «svolta», che lo ha portato a parlare dell’urgenza di una determinazione «positiva» della disciplina), arriva ad aggiungere:
ciò la qualifica come istituzione filosofica, determina i suoi orientamenti, chiarisce quali sono le sue intenzioni, fonda i suoi particolari modi di procedere, rende comprensibili le sue posizioni scettiche nei confronti delle pretese conoscitive teoretiche, illustra i suoi misurati rapporti con i problemi che le vengono sottoposti, prende posizione sulla riflessiva autocomprensione del praticante filosofico e sulla relazione tra lui e il visitatore della Philosophische Praxis.41
Dietro tutto ciò si può probabilmente rinvenire la più antica intuizione filosofica, precisamente, la massima socratica secondo la quale, «solo una vita posta sotto esame merita di essere vissuta». Questa massima svela, forse, la paura che una vita banalmente vissuta possa, in maniera enfatica, «non essere veramente vissuta», essere «sprecata» e in qualche modo «mancata», dispersa.
3. La Filosofia come ricerca di Senso
Oggigiorno è piuttosto diffuso parlare di pratiche filosofiche, al plurale, per indicare tutta una serie di attività rivolte a «fare filosofia» in ambiti, diciamo così, «non convenzionali». Pur non trascurandone nessuna per importanza e spessore, la consulenza filosofica tuttavia, resta per molti, l’attività più interessante e socialmente più rilevante. Ciò che accomuna le diverse applicazioni della “Pratica Filosofica”, tenendo conto delle differenze sostanziali che possono intercorrere (la relazione d’aiuto «vis-a-vis» piuttosto che il dialogo socratico di gruppo), sono gli aspetti culturali e relazionali della filosofia, in quanto portatrice di un vero e proprio modo di stare nel mondo. La riflessione filosofica ha uno scopo molto elevato e al tempo stesso umano: dare senso alla vita, alimentando una ricerca che accomuna prospettive diverse e lasciando spazio a una soggettività di esprimersi; vivere come percorso di conoscenza, invenzione e scoperta. Per attuare questo progetto, la filosofia propone un grosso lavoro culturale e di «cura» intellettuale dell’umanità. Ciò non significa limitarsi a coltivare il sapere razionale, ma accrescere la sensibilità individuale e il mondo dei sentimenti. Le pratiche filosofiche riconosciute e in continuo sviluppo verranno illustrate di seguito per fornire un quadro generale e orientativo.
3.1. La Filosofia per bambini o Philosophy for Children (P4C)
Nata negli anni ’70, dalle riflessioni del filosofo americano Matthew Lipman che, all’epoca docente di logica alla Columbia University, constatando l’evidente difficoltà degli studenti ad affrontare e comprendere la sua materia, si pone il problema di come favorire precocemente nei giovani lo sviluppo di capacità logiche e l’uso riflessivo del pensiero.42 Numerosi racconti costituiscono il curricolo della disciplina e affiancati da altrettanti «manuali» per gli insegnanti, sono stati di volta in volta riadattati alle diverse realtà culturali delle nazioni ove sono stati adottati.43
3.2. Il Counselling aziendale
Su un piano decisamente diverso si pone invece una delle pratiche filosofiche in maggiore sviluppo negli ultimi anni in tutto il mondo: la cosiddetta Philosophy of Management o la Philosophy for Management, ovvero le pratiche filosofiche al servizio delle imprese, che impiegano la procedura filosofica proprio perché strutturata secondo regole. È un’attività rivolta al mondo delle organizzazioni, come aziende, enti o soggetti collettivi in genere; c’è anche, chi la ritiene solo una variante specializzata della consulenza filosofica tout-court. La filosofia entrando in gioco attraverso seminari e conferenze, gruppi di lavoro, colloqui personali, diviene strumento per attribuire senso e valore al singolo, per aiutare il lavoratore a gestire in modo più equilibrato i propri rapporti professionali, all’organizzazione d’appartenenza, al mondo esterno e alle loro rispettive relazioni, rendendo esplicite le prospettive già in uso nella particolare situazione in esame o contribuendo a crearne di nuove. Il compito del filosofo, è quello di stimolare la comunicazione all’interno della cultura aziendale con il fine di trovare soluzioni, aumentare la soddisfazione dei dipendenti, nonché la trasparenza interna.44
3.3. Dialogo socratico o Socratic dialogue
Il Dialogo Socratico è nato dalla rielaborazione delle proposte avanzate dal filosofo tedesco Leonard Nelson, neokantiano, vissuto a cavallo tra l’800 e il’900. L’idea di Nelson era quella di individuare un «metodo socratico positivo», ovvero basato sulla logica di Socrate, ma orientato a produrre «risposte concrete» alle questioni affrontate, diversamente da quanto perlopiù accade nei dialoghi platonici, nei quali le risposte sono sovente critiche o interlocutorie. Ripresa e sviluppata dal suo discepolo Gusta Heckmann, oggi questa disciplina è coltivata particolarmente in Germania, Olanda e Gran Bretagna,45 nell’ambito delle organizzazioni (aziende, ospedali, carceri, centri sociali), dove a partire da episodi personali, oppure da questioni o argomenti comunque connessi con la propria esistenza concreta, si dialoga e la sessione della comunità di pratica, cosi si chiama questa «riunione» di dialoganti, va avanti per ore, finché non si giunga a una conclusione che non deve essere per forza definitiva, anzi, può essere semplicemente un accordo, magari un terreno comune, su cui tornare a confrontarsi. L’importante è che l’accordo sia davvero condiviso.
3.4. I Caffè filosofici e Marc Sautet
La stessa meraviglia, comunità, lealtà e gioco, che contraddistingue la Philosophy for Children, è quanto da vita a un’altra delle pratiche filosofiche sviluppatesi negli ultimi anni: i cosiddetti «caffè filosofici». Quando si pensa a «incontri filosofici», viene spesso alla mente qualcosa di assai «serioso» e «ufficiale»: riunioni di persone di elevata cultura che, sedute in religioso silenzio, ascoltano uno o più autorevoli personaggi discutere su temi dei quali sono profondi esperti. A concludere poi, i più competenti tra gli ascoltatori pongono domande, alle quali i relatori danno risposta, precisando meglio il loro pensiero. Questi appuntamenti hanno grande dignità, svolgono un importante ruolo nella diffusione della cultura e spesso possono essere assai interessanti anche per i «non esperti». Hanno tuttavia i loro limiti: per esempio, l’interazione è piuttosto modesta e, soprattutto, la loro utilità per i non specialisti è perlopiù limitata all’«edificazione culturale».46 I caffé filosofici o Café Philo, sono dibattiti filosofici collettivi, sui più diversi argomenti, da questioni d’attualità fino ai «grandi temi» della filosofia, che hanno luogo nei caffé o nelle librerie, nei bar o nei pub. I dibattiti sono aperti alla partecipazione di chiunque sia interessato, senza alcuna limitazione di cultura, formazione, orientamenti personali. Ciò che differenzia questo tipo di «incontri» dalle più tradizionali «conferenze» è il fatto che il filosofo non è il protagonista: di solito non decide il tema (che è scelto solo all’inizio dell’appuntamento, attraverso una decisione collegiale) e neppure lo introduce preliminarmente alla discussione, lasciando che siano gli altri a parlare per primi. Al contrario per l’esperienza che personalmente ho fatto, oltre a quella parigina nel «famoso» Café des Phares, dove grazie a Sautet tutto è cominciato, che rispecchia quanto detto prima, organizzato sulla falsa riga di un altro a cui ho partecipato a Piazza Pietra organizzato dalla sezione romana dell’Associazione italiana consulenza filosofi Philo, con sede a Firenze, in cui dopo una breve introduzione sull’argomento da parte del filosofo moderatore è lo stesso che introduce l’argomento su cui ha già deciso di dialogare e che preventivamente ha fatto conoscere, insieme all’invito tramite e-mail. In ogni caso, il filosofo ha la funzione di «esperto» non già dell’argomento, ma delle modalità e dell’atteggiamento con i quali viene affrontato. Fungendo essenzialmente da moderatore, semplificando la dove è necessario, si pone in gioco «senza rete», accompagnando la discussione (sempre molto animata), nella direzione di un progressivo approfondimento, attraverso il confronto e la problematizzazione dei contributi di volta in volta liberamente avanzati da tutti partecipanti, così che nel cammino il confronto può diventare un dialogo «filosofico».47 Per questo si può dire che in questo genere di incontri pubblici non «si parla» di filosofia, bensì «si fa» filosofia;48 chissà, se con il trascorrere del tempo, non divenga (o forse gia lo è diventata), all’interno dei percorsi didattici, una strategia d’insegnamento della filosofia nei luoghi dove si preferisce educare un individuo piuttosto che insegnare. La “Pratica Filosofica” dei café-philo si inserisce, quindi, nell’ambito del dialogo di gruppo, non con fini terapeutici, ma con la volontà di intraprendere discussioni su questioni che possono toccare in maniera personale ciascun partecipante, anche e soprattutto attraverso riferimenti personali, tentando così di giungere ad una soluzione mai definitiva, o perlomeno a un filo logico almeno in parte condiviso da tutti i partecipanti. Tutto questo avviene, naturalmente, in uno spazio comunicazionale garantito da norme di funzionamento «democratico», dove diversi punti di vista possono confrontarsi in modo pluralistico e rispettoso. Il “caffé filosofico” contribuisce così a tessere legami sociali, a generare un luogo nella città per favorire le condizioni di un’interazione pacifica, un luogo aperto all’ascolto, oltre che al dialogo, favorito anche dalla mediazione di una parola controllata, la quale permette uno scambio tra le persone. Attraverso un proposito filosofico, può istituirsi un gruppo come “comunità di ricerca” (Lipman): la “Pratica Filosofica” della problematizzazione, della concettualizzazione e dell’argomentare universalizzante, raffina la qualità del dibattito democratico, mantenendosi sempre vigile nel tenersi conforme alla duplice esigenza della chiarezza intellettuale, come dell’“etica comunicazionale” (rispettare e ascoltare l’altro, cercare di comprendere la sua parte di verità, avere bisogno delle sue proposte e obiezioni, per cogliere il suo pensiero). I possibili rischi che il dibattito perda le sue finalità, degenerando in una semplice e sterile anarchia, consistono forse nell’esasperata ricerca di una verità oggettiva consensuale, e l’eccessiva forzatura del dibattito verso posizioni convenzionali.
È necessario avere fiducia nella propria capacità di analisi e nel proprio patrimonio di conoscenze, ma poi ci si ritrova nella condizione più consona al filosofo: quella di colui che risponde ad un’interrogazione, invece che in quella, propria dell’insegnante, di chi parla di cose che conosce e sulle quali si è preparato in anticipo.49
A scrivere è Marc Sautet, professore di filosofia al Liceo e poi all’Università, che in Francia oltre ad esserne l’iniziatore, ha dato un impulso particolarmente favorevole allo sviluppo dei café-philo. Moderatore dei dibattiti in un caffé parigino dal 1992 al 1998 (anno della sua prematura scomparsa), egli si è occupato della creazione di un gruppo filosofico incentrato sulla libera discussione (i primi incontri incentrati sul libero dibattito sono svolti da Sautet al Café des Phares, nel trafficato centro di Parigi, vicino a Place de la Bastille), oltre che della gestione di uno studio di consulenza, nel quale svolgere sedute di “dialogo socratico” con i suoi clienti, aperto a tutti, per intrattenere relazioni proficue grazie all’applicazione della filosofia. Interessante, sotto molti aspetti, è pure il testo che Sautet, ha elaborato, grazie a queste prime esperienze di “filosofia pratica”, tradotto in italiano con il titolo Socrate al Caffé, per comprendere meglio l’impronta particolarmente originale che Sautet propone, quale approccio personale alla “Pratica Filosofica”. Sautet, ad esempio, cita la Politica di Aristotele, per descrivere la condizione nella quale si trova colui che non possiede una propria filosofia (una propria dialettica interiore o facoltà critica), intendendo per “filosofia” qualcosa di più di una “forma mentis”, o di un certo “gusto” o di un’opinione, ma la capacità di trasformare, la propria visione del mondo, attraverso un’autocritica o una critica relazionale. E’ possibile inoltre dedurre, attraverso la sua personale visione, che i problemi attuali e propri della storia dell’uomo siano da attribuire alla mancanza dello spirito critico che contraddistingue invece i filosofi da lui citati. I filosofi, sottolinea Sautet, hanno fornito elementi per elaborare e superare certe questioni, non soli come espedienti per la sopravvivenza quotidiana dell’individuo (pensiamo all’uso pratico della filosofia attuato da Marinoff), ma come un grande progetto, non mai abbastanza ascoltato, per modificare le sorti dell’umanità: si pensi al pericolo “democrazia” (come società dominata dalle pulsioni della massa, di uomini senza coscienza), definito da Sofocle e Platone, il pericolo della “sovrapproduzione” previsto da Marx, la crisi del sistema capitalistico, intuita da Ricardo, quello della spersonalizzazione dell’uomo, visto da Nietzsche. Bisogna rendere merito a Sautet di avere, nel panorama della “consulenza filosofica”, restituito, almeno in parte alla filosofia, la sua universalità. Ancor più interessante, ai fini della “Pratica Filosofica” vera e propria, è la prima parte di Socrate al Caffé, nella quale Sautet raccoglie, alcuni esempi di consulenza individuale e di gruppo tratti dalla sua esperienza personale e dove però (a differenza di quanto scrive Marinoff, consulente filosofico americano, nel suo libro Plato not prozac), il counselor francese bilancia in modo più problematico le situazioni di confronto relazionale, individuando, anche se in modo non sempre chiaro, alcuni dei limiti e delle possibili innovazioni della “consulenza filosofica”. Secondo il filosofo e in questo trova molte conferme: «Filosofare è, per prima cosa, ascoltare. Il filosofo non è colui che dispone di una risposta per tutte le domande. È colui, piuttosto, che si incuriosisce delle risposte già date, sia di quelle predominanti che delle loro rivali […]». In ogni pagina di Socrate al caffè si coglie poi, forse non a caso, l’ironia propria di Socrate:
Ebbene, diciamolo! La vocazione del filosofo non è di tacere. Non è ripiegandosi su se stesso che sostiene il suo ruolo, ma andando per la strada, in città, mescolandosi alla vita della gente, passeggiando nella piazza del mercato, tra la folla di venditori e imbonitori. Interrogando gli uni e gli altri. Discutendo. Non perchè sa, perché dispone di un sapere superiore, ma perché invidia coloro che sanno o pretendono di sapere. Vuole sapere, ma non vuole essere ingannato. E, se ha una cosa da insegnare, è questa. Ha bisogno di applicazione, di metodo, attenzione, concentrazione, calma, ma anche del contrario: il confronto con la realtà, il rapporto con la gente, la sfida a coloro che abusano degli altri. La meditazione e la lotta. II silenzio e il brusio. La solitudine e l’agorà.
Dopo aver abilmente superato le critiche più comuni rivolte alla «consulenza filosofica», il counselor parigino pone la «Pratica Filosofica» sullo stesso piano dell’insegnamento filosofico accademico e scolastico: «[…] sembra che un professore universitario si trovi su un piano etico meno delicato… ma, che voglia o no, vende l’insegnamento come servizio dello Stato… non si può sostenere che sia moralmente più giusto insegnare all’università che concedere consultazioni private […]». Descrivendo poi, alcune delle esperienze di consulenza che ha giudicato positive esce allo scoperto anche il suo modo di intendere e di praticare la consulenza: intesa come «un vero rapporto umano». Tutto ha sempre inizio da una domanda attorno ad una questione «cruciale»per il consultante (o i consultanti quando si tratta di più persone): in questo modo, persone lontane tra loro secoli, cominciano a dialogare, a dire la loro. Il consulente, in tutto ciò, è uno spettatore attento e pronto a dare supporto quando il cliente ne ha bisogno, illuminando la strada, ma solo perché gia la conosce (o almeno dovrebbe); il come e il dove, e soprattutto, se dialogare, lo decide il consultante. La filosofia sentita come l’arte di domandarsi e domandare, in ogni caso, è il motore del funzionamento della consulenza da lui praticata: fonte di saperi, di riflessioni su problemi fondamentali e domande ultime, è unicamente un pretesto per instaurare una relazione che possa lasciare all’altro lo spazio per una domanda. Le relazioni intraprese da Sautet, a livello di consulenza esprimono, quindi, fondamentalmente la necessità da parte del «cliente» — ma anche del consulente — di possedere una dimensione, uno spazio relazionale più o meno stabile, nel quale poter imparare a domandarsi e a domandare. Perché? Forse perché, come scrive Shlomit Schuster, l’individuo sofferente è più portato, rispetto agli altri, a ricercare questo tipo di aiuto, sostegno, o meglio, di relazione. Come riferisce Sautet, la figura di riferimento, a volte, è uno psicologo, altre volte un guru, altre ancora un filosofo, ma la necessità, a mio parere, è sempre la medesima (si parla di necessità, non tanto o non solo di curiosità, visto che il confronto è con un certo tipo di sofferenze): il bisogno di uno spazio nel quale domandarsi a proposito del proprio senso e dell’instaurazione di una domanda. Detto ciò, è forse lecito concludere che un individuo sofferente ha una maggiore esigenza di domandarsi e domandare rispetto a una persona serena? Sicuramente è una persona che vive e non sopravvive, che sente l’importanza della sua esistenza, l’unica, «che vale la pena di essere vissuta». Certamente non è una questione da poco, visto che è uno degli obiettivi principali dei “filosofi pratici” per affermare il proprio lavoro, differenziandolo nettamente, della patologizzazione del mondo operata, invece, dalle scienze psicologiche. Se si considera, infatti, in quest’ottica il rapporto tra filosofia e psicoterapia, si potrebbe concludere che, da sempre, la filosofia ha compreso che la soluzione alla domanda sul senso dell’esistenza non è una risposta diretta (come nel caso in cui si definisse la sofferenza psichica come malattia, spegnendo nell’individuo il suo bisogno di domandarsi e domandare), ma è una ricerca nella relazione. Resta ora da stabilire se tutte le scienze umane sono rimaste nell’ignoranza riguardo a questa questione e, se sì, perché. In ogni caso, mi pare questo il contributo più importante nel lavoro di Sautet che, seppure non molto chiaramente, ha compreso che l’importanza della filosofia, come strumento relazionale, deve essere situata non tanto nella superiorità del mezzo, quanto nella sua possibilità strutturale di non avere risposte, che vadano a bloccare la domanda soggettiva. La filosofia recupera così la dimensione “pratica” di formazione o di recupero di una coscienza critica personale: «Da bambini impariamo a vedere il mondo attraverso gli occhi degli altri, genitori, insegnanti […] ma i fatti e il reale ben presto smentiscono questa visione del mondo rigida e impersonale […]. A poco a poco il dubbio si insedia […]. Chi sono, se non sono un soggetto pensante? Un oggetto […]». Oggi, nonostante la prematura scomparsa di Sautet, da quella esperienza sono nati oltre centosettanta Cafè Philo in Francia e un’ottantina nei più diversi paesi del mondo (perfino in Honduras e Nicaragua). In Italia, come accennavo sopra, questo interessante fenomeno è poco più che all’inizio, ma laddove esso è stato tentato, e parlo anche della mia personale esperienza, il successo non è mancato.
In linea generale intenzioni che muovono i Café Philo e ogni «pratica filosofica», sono:
- affrontare questioni di ogni tipo, perché ogni argomento può essere trattato filosoficamente, inclusi quelli che coinvolgono quotidianamente persone «normali», cioè non specializzate nella filosofia;
- dar vita a un profondo scambio dialogico tra individui che si incontrano per filosofare assieme, a prescindere dalle diversità culturali e dalla capacità di argomentare in modo «raffinato»;
- far scendere la filosofia «in strada», togliendola dal «ghetto accademico» ove ha finito per confinarsi e riportandola a contatto con la città, con le persone che la animano, con la «vita reale».
L’insegnante, scrive Sautet, impone il suo tema all’uditorio. Sono rari i momenti in cui il corso gli sfugge di mano. E così si erge a pedagogo: di questo è incaricato, questo gli viene richiesto, e questo fa. Se lo si prega di approfondire lì per lì una nozione che non era in programma o di sondarla in diretta, senza preparazione, sarà preso alla sprovvista: il suo istinto sarà quello di tirarsi indietro, per non cadere nella «discussione da bar», a meno che non disponga ancora di una freschezza di spirito tale da stare al gioco. Se non possiede una fiducia totale nella sua facoltà di analisi e nella capacità di mobilitare il suo stock di riferimenti, il professore normale chiederà […] di poter riflettere. Perché accettare il dibattito su un tema è già rischiare di avere torto. Quando si è presi alla sprovvista, si può essere superati in velocità da un intervento o spingersi in un campo che non si conosce. Può succedere di trovarsi intrappolati, di imboccare un vicolo cieco, di essere costretti a fare marcia indietro, di contraddirsi, insomma di trovarsi in una situazione da comuni mortali.50
Eppure, afferma ancora Sautet:
colui che accetta di mettersi a disposizione dei profani per trattare un argomento a loro scelta, si trova nella posizione migliore. […] è allo stesso livello di tutti coloro che, in città, ai di fuori del luogo ove si dispensa l’insegnamento, sono tormentati da un’affermazione, una negazione, un’opinione, una convinzione, una credenza, che sono spinti da un amico, un nemico, un collega, un avvenimento, un’informazione, una lettura […] a riflettere. Questa è la posizione normale della riflessione! Di solito non ci scegliamo gli argomenti su cui riflettere: ci vengono imposti dalla vita, dall’attualità, dal prossimo. Spesso ci tormentano a nostra insaputa. Insomma, non siamo noi a decidere. Da questo punto di vista, la posizione dell’insegnante non è naturale. E lui che si trova in equilibrio instabile. Lui è «sfalsato» nei confronti della realtà.51
Svestire l’abito dell’insegnante e immergersi nella sfida della quotidianità «nel dibattito al caffé è una prova per i filosofi, un test per Ia filosofia. […] Immersa nelle preoccupazioni di tutti, la metodologia filosofica deve dimostrare che, in effetti, può vincere la doxa, l’opinione, pubblica e non.52
La diversità e per certi aspetti, il più alto tasso di «rischio» di questo ruolo rispetto a quello del «professore», spiega le frequenti critiche rivolte ai Café Philo, accusati di involgarire e depauperare la filosofia, trasformandola in un fenomeno «alla moda» e da salotto. Probabilmente, come ha detto Sautet, queste accuse sono solo le risposte di chi teme la possibilità di essere ricollocato sullo stesso piano di tutti gli altri, che non ha voglia «mettersi in gioco» (mostrando così di aver smarrito della filosofia, quantomeno, lo spirito ludico), o semplicemente non utilizzi la filosofia nel proprio personale orientamento esistenziale, finendo così, per non contribuire a diffondere gli strumenti filosofici, considerando ad esempio, non necessario confrontarsi con persone di diversa estrazione culturale e sociale.
Chi invece abbia il coraggio di affrontare il rischio e la sfida, tornerà ad assumere «la giusta posizione del filosofo», che «non consiste nell’affermare, ma nell’interrogare»: non più «insegnante», non più «colui che dispone di una risposta a tutte le domande», egli è invece «colui che interroga, colui che rimette in questione quelle che vengono considerate soluzioni.53
Così, visto che «al caffé come altrove e forse di più succede che, su ogni argomento, molti abbiano tante cose da dire» e che esso è «un luogo ideale per sottoporre al vaglio della ragione le opinioni più vane e più diffuse», e al filosofo spetterà «mettere in evidenza le opposizioni, renderle lampanti, portare l’assemblea all’altezza della situazione, e quindi richiederle di trovare una soluzione o di ammettere che esiste una contraddizione irriducibile».54 Dunque, il filosofo che voglia «praticare» un Café Philo deve esser in grado di assumersi il rischio di un’improvvisazione, che non deve mai sconfinare nel semplicismo e nella banalità, né al tempo stesso sfociare nell’intellettualismo. Perché, se lo spirito della «filosofia pratica», la sua aderenza alla «vita reale» e ai problemi quotidiani di tutte le persone deve essere rispettato, è necessario evitare che il battito si trasformi in un dialogo dotto tra «esperti», che vi prenda piede quella che Sautet chiama «tendenza al rilancio sul tono serio. Un’attività dunque seria e ludica al tempo stesso, come la filosofia; difficile e mai garantita, come la filosofia; nella quale non tutte le volte si ottengono risultati soddisfacenti. Come nella filosofia»55 Sautet ha avvicinato, o almeno era suo desiderio, avvicinare la filosofia alla gente e che credeva, che ognuno di noi è un po’filosofo perché, le «grandi domande», sono dentro ciascuno:
Phil non ha letto il Fedone; non usa esattamente gli stessi termini del fondatore della filosofia occidentale. Ma non è altrettanto filosofo? L’inquietudine che prova non è un autentico malessere, che rimette in discussione in modo pertinente l’evidenza che autorizza tutti noi a considerate l’esistenza come una cosa buona, e che permette, in particolare, ai filosofi di professione di giustificare il salario che prendono? Socrate considera il corpo come una prigione e gioisce, quando, infine, può staccarsene. Phil, invece, parla della vita come di una «sala d’attesa». Che cosa c’è di più filosofico del chiedersi se non convenga spingere la porta?56
3.5. La consulenza filosofica
La pratica filosofica per antonomasia — perché nata in Germania proprio con questo nome, Philosophische Praxis, e perché è probabilmente quella socialmente e culturalmente più rilevante — è la consulenza filosofica: un’attività professionale nella quale il filosofo, esclusivamente in quanto filosofo, si mette a disposizione di chiunque, individualmente o in gruppi ristretti, sentano l’esigenza di affrontare con rigore, attenzione, spirito ricerca e confronto dialogico, problemi e questioni poste a loro dalla loro vita. Se la pratica filosofica — come dice Achenbach — non è filosofica perchè dà consigli, ma perché interpreta il bisogno di consiglio, la Filosofia viene usata non per astrarre dal quotidiano, ma per guardare il quotidiano da un altro punto di vista: dall’alto, dal basso, da destra, da sinistra. Questo non vuol dire, necessariamente, sdoppiarsi o prendere il ruolo dell’altro, o meglio, è anche questo, ma non è l’essenziale. L’essenziale è dare un senso, nonostante tutto, a ciò che ci capita: «Elaborate un contesto, con l’aiuto dei grandi filosofi — ha scritto Lou Marinoff in Plato not Prozac — , per affrontare le questioni del momento o future, concedersi il lusso dell’esplorazione delle idee». «Il sapere — aggiunge Lo Russo — deve essere rimesso in moto. Non esiste una ipotetica guarigione da raggiungere, uno stato ideale e stop. No: il sapere deve agire da sfondo e vivificare il pensiero e, di riflesso, le azioni quotidiane».57 Il risultato finale, non è di poco conto: «un po’come rinascere di continuo».58 L’intento di chi si occupa di filosofia pratica, è forse quello di ripristinare un senso della filosofia che si è perduto, schiacciato dell’idea che la filosofia sia ricerca «scientifica»? La filosofia è sicuramente ricerca, ma è anche qualcosa di assai diverso da una disciplina (scientifica). Come per gli epicurei, è liberazione dall’uomo, e non perché la conoscenza rende liberi, ma perché l’esercizio della filosofia è liberatorio: libera da tutto ciò che è solidificato, dato per buono, indiscutibile, saldo, sicuro. Libera dai dogmi, permette di avventurarsi su ogni tipo di strada. La filosofia non è religione né scienza. In un certo modo, la filosofia è l’uomo: il modo di essere nel mondo dell’uomo. Ma la filosofia è l’uomo? Si può dire che essa sia una parte dell’uomo. Un’altra parte è proprio il suo contrario: il dogmatismo, la sicurezza, i punti di riferimento indiscutibili, l’autorità, tutte cose che l’uomo ricerca per vivere scacciando la paura e minimizzando i costi psicofisici. Quella tra libertà e sicurezza è una delle ambivalenze che rendono la nostra vita tanto ricca, quanto complicata. È uno dei tratti caratteristici di quest’essere intrinsecamente dialettico che è l’uomo. Ma, ancora una volta, cosa se non la filosofia, può aiutarci a trovare di volta in volta un equilibrio all’interno di questa dialettica? Un equilibrio che è in passato stato chiamato (ed oggi sta ritornando) Saggezza. La Saggezza di chi, seguendo l’insegnamento socratico, sa di non sapere, ed assume proprio quest’unico sapere ad unica certezza e punto di riferimento, per vivere costantemente una vita esaminata, l’unica degna di essere vissuta.
In questi anni la definizione «consulenza filosofica» si è certamente attestata su elementi di positività e soprattutto nutrita d’elementi di fatto: operatività e trasmissibilità. Il cammino però, non è stato per nulla facile: la prima confusione generatasi è stata ad esempio, proprio ti tipo terminologico. Nata in Germania nei primi anni ’80 con il nome di Philosophische Praxis, diffusasi nel mondo anglosassone con la semplice traduzione del nome tedesco — Philosophy o Philosophical Practice — ma anche con il più ambiguo Philosophical Counselling: quella del consulente è qui, un’attività di ascolto a sfondo psicologico, molto diffusa. In Italia è approdata invece, solo recentemente, tra il 1999 e il 2000, assumendo ancora più nomi: Consulenza Filosofica, Counseling Filosofico, Pratica (o anche Prassi) Filosofica, persino il più bizzarro Psicofilosofia. Sebbene possa apparire casuale, questa pluralità di nomi cela spesso (non solo in Italia), differenze sostanziali, sovente mai esplicitate e neppure chiare agli stessi soggetti che operano nel settore. Conseguentemente, scegliere un nome piuttosto che un altro rischia già di predefinire l’oggetto e di viziare l’indagine che su di esso si vuol condurre. D’accordo i più, la definizione preferita resta consulenza filosofica, anche se non mancano coloro che privilegiano, invece, pratica o prassi filosofica .59 Ciò che è qui importante rilevare è che originariamente l’attività del «filosofo professionista» venne definita Philosophische Praxis e la sua caratterizzazione fu incentrata da un lato, in negativo, sulla differenza dalle attività professionalmente affini dal punto di vista del mercato (le psicoterapie), dall’altro, in positivo, come pura e genuina filosofia, scevra da ogni di ibridazione. Come si è in precedenza visto, Achenbach, rifiuta decisamente ogni riferimento all’«aiuto», sostenendo che per aiutare bisogna già presupporre un «sapere» sull’uomo, sulla sua psiche, su cosa sia sano, normale, giusto, su come l’individuo che si ha di fronte debba cambiare per essere «aiutato»; che quindi, non è possibile pre-giudicare senza con ciò stesso cessare di essere filosofi. Questa posizione così netta e originale non è, però poi stata recepita nella sua radicalità da tutti gli epigoni di Achenbach, forse a causa della sua iniziale titubanza nello sciogliere alcuni nodi problematici che essa tendeva a celare, quali per esempio: come sopperire alle lacune che un filosofo può ragionevolmente avere in materia di instaurazione di relazioni interpersonali? Come insegnare a svolgere una pratica che non ha né un metodo, né un (esplicito) obiettivo? Come tutelare gli utenti (ma anche la comunità dei consulenti e l’intera filosofia), dagli immancabili millantatori incompetenti? Alla necessità di dare risposta a questo genere d’interrogativi, almeno apparentemente lasciati in sospeso dalla concezione di Achenbach, si è aggiunto fatalmente il fatto che, nella nostra cultura, è quasi impossibile pensare ad una forma di agire senza associarla ad una specifica strumentalità e ad una ben definita finalità e che, perciò, l’idea che la consulenza filosofica possa non includere tecniche e strategie e non prevedere un obiettivo è piuttosto difficile da accettare. In particolare, lo è stata nel mondo anglosassone per tradizione molto caratterizzata da una cultura pragmatica, che non a caso, ha sovente improntato anche l’ambito filosofico. Non è tutto: spesso coloro che si avvicinavano Philosophische Praxis avevano anche una formazione filosofica, ma svolgevano altre attività, quali la formazione e la consulenza nel mondo delle aziende (nelle quali imperversano com’è noto modalità d’intervento di tipo psicologico e strumentale), oppure praticavano vari generi di professioni d’aiuto. Di conseguenza, la loro interpretazione data alla nuova attività è stata influenzata dalle competenze non filosofiche nel frattempo acquisite. In altri casi, l’impulso a far riferimento a discipline estranee alla filosofia, è scaturito dalla difficoltà di comprendere e apprendere la Philosophische Praxis stessa, che nell’interpretazione di Achenbach appariva lontana dal modo in cui la filosofia viene insegnata nelle università (attraverso l’acquisizione nozionistica di materiali di tipo storico), e al tempo stesso non forniva agli apprendisti consulenti definiti punti di riferimento per affrontare una situazione per loro nuova e inquietante. Di fronte all’assenza di indicazioni su come confrontarsi con la sofferenza del consultante, su cosa rispondere alla sua (esplicita o implicita), richiesta d’aiuto, soprattutto su che uso fare del pensiero dei «grandi filosofi» (imprescindibili punti di riferimento per chi si occupa di filosofia in modo «accademico»), scaturiva l’urgenza di trovare schemi di lettura, modelli d’intervento e forme di comportamento efficaci, che permettessero all’aspirante consulente filosofico di porsi di fronte al suo cliente senza essere per primo preda di difficoltà e incertezze. Al momento della diffusione della disciplina nel mondo anglosassone tale urgenza trovò quasi naturalmente una risposta: in quei paesi si è, infatti, da tempo affermato socialmente la figura del counselor, un operatore che svolge una funzione di mediazione e consulenza formalmente non terapeutica, trovando un posto stabile sia nelle organizzazioni (scuole, enti pubblici, aziende), sia nel mondo dell’assistenza individuale. Questa figura, nata negli anni Cinquanta dalle riflessioni e dagli insegnamenti dello psicoterapeuta statunitense Carl Rogers, si è nel corso degli anni diversificata in molteplicità di varianti, a seconda dell’ispirazione che ne caratterizza l’orientamento all’aiuto, per cui fu un passaggio quasi naturale pensare alla Philosophische Praxis come a una sua nuova e originale versione: il Philosophical Counseling. Questa confusa ibridazione, che ha fatto proseliti anche in Italia, ha ispirato alcuni esponenti anglosassoni portando, per esempio Tim LeBon,60 a sostenere che la filosofia possa «essere utile al counseling» (e, come lui stesso riconosce, nel mondo anglosassone «counseling» è di solito sinonimo di «terapia»), e che alcuni suoi «metodi» (termine discutibile per indicare cose come la fenomenologia o l’esperimento mentale), possano essere «utilizzati» come se fossero «strumenti». Queste idee fanno parte di una concezione che considera la consulenza filosofica assimilabile e amalgamabile a piacimento e senza alcuna conseguenza negativa, con le professioni d’aiuto, al fine dell’efficacia. Ad essa, in chiaro conflitto con le idee di Achenbach e di molti altri autorevoli consulenti internazionali, non può certo esser negata una propria legittimità: perché mai i professionisti dell’aiuto, accanto alle loro competenze psicologiche, mediche, relazionali, non dovrebbero avere, come ulteriore arricchimento, anche competenze tratte dalla filosofia? Tuttavia, ciò non può neppure celare che essa apre la strada ad un’attività del tutto diversa da quella inaugurata da Achenbach: un’attività volontariamente d’aiuto, di tipo fondamentalmente tecnico, che usa la filosofia (si ricorderà come Achenbach sostenesse certamente che la filosofia non può essere applicata, ma non è filosofia). In altre parole, counseling filosofico, la nuova denominazione assunta dall’attività nel mondo anglosassone, non può essere considerata, come talvolta viene fatto, un «prestito gratuito», perché reca con sé una serie non banale di presupposti che — complice il non vivacissimo quadro della ricerca internazionale, che ha trascurato di occuparsi del problema in modo sistematico — hanno portato ad un almeno parziale stravolgimento della sua originaria specificità e ad una crescita della confusione sulla sua identità.61 Queste considerazioni spiegano la preliminare scelta di preferire la denominazione «consulenza filosofica» conservando come eventuali varianti solo «pratica» e «prassi filosofica», ma proponendo di lasciar definitivamente da parte «counseling filosofico»: intesa come attività rigorosamente non terapeutica, la Philosophische Praxis non può e non deve essere confusa con il counseling, perchè questo e già inserito in quell’ambito di agio tecnico, strategico e strumentale che usa la psicologia e altrettanto farebbe, necessariamente, con la filosofia. Per evitare poi fraintendimenti, il termine «counseling filosofico» dovrebbe essere riservato a quelle pratiche d’impianto psicologico che applicano nozioni filosofiche alle terapie e non dovrebbe essere impiegato per denominare l’originale attività nata con Achenbach.
La consulenza filosofica sfida così, la filosofia;62 inoltre, dagli anni della fondazione la filosofia è stata praticata in molti modi: da quella classica del pioniere di BergischGladbach alla “Philosophone” e la consulenza telefonica di Shlomit C. Schuster; dalla “filosofia patognostica”di Christoph Weissmüller a quella “sciamanica” di Greta HesselLübeck, dalla “filosofia omeopatica” di Martina WinlderCataminus a quella “femminista” di Agnes Hümbs. L’esigenza che sta all’origine di questo movimento, è quella di ricollocare la filosofia nel suo luogo di nascita ovvero nella vita reale, tra le persone, sulla ‘piazza del mercato’ espressione questa, scelta con cura, in quanto il mercato evoca il problema (enorme) della professione, di cui però, mi occuperò oltre. La “Pratica Filosofica” nascendo, ha dato così vita a una nuova dimensione professionale, pur rimanendo costantemente legata alla tradizione filosofica più antica. Inserire il counseling filosofico nel più ampio movimento della Filosofia in Pratica, è per molti aspetti una proposta forte allo stato attuale delle cose, ma è l’unica che vedo per evitare che i precetti filosofici siano penosamente ridotti a espedienti psicoterapeutici. Liberandoci completamente dal paradigma medico e adoperando la nota espressione di Achenbach, “si può dire che esso rappresenta qualcosa di alternativo rispetto alla psicoterapia senza essere una psicoterapia alternativa”, cioè solo l’ultima moda in fatto di terapie d’aiuto psicologico. Ma finché affermazioni del genere non risultino vuote, a mio parere, occorre avvicinare il counseling filosofico alle altre forme di pratica filosofica esistenti, riconoscendo (anche) in esso un’intima istanza socioculturale di crescita reciproca su base filosofica. Da questo punto di vista va ricordato che Socrate, paradigma storico dell’interrogazione riflessiva, raramente fu “counselor” e più spesso fu “cliente” nei suoi atteggiamenti: querelante, rompiscatole, perfino paranoico nel suo continuo interloquire pubblico. Per Socrate, la Filosofia era un modo di vita, un atto pratico che chiunque può scegliere di emulare; fondamentale per lui era impadronirsi del linguaggio e del metodo della riflessione filosofica, al di là delle determinazioni specifiche di essa (che sono tante quante sono i filosofi) e dei singoli contenuti cui si possa giungere.63 Nello stesso articolo, Alessandro Volpone, ci raffigura Socrate da due facce che si guardano negli occhi, speculari; figura che fa pensare a un sapere vissuto orizzontalmente, con ruoli intercambiabili, segno di una conversazione che, come chiarificazione o anche complessificazione, è comunque crescita. In essa l’uso della retorica diviene meccanismo di edificazione comune. Questo concezione filosofica può essere uno dei modi di applicazione della “philosophy in practice”, nelle varie pratiche in cui essa si concretizza, con valenza eminentemente sociale, o almeno intersoggettiva, la filosofia fa la sua comparsa come disciplina trasversale ad ogni altra, o all’esistenza stessa. Questa caratteristica, in realtà antica, distingue probabilmente la filosofia da ogni altra occupazione intellettuale umana. E non si tratta di discriminare tra saperi più o meno cumulativi, oggettivi o quant’altro. La filosofia nasce in Occidente come progetto, consapevole o meno, di trasformazione dell’uomo, delle sue posizioni rispetto al mondo e a se stesso. Essa è per noi, probabilmente, la maniera più “spontanea” di trascendersi, riflettere trasversalmente su tutto, alla riflessione stessa e alla sua storia.
La Filosofia è al contempo philêin, cioè passione, amore, e sophía, riflessione, ricerca, saggezza. Può essere un procedimento disciplinare, accademico, di analisi e studio di metodi, concetti e punti di vista in senso generale, e spesso astratto, perfino per chi si occupa della materia per mestiere. Ma può essere anche, in fondo, una modalità per rapportarsi a se stessi, agli altri, al mondo, a Dio. Nelle sue varie determinazioni, infatti, direttamente o meno, la filosofia è da sempre stata a disposizione di tutti, magari in questioni di vita quotidiana: anche in esse, infatti, vale la pena di riflettere, un’arte in cui probabilmente conviene cimentarsi, in prima persona e autonomamente, senza deleghe a terzi. Socrate, ad esempio, come noto, non adoperò la filosofia per insegnare concetti, ma semmai per analizzarli ed esplorare insieme ai suoi interlocutori il pensiero di ciascuno, e la propria posizione su questa o quella questione concreta. Spesso, nei dialoghi platonici di cui egli è protagonista, non si capisce se sia più importante il tema su cui si discute, la conclusione da raggiungere, o, in maniera più sottile, la riflessione stessa che si va svolgendo, come atto o esercizio personale di approfondimento, affinamento o rischiaramento che si voglia intendere.64
Molti dei counselors, che hanno pubblicato ricerche su questo nuovo orientamento della filosofia, fanno riferimento a illustri esempi del passato, ma in particolare, per esemplificare il modello del filosofo pratico, si appellano non a caso, ad una sola figura di filosofo: Socrate. Socrate rappresenta il filosofo per eccellenza, ma soprattutto, attraverso una filosofia intesa quale rapporto maieutico (o dialogo guaritore e chiarificatore), è stato eletto quale prototipo di “filosofo pratico”. Secondo Peter B. Raabe (consulente filosofico canadese), ad esempio, il counseling filosofico non rappresenta qualcosa di nuovo: è piuttosto una ripresa della vecchia tradizione di praticare la filosofia. La filosofia, oltrepassa decisamente la psicoterapia come modalità di gestione dei problemi più difficoltosi o dolorosi della vita dell’uomo. Il movimento del counseling filosofico non è quindi, uno sviluppo della psicoterapia, ma un tentativo da parte dei filosofi di riportare la filosofia alle sue antiche radici pratiche. Nell’introduzione al codice deontologico della American Society for Philosophy, Counseling and Psychotherapy (ASPCP) si afferma, che la pratica di fornire assistenza filosofica ad altri, è antica almeno quanto Socrate, che, nel V sec. a. c., fece un tale uso della filosofia. Nel libro intitolato Philosophy as a Way of Life (1995), poi, lo storico francese Pierre Hadot rileva che molte delle scuole filosofiche dell’antichità hanno inteso la filosofia come «arte del vivere» piuttosto che come mero insegnamento di teorie astratte, o esegesi di testi. Seneca, ad esempio, parlando di ciò che egli considerava importante della filosofia, affermava inequivocabilmente, in una lettera a Lucilio: «Devo dirti cosa la filosofia offre all’umanità? Il consiglio […]». La «Pratica Filosofica» si pone, quindi, l’obiettivo di riportare la filosofia al suo antico splendore di disciplina dialogica e terapeutica: un sapere che riunisce in sé gli strumenti per indagare e conoscere le origini e i fondamenti dello scibile umano, nel senso più largo del termine. In un libro The Therapy of Desire (1994), l’autrice Martha C. Nussbaum, ci ricorda che a Roma e in Grecia nelle scuole filosofiche ellenistiche: l’Epicurea, la Scettica e la Stoica; non consideravano la filosofia come una «pratica intellettuale distaccata e tutta tesa alla dimostrazione della chiarezza», ma come «un’arte immersa e mondana di accostarsi alle miserie umane». I filosofi di tali scuole, fecero di se stessi, dei dottori della vita umana. La filosofia, quindi, come la intendono i fautori della Pratica Filosofica, è costituita da un insieme di capacità dialettiche, empatiche, psicologiche, convogliate nelle mani di un individuo, il “filosofo”, che può riassumere in sé caratteristiche tali da diventare un prezioso riferimento per l’intero corpo sociale: per coloro che non abbiano ancora sviluppato una propria visione del mondo (non si tratta qui di un sistema“ filosofico”), per chi avverta la problematicità del proprio esistere e per chiunque debba affrontare un momento di scelta o riflessione personale. Queste sono le caratteristiche che in generale, accomunano i diversi orientamenti della “Pratica Filosofica” e i suoi fondatori. Entrando più nel particolare si può dire che, alcuni di loro piace definirsi quale alternativa alle psicoterapie, altri propongono una collaborazione tra le discipline umanistiche, altri ancora non si pronunciano, se non in maniera molto vaga, sul concreto campo d’azione della “filosofia pratica”. Sicuramente, riprendendo Epicuro, si può dire che: «se la filosofia non è una terapia delle passioni dell’anima, allora non è una filosofia». L’esigenza che sta all’origine di questo movimento è quella di ricollocare la filosofia nel suo luogo di nascita ovvero nella vita reale, tra le persone, sulla «piazza del mercato»; far uscire dall’ignoranza del non sapere chi ha voglia di farlo, ma non conosce la strada o semplicemente, chi non ha il coraggio di vedere altrimenti «l’essentiel est invisible aux yeux».65
«Pratica» o «pratiche filosofiche»? E poi: pratica o consulenza? Il dibattito è aperto da tempo, segno questo, di indiscussa vivacità. Le etichette vanno bene purché il motivo di fondo, lo «spirito», sia quello accennato sopra. In generale, il plurale è evidentemente più ricco. Le pratiche filosofiche, difatti, possono essere molte e lo sono, ma il fine è sempre lo stesso, con Platone:66 «Abituare sempre l’anima ad accorrere con la maggiore sollecitudine per cercare di guarire ciò che è malato e rimettere in piedi ciò che è caduto, con questi rimedi sopprimendo le lamentele». La consulenza filosofica, sia pur nella diversità di prospettive in essa riscontrabili, utilizza la filosofia, fornendo un tempo e uno spazio specifici per la “riflessione”, di tipo comunitario e quindi almeno duale, che diviene “filosofica, quando trae, dalla filosofia, la sua origine e tradizione. Quanto alle modalità e agli obiettivi di questo ”filosofare“ nella e della riflessione, i punti di vista divergono. Alcuni dei più importanti counselors filosofici hanno tentato di definire la ”Pratica Filosofica“, in maniera tale da evidenziare alcune delle direttrici fondamentali di questo nuovo orientamento. L’intento, è quello di descrivere, piuttosto che ”definire“, poiché uno dei principi di orientamento della ”Pratica Filosofica", è quello di non creare una teoria sistematica, ma di fornire solamente dei riferimenti esperienziali che possano essere di guida nella lettura delle diverse situazioni di counseling. Ma qualcuno potrebbe chiedersi: ma se la filosofia è sempre e comunque una pratica, che motivo hanno di esistere le pratiche filosofiche? «Il plurale, va dunque bene perché, come non esiste un’età filosofica, così non esiste un’attività che sia più filosofica di un’altra: fermo restando la serietà dell’offerta. E qui, tra il mare dell’offerta, si apre una voragine. Di legittimità. Una voragine legale».67 Da quanto detto emerge, dunque, con chiarezza come la Philosophische Praxis non nasce, come talvolta si è creduto, dalla volontà di dar vita a una nuova professione di cura, bensì da un’esigenza di rinnovamento, tutta interna alla filosofia stessa che, per restare al pensiero del suo fondatore, pur restando filosofia e non una «professione d’aiuto», sfida la stessa filosofia accademica ripartendo da ciò che lei ha nel tempo sempre più trascurato: «Dal soggetto pensante, dal soggetto empirico, che deve pensare per poter vivere»;68 una filosofia che «non si occupa dei sistemi filosofici, non costruisce alcuna filosofia, non somministra nessuna visione filosofica, ma mette il pensiero in movimento: filosofa».69
Come accennato in apertura, uno dei due temi fondativamente centrali dell’interpretazione achenbachiana della pratica filosofica è la sua relazione con la filosofia tout-court, in genere rappresentata sotto forma di critica al «ghetto accademico» della Kathederphilosophie.70 A tale critica fa da completamento la ricorrente rivalutazione dell’antichità greco-romana e di quella complessa «corrente» di pensatori che si potrebbero definire «esistenziali» (come Kierkegaard, Nietzsche, Simmel), interpretati come antesignani dell’approccio caratteristico della pratica filosofica. Già delineato in Der Philosophie als Praktiker, questo tema viene sviluppato con particolare attenzione in Herausforderung der akadernischen Philosophie durch die philosophische Praxis, conferenza del 1984, dove Achenbach ricorda che nella tradizione greca antica «le scuole erano organizzate in fratellanza e amicizia e la filosofia era realizzata come forma di vita, di pensiero e di contatto umano, e che proprio tale organizzazione, più che il progetto e la riproduzione di una dottrina, conferiva ad esse il loro fascino».71 Le scuole dell’antichità erano in contatto con la vita quotidiana, in un modo simile a quello a cui pensa Popper, quando afferma che i problemi filosofici hanno le loro radici in urgenti problemi non filosofici, senza i quali la filosofia morirebbe. Nell’antichità poi, la relazione tra lavoro filosofico e problemi non filosofici era istituzionalizzato, mentre a partire dal medioevo, con il rinchiudersi dei filosofi nei monasteri e la progressiva «eternizzazione» della filosofia effettuata dalla scolastica — attraverso la sua mitologizzazione e contrapposizione ad un mondo reale caratterizzato teologicamente dalla corruzione e dalla finitudine — il progetto greco è progressivamente venuto meno, giungendo così a creare le condizioni per l’istituzionalizzazione moderna della filosofia che ha poi condotto ai «ghetti accademici». Solo che, afferma Achenbach, «la filosofia, ancor più delle altre scienze, non prospera nell’atmosfera sterile dei laboratori intellettuali universitari: a partire dalla metà del diciannovesimo secolo questo fatto non è più potuto esser trascurato».72 Non è un caso, afferma Achenbach, che filosofi non riconducibili alle accademie come Schopenhauer, Nietzsche, Kierkegaard, Marx, Benjamin, ma anche personalità particolari come Simmel, Cioran, Sloterdijk, ed infine letterati come Valery, Dostoeevskij, Musil, Mann, Shaw, Kafka, Beckett hanno dettato delle coordinate che sono importanti per il progetto della Philosophische Praxis. È su questo punto che Achenbach può avanzare quella che definisce la sfida della pratica filosofica alla filosofia accademica. Sebbene la Philosophische Praxis non possa svilupparsi autonomamente e debba viceversa esser parte della totalità della filosofia, continua Achenbach, essa deve togliere alla materia ogni funzione burocratica, curricolare, specialistica e dogmatizzante, per ripartire proprio da ciò che viene sostanzialmente eliminato dalla filosofia istituzionale: «dal soggetto pensante, addirittura dal soggetto empirico, che deve pensare per poter vivere».73 Fondamentale la centralità del filosofo per la filosofia e per la pratica filosofica in particolare, come Achenbach ribadisce poco oltre, traendone conseguenze per l’attività da svolgersi nelle Praxis:
luoghi ove i filosofi possano vivere senza l’obbligo di doversi dividere in due, una mente filosoficamente interessante da un lato e un rimanente senza importanza dall’altro […], ove possano conoscere, meditare, riflettere, litigare, dubitare, domandare, ricercare, inventare, sperimentare, amare e imparare a disprezzare il disprezzo e la sottovalutazione di tutto ciò. La filosofia dell’Università dovrebbe, in altre parole, svilupparsi da istituzione del pensiero a istituzione del pensatore: poiché Ia forma concreta della filosofia è il filosofo […]. In breve: la filosofia diviene pratica nel filosofo come essere pensante dialogicamente in comune con altri.74
È perciò che «la Philosophische Praxis è Ia forma della filosofia che ha già accettato questa sfida. Ovvero: essa è Ia filosofia accademica che si pone Ia sfida attraverso l’uso pratico — perchè può anche esserci una teoria filosofica senza prassi — e c’è, com’è noto — ma non può esserci nessuna Philosophische Praxis senza filosofia». Lungo questa via, la filosofia «perviene e rende necessari altri pensieri, quelli sull’inquietudine della nostra epoca, sulla «controteodicea», sulla perdita di speranza, sulla percezione di dolori, lutti, delusioni come «difetti dell’anima» e la relativa attesa di un sollievo dovuto alla loro competente riparazione»,75 sul «linguaggio dei sintomi», sulla riduzione delle passioni a malattie da eliminare farmacologicamente. Del moderno dominio del paradigma terapeutico, altro tema ricorrente in Achenbach, che ne parla già in Von Aufstieg und Fall des Philosophen, dissertazione del 1982, nella quale — giudicando ormai morta la filosofia come indicazione razionale dei modi in cui condurre la vita, alla maniera di Seneca ed Epitteto — proponeva come centro dell’interesse della ragione quel «ma» che domina sempre nelle risposte date alle indicazioni di «corrette visioni della realtà»: si, lo so che è giusto, ma non posso. Un «ma» che ci costringe a ridimensionare il ruolo della ragione, ad affermare che essa non può essere considerata un’entità suprema dell’uomo e «che una filosofia «pura» non può mai essere una filosofia pratica e, se lo fosse, diventerebbe terrorismo».76 Un «ma», come afferma Pollastri, nel quale dobbiamo riconoscere la nostra voce, la nostra contraddittorietà, ma che non deve farci assumere la dottrina dei «due regni» contrapposti, razionalità contro emotività, perché con questa, si finisce per ricadere anche nella «terapizzazione», se non nell’esorcismo. Una filosofia «autentica», infatti, non deve mai trasformarsi in «filosofia applicata» — cioè messa in opera di una filosofia determinata, sistematicamente teorizzata e fondata — ma che piuttosto deve «pensare i problemi concreti in modo produttivo»,77 senza esser mai intenzionalmente rivolta a ottenere «risultati» o perseguire «obbiettivi»che siano quello della felicità, del benessere o dell’armonia dell’individuo con il mondo, poiché, paradossalmente, pur costituendo un aiuto, la filosofia «non sa cosa questo sia, dato che solo una coscienza ottusa sa cos’e l’aiuto, solo la stupidità militante sa quando l’uomo è aiutato».78 Ciò che per Achenbach deve caratterizzare la Philosophische Praxis, in quanto autentica e pura filosofia, è ciò che caratterizza peculiarmente quest’ultima: essere nient’altro che riflessione, mettere in questione ciò che gli altri fanno passare per ovvio;79 esser centrata (oltre che sull’ospite e sul suo materiale problematico), sulla figura del filosofo che la conduce, che ha il ruolo di partner di dialogo degli individui.
Detto ciò, diventa più chiara e comprensibile la risposta alle domande che usualmente nascono dai più e a cui i filosofi devono continuamente far fronte: esiste tra la filosofia e le psicoterapie qualche analogia? Quale tipo di rapporto intercorre tra la filosofia e le altre scienze umane? Senza alcuna pretesa di esaustività e a fini meramente indicativi, non potendo qui entrare nello specifico, si può però dire che, sicuramente, diverse sono le relazioni con le psicoterapie non psicoanalitiche e con alcune le somiglianze sono maggiori (per alcuni argomenti che ricordano molto quelli della consulenza filosofica, come, solo alcuni, i presupposti erronei, i malintesi i valori confusi e conflittuali del cliente etc.) ad esempio, con la terapia emotivo-razional-comportamentale, nella terapia centrata sul cliente, in quella esistenziale e, soprattutto, la Logoterapia di Viktor Frankl.
Tracciare una distinzione tra la consulenza filosofica e le procedure della psicoterapia definita in senso stretto come psicanalisi — sostiene Peter B. Raabe80 — è facile. Ma quando la psicoterapia è definita in modo più ampio e abbraccia le numerose terapie esistenziali, cognitive e comportamentali, le differenze procedurali sembrano essere offuscate dalle molte sostanziali somiglianze. […] In definitiva, perciò, solo il livello di preparazione in filosofia può distinguere il consulente il consulente filosofico dallo psicoterapeuta. Inoltre, sostenere che il consulente filosofico sia l’unico ad occuparsi d’interpretazioni della visione del mondo, di questioni etiche e interrogativi sulla scoperta di significato nella vita o del significato della vita, significa essere male informati sul vasto dominio delle psicoterapia. Ci sono molte competenze e attitudini richieste al consulente filosofico che si sovrappongono con quelle richieste allo psicoterapeuta. […] Anche gli obiettivi della consulenza filosofica sembrano sotto molti aspetti simili a quelli della psicoterapia, nonostante che gli psicoterapeuti ammettano apertamente di avere l’intenzione di aiutare i clienti a cambiare le loro esigenze per il meglio, mentre la caratterizzazione originale della consulenza filosofica data da G. B. Achenbach ha fatto sì che molti consulenti filosofici fossero riluttanti a riconoscere apertamente qualsiasi tipo di obiettivo nella loro attività. Si è visto che sebbene possano esserci differenze procedurali nei metodi e nelle tecniche (con alcuni approcci psicoterapeutici si può essere molto diretti e aggressivi nel tentativo di influenzare il pensiero dei clienti di influenzare il pensiero dei clienti di quanto non avvenga con l’approccio di molti consulenti) ci sono comunque numerose affinità sostanziali. E sebbene sia facile contrapporre il concetto di persona della consulenza filosofica, e i relativi presupposti, con quello della psicoanalisi, è molto difficile trovare differenze palesi quando si confronti il concetto di persona della consulenza con quello di molte terapie psicologiche intese in senso più ampio. E sebbene sia facile contrapporre il concetto di persona della consulenza filosofica (e i relativi presupposti), con quello della psicoanalisi, è molto più difficile trovare differenze palesi quando si confronti il concetto di persona della consulenza con quello di molte terapie psicologiche intese in senso più ampio […]. Quelli che all’inizio sembravano tratti distintivi della consulenza, contrapponendola alla psicoterapia, si sono trasformati in qualche cosa di confuso perché non solo molti psicoterapeuti impiegano di fatto la filosofia nella loro professione, ma anche alcuni filosofi utilizzano deliberatamente la psicologia nella loro […]. Questi metodi procedurali nel campo della consulenza filosofica sono palesemente diversi dalla consulenza filosofica originariamente concepita da G. B. Achenbach a dai suoi discepoli. Di fatto, lo stesso Achenbach,81 ha recentemente sostenuto che la relazione tra la pratica filosofica e psicoterapia non ha più la struttura di una divisione del lavoro, ma piuttosto è una relazione di cooperazione e competizione, cioè una relazione dialettica.
In linea generale l’analogia più immediata è comunque, che entrambe le attività sono rivolte a persone che hanno delle difficoltà a condurre la loro vita, tali da spingerle a cercare un aiuto o meglio, un consiglio. Inoltre, non è un caso che alla domanda fatta da Ran Lahav (consulente filosofico israeliano) ad una consultante:
Se ha fatto una psicoterapia in passato, per favore descriva di quale tipo e di che durata. Quanto è stata simile, o diversa, dalle sue conversazioni di consulenza filosofica?», la risposta è stata: «le conversazioni psicologiche mi hanno aiutata a capire le mie motivazioni, mentre quelle filosofiche mi hanno aiutata, oltre a capire me stessa, a capire la mia concezione della vita e le mie preferenze.82
Questa risposta è significativa, a sottolineare, ancora una volta, non solo il diverso approccio della filosofia e della psicologia e come questa può essere percepita da un consultante, ma anche il dialogo e la complementarietà che può esserci tra loro, pur soffermandosi su aspetti diversi. Naturalmente, questa è solo una voce, quella di una persona alla ricerca del proprio senso. L’idea basilare di questa proposta è che nella nostra vita quotidiana interpretiamo costantemente noi stessi e il mondo, in altre parole esprimiamo una certa comprensione della realtà. Non solo i nostri pensieri, ma anche le nostre emozioni, i nostri progetti, le nostre speranze, i nostri comportamenti, le nostre fantasie, le nostre scelte sono modi di rapportarsi al nostro mondo, cioè modi di comprenderlo. Più in generale, sostiene Lahav, sentirsi, comportarsi o pensare in un modo piuttosto che in un altro, è esprimere una certa comprensione su questioni come la natura del sé, che cos’è morale o bello, che cos’è l’amore, l’amicizia o il coraggio etc. Interpretiamo costantemente il nostro mondo, non solo attraverso credenze e pensieri, ma attraverso il nostro intero modo di essere. In questo senso, il nostro modo di essere esprime una certa concezione della realtà, anche se non necessariamente riconducibile a una teoria coerente e unitaria, la nostra vita è infatti, tutt’altro che incoerente. In altre parole, il modo di vivere di una persona esprime varie idee a proposito del mondo e come tale, può essere oggetto del filosofare. Esaminare filosoficamente la vita di una persona è considerare la comprensione che quella persona vive (e non semplicemente pensa): esaminare quanto è coerente, mettere in luce le presupposizioni nascoste, analizzare i suoi concetti e valori basilari e cosi via. Ciò suggerisce che l’obiettivo dell’autoindagine filosofica, nel contesto della consulenza filosofica, è quello di esplorare la «comprensione vissuta» del consultante, cioè il mondo come è «compreso» dalle emozioni, dai comportamenti, dai pensieri, dalle speranze, dai desideri e dall’intero, il modo di essere della persona.
Così concepita, una comprensione vissuta è qualcosa di cui la persona non è necessariamente conscia. Ma non è nemmeno qualcosa di inconscio, perché non è una struttura psicologica che risiede nella mente della persona. È piuttosto il significato, le conseguenze o la «logica» dell’atteggiamento della persona verso la vita.83
Lahav si serve di un’analogia per illustrare quest’idea, tra l’autoindagine filosofica e l’analisi di un quadro da parte di un critico d’arte o semplicemente all’analisi di una partita a scacchi. Proprio come il critico d’arte analizza i vari significati di un quadro senza guardare alla psicologia del pittore, o come un’analista degli scacchi analizza il significato di una certa posizione sulla scacchiera, indipendentemente da ciò che accade nella mente del giocatore, così un consulente filosofico aiuta ad analizzare i significati del modo di essere del consultante senza guardare alla sua psicologica del profondo. Proprio come di una pennellata sulla tela si può dire che esprima uno stato d’animo gioioso, anche se l’artista mentre la dipingeva era triste o inconsapevole del suo significato, dell’angoscia di un consultante si può dire che esprime l’idea che la sua vita non porta da nessuna parte, anche se quest’idea non è una parte reale della sua psicologia. I consulenti filosofici sono come i critici d’arte o gli analisti degli scacchi, nel senso che esaminano la tela o la scacchiera alla ricerca di significati che non devono necessariamente avere una realtà psicologica nella testa della persona. Questo è per dire che le autoanalisi filosofiche sono staccate dai meccanismi e dalle teorie psicologiche. Diventa così chiaro perché la consulenza filosofica è un’impresa filosofica e perché il filosofo è la persona che la deve compiere. In quanto esperti poi, nell’analizzare concezioni del mondo, sono abili nello scoprire presupposizioni implicite e nell’offrire alternative a esse, nel riconoscere le incoerenze, nel trarre conseguenze, nell’analizzare i concetti e nel mettere in luce strutture teoriche nascoste. Un filosofo che ha familiarità con la letteratura sulle idee connesse alla natura umana — concernenti la libertà, il senso della vita, il giusto e lo sbagliato, o il sé — è a conoscenza di una varietà di linee di pensiero alternative: come esperto di idee, il consulente filosofico aiuta i consultanti a svelare vari significati che sono espressi nel loro modo di vivere ed esamina criticamente quegli aspetti che esprimono i loro problemi. L’obiettivo di una tale analisi può essere almeno uno dei due che seguono: il primo è un obiettivo pragmatico per aiutare i consultanti a superare problemi personali; il secondo, aiutarli a sviluppare la saggezza, vale a dire, l’apertura verso la ricca rete di idee sottesa alla vita.84
Penso comunque che l’obiettivo più significativo delle autoindagini filosofiche sia la ricerca della saggezza, perché rende la comprensione filosofica una meta in sé valida, anziché un mero strumento per raggiungere altre mete (cioè per superare problemi personali), sullo stesso piano di molti altri strumenti terapeutici.85
Per vederlo, secondo Lahav, è necessario esaminare più accuratamente la nozione di ricerca della saggezza, ritornando così al punto dove era iniziata la mia ricerca e valicando quanto finora ho sostenuto: chi intraprende il viaggio della cura dell’anima, intraprende il viaggio della saggezza, che dona di volta in volta un senso; un cammino nel quale l’anima diviene consapevolmente virtuosa, alla ricerca ultima del senso, vedere la sapienza del Bene.
In linea generale, si può dire, che le ragioni fondanti della “Pratica Filosofica” sono legate in modo imprescindibile agli sviluppi teoretici non soltanto nell’ambito della filosofia, ma soprattutto a un movimento globale di rinnovamento che attraversa le scienze umane, grazie a un confronto serrato con la pratica relazionale, che ha permesso di mettere in discussione alcuni degli aspetti, per certi versi, più rigidi e cristallizzati di queste discipline. Sia le scienze psicologiche (compresa la psichiatria, che per alcuni aspetti continua a chiamarsi fuori del panorama complessivo delle scienze umane, preferendo distinguersi in quanto scienza medica), che la pedagogia, la filosofia e la stessa psicoanalisi, hanno sfruttato, per rielaborare le proprie visioni dell’uomo e del sociale, gli sforzi che gli studiosi e i critici di altre discipline, vicine o lontane, hanno prodotto nel corso degli anni. La pedagogia ad esempio, ha dimostrato di saper raccogliere i molteplici spunti della filosofia del XX secolo, della psicologia e di altri complessi teorici, per trovare, nel proprio ambito di applicazione (la relazione educativa, la formazione), nuovi strumenti e metodologie. Le cosiddette “terapie brevi”, come il counseling di matrice psicologica e dei suoi vari orientamenti, hanno fornito la possibilità alla “Pratica Filosofica”, tramite un confronto, di trovare una posizione nell’ambito delle relazioni d’aiuto o di consulenza. Tutto questo per affermare che la comunicazione tra le scienze umane è esistita, esiste, ed è viva; e che la “Pratica Filosofica” rappresenta un nuovo orientamento per il futuro delle discipline relazionali. L’aspetto più importante della comunicazione interdisciplinare, che si è cercato di far risaltare, risiede nella gestazione di una dimensione più attuale e dinamica del ruolo del “terapeuta” o del consulente filosofico, a partire da una visione dell’Essere sociale e individuale che affonda le sue radici nella filosofia del XX secolo, nella teoria psicoanalitica, nella pedagogia, nella psichiatria fenomenologica. Lo sviluppo di una nuova ontologia “relazionale” parte da presupposti come l’idea dell’Essere inteso come esistenza e definibile a partire dal rapporto con l’Altro, poiché l’individuo è strutturalmente scisso e le teorie sono imperfette, trapassate da ciò che sfugge, da ciò che è diverso, dall’incoglibile, che non è un ente ma una struttura linguistica e fa parte della possibilità di esprimere, di pensare, in qualsiasi modo lo intendiamo. Ciò che maggiormente interessa le scienze umane è che sta pian piano sorgendo una nuova posizione che sviluppa complessi teorici che non tendono strutturalmente all’esaustività, dialogando con individui che non sono alla ricerca di un sentimento di completezza definitiva. D’altra parte la nascita di una simile visione nelle scienze umane, è fonte di dubbi e incertezze molto grandi. In generale i “filosofi pratici”, nella loro variegata attività di consulenza cercano di raccogliere e lavorare su elementi teorici, senza mai dimenticarsi delle difficoltà che un sistema certo, improntato su una definizione, può portare in un ambito che fondi sull’esperienza di rapporto, la propria prassi. L’attuale consulenza filosofica, infatti, si differenzia dalla maggior parte di questi approcci tradizionali poiché non cerca di fornire teorie preconfezionate su come la vita deve essere vissuta. Il consulente filosofico offre strumenti di pensiero, ma lascia che la comprensione filosofica cresca dall’individuo, senza imporre alcuna soluzione già concepita, come Socrate, che vede se stesso come una levatrice che aiuta altri a partorire le loro idee. La consulenza filosofica è una forma del filosofare che, a differenza della filosofia accademica, è interessata al processo più che al punto d’arrivo, che invece di mirare ai prodotti finiti, cioè alle teorie, dà valore al processo di ricerca, piuttosto che costruire teorie generali e estratte, incoraggia l’espressione peculiare del concreto modo di essere dell’individuo nel mondo. Il consulente filosofico è un abile partner in un dialogo attraverso il quale i consultanti sviluppano la loro visione del mondo individuale.86
Nella consulenza, secondo me, proprio perchè è un campo ancora «giovane», poco esplorato e proprio per i diversi valori messi in gioco da chi ne ha fatto di tutto ciò un lavoro, una professione, un oggetto di studio o semplicemente di diletto, ci si trova di fronte a punti di vista diversi a volte contrastanti: quello di chi vorrebbe di nuovo la filosofia seduta sul trono come regina delle scienze umane, quello di chi vorrebbe la pratica filosofica come strumento di diffusione della filosofia per tutti e infine quello di chi, e qui mi sento pienamente solidale, desidera lasciare la filosofia la vocazione «di pochi», che si fanno portavoce di questa passione, di questo amore per la Sapienza, di questa ricerca infinita di senso chiamata da secoli Saggezza, unica cura dell’anima.
Per far sì che tutto questo avvenga, è necessario che la filosofia torni a essere vicina ai «non filosofi», cioè a tutti coloro che non frequentano abitualmente i «grandi problemi» della filosofia, che non hanno studiato la sua storia, che non conoscono il suo linguaggio specialistico e che, spesso, neppure sono abituati alla lettura. I modi perché ciò abbia luogo esistono, così come le condizioni sociali e culturali. Se è giusto che la filosofia torni ad essere vicina ai «non filosofi», ritengo altrettanto importante che questi ultimi non abbiano poi la pretesa di chiamarsi filosofi: semmai saranno studiosi o storici della filosofia.
Se oggi domandassimo a un consulente filosofico di consegnarci una definizione della pratica filosofica, quale risposta darebbe? Sicuramente la stessa dei primi tempi arricchita, però, dalla saggezza data dal tempo: «La consulenza filosofica usa il dialogo filosofico per aiutare gli individui a riflettere in modo saggio sulle loro vite e a trattare con i problemi del vivere non patologico». Naturalmente, essendo una definizione arricchitasi col tempo, sarebbe di certo possibile (e forse auspicabile), ampliare questa definizione ulteriormente parlando dei vari metodi usati, delle fasi attraversate etc. La domanda, non a caso, è sempre stata anche il punto di partenza di molti articoli sulla consulenza filosofica, poiché ha permesso di tracciare, per quanto è, ed è stato possibile, i confini e la distanza dalle altre scienze; tutto ciò, perché può facilmente essere confusa con altro essendo collocata, fin dalle origini, tra la consulenza psicologica da un lato e le discussioni di filosofia e l’insegnamento dall’altro. Alla base di qualsiasi sviluppo temporale (alcuni esempi verranno citati più avanti), gli assunti teorici di base più spesso impliciti, ma senza dubbio cruciali, restano:
- molti «prob1emi del vivere» hanno una componente filosofica latente;
- molte persone sono capaci di un fecondo dialogo filosofico;
- il dialogo filosofico può aiutare le persone.87
Con l’intento di spiegare brevemente in che modo la Pratica Filosofica aiuta i suoi visitatori (la domanda di solito concerne il «metodo» adoperato), si risponderà che la filosofia lavora sui metodi piuttosto che con i metodi poiché l’obbedienza a quest’ultimi è un problema della scienza, non della filosofia. Il pensare filosofico non si muove lungo vie precostituite, piuttosto cerca la «strada giusta», sempre di nuovo, non usa pensieri abitudinari, piuttosto li sabota per poterli illuminare. Il punto non è di mostrare all’ospite una pista filosoficamente determinata, quanto piuttosto di aiutarlo ad avanzare per la sua strada. In ogni caso, tutto questo presuppone un’attitudine, da parte del filosofo, a rispettare l’altro «né con approvazione né con biasimo» (per usare le parole di Goethe), senza dover essere d’accordo con lui.88 Tutto ciò fa sorgere un’altra riflessione circa le attitudini filosofiche e non, o se vogliamo i metodi, che il Filosofo deve possedere per essere un consulente. A questo proposito è stato diviso in due tipologie, l’elenco delle competenze indispensabili per la consulenza:89 quelle filosofiche e quelle non filosofiche. Le competenze filosofiche e i metodi includono l’analisi concettuale, il pensiero critico e l’uso della logica informale, l’introduzione di concetti filosofici nelle sessioni, esperimenti di pensiero e fenomenologia. Le qualità e la conoscenza non filosofiche comprendono la capacità di distinguere i clienti idonei da quelli che andrebbero affidati ad altri specialisti, l’attitudine a creare un’alleanza terapeutica, e buone abilità comunicative. Conoscenza e metodi filosofici e non, sono entrambi essenziali per una buona consulenza filosofica.
3.6. I cinque stadi di Lahav90
«Non ci sarebbe bisogno di dire che le conversazioni di consulenza sono dinamiche e variabili e che la divisione in stadi dev’essere presa con un grano di sale, e gli stadi tendono a interpenetrarsi».91 Il suo approccio si basa sull’osservazione che la quasi totalità dei consulenti filosofici si affida all’ipotesi che le difficoltà manifestate dai clienti siano espressione implicita delle loro visioni del mondo, cioè delle loro «personali filosofie»: il modo di vivere «esprime una concezione del mondo, della vita, del sé, della moralità»,92 che può essere sottoposto ad analisi, argomentazioni e riflessioni filosofiche. Dato che queste visioni del mondo non sono in genere né esplicite, né articolate, il compito del consulente è proprio quello di spingere il dialogante a renderle manifeste e metterle alla prova. Il modello metodologico formulato da Lahav comprende cinque stadi:
- Materiale autobiografico e sua iniziale organizzazione;
- Sollevare la questione filosofica;
- Elaborazione filosofica del problema;
- Esaminare la questione filosofica cosi com’è espressa nella vita del consultante;
- Sviluppare una risposta personale alla questione.
3.7. I quattro passaggi di Raabe
Peter Raabe,93 ha proposto uno schema metodologico, in quattro stadi:
- II fluttuare libero;
- L’immediata risoluzione del problema;
- L’insegnamento come atto intenzionale;
- La trascendenza.
Questi stadi non sarebbero comunque da intendersi come un tragitto rigido e obbligato, poiché potrebbero non presentarsi tutti in ogni relazione (per esempio, talvolta ci si potrebbe fermare al secondo), oppure potrebbero scambiarsi di posto nella progressione cronologica del rapporto.94
3.8. I metodi strutturati o integrati : RSVP, Progress di Tim Le Bon
Tim Le Bon,95 di cui si è accennato sopra, ha invece sviluppato i metodi integrati per trattare particolari questioni: come Progress,96 per aiutare una saggia presa di decisione e il RSVP (Refined Subjective Value Procedure), per aiutare a chiarire i valori. RSVP97 è un processo che ha lo scopo di chiarire e sviluppare i valori del cliente, basandosi sull’idea che ci sono due modi di avere valori sbagliati: non essendo abbastanza creativi, sia non capendo che un certo valore accrescerà la nostra vita o non essendo sufficientemente critici, oppure pensando erroneamente che un certo valore la renderà migliore. II processo comincia con una fase creativa, dove i valori dei clienti sono considerati dalla vita del cliente come filosofia, terapia esistenziale e logoterapia. I passaggi successivi sono critici in quanto riguardano l’analisi dei valori, una valutazione critica delle conseguenze e dei presupposti accettabili di questi valori. Nel dettaglio, le cinque fasi della RSVP sono:
- II cliente individua i valori candidati;
- II cliente mette insieme i valori e giunge a valori più definitivi;
- II cliente e il consulente valutano insieme se ogni valore candidato può essere accettato
- e chiariscono l’importanza relativa di ciascun valore;
- II cliente e il consulente pensano alle virtù e agli obiettivi associati ad ogni valore.
Facendo poi un confronto con l’idea di Lahav (che la consulenza filosofica è una ricerca di saggezza), quella delle quattro fasi di Raabe, e lo sviluppo di metodi integrati, Le Bon si chiede se questi sviluppi sono compatibili e in che modo: «Senza dubbio i quattro passaggi di Raabe presentano una struttura in cui tutti e tre gli sviluppi hanno senso». Nella prima fase, spiega Le Bon, il consulente ascolta il cliente, scopre cosa spera di ottenere dalla conconsulenza e spiega cosa può offrire, mentre nella seconda fase, la risoluzione del problema, i metodi integrati entrano in gioco, lo RSVP può essere usato per sviluppare le idee sulla vita felice, Progress per il decision-making e cosi via. Se poi il cliente desidera andare oltre e non possiede un background filosofico, l’insegnamento può essere necessario prima di intraprendere la quarta fase. E qui che il pensiero di Lahav sulla consulenza filosofica, come ricerca di saggezza, diventa più rilevante. Sebbene sia eccessivo esigere che un cliente in crisi o senza un background filosofico legga i testi, il modello di Lahav diventa molto più accettabile visto nel contesto dei quattro passaggi di Raabe. Si potrebbe anche sottolineare che i metodi integrati hanno un posto nelle fasi 3 e 4 come nella 2: «Io e i miei colleghi abbiamo scoperto che metodi integrati come Progress e RSVP non solo sono d’aiuto verso l’immediata risoluzione del problema (fase 2 di Raabe) ma possono anche essere insegnati ai clienti per il proprio utilizzo (fase 3 di Raabe) ed essere discussi con i clienti nel loro viaggio verso la trascendenza (fase 4 Raabe)».98
Una posizione, quella di Tim Le Bon, decisamente spuria, forse lecita, ma certo totalmente diversa e assai meno filosofica di quella di Achenbach, della quale perde totalmente le principali qualità, consistenti proprio nell’abbandono del paradigma terapeutico e della finalizzazione lineare dell’agire tecnico-strategico, decisivo per molti consulenti per l’identità e il futuro della consulenza filosofica.
3.9. Il metodo P.E.A.C.E (PEACE process) di Lou Marinoff
Marinoff, invece, elabora un metodo teorico di approccio alla relazione d’aiuto, denominato da lui stesso PEACE process, strutturando il proprio approccio al problema posto dal cliente, in cinque fasi: Problema, Emozione, Analisi, Contemplazione, Equilibrio.99 Neri pollastri, riferendosi al metodo P.E.A.C.E., scrive: «Il metodo non viene in alcun modo giustificato né tanto meno fondato, e appare più una forma per rendere comprensibile ai profani il lavoro del consulente che una vera e propria descrizione».100 La posizione di Marinoff è abbastanza chiara su due questioni: la prima è il raffronto tra filosofia e psicologie, o meglio, la competizione tra i due blocchi teorici, che si risolve senza dubbio a vantaggio della filosofia; la seconda è che la consulenza consiste nell’astrarre un contesto filosofico da un problema personale in modo da poterlo risolvere con un discorso razionale (guardare il problema dall’esterno come se fosse un’altra persona ad averlo), portandolo (o lasciandolo) «in superficie» per poi risolverlo, attraverso il dialogo, «con gli occhi dell’altro». Questo significa che la consulenza di Marinoff può produrre effettivi benefici quando è possibile trattare in modo impersonale (al di fuori dallo specifico contesto relazionale del cliente), un problema, che diventa quindi concettuale, nel momento in cui riduciamo il nostro intervento all’“hic et nunc”, alla situazione che il cliente ci riferisce a parole. Ovviamente questo metodo consentirà di non entrare nelle questioni personali del cliente, come invece sono obbligati a fare gli psicoterapeuti, consentendo inoltre, sottolinea Marinoff, di risparmiare tempo e denaro.
3.10. La via del dialogo di G. Achenbach
La «via» del dialogo e quella scelta dal fondatore in quanto, secondo Achenbach, definire un metodo comporterebbe una pietrificazione del rapporto dialogico, una schematizzazione dei possibili tragitti di pensiero che in esso possono svilupparsi, un tradimento dello spirito indefinitamente critico e fluidificante che caratterizza la filosofia. Achenbach contesta la «leggerezza» con cui oggi giorno, ogni difficoltà esistenziale viene interpretata attraverso il «filtro» della malattia, cosi come l’idea per la quale gli uomini avrebbero in primo luogo bisogno di stabilità, sicurezza e che, una volta smarrito la strada, sarebbe compito del «terapeuta» far ritrovare. Achenbach, invece, convinto che l’uomo «senta la mancanza di esperienze di pensiero e di chiare intuizioni spirituali che destino l’interiorità»,101 ovvero di quanto è possibile trovare nella filosofia. Per questo viene escluso dalla Philosophische Praxis il tradizionale rapporto «terapeutico» delle psicoterapie, che Achenbach definisce una forma di comunicazione distorta:102 perché in essa l’uomo deve trovare un luogo nel quale poter trattare i suoi problemi senza venir trattato a sua volta;103 deve esser preso «sul serio» per quello che dice e non pre-giudicato sulla base di teorie. Tutto questo rende però impossibile, per Achenbach, definire un «metodo» della Philosophische Praxis:
se ci si lascia sedurre dalla voglia di dire in modo determinato cosa sia la Philosophische Praxis, come essa lavori, cosa sia il suo modo di procedere, cosa il suo interesse, quali i suoi scopi, con quali prospettive abbia a che fare, cosa si proponga di raggiungere — se si cerca di fare questo, ci si mette in ridicolo e si ridicolizza la stessa filosofia. Poiché la filosofia giunge a forme determinate e determinabili sempre solo nel lavoro individuale, così come la Philosophische Praxis vi giunge nella consulenza individuale.104
Egli si limita, perciò, solo ad alcuni accenni, per esempio una sintetica descrizione di procedimento dialettico-fenomenologico di derivazione hegeliana:
nella consulenza filosofica mi interessa innanzitutto e decisamente prendere ciò che viene esposto come «la cosa stessa» e questo si dimostra di norma un atteggiamento fruttuoso: presa cosi, la «cosa stessa» si mostra contraddittoria e comincia a muoversi e a svilupparsi ulteriormente. La «cosa» diviene «dialettica». Ma questo solamente nel momento in cui rinuncio a interrogare colui che racconta o a incalzarlo con domande del tipo: cosa vuole dire con questo? A che scopo lo dice? Perché? — fin tanto cioè che non voglio «scoprirlo», andando oltre quello che dice, ma interessarmi a ciò che dice.105 […] indicazioni apparentemente generiche sulla natura della pratica, che è azione comunicativa, esplorazione e organizzazione dialogica dei problemi, critica della «comunicazione distorta» e di ogni «trattamento»,106 e deve mantenere la massima apertura e tolleranza per l’ospite (diversamente da quanto fanno tutte le teorie che sanno bene qual è il giusto e il vero); che, di conseguenza, non dispone in senso positivo di alcuna teoria, che sia solo applicabile.107 Non è una «nuova terapia», anzi, essa non è affatto una terapia»,108 che, soprattutto, è in forte contrasto con quella forma di positivismo teorico che domina ovunque i! panorama della consulenza e della terapia,109 al punto da superare la divisione tra teoria e metateoria […] essa non è meta-teoricamente controllata, non viene cioè prima concepita e poi riflessa, ma è metateoria praticante, si costruisce cioè solo come processo riflettente e pratico;110 con la considerevole conseguenza che sia il filosofo che l’ospite si sentono privati di ogni sicurezza […], la consulenza filosofica è per entrambe le parti uno sbalordimento.111
Infatti, l’abbandono di ogni forma di precomprensione teorica e dell’atteggiamento positivista tecnico-strategico, apre di fronte a essi uno «spazio incerto e in qualche misura libero»,112 entro il quale e finalmente possibile far riferimento potenziale alla «totalità di quanto la storia della filosofia ci ha tramandato»,113 qualcosa che come «pura oggettività» o — hegelianamente — «in sé», non ha valore, e che deve diventare «per noi», proprio attraverso il lavoro della Philosophische Praxis. Si evidenzia cosi perché questa forma di consulenza sia «filosofica» e differisca dalle psicoterapie, perché «non «impartisce» consigli, ma problematizza proprio il bisogno di cercare consiglio, […] non si pone al servizio del desiderio che è l’origine della visita, ma si confronta con esso in modo trasversale, nonostante le sia contemporaneamente debitrice del proprio status di professione».114 Non poteva che essere cosi, viste le specificità della filosofia, che
invece di servire senza riserve i bisogni con i quali viene in contatto, cosi come le sono sottoposti, è giustappunto la loro critica approfondita, al punto che non troviamo in essa uno sgravio da problemi, preoccupazioni, domande, dubbi, tentazioni e confusioni, poiché, al contrario, apporta a tutte queste cose l’ossigeno che le accende e le fa bruciare. Tira fuori ciò che non vogliamo vedere, e ci sbarra Ia strada con ciò che minaccia di buttarci fuori dalla carreggiata.115
Parlando di metodo è importante ricordare che lo stesso Socrate (così come ancora avviene oggi nelle pratiche filosofiche), non si preoccupa di definirne il concetto. Lo stesso termine elenchos, che può significare «confutare», «esaminare in modo critico» e «censurare» viene usato «per descrivere, non per battezzare ciò che fa». Le ragioni per cui ciò avviene sono varie e tra loro connesse: perché l’elenchos è principalmente ricerca, dunque, solo impropriamente riducibile a un «metodo»; perché Socrate non è un teorema ma si occupa esclusivamente di morale (che, in senso ampio, include la ricerca della saggezza intesa come la capacità di condurre la propria vita in modo giusto, buono e felice, affinché sia una buona vita); perché — soprattutto — argomentare a favore dell’elenchos, lo costringerebbe a «dispiegare una ricerca meta-elenctica».116 Certamente, si potrebbe ricostruire il «metodo socratico» ma solo per capire meglio il suo modo di filosofare:
l’elenchos socratico è la ricerca della verità morale per mezzo di un’argomentazione che, procedendo per domande e risposte tra loro antagoniste, prevede che una tesi venga discussa solo se asserita come personale convinzione del rispondente, tesi che può considerarsi confutata solo se la sua negazione viene dedotta dalle stesse convinzioni del rispondente.117
Tuttavia, tale «metodo» essendo impiegato da lui, solo nel campo della ricerca di verità morale, «non c’è ragione di supporre che Socrate ritenga che anche le verità proprie delle arti produttive o della matematica o della logica debbano essere accertate per mezzo dell’argomentazione elencatici»;118 e neppure che essa sia adeguata alla determinazione del metodo stesso. Per esempio, in ambito matematico i termini devono essere definiti «prima della dimostrazione di qualsiasi teorema»,119 dunque l’individuazione di certezze immutabili risulta necessaria, mentre «i termini morali vengono dal linguaggio comune, il cui significato risulta stabilito molto prima che si possa tentare di fissarlo in una definizione socratica»,120 per cui non è necessario muovere da termini precedentemente definiti e fissati univocamente. La limitazione al campo morale significa pertanto che, nell’ambito della saggezza, intesa come capacità di condurre la vita, la scienza esaminante cui mira Socrate, è sufficiente e adeguata. Assieme alla sua applicabilità alle sole verità morali, due regole di questo «metodo», sono fondamentali: «trattenersi dall’indulgere in lunghi monologhi»,121 che sposterebbero la ricerca sul piano dell’elaborazione teoretica, ed esprimere sempre tesi in cui si crede veramente, ovvero «essere sinceri».122 Queste regole servono a duplice scopo: «Verificare la serietà del dialogante nel perseguimento della verità,123 vale a dire che egli esprima opinioni coerenti con il suo modo di vivere,124 e far sì che il dialogo filosofico giunga ad esaminare non «semplici proposizioni, ma — le vite stesse- di chi le sostiene».125 Con quest’ultimo aspetto, viene in luce il «duplice obiettivo dell’elenchos: scoprire in che modo ogni uomo debba vivere e sottoporre a prova l’individuo che si è assunto il ruolo di rispondente, per scoprire se quest’ultimo stia conducendo la vita nel modo in cui è giusto fare».126 A lui premeva, come ha sottolineato Reale,127 di mettere in evidenza non il modo in cui si può pervenire a determinate conclusioni, ma le conclusioni stesse; non lo interessava il metodo, ma solo gli esiti del metodo. Non si dimentichi infine che, la scelta del «metodo» da utilizzare nella consulenza, dipende essenzialmente, da quale «Tu» ha davanti a sé il consulente e dalla sua capacità di riconoscere, per quanto è possibile, quell’originale e particolare «Tu». È ancora importante sottolineare, una distinzione fondamentale, in quanto delinea chiaramente il suo campo d’azione da aggiungere, a mio avviso, tra gli assunti teorici della pratica filosofica: la differenziazione, sottolineata da Marinoff, tra malattia e malessere e gli effetti che producono il dolore e la sofferenza. Alla base c’e una grande verità: «Non sono i fatti che in sé turbano gli uomini, ma i giudizi che gli uomini formulano sui fatti».128 Un danno fisico, come una ferita o una malattia probabilmente causa dolore. Il dolore è una sensazione fisica e in linea di massima ha anche una funzione ben precisa: serve a segnalarti che qualcosa non funziona e che si ha bisogno di cure e di attenzione.
La sofferenza, d’altro canto, è uno stato mentale. Come nel caso dell’offesa, per avvertirla devi esserne complice volontario. In ogni caso, è necessario che tu ti renda conto che, mentre il dolore può esserti inflitto da terzi, o da te, la sofferenza non ti può essere inflitta con lo stesso meccanismo. Puoi essere condizionato da circostanze esterne che aumentano o riducono la tua tendenza a infliggerti la sofferenza, ma la sofferenza è sempre tua. Da un certo punto di vista è una buona notizia: se possiedi la tua sofferenza, puoi anche sbarazzartene. Ma non puoi farlo finché provi dolore.129
Nonostante sia sempre importante tenere a mente che il dolore danneggia il corpo e la sofferenza è l’eco del dolore nella mente, non si può trascurare il fatto che dolore e sofferenza, a volte, possono essere collegati causando spesso confusione e quindi la scelta di una cura sbagliata. In alcuni casi, laddove il malessere causa un dolore acuto o cronico, causa anche un malessere (sofferenza) persistente, come conseguenza di quel dolore: «Se la tua sofferenza deriva soltanto dal dolore, allora per alleviare la sofferenza, devi alleviare il dolore. Questo è un problema medico, non filosofico».130 Analogamente, le persone costantemente depresse a causa di una disfunzione cerebrale, soffrono in maniera cronica a causa dell’eco mentale di quel disturbo. Generalmente percepiamo la sofferenza e non il disturbo, perché il cervello non soffre per la disfunzione. Tuttavia, quando assumono farmaci che correggono la disfunzione neurochimica del cervello, la loro sofferenza si riduce, o almeno, termina quella particolare forma di sofferenza. In questo caso si avrà bisogno di una persona laureata in medicina e specializzata in psichiatria o neurologia etc. Altri invece potranno trovarsi a dover affrontare altre forme di sofferenza, come dilemmi di ordine morale che, in origine, sono di natura filosofica. Queste scelte filosofiche rientrano nella categoria del minore dei mali, celebrata da Aristotele. La filosofia è utile, quando soffri, ma non quando sei in preda a un dolore acuto; coloro che cercano la guida filosofica, o qualsiasi altro genere di terapia della parola, in genere avvertono sempre una qualche forma di sofferenza, che non è causata da una disfunzione cerebrale. Si tratta sempre di persone mentalmente e fisicamente funzionali, che si sono trovate in circostanze che hanno generato o favorito il loro stato di sofferenza. Queste persone non vogliono soffrire e, giustamente, considerano il dialogo come uno strumento che, da un lato può rivelare le cause della sofferenza e dall’altro, può indicare il modo di superarla. Nell’antichità, la filosofia veniva chiamata «medicina per l’anima» o «cura dell’anima»e svolgeva questo suo compito in maniera eccellente. «Nel caso della sofferenza il problema si inverte: proprio come puoi essere influenzato a soffrire molto, ma inutilmente, puoi anche imparare a minimizzare o ad abolire la tua sofferenza»;131 importante è desiderarlo, non volerlo (in quanto la sofferenza scaturisce sia dall’ottenere che dal non ottenere ciò che vuoi), e mettersi in viaggio per realizzarlo: «Una volta che è stato in grado di «possedere» la propria sofferenza, è stato anche libero di prendere la decisione di sbarazzarsene».132 Per concludere, leggendo un altro suo libro dal titolo, tradotto in italiano, Pillole di Aristotele, un’altra riflessione di Marinoff merita attenzione:
Prima che la filosofia possa cambiare la tua vita, puoi trovarti nella necessità di modificare la tua filosofia di vita. È molto semplice. Piuttosto che cercare di costringere il tuo ambiente a cambiare, obblighi te stesso a modificare il tuo ambiente. Questo è un atto di volontà. Visualizza il tipo di posto del quale hai bisogno per compiere il tuo dovere, cosi come lo concepisci. Ora cerca di focalizzare, meglio che puoi, l’immagine e persisti nel cercare di metterla in pratica. La strada per realizzarla si materializzerà passo dopo passo. Diventerai ciò che vuoi. Questa è l’essenza dell’insegnamento di Buddha. E anche possibile, auspicabile e preferibile raggiungere i propri obiettivi senza danneggiare gli altri.133
Lo stile di vita di ciascuno di noi dipende molto anche da come la vita viene progettata e pensata, da quale senso abbiamo adottato per essa, da quanto tempo riflettiamo sui modi in cui la conduciamo, in altre parole, dipende dalla nostra «visione del mondo». E su questa, cos’altro se non la filosofia ha qualcosa da insegnare?
Marinoff, come altri promotori delle pratiche filosofiche, utilizza degli acronimi per spiegare meglio le linee guida che più o meno seguono nella loro attività di consulenti:
- PEACE [pace] di Louis Marinoff descritto nel suo libro, Platone è meglio del Prozac: P problems; E emotions; A analysis; C contemplation; E equilibrium;
- GROW [crescere] di Max Landsberg, consulente tedesco a cui l’acronimo serve al coaching: G goal; R reality; O options; W wrap-up (impacchettare);
- HORIZONT [orizzonte] Kay Hoffmann, consulente filosofica svizzera attiva a Monaco di Baviera: H Herausforderungen (sfide da accettare); O Optionen (opzioni da scoprire, ed è compito del consulente filosofico scoprire quali); R realistische Einschätzung (opzioni reali, bisogni concreti); I Intuition (elevarsi per vedere le opzioni dall’alto)a; Z Zielsetzung (mettersi dei paletti per non far sconfinare l’analisi)b; O Organisation (elementi concreti cui affidarsi); N Nutzen (vantaggi, la consulenza filosofica dice qual è a scopo); T Tanz (danza, le sinergie per entrare in relazione).
a secondo l’immagine di Hadot vedere le cose dal punto di vista di Sirio, dalle stelle;
a terminabilità della pratica filosofica.
4. La ricerca di Senso come cura dell’Anima
L’occhio non vedrebbe mai il sole se non fosse simile al sole, né l’anima vedrebbe il Bello se non fosse bella.134
Altrove135 ho raccontato le radici storiche-filosofiche di tutto ciò: Democrito, Eraclito, Socrate, Platone, Arisotele, Seneca, Epitteto etc. sono solo alcuni dei nomi citati; e d’accordo un pò tutti che Socrate è considerato il consulente-filosofo per eccellenza. Con Socrate, si è visto,136 inizia il «periodo antropologico» in senso proprio. L’idea centrale attorno alla quale ha ruotato per intero tutto il pensiero di Socrate, sia nel contenuto che nel metodo, consisterà nella ricerca di una precisa risposta all’enigma del dio di Delfi: «Conosci te stesso», e la risposta che ha dato Socrate è stata: «L’uomo è la sua anima». Con Socrate,
si impone in via definitiva lo spirito della scienza e del puro logos, con Ia relativa fiducia di poter raggiungere per questa via ciò che per l’uomo maggiormente conta; […] Partendo da questo punto, Socrate credette di dover correggere l’esistenza: egli, come individuo isolato, entra con un’aria di disprezzo e di superiorità (l’Ironia),137 quale precursore di una cultura, di un’arte e di una morale di tutt’altra specie, in un mondo dove noi ascriveremmo a nostra massima fortuna il riuscire a coglierne con venerazione un frammento.138
Chissà se Nietzsche, all’inizio del secolo scorso nello scrivere ciò e ripercorrendo il passato fino a Socrate, si riferiva anche al suo presente, prevedendo così il futuro: d’altronde se è vero che «tutto scorre» e passando va via e pur tornando, non lo farebbe nel medesimo modo, le parole dei grandi uomini risuonano sempre e ancora più che mai, attuali in ogni tempo; la filosofia compie così, in eterno, il suo dovere. Tutto ciò, riportato al discorso della pratica filosofica, non è altro per me, che la metafora, ancora una volta, dei giorni moderni, ripetendosi così la storia: i sofisti rappresentano anche oggi, tutti coloro che hanno la certezza di possedere la Verità e la presunzione di poter «etichettare», in una parola, tutta la vita di ogni uomo. La filosofia resta in disparte a guardare, interpellata, forse in extremis, quando piuttosto che alla (o alle) Verità si giunge ad un’aporia e l’uomo, essere piccolo e relativo, vi si rivolge, chiedendo disperato se esista il (o un) senso della vita. Non ora, non per l’uomo «incarnato», risponde il filosofo, che non sa nulla ma sa dove cercare: nella propria anima. Ad ognuno il compito di cercare, allora, un senso nella propria psiche! Per far sì che ciò si compia, secondo me, ci vorrebbe una «rivoluzione» nella vita di ogni uomo, che abbia inizio soprattutto, ma non solo, nelle scuole degli adulti di domani. Occorre un cambiamento nel modo di intendere l’educazione, riportarla al suo significato originario di educare, che viene dal verbo latino educere e che significa «trarre fuori», l’essenza unica e la personalità originale di ogni uomo. Sfruttando l’entusiasmo del bambino, poi, abituarlo a vivere una vita buona affinché da adulto la sua anima virtuosa la scelga da sé e trovi il proprio senso. Quello che spesso la scuola e i «grandi» dimenticano, è che sono stati anche loro dei «veri» piccoli, grandi uomini quando erano bambini, «dei fuochi da accendere e non dei vasi da riempire». Se tutto ciò non trova (purtroppo spesso), terreno fertile nella scuola, è la consulenza filosofica (nelle sue varie forme), che sta raccogliendo la sfida, facendo i primi passi: pedagogia del dialogo, dialogare e insegnare a dialogare costituiscono il nesso e lo scopo ultimo di tutto il processo educativo (non scolastico) che la Filosofia s’impegna a raggiungere. Nel dialogo si compie, la Filosofia lo sa bene, un’attenzione rispettosa all’altro, un coinvolgimento totale, una disponibilità ad essere costantemente e perennemente in cammino. Attenti e in ascolto, in una prospettiva nomadica dell’esistenza: dove nulla è mai dato per intero, mai soddisfatto. Nell’ottica della reciprocità (ma anche in quella dell’interdisciplinarietà), l’autentico maestro (o consulente), non è colui che fornisce risposte, contenuti di sapere, ma chi è in grado di suscitare domande. Il vero maestro (consulente), è maestro di domande. Intorno a questa affermazione si potrebbe articolare nuovamente, l’intero progetto didattico (oltre che organizzare quello della consulenza), teso a raggiungere non un ‘sapere statico’, bensì ‘nomade’.
Per rispondere c’è stato bisogno di chiarire, filosoficamente,139 il senso del domandare e quindi la struttura della domanda: «Chi è maestro? Che significa domandare? Che cos’è la domanda? Un aspetto primario ci viene dal verbo latino «inter-rogare», in cui si dice prima di tutto un trasportare da un luogo all’altro, rogare, un collegamento-tra, interrogare […]. L’interrogare è proprio, non solo come facoltà ma soprattutto come condizione, di un essere finito. Ma: la coscienza del nostro limite ci mette condizione di percepire il mistero che ci circonda. Il non sapere, oltrepassa infinitamente il sapere e le sue possibilità. Il mistero, a sua volta, è la sorgente elementare della possibilità del domandare. Paradossalmente si è andati dalla questione sulla domanda all’inquestionabile. È proprio a questo livello che diventa decisiva sia la figura del maestro sia la costituzione di una psico-pedagogia interrogativa. II magister, la cui radice rinvia a magnus, grande, è colui che essendo più grande si pone come guida. II rapporto con il sapere, in questo senso, ha il sapore della ripetizione di un percorso. È tuttavia decisivo che, solo se il maestro (consulente), è strutturato come un pensante interrogativo, sarà capace di essere maestro di domanda. Il maestro (consulente), infatti, non è soltanto 1’esperto che trasmette dei contenuti, piuttosto egli fornisce risposte a mo’di domanda nella convinzione che la ricerca non ha fine. La pedagogia della domanda è quindi orientata a costruire un pensiero interrogativo, contrapposto a quello semplicemente assertorio. È proprio a questo livello, come si può comprendere facilmente, che diventa urgente costruire una antropologia della differenza che guidi una psicologia della differenza, ancora tutta da pensare. Il pensiero interrogativo si presenta inoltre come interpretante, e quindi ridisegna un nuovo rapporto con la verità e una nuova definizione di essa: interrogazione-interpretazione-verità. Interrogare la verità significa chiedere a qualcuno di manifestare il proprio approccio alla verità, di metterlo in comune e in discussione per camminare insieme verso quella verità che nessuno possiede in esclusiva e che tutti cerchiamo. Essere maestri (consulenti-filosofici), di domanda significa, allora, sollecitare una mentalità dialogica di accoglienza del mistero e di condivisione del percorso. L’interrogazione, nella sua più radicale espressione metafisico-religiosa, è rogatio, che è atteggiamento dialogico fondamentale tra l’uomo e Dio.140
Il filosofo Kierkegaard riteneva che la situazione più alta fra uomo e uomo fosse quella in cui il discepolo diventa l’occasione perché il maestro comprenda se medesimo e viceversa. Tale occasione si mette in atto in modo veramente fruttuoso nel caso che si riesca a «creare una unità fra maestro e discepolo: si tratta di una unità che si produce solo mediante l’amore del maestro per il discepolo. Socrate, con la sua dichiarazione di non-sapere, cercava proprio questo: «Perché, che cosa mai era la sua ignoranza se non l’espressione per l’unità dell’amore verso il discepolo?».141 In effetti,
se l’unità non si potesse realizzare con l’elevazione, si dovrebbe cercare con l’abbassamento,142 del Maestro al livello del discepolo, proprio al fine di poterlo elevare e questo non può essere se non un atto d’amore. È evidente che il Maestro, che con la maschera del «non-sapere»,143 vuole avvicinarsi il più possibile al discepolo per liberarlo dall’ignoranza, non può se non negare, di conseguenza, di essere Maestro. Perciò, in senso assiologico, come l’affermazione del non essere sapiente è propria del vero sapiente (del vero sapiente di «sapienza umana», come Socrate stesso dice di essere), così, di conseguenza, l’affermazione di «non essere un Maestro» è propria del vero Maestro, che in questo modo accende nel discepolo la fiamma del sapere.144
Per concludere, la grandezza di Socrate, si è detto, ciò che più d’ogni cosa lo rende Filosofo è di possedere la scienza che più di ogni altra riguarda l’uomo, la conoscenza di se stessi, la sola che permette di scoprire di non sapere nulla e continuare a cercare. Avendo utilizzato la metafora del rapporto tra maestro e discente, per spiegare il rapporto che intercorre tra consulente-consultante, si può ora affermare che, alla luce di ciò, il consulente è una sorta di magister, un mentore, per chi ha perduto la strada della «vita buona» e per chi non ha potuto o voluto intraprenderla. E ancora, se a scuola (comunque si concepisca), il bambino è obbligato ad andarvi, questo non succede per chi si reca dal consulente filosofico: quest’ultima è frutto di una scelta libera, dove, in qualsiasi momento si può scegliere di tornare indietro.
5. La cura dell’Anima come conoscenza di sé e dell’altro
Quanto detto introduce un aspetto importante del mio lavoro la figura del consulente filosofico o meglio del filosofo consulente. Chi è il filosofo in grandi linee si è detto, ora bisogna cercare di rispondere ad un’altra domanda: di cosa si occupa? Oltre a curare la sua anima, si è detto, «vive in un mondo dove l’altro assume un ruolo fondamentale nella ricerca di se stesso soprattutto, ma non solo, come attestazione della finitezza e del limite. Se la nostra vita è una ricerca di senso, in ogni istante debbo ridecidermi per il mio senso d’essere. Avere un senso, è esistenzialmente imprescindibile dal dare un senso all’altro, che mi costringe cosi nuovamente a ridecidermi, cioè fare una scelta che inevitabilmente cambierà la mia vita e non solo»; l’altro è un altro modo per avere cura anche della mia anima. Se
il tempo di ciascuno è commisurato dal tempo per l’altro […]. Vedere l’altro e nell’altro scorgere il comandamento etico che non si frappone come interruzione e ostacolo del mio cammino, ma si colloca come pietra miliare che segna il mio cammino. Dal percorso isolato alla strada che si incrocia continuamente con altri percorsi tra cui bisogna riconoscere e costruire il proprio. Ciò significa che la mèta della vita non è già data da subito è un percorso nomadico continuamente in cerca di un senso nella dialettica tra l’essere-in-sé e il rimanervi egoisticamente chiusi e l’uscire-da-sé in uno smarrimento, che è trascendenza e quindi non ha il sapore amaro della perdizione. Rispondere all’appello dell’altro significa sollevarlo, è questo il verbo impiegato nel testo della parabola evangelica del buon samaritano, e caricarselo sulle proprie spalle. In tal modo ci si prende cura dell’altro. Anche il samaritano vede, ma a differenza degli altri non passa oltre. Anch’egli è in viaggio, ma ciò che è accaduto in quella strada lo riguarda; si ferma e compie alcuni gesti paradigmatici: gli si avvicina ed è mosso a compassione, se lo carica e si prende cura di lui e, infine, investe del proprio denaro in maniera totalmente gratuita. II primo gesto è segno dell’iniziativa personale, dell’interessamento, della disponibilità a lasciarsi interrompere e infine, della generosità. Solo se ci sono questi caratteri e possibile muoversi a compassione.145
II «vedere» è qui proprio la capacità di vedere altrimenti e di accogliere il bisognoso e prendersene cura.
L’essere mosso a compassione significa riconoscere nell’altro qualcosa me lo assimila nella differenza, l’elemento accomunante di umanità che oltrepassa le distinzioni di razza, cultura, religione, o, meglio, le precede. Avere compassione non basta, bisogna farsi carico, caricarsi delle sofferenze dell’altro e rispondere all’appello significa sollevare l’altro (epibibázo) e portarlo sulle nostre spalle. In modo che si prende cura l’uno dell’altro.146
Il samaritano (non si dimentichi che per gli Israeliti è lo straniero eretico, quello che per Atene è stato Socrate, anche se non era straniero) simboleggia, il filosofo che vede, prova compassione e si ferma. Si prende cura di lui, gli dona il suo tempo, anche se non basta ad alleviare il dolore. Il filosofo è colui che non sa, ma sa dove è diretto perché ha «abituato» gli occhi dell’anima a (ri) vedere altrimenti; che prende per mano il bisognoso e gli indica la strada o meglio, da dove cominciare: prendendosi cura di sé. La scelta del se e come non spetta però al filosofo (che ha il suo viaggio personale da compiere), e questo è il compito anche di chi della filosofia ne voglia fare non solo una vocazione, ma anche una professione, quella del filosofo consulente. I passi platonici dell’«Apologia di Socrate», come tutta la vita di Socrate, esprimono quanto detto in modo perfetto:
Io vado intorno facendo nient’altro che cercare di persuadere voi, e più giovani e più vecchi, che non dei corpi dovete prendervi cura, né delle ricchezze né di alcun’altra cosa prima e con maggiore impegno che dell’anima in modo che diventi buona il più possibile, sostenendo che la virtù non nasce dalle ricchezze, ma che dalla virtù stessa nascono le ricchezze e tutti gli altri beni per gli uomini e in privato e in pubblico (30A-B) .
Quale senso assumerà la vita di ognuno, se si vivrà per le ricchezze o per rendere l’anima bella, quante volte si cambierà strada per ridare nuovo senso a se stessi e quante volte ci si fermerà per ascoltare un Tu, «che incontro come tempo del bisogno e acquista quindi, il senso di una temporalità che convocandomi mi oltrepassa e, in questo oltrepassamento, il tempo dell’altro si produce come il risultato di una gratuità»147, tutto questo dipende, in ogni momento, solo dalla scelta libera di ciascun uomo nel cammino della sua vita. «Naturalmente l’aver cura va oltre l’immediatezza del bisogno presente, investe per il futuro, cioè per un tempo che può non essere il mio tempo perché non mi appartiene e che quindi non posso assolutamente ipotecare».^[149]
Quella di Socrate, afferma Neri Pollastri,148 si è rivelata ai nostri occhi una pratica della filosofia che richiede la partecipazione diretta di un dialogante, il quale, quando metta in gioco sinceramente le proprie idee e se stesso, viene investito della responsabilità di ricercare in proprio la conoscenza sulle cose del mondo, la saggezza, delle quali non c’è scienza certa, ma solo conoscenza cangiante, sempre di nuovo da «sottoporre ad esame». In questa pratica della filosofia, il dialogante può e deve, essere chiunque, dato che la virtù non sì apprende per accumulo di cognizioni, ma si ottiene attraverso l’incessante esame che ha inizio dalla consapevolezza della propria ignoranza. Socrate è dunque il «filosofo del quotidiano, come nessun pensatore era stato prima e come nessuno sarebbe stato dopo di lui»,149 poiché già Platone abbandonerà questo insegnamento del maestro, spostandosi presto verso una forma di elitarismo che lo porterà a metter da parte non solo l’adesione alla costituzione repubblicana, ma anche il principio, espresso nell’Apologia, che «una vita che non metta sé stessa alla prova, non è degna di essere vissuta» (38A). Spinto dalla suggestione esercitata su di lui dalla matematica, ma probabilmente anche dal fallimento politico di Socrate che egli vedrà riscattato dal filosofo e matematico Archita, Platone si avvierà infatti sulla strada della «scienza della certezza».150 In tal modo, Platone apre la strada all’elitarismo della filosofia che dominerà la cultura occidentale fino ai giorni nostri. Viceversa, l’originale e genuino approccio socratico sembra davvero in grado di costituire la «base filosofica minimale» dell’agire del filosofo consulente, proprio perché non è mai strumentale ed implica sempre la partecipazione attiva, consapevole e responsabile di ciascun individuo. Ciò vale a maggior ragione allorché si consideri che, svincolandosi dalla ricerca della certezza e dalla conseguente necessità di costruire e trasmettere sistemi di conoscenze, Socrate non ha bisogno, per filosofare, di assumere saperi preesistenti, né di far ad essi riferimento se non per favorire l’esame e la ricerca che costituisce il dialogo filosofico. Per il resto, egli semplicemente filosofa assieme ai suoi compagni, discutendo ed esaminando liberamente le loro stesse idee, senza riferimenti ad autorità, conoscenze, saperi. Questo atteggiamento allontana il problema della «filosofia del consulente», cosi come quello della sua personale formazione nozionistica: non è importante quali filosofie e pensatori si ritengano personalmente più importanti, giacché essi devono comunque sempre esser messi da parte, relegati nel «non sapere» di una ricerca che verte su un problema, su un discorso, che nella consulenza è quello del consultante, ogni volta nuovo e sul quale scienza certa non si dà. Cosi, se ogni conoscenza è utile, ma nessuna e indispensabile, sarà necessario far riferimento a nozioni materiali, vale a dire alle filosofie dei grandi pensatori della storia, ma anche al mito, alla religione, al costume, al senso comune e, modernamente, alle scienze umane come la psicologia, la sociologia, l’antropologia. Infatti, tutti questi ambiti fanno parte del «conglomerato ereditario» entro il quale la ricerca filosofica deve produrre un ordine, che nella consulenza sarà quell’ordine che il consultante riterrà a lui più congeniale, a prescindere dalle preferenze del filosofo. Ma ancor più necessarie saranno le nozioni formali, vale a dire:
le conoscenze formali riguardanti i principi del pensare, dell’agire e del produrre (principi logici, morali, giuridici, estetici, ecc.), cosi come essi sono stati formulati in differenti modi nel corso della storia del pensiero filosofico; di conoscenze riguardanti principi metodologici riferiti agli ambiti suddetti (principi del metodo deduttivo, induttivo, dialettico, trascendentale, fenomenologico, empirico, euristico, ermeneutico, analogico, simbolico, ecc.); di conoscenze riguardanti dottrine normative della conoscenza, del discorso, della comunicazione, o della morale o di canoni artistici e cosi via.151
Queste conoscenze, di solito ben padroneggiate da un filosofo sono, infatti, spesso confuse o travisate da chi non sia aduso alla filosofia e sono necessarie per produrre ordine nel logos del consultante. Così come lo sono altre fondamentali competenze del filosofo: le capacità sistematica e critica, perfino la particolare forma di saggezza di cui egli deve esser portatore (il sapere di non sapere, l’ironia, la dialettica, rispetto, l’empatia etc.). Tuttavia, anch’esse devono ogni volta esser subordinate a quel «disconoscimento del sapere», che ne fa qualcosa di umano, di soggetto al cambiamento e che va in gioco nel dialogo filosofico, anche per lo stesso filosofo consulente.152 Grazie ad una tale lettura socratica del filosofare, il lavoro di consulenza non rischia più di trasformarsi in insegnamento sapienziale, rimanendo aperto all’universo del consultante e genuinamente filosofico, in quanto ricerca dispiegata sul suo logos. Viene in tal modo anche garantito che il «problema» dal quale si avvia il dialogo sia affrontato senza l’esplicita e prioritaria intenzione di essere risolto (l’intenzione è infatti solo quella di ricercare ed esaminare), senza la sua riduzione a mera questione tecnica, dato che, come voleva Socrate, le technai sono tenute fuori dalla scienza della virtù, ovvero da quella conoscenza umana che la filosofia può e vuole ricercare, perché, in assenza della saggezza, del tutto inutili alla conduzione di una vita riuscita. In tal modo, la ricerca dei due dialoganti, in una seduta di consulenza filosofica, può vertere esclusivamente, come afferma Platone nell’Eutidemo, su «una scienza fatta in questo modo, che il fare coincida con il sapersi servire di quello che si fa» (289B).
Se sei il giovane Alcibiade corteggiato da Socrate, sei lasciato alle tue sole risorse per decidere cosa fare delle enigmatiche ironie che ti ha proposto. Se cadi in errore e lui vede che sei caduto in errore, potrebbe non alzare un dito per dissipare il tuo errore, e tanto meno sentirà l’obbligo di fartelo togliere dalla testa […]. Cosa diresti? Non, certamente, che non gli importi che tu sappia la verità, ma che gli importa di più qualcos’altro: che se vuoi arrivare alla verità, devi farlo con le tue sole forze.153
«Spesso, scrive Michelantonio Lo Russo, si tratta di persone che vogliono capire meglio come vanno le cose, persone che spesso non hanno nulla a che fare con la filosofia».154 Il consultante è per me un Uomo, che durante il cammino ha perduto la bussola, il senso; è un’anima «giovane», nonostante tutto, a volte entusiasta, che ha voglia ancora e sempre di mettersi in gioco, di mettersi in viaggio, che ha scelto il Bene piuttosto che il Male. È un uomo che si trova, o si sta mettendo in cammino, alla ricerca di un senso, è
l’uomo che soffrendo matura se stesso — matura di fronte alla verità. La sofferenza ha non solo dignità etica — essa ha anche una rilevanza metafisica. La sofferenza rende l’uomo perspicace e il mondo trasparente. L’essere diviene trasparente nel profondo di una dimensionalità metafisica. Nella sofferenza si delinea e si compie un esercizio di libertà del tutto particolare e ci si immerge in una situazione di verità.155
Quali possono essere alcuni fattori scatenanti che spingono una o più persone a cercare l’aiuto di un consulente filosofico? Secondo Lo Russo uno dei principali motivi è la «crisi biografica». Inoltre, secondo un’indagine statistica, svolta presso i philosophische Berater tedeschi, si è compreso, che tre sono i momenti della vita in cui spesso la psicoanalisi fallisce e interviene la pratica filosofica. Si tratta di:
- fase della vita → gradi della filosofia della vita;
- giovinezza → esperimenti con mondi possibili;
- maturità → confronto con crisi e rinascite;
- Vecchiaia → conflitto tra nichilismo e mistica (senior counselling e università della terza età).
Passano i secoli ma lo «strumento» preferito utilizzato dalla filosofia (e non solo), resta il dialogo,156 che tra l’altro, é una delle «quattro vie di Hadot», quattro, infatti, sono le cose da imparare: imparare a vivere, imparare a morire, imparare a leggere e imparare a dialogare. Il principio dell’Uno-Tutto invece, consiste nell’intendersi come parte di un tutto, un granello nell’universo o una goccia d’acqua nell’oceano. Qui è in gioco l’etica stoica perciò tutto é governato da una ragione razionale, e la logica stoica non è una retorica, ma una ‘dialogica’, è un discorso interiore. «A questo punto — d’accordo con Karl Albert157 — se la filosofia è concepita qui come una «ascesa», tale ascesa non prosegue all’infinito, ma termina laddove è raggiunta la luce del vero giorno. Essa si attua con l’aiuto della «dialettica» (qui non intesa nel senso della filosofia hegeliana), vale a dire con l’aiuto di parole e concetti, ed è questa dialettica che conduce alla méta: «Quando qualcuno riesca, grazie alla dialettica […] a penetrare sino a ciò che ogni cosa è (cioè al vero Essere delle idee) e non desista finché non ha colto con l’intelletto il Bene in sé, allora egli è giunto alla méta di tutto il conoscibile» (Platone, Repubblica, 532 A-B)».
6. La pratica filosofica come cura dell’Anima
Quando un individuo arriva per la prima volta al mio studio, di solito non ci sono preamboli, spiegazioni, raccomandazioni o «contratti»: ogni preliminare è spazzato via dall’urgenza […]. Quest’urgenza può non essere necessariamente connessa ad un’altrettanto rilevante gravità della loro situazione: può infatti trattarsi solo d’un «tarlo» o d’una situazione oggettivamente banale. Ciononostante, soggettivamente non può che essere in gioco qualcosa di profondamente sentito, che impelle e suscita urgenza. E poi, una volta che il dado sia tratto, si è sempre soliti voler andare in fondo alla vicenda con celerità. Dunque, quando il consultante si siede di fronte a me, non ho di solito bisogno di altro che di dispormi all’ascolto. Ed inizia la narrazione.158
Questo è un esempio di ciò che accade nella pratica, un modo di procedere per dar vita alla relazione: il consulente, da buon filosofo si limita qui, semplicemente, ad ascoltare la narrazione dell’altro (che nei primi incontri può durare anche delle ore), domandare per capire e far capire, intervenendo per gettar luce, così da favorire il completamento del racconto, e cercare di renderlo coerente. «La forma del racconto è per lo più quello del monologo: lui parla, il filosofo ascolta. Il suo genere, invece, varia: sovente improntato alla tragedia, può tuttavia virare verso la commedia; talvolta diviene satirico, talaltra surreale […].159 Quando, progressivamente e secondo i tempi dettati dal consultante, il monologo si tramuta in dialogo, allora si entra nel vero e proprio ambito della filosofia».160 Da vero filosofo, quindi,
partecipa alla vita pulsante che è racchiusa nel racconto proprio per comprenderne la trama, gli intrecci, il senso, senza però — come viceversa accade in molte psicoterapie — farsene carico. Egli è e deve essere un compagno, uno spettatore attivo […]. Egli deve, per così dire, «rimanere in equilibrio» tra il senso soggettivo che il consultante dà al suo racconto ed i molteplici, «possibili» sensi che ad esso potrebbero essere conferiti.161
Deve quindi, dialogare con l’altro con l’intenzione di imparare, non già con quello di insegnare o indicare presupposte «Verità». Anzi, queste ultime egli dovrà esser sempre disposto a metterle in gioco sottoponendole ad un esame elenctico, per non trasformarsi in un maestro spirituale. Ciò comporta che il filosofo consulente, nelle sue sedute, sia sempre in discussione assieme al compagno di dialogo, per quanto spesso possa essere di questi più colto, più lucido, più esperto in materia di competenze sia formali che materiali.
Di fatto, si può affermare che il consultante, recandosi dal filosofo, cerchi un’idea, un indirizzo, uno spunto per cambiare la sua storia, nella misura in cui egli «non la vive bene». Ed in effetti, abituato com’è alla delucidazione delle strutture concettuali, il filosofo di solito è in grado di cogliere incoerenze e lacune di ciò che gli viene narrato. Una volta individuate, egli ne chiede conto al consultante, effettuando domande mirate. Questo suo domandare, però, deve esser prodotto da una ben precisa intenzionalità: quella di comprendere. Facile sarebbe infatti inforcare degli “occhiali terapeutici”, con i quali “leggere” il pensiero dell’altro in modo invadente, arrogante ed autoritario. Il consulente, in quanto filosofo, non sa, dunque non può avere la pretesa di dare risposte o consigli, di sindacare su cosa sia giusto o sbagliato, migliore o peggiore per la visione del mondo — e la vita — dell’altro. Questo aspetto dell’agire in consulenza di un filosofo è da sempre stato al centro della disciplina, fin da quando, nel 1981, Gerd Achenbach per primo la iniziò a praticare professionalmente. Ovviamente, essendo possessore d’un patrimonio letterario — filosofico e non — il filosofo consulente può ipotizzare moltissime variazioni alla storia propostagli, intuirne nuovi possibili nessi, avanzare svolte narrative circostanziandone il significato. Tutti questi contributi devono tuttavia rimanere esplicitamente solo ipotesi di lavoro all’interno di una ricerca comune: l’obbiettivo di una consulenza filosofica è infatti favorire il movimento del pensiero e la riflessione nel consultante, al quale poi rimangono interamente sia la verifica, sia il diritto e la responsabilità della scelta. Operando in questo modo, i due dialoganti intervengono sulla narrazione di partenza, ponendola in questione, destrutturandola, ipotizzando alternative, proponendo un riordinamento, una reinterpretazione, una ricostruzione razionale […]. Le domande del consulente, mirate essenzialmente alla comprensione del senso della narrazione, avranno come conseguenza una progressiva esplicitazione degli elementi essenziali della concezione del mondo che soggiace al racconto del consultante. Confusa ed incoerente, caotica ed incompleta, questa «visione del mondo» è inevitabilmente soggetta a produrre nell’individuo dilemmi irresolubili e contraddizioni «vissute» — contraddizioni, cioè, tra ciò che egli esplicitamente pensa ed afferma e ciò che invece porta con sé ed esprime nelle sue manifestazioni comportamentali ed emozionali.162
Le ulteriori domande del consulente riveleranno queste «disfunzionalità» della visione del mondo e, progressivamente, porteranno all’individuazione dei nessi che le congiungono ai momenti insoddisfacenti della narrazione — vale a dire agli eventi drammatici e dolorosi della vita del consultante. A questo punto del procedere del dialogo tra i due co-filosofanti, le cose di solito non saranno già più le stesse che erano all’inizio. L’esplicitazione di quegli elementi concettuali e valoriali che giacevano latenti nella visione del mondo; la rivelazione di relazioni inaspettate; l’ipotizzazione di modi di pensare ed agire alternativi; tutto ciò produce di norma un «effetto sorpresa» nel consultante, effetto che altro non è se non la meraviglia che, tradizionalmente, si ritiene esser «madre» della filosofia […]. Volendosi esprimere con termini diversi, si potrebbe dire che, a questo punto, si hanno in mano tutti gli elementi per costruire una nuova storia, un diverso progetto esistenziale: il vecchio è stato sottoposto a confutazione (la critica è, condiviso da molti, il primo momento del pensare filosofico); il filosofo possiede gli strumenti teoretici e i contenuti necessari per una ri-costruzione; il consultante ha le motivazioni per arrischiarsi nell’impresa e la «materia vivente» per esperimentarne i risultati nel concreto. E questo, infatti, è ciò che avviene nella maggioranza dei casi.163
Diversa e per alcuni versi contrapposta dalla visione di Neri Pollastri, è quella di Luciana Regina:
Si può accogliere una persona e la sua storia privilegiando i fatti — tenendo presente che li si sta dicendo e quindi generalizzando — o gli eventi, oppure concentrarsi sulla storia parallela dei suoi incontri con le idee e sulle idee stesse, in cerca della loro verità. Questa strada è, secondo me, più consona alla consulenza filosofica, per le altre ci sono altre discipline. È opportuno inoltre occuparsi privilegiatamente delle idee nei confronti delle quali il soggetto manifesta sbilanciamenti, sorprese, falle e intendere la consulenza filosofica come momento di ufficializzazione della riapertura della storia delle idee di qualcuno, o che stanno presso qualcuno. È presumibile che questa riapertura sia occasionata da eventi, da nuove fonti di determinazione sul fronte dei fatti, da crisi. Noi affermiamo molto semplicemente di volerci occupare, per le caratteristiche che ha la nostra formazione al pensiero, di un pezzo della storia, di una delle due storie, di volerci concentrare su di essa, di non voler fare tutto, ma bene una cosa. E il pezzo della storia è costituito dalle idee che sono più in transito, che hanno a loro volta riaperto la questione del loro significato, per qualcuno, certo, ma non solo per lui. Il destino di un’idea non ha a che fare mai soltanto con quello di un singolo; di questo la consulenza, se è filosofica, deve rendere consapevole, chi le si avvicina. Non solo trasmettere il piacere e il gusto dell’affidarsi all’idea, ma anche sempre la responsabilità dell’essere affidata a me dell’idea. L’idea fa la differenza, l’unico forse no, ma per l’idea è fondamentale che io ci sia e che me ne occupi. “Non può morire un’idea”, dice una canzone, ma non è proprio così. Certo, l’idea vera, come Spinoza ci insegna, è ben custodita nella sostanza, nel suo attributo, se non la penso io lei non perde la sua peculiare realtà. Però possono morire in noi se non ce ne prendiamo cura, e questo conta per noi, che non godiamo più di quella presenza, di quella compagnia. E di questo fenomeno così comune della morte delle idee che stavano presso di noi ci facciamo carico pochissimo. Non fosse altro che per questa sproporzione di forze schierate a raccontare, cesellare, documentare le storie dei singoli, per arrivare a restituire una certa configurazione, una. data determinazione, che un’aggiunta qualunque potrà sabotare e modificare, possiamo decidere di rinforzare non l’io, come si fa in molte terapie, ma il pensiero che ha cura delle idee.^[166]
Infine, P. Raabe164 che in generale avvicina il consulente filosofico allo psicoterapeuta, differenziandolo dallo psicanalista, sostiene che, anche per il rapporto con il cliente la «consulenza filosofica e la psicoterapia possono essere distinte entrambe dalla psicoanalisi perché non si rivolgono al cliente da una prospettiva paternalistico-psicoanalitico, in base alla quale viene definito «paziente»». Personalmente non condivido la posizione di Raabe che, tuttavia, mi trova d’accordo quando afferma, riprendendo Eckart Ruschmann, David Jopling, Shlomit Schuster e infine Barbara Norman che «Il consulente filosofico è «meno interessato al problema e più interessato al cliente», e partecipa a un processo dialogico continuo, nel quale le richieste di ulteriori chiarimenti possono venire sia dal cliente che da lui stesso.165 La relazione di consulenza filosofica viene descritta «come recettiva e aperta», perché al cliente viene dato un «significativo grado di libertà» per elaborare i suoi problemi nei suoi propri termini, e con i suoi tempi.166 E cosa ancora più importante, in contrasto con la concezione terapeutica della cosiddetta «resistenza» del cliente, nella consulenza filosofica il rifiuto dei suggerimenti non viene interpretato a priori come resistenza o ostilità, ma accettato come una reazione positiva che conduce ad un’ulteriore discussione.167 Il consulente filosofico dovrebbe essere privo di idee precostituite su come il cliente debba interpretare se stesso; perciò non dovrebbe mai impartire consigli o «trattare i pazienti» in base a criteri atti a orientarlo verso un ideale normativo.168 Il cliente dovrebbe sforzarsi di «mostrare un atteggiamento neutrale» verso la percezione che il cliente ha di sé e degli eventi della sua vita.169 La consulenza filosofica, infine, viene descritta come «ecologica», intendendo con questo che la relazione tra cliente e consultante è un aver cura piuttosto che un contraddittorio, e che è composta di persone indipendenti che, con reciproca empatia, partecipano ad un dibattito aperto.170
Il giovane — ha scritto Epitteto — non deve aspettare a occuparsi di filosofia e il vecchio non deve stancarsi di farlo. Poiché nessuno è mai troppo giovane o troppo vecchio per la salute dell’anima. Dire che non è ancora il tempo o che è passato il tempo per la filosofia equivale a dire che non è ancora il tempo o è già passato il tempo di essere felici.171
Una delle sfide che la “Pratica Filosofica” ha intrapreso, principalmente con se stessa, è la formazione di una nuova generazione di consulenti filosofici, ma prima di questo bisogna approfondire un altro aspetto: chi è il consulente filosofico? Dove si è formato un counselor? Quale strumenti egli dispone e utilizza per la pratica di consulenza? Una parziale risposta si già delineata: il counselor, è stato definito come
una figura colta ed esperta delle tecniche della comunicazione, abile nel reggere le problematiche relazionali e impregnata di filosofia, di arte, di sapere; consapevole dei propri limiti e delle proprie potenzialità; il counselor deve possedere solidità emotiva e flessibilità cognitiva, frutto di una cura quella dell’anima (compiuta all’interno della ricerca sul Senso), che conduce a «Trovare se stessi»172 (inteso come autocomprensione di sé attraverso l’altro).
Si tratta del ritrovamento di quella forma che Aristotele chiama entelechia, il nucleo originale e motore dello “sviluppo” creativo del soggetto. Il richiamo ad Aristotele consente di riprendere anche un concetto molto importante, fondamentale per tutte le discipline relazionali, ripetuto più volte nell’ambito della relazione educativa, quello di “sviluppo” o di “maturità” della personalità:173 «[…] la personalità non è mai statica. È viva e in continuo mutamento; è mobile, plastica, variabile, proteiforme. Non dovremmo quindi parlare di “equilibrio” della personalità per ciò che implica che le tensioni interne possano essere regolate una volta per tutte. La staticità, in questo ambito, è sinonimo di morte».174 Una “personalità matura” è una personalità “lasciata libera di muoversi”; e ciò, si spera abbia, colui che decide di dedicarsi alla pratica filosofica, unita ad una “solidità emotiva” e “flessibilità cognitiva”: «Può svolgere le funzioni di consulente perché, in un certo qual modo, ha trovato se stesso (o meglio, secondo me, ha intrapreso il viaggio), è in grado di vivere rapportandosi al fluttuare della propria personalità».175 Inoltre, essendo prima di tutto un uomo, sarà molto difficile trovare un consulente che non abbia familiarità con la sofferenza psichica: «[…] non ho mai avuto un cliente nella cui difficoltà non abbia riconosciuto, almeno in potenza, me stesso. Ogni counselor, in teoria, dovrebbe aver fatto questa esperienza: "Ecco dove andrò a finire se Dio non mi aiuta […]»;176 ma che, si spera, abbia imparato a trasformare in crescita l’energia che viene dalla sofferenza.
A questo punto,
se la consulenza filosofica è un approccio con cui affrontare i dilemmi, le questioni e i problemi della vita dell’uomo utilizzando l’auto-esame filosofico, il consulente filosofico è prima di tutto una persona con una formazione filosofica, solitamente con una laurea specialistica, a volte con un dottorato in filosofia, che riceve nel suo studio i consultanti individualmente o in piccoli gruppi e discute con loro su aspetti rilevanti delle loro vite: aspetti che vanno dalla ricerca generale di significato e di autocomprensione fino a problemi specifici come difficoltà nel prendere decisioni, problemi famigliari o d’insoddisfazione occupazionale. Il ruolo del consulente filosofico è guidare i consultanti ad un autoesame filosofico e aiutarli così, a sviluppare una comprensione filosofica di se stessi e del proprio mondo, dando loro gli strumenti per affrontare i problemi e gestire la loro vita consapevolmente. A questi due obiettivi, l’autocomprensione filosofica o saggezza (per Lahav la filosofia = amore della saggezza), come fine in sé e superamento di problemi personali, è data un’importanza diversa da praticanti filosofi diversi: alcuni si concentrano più sul primo, altri più sul secondo.177
Ma in fondo, l’idea di affrontare la vita quotidiana, in modo filosofico, non è una grande novità.178 Una persona, quindi, che ha intrapreso un viaggio negli abissi dell’anima, un lavoro praticato su di sé e volto a migliorare il mondo degli affetti e dei sentimenti. Una persona che ama profondamente l’umanità (dove per amore si intende il sentimento di rispetto verso le potenzialità che ogni persona ha dentro), questa la carta d’identità del «counselor ideale» e il percorso a questo richiesto, quale cardine della sua formazione. Così come viene detto, che chi voglia intraprendere la professione di psicologo o psicoterapeuta, se non sia, perlomeno, venuto a contatto con i propri fantasmi interiori non potrà certo fornire un aiuto all’altro, a sua volta alla ricerca di soluzioni e certezze nel proprio caos emozionale, allo stesso modo colui che intraprende la strada del filosofo consulente deve, aver intrapreso un viaggio alla ricerca della conoscenza e della consapevolezza di sé: la cura della propria anima.
Una formazione ricca, dunque, corredata possibilmente da un’esperienza a livello dei rapporti interpersonali. Nella formazione, le visioni variegate e libere della filosofia saranno avvicinate ai linguaggi tecnici della psicologia, della semiotica linguistica, della pedagogia, tutto ciò, non per canonizzare l’individuo, ma per avere un’ampia gamma di scelta nella ricerca di un pensiero appropriato e soprattutto per conoscere e, per quanto è possibile, non sconfinare il proprio raggio d’azione, trasformandosi in ciò che non si è.179
Prima di procedere è per me significativo sottolineare ancora l’importanza che ha avuto in questo studio la «cura dell’anima», e soprattutto qui, andando a trattare l’aspetto formativo del consulente filosofico. Una cura antica, tramandata nei secoli e trasformata nelle varie applicazioni, ad esempio nella psicologia, in «lavoro su di sé». Quest’ultimo, è un percorso di psicoterapia o analisi, che il paziente-studente fa con l’aiuto di uno psicoterapeuta. Inoltre, da quanto si può comprendere attraverso le parole dei fondatori della consulenza filosofica, ciò che può restituire alla filosofia la sua vera natura, l’essenza fondamentale che le è connessa, è un ritorno alle origini relazionali dell’azione filosofica. Tuttavia molti counselors evitano di definire questa capacità in termini formativi (la pratica della filosofia relazionale) come lavoro su di sé, forse temendo di cadere nelle maglie delle scienze psicologiche, che ormai riconoscono apertamente l’importanza formativa del “training” pratico, fondamentale quale prima esperienza di approccio relazionale tramite un qualsivoglia strumento teorico. Per poter diventare un “filosofo pratico”, ho condiviso la scelta di chi, pronunciandosi riguardo la formazione del futuro consulente, ha parlato di ricerca interiore sulla propria identità e personalità (senza la quale il pieno riconoscimento della complessità di cui è portatrice la relazione interpersonale verrebbe a mancare), che può avvenire, quasi esclusivamente, in un rapporto concreto tra due individui. Non sono tuttavia d’accordo quando si parla, per la formazione del consulente filosofico, di «lavoro su di sé». Non esiste, a mio avviso, alcun timore di cadere, come alcuni hanno detto, nelle maglie delle scienze psicologiche in quanto, per prima cosa, la figura del filosofo consulente è altro da quella dello psicologo e dello psicoterapeuta, e poi perché la ricerca su di sé che intraprende il filosofo (prima di tutto), è la «cura dell’anima», che ha radici lontane della Saggezza. Questa è il cammino di autocomprensione di un’anima che si scopre virtuosa (questa è la sua forza), e coscienza ermeneuticamente educata. È un cammino di conoscenza di sé, un viaggio nel passato per comprendere da dove si è venuti e dove bisogna «curare le ferite», ciò significa solo divenirne consapevoli. Non si resta, però, legati alla sola comprensione del passato come se il continuo parlarne potesse modificarne il presente (come avviene spesso nella psicoterapia o analisi), si resta invece, consapevolmente e coscientemente, ben saldi nel presente, con lo sguardo rivolto al «domani». È il trascendere costantemente se stessi, per poi farvi ritorno, che conduce all’autocomprensione rendendoci più saggi; è lo sguardo durante il viaggio a cambiare, ad «allargare la propria visione», a «vedere altrimenti«con l’anima. Si dispiega così il significato della «libertà del pensiero». L’aspirante consulente non farà in veste di paziente, «un lavoro su di sé» sottoponendosi a sedute di psicoterapia, ma sarà semplicemente un consultante, istaurando un rapporto dialogico con un consulente con cui avrà una «relazione» spesso empatica, comunque sempre caratterizzante dal pathos. Il consultante si avvicinerà piuttosto ad un mentore e avrà il solo compito di accompagnatore nel viaggio, in quanto conosce l’importanza che per ognuno ha di non essere uguali a nessun altro che a sé stessi, di aderire al nostro «nome proprio», di strutturare la differenza che ci fa individui. Spesso questo percorso di individuazione passa attraverso la sofferenza del pensiero, in tutte le diverse grammature, oscillanti tra un apparentemente semplice disagio e situazioni che condizionano irrimediabilmente la vita di chi le patisce. Ma è questo un cammino di saggezza necessario per chi tende al Bene; che ci rende capaci di essere noi stessi mentori, o consiglieri, perché solo chi è stato un vero consultante potrà essere un bravo filosofo consulente, conoscendo la strada, o meglio, indicando il punto preciso dove inizia il cammino di ognuno: nell’anima.
Contrariamente a quanto si è appena detto, è per vissuto che ci parla Neri Pollastri:
Per esperienza personale, so che dare senso e coerenza a un corso di consulenza filosofica non è cosa semplice, anche perché, come abbiamo visto più volte, per un filosofo ogni conoscenza può esser utile, ma sono anche molte le competenze che possono distoglierlo dal praticare con coerenza il suo lavoro più proprio, inducendolo a usare criteri operativi di tutt’altro genere e origine. Dopo varie esperienze formative, vissute su di me e sperimentate con altri, e dopo una riflessione attenta su quanto svolto all’estero, la mia convinzione e che i corsi di formazione siano in questo settore decisamente da evitare. Ma allora, come «formarsi», visto che una preparazione è pur necessario averla? La mia parziale risposta a questo interrogativo e articolata su tre capisaldi:
a) lo studio, la ricerca e la riflessione personale;
b) i seminari e i confronti di gruppo;
c) le forme di praticantato.180
Il primo momento è a suo modo di vedere essenziale, molto più di quanto non si ritenga normalmente. È, infatti, opinione assai diffusa che, per svolgere questa attività, sia in primo luogo necessario il possesso di abilità, strumenti ed esperienze pratiche, da poter usare nel momento in cui ci si trovi di fronte al consultante. Che dire e che fare — è spesso chiesto, quando ci si trovi di fronte una persona sofferente, oppure depressa, o portatrice di questo o quel problema?
[…] il lavoro di consulenza, se vuol esser realmente filosofico, deve in primo luogo essere una libera ricerca senza presupposti, senza schemi precostituiti, senza modelli che facciano scivolare il dialogo tra consulente e consultante in una diagnosi del primo sul secondo. […] Sarà l’incontro, la narrazione dell’altro, il dialogo stesso che ci rivelerà cosa dire e cosa fare; prima, possiamo solo dire che dovrà esser fatto filosofia.181
La medesima cosa, in linea generale si trova anche leggendo le esperienze dei pionieri della consulenza sopra citati. Tutto ciò se da un lato non offre nessuna risposta all’esigenza che muove spesso gli aspiranti consulenti alla ricerca di metodi, schemi e strumenti, «certezze», capaci di dar loro la serenità per intraprendere il confronto con i consultanti e per svolgerlo nel migliore dei modi, dall’altro significa che, affinché gli aspiranti consulenti possano davvero affrontare la loro attività secondo modalità filosofiche e senza far riferimento a modelli tecnici e strumenti operativi, sarà necessario che essi stessi siano capaci di fare filosofia e abbiano maturato quegli aspetti di saggezza che essa porta con sé, attraverso una continua pratica di ricerca.
Per questo motivo, sarà importante in primo luogo che i consulenti abbiano maturato una personale consapevolezza filosofica dell’identità della loro attività; di conseguenza, il lavoro formativo consisterà innanzitutto nel dare senso e fondamento logico, ontologico ed epistemologico alla materia e alla loro identità di filosofi consulenti.182
Un lavoro che non sarà mai definitivo, né essere interamente dedotto da altri: ciascun filosofo ha la propria personale visione del mondo, entro la quale il suo lavoro di consulente assumerà un senso particolare. Sarà responsabilità di ciascuno occuparsi senza posa della coerenza della propria filosofia, che varierà — come avviene nelle consulenze — mano a mano che la sua vita e la sua ricerca andranno avanti, arrecandogli nuove conoscenze, nuove riflessioni, nuove intuizioni e convinzioni.
Quale altra formazione potrebbe esser migliore del procedere su se stessi, come se si procedesse su altri, intraprendere quel cammino sopra citato che è dell’anima? Quale potrebbe tener meglio deste le capacità essenziali per un filosofo consulente, che gli permettono di svolgere una ricerca filosofica? Quale, infine, potrebbe meglio portare a una serena «saggezza filosofica», ovvero alla consapevole certezza che non abbiamo nulla di certo, che la nostra vita e quindi a maggior ragione il lavoro di filosofi consulenti è privo di certezze e punti di riferimento definitivi? Affinché questo lavoro individuale possa esser davvero proficuo è necessario però che vi siano verifiche, confronti, scambi; è necessario cioè che la filosofia, che — anche quando condotta in solitudine — è sempre dialogo, lo divenga anche concretamente. Per questo, molti consulenti sono d’accordo sul fatto che la formazione dovrebbe includere frequenti incontri seminariali con altri filosofi e consulenti, nei quali confrontare le rispettive posizioni, apprendere dalle differenze, ricevere nuove informazioni e stimoli, ottenere aiuti per sbloccare i propri inevitabili, come li chiama Pollastri, «crampi mentali». È fondamentale per un consulente, prendere consapevolmente atto delle «ferite» che ogni anima in cammino serba in sé, per guarirle lì dove si può, facendole diventare, ricchezza, saggezza, oppure imparare proficuamente a conviverci. Sarà quindi utile nella formazione del consulente, fare delle esperienze in veste di consultanti, nelle quali mettere in gioco liberamente i nostri personali «dolori», le parti più intime e delicate della nostra personale filosofia, che non sempre sì e capaci di mostrare con equilibrio, serenità e non per vanità o esibizionismo. Come afferma Achenbach in una recente intervista:
il praticantato ha a che fare con due cose. La prima: il filosofo, cioè colui che ha studiato filosofia, nel praticantato fa esperienza della medesima situazione nella quale in seguito si troverà presso di lui «l’ospite». Egli impara, cioè, a essere lui stesso un ospite. Secondo: la cosa più importante nel praticantato e che colui che ha studiato filosofia impari a conciliare il pensiero filosofico con la pratica e con l’esperienza di vita.183
Lungi dall’essere assimilabile al modello psicoanalitico della «analisi didattica», spesso mitologicamente intesa come un’opera di «purificazione» della psiche, un lavoro su se stessi svolto assieme a un filosofo avrà un triplice ordine di significati:
imparare praticamente dall’altro, esperto della disciplina, come condurre una relazione; «testare» il proprio personale modo di essere e pensare, la propria filosofia, mettendone anche in luce almeno parte della limitatezza e parzialità; provare a confrontarsi, realmente, con alcuni dei nodi irrisolti che ciascuno di noi porta inevitabilmente con sé nell’esistenza, anche sul piano emozionale.184
Tutti e tre questi sono di importanza essenziale per
favorire lo sviluppo della saggezza filosofica e quest’ultima — se vissuta realmente come un abito personale, come uno stile di vita — può da sola sopperire a quelle che sono probabilmente le due principali lacune di un «esperto in filosofia» formatosi attraverso lo studio universitario: la capacità di occuparsi di problemi «concreti» e quella di affrontare degnamente la relazione con l’altro.185
Certo, afferma Achenbach, non sempre è possibile colmare la prima lacuna solo attraverso la formazione e il praticantato, perché talvolta l’impronta unilateralmente teorica di un filosofo è troppo marcata:
Mi e capitato spesso di incontrare tanti filosofi, per cosi dire, accademici e cioè gente che in testa aveva troppa teoria e che non sarebbe mai stata in grado di confrontarsi con problemi pratici. In questi casi consigliavo loro di intraprendere professioni normali e poi, a distanza di anni, finalmente allontanati dalle loro teorie astratte e dai loro libri, di tornare da me.186
Ogni aspirante consulente, penso, debba essenzialmente anche essere uno storico e amante della storia della filosofia, senza però cadere nelle trame della «pura» filosofia accademica; avere una panoramica ben precisa e approfondita dei «maestri» e degli epigoni della consulenza (soprattutto del loro modo di procedere), da cui trarre poi, il suo personale e originale modo di essere un filosofo consulente.
Tutto ciò dà ragione ai tanti consulenti che sostengono l’impossibilità di racchiudere l’apprendistato del filosofo consulente entro «moduli» e «corsi». Riguardo, invece alla seconda lacuna, che spesso si crede di poter colmare attraverso insegnamenti di tipo psicologico, sono proprio l’intenzione costante ad apprendere, la capacità autocritica derivante dal «non sapere» e l’eticità nel dialogare, proprie di un filosofo, ciò che, assieme all’esperienza e senza altri artifici tecnico-relazionali, può rendere possibile il suo superamento. E in questo caso i tre momenti del percorso formativo indicato possono ben svolgere un ruolo decisivo.
Questo, in breve, il tragitto che un laureato in filosofia dovrebbe a mio parere affrontare per prepararsi a esercitare il ruolo di consulente; un tragitto, peraltro, che non si conclude mai, perché il filosofo è tale finché filosofa, e cessa di esserlo nel momento in cui la ragione cessi di mettere in movimento i suoi pensieri e questi si fissano in formazioni intellettuali. Per cui, è impensabile un serio percorso formativo alla consulenza che abbia un inizio e una fine, così come un qualsivoglia «attestato» conferito una tantum in seguito a esso: la filosofia è un modo di vivere che va perseguito e alimentato finché c’è vita.187
Nella consulenza filosofica l’esercizio dialogico, di natura eminentemente evolutiva, anche «educativa» in senso ampio, comunque mai terapeutica, può esser definito in una sola frase come approccio e proposta globale di crescita cognitiva, emotiva, morale e politica su base filosofica. Come si è detto, se la consulenza è un libero dialogo, tutto ciò significa che essa non si occupa di sistemi filosofici, non costruisce alcuna filosofia, non somministra nessuna opinione filosofica, ma mette il pensiero in movimento: filosofa.188
Per concludere, il filosofo che intraprende la «professione» di consulente, per me, oltre le personali qualità di cui si è parlato e che deve essenzialmente e imprescindibilmente possedere, deve avere soprattutto un dono essenziale che è quello del «darsi» umanamente, che implica un empatico ascolto e compassionevole pazienza ed umiltà, perché come ha scritto Seneca: «Sbaglia chi pensa che donare sia facile: tutt’altro presenta grandi difficoltà se lo si fa in modo sensato e non a caso e per istinto — tuttavia — dove c’è un uomo c’è anche la possibilità di fare del bene […]».189
In Italia, come spesso le accade, la consulenza filosofica è arrivata con estremo ritardo. Fino al 1998, infatti, non solo non sì aveva notizia di alcun consulente filosofico italiano, ma nelle biblioteche pubbliche e universitarie del nostro paese erano del tutto assenti i testi pubblicati all’estero sulla materia e persino i più competenti studiosi erano pressoché all’oscuro di quanto stava accadendo nel resto del mondo (per esperienza personale posso dire che ancora oggi nelle università, tra noi studenti, la pratica filosofica è poco conosciuta). Uniche tracce d’informazione erano alcuni isolati articoli su quotidiani e, dal febbraio del 1998, il già citato libro di Marc Sautet, Socrate al caffè, uscito, però come una «curiosità» legata più al fenomeno dei dibattiti pubblici che alle sedute di consulenza. Alla fine del 1999, tramite i gruppi di discussione telematici internazionali, alcuni studiosi italiani che si interessavano alla materia a titolo personale riescono a mettersi in contatto tra loro e iniziano a incontrarsi, fino a dar vita a una prima organizzazione nazionale, l’Associazione Italiana di Counseling Filosofico (AICF). Gli incontri promossi dall’associazione producono interessanti risultati e, verso la fine del 2000, mettono in condizione due soci di tentare la strada della pratica professionale, sulla sola base delle loro competenze filosofiche e senza altri tipi di formazione. Escono poi i primi articoli specialistici e contemporaneamente viene pubblicata la traduzione italiana del primo libro di Marinoff, Platone è meglio del Prozac. Il 2001, vede la nascita di molte riviste e perfino di alcune trasmissioni televisive che si occupano della novità. Purtroppo alla fine dello stesso anno, a causa delle divergenze (forse non a caso e inevitabilmente), tra i filosofi e gli psicologi che hanno dato vita al gruppo e non riescono a sanare l’associazione viene sciolta. A seguito di questa frattura, i filosofi, già membri dell’AICF riprenderanno la loro attività di ricerca e personale formazione in questo settore, giungendo all’inizio del 2003 alla fondazione di Phronesis — Associazione Italiana per Ia Consulenza Filosofica, che è attualmente affiliata all’associazione internazionale IGPP e pubblica la rivista semestrale omonima promuovendo con regolarità e in varie sedi (Torino, Milano, Firenze, Roma, Cagliari) seminani di ricerca, scambi d’esperienze, formazione e aggiornamento. Gli psicologi daranno invece immediatamente vita alla SICoF — Società Italiana di Counseling Filosofico, che si aggregherà alla principale associazione nazionale di counseling a orientamento psicologico, puntando decisamente a fare del «counseling filosofico» nient’altro che una variante di questo consolidato e vasto ambito di professioni d’aiuto e avviando «corsi di formazione», composti però in prevalenza da moduli di tipo psicologico. Indipendentemente da queste due associazioni, sorgeranno altri gruppi, tra i quali l’Associazione Italiana Psicofilosofi di Genova — nata con l’intento di produrre corsi di formazione alla professione, senza tuttavia evidenziare la presenza di significativi lavori di ricerca ed esperienze professionali — e l’Associazione Pratiche Filosofiche, in seguito divenuta Centro per lo Studio delle Pratiche Filosofiche — dagli intenti fino a oggi poco coerenti, perlopiù centrati sulla pubblicazione di una rivista specifica.190 Dal qualche anno, infine, Master in consulenza filosofica (troppo spesso, purtroppo, improvvisati e male organizzati), hanno fatto la loro comparsa nelle università di Venezia (leggendo il programma, sembra il migliore per contenuti e organizzazione), Cagliari-Napoli-Pisa insieme, Trieste, Bari e Siena e ora anche a Roma 3, solo alcuni nomi a sottolineare, se non altro, l’interesse per una riscoperta della filosofia. Il problema più grande per la pratica filosofica, resta comunque, quello della regolamentazione giuridica, un codice deontologico ora c’è,191 ma resta l’incognita di un albo o di una qualsiasi forma di riconoscimento legale, per lo svolgimento della consulenza filosofica, ma di questo se ne stanno occupando i pionieri e le istituzioni da loro create in tutto il mondo.
Personalmente, mi sembra un po’ bizzarro il fatto che in Italia siano delle associazioni a carattere psicologico a occuparsi della formazione dei «consulenti filosofici». Forse sarebbe più opportuno che gli aspiranti, si rivolgessero magari, a fondazioni (peraltro già esistenti), affiliate all’associazione internazionale IGPP, o a qualunque altra associazione, purché costituita da filosofi. Le prime, per me, sono dedicate a un aspirante psicoterapeuta o analista che non voglia settorializzarsi ma avere una formazione più ampia e quindi avere una visione più completa delle cose nello svolgere il proprio lavoro. Un aspirante consulente filosofico, invece, ha bisogno fondamentalmente di essere a contatto con la filosofia, come conoscitore e poi, come personale scelta di vita: la filosofia è una vocazione, che racchiude più aspetti del reale (anche quelli psicologici, pedagogici, sociologici, patologici etc.), che il filosofo deve conoscere, perché tutto ha origine nella filosofia, non si dimentichi che i primi psicologi, pedagogici, sociologi, matematici etc. erano prima di ogni cosa, filosofi. Chiarito questo, come può oggi essere uno psicologo, che tra l’altro, se non ha lui stesso provveduto, anche inserendo nel suo curricolo universitario (visto che la laurea in psicologia non lo prevede), lo studio della filosofia ad occuparsi della formazione di un consulente filosofico? Appare i miei occhi un grottesco paradosso della vita, o forse qualcos’altro che può cogliere, forse, solo l’antica ironia socratica.
Mi basti qui dire che è invece un filosofo, e non semplicemente uno storico della filosofia, un uomo che si è sciolto dalle catene o dall’isolamento della filosofia accademica e che come Socrate (e non solo), ha seguito la sua vocazione, divenendo un’anima coscientemente virtuosa, ermeneuticamente educata, indicando la strada ad ogni Tu davanti a sé, che ha desiderato autocomprendersi anche lui, e giungere a vedere altrimenti; è lui che accompagna l’aspirante filosofo consulente nella sua formazione, che inizia nell’anima, essenza universale ma unica e originale in ognuno. L’anima, la sola in grado di conoscere se stessa, portatrice di un destino, è l’unica che può intraprendere il viaggio alla ricerca del Senso. Scrive Eraclito: «Mai raggiungerai i confini dell’anima per quanto lontano tu possa andare!»; paradosso dell’essere nient’altro che un po’più e un po’ meno che uomini.
7. Conclusione
Se ti sei abituato a vivere con semplicità riguardo al tuo corpo, non fartene un vanto e, se bevi dell’acqua, non far notare ad ogni piè sospinto che bevi solo dell’acqua. E se un giorno desideri esercitarti alla fatica fallo per te solo e non per il mondo esterno. Non abbracciare le statue, ma se hai molta sete prendi un sorso d’acqua fresca, poi sputalo senza dirlo a nessuno. Che cosa aspetti ancora a considerarti degno dei beni, migliori e a non trascurare in niente le distinzioni poste dalla natura? Hai ricevuto i principi filosofici che dovevi comprendere, e li hai compresi. Quale maestro aspetti ancora cui affidare la tua correzione morale? Non sei più un ragazzo, ma un uomo adulto. Se ora ti comporti con negligenza e trascuratezza, fai un progetto dopo l’altro, e rimandi di giorno in giorno la data in cui ti applichi a te stesso, non ti renderai conto di non aver compiuto alcun progresso, ma finirai col voler vivere e morire come un uomo comune. A questo punto ritieniti degno di vivere come un uomo adulto e che fa progressi, e tutto ciò che appare il meglio sia per te una legge inviolabile. E se ti si presenta una fatica, un piacere, un onore, o un disonore, ricorda che è ora la lotta e che le Olimpiadi sono davanti a te, che non è più possibile rimandare, e che in una sola giornata e in una sola azione si perde o si salva il progresso morale. È in questo modo che Socrate giunse a essere quello che fu, prestando attenzione tra tutte le cose che incontrava solo alla ragione. Quanto a te, anche se non sei ancora un Socrate, devi però vivere come chi vuole essere Socrate.192
Ho cercato di definire, per quanto sfuggente e mutabile sia, chi è il filosofo: “Colui che conosce perché vive”, ha detto Achenbach; colui che ha scelto di seguire una vocazione quella della filosofia, che viene alla luce dall’anima e che conduce al Bene. Per chi intraprende questa via, tutto ha inizio dalla scelta che si fa davanti alla consapevolezza “socratica” di non sapere, che per MerleauPonty ha un carattere esistenziale, oltre che intellettuale e che implica la presenza di uno spirito inquieto che decide di mettersi in cammino alla ricerca del Senso e di sé. L’autocomprensione e la consapevolezza di sé, lo porta a sentire che lui stesso non è l’ideale immaginato (un po’ meno uomo, ma è l’essere comunque costantemente in ricerca, che lo rende un po’ più che uomo. La stessa cosa si può dire della Filosofia, anche essa sempre a metà, da una parte non è mai “all’altezza” non riesce mai ad essere Sapienza, ad attingere completamente all’assoluto, dall’altra non si arrende, continua la sua ricerca e la sua costanza la rende “un po’ più”, è Saggezza: questo è il grande paradosso della filosofia e della vita dell’uomo. Ma non è tutto, nel cammino, l’uomo, o meglio la sua essenza, la parte più intima che di lui compie il viaggio, per “vedere bene” e il Bene, deve crescere, trasformarsi, essere coscienza ermeneuticamente educata; diventare cioè, un’anima consapevole e quindi virtuosa (sapiente, giusta, temperante, forte ed infine, la santa), movimento “d’autoderminazione pensante” (Patocka). Tutto ciò tenendo sempre in mente il motto socratico, la consapevolezza “di sapere di non sapere” e per questo, non smettere mai di domandare, facendo dei propri limiti una ricchezza. Un’anima che umilmente ricerca, per vedere altrimenti il Bene e per questo, essere un po’ più che Saggia e un po’ meno Sapiente. Ma non è un cammino facile, l’uomo deve prendersi cura della sua anima, deve liberarsi dalle catene che la tengono al buio di una caverna e poi superare il disprezzo di rimanere sola perché i suoi compagni la prenderanno per folle. Proverà la tristezza, la paura, la solitudine dell’essere in sé ma poi, scopertasi virtuosa, anche la gioia profonda di essere un Io in viaggio, alla ricerca del Senso. È questo il cammino di un’anima in dialogo con se stessa e con gli altri, che la portano così (e anche) ad uscire da sé: domandare, ricercare e confutare le false certezze insieme e ad avvicinarsi più possibile alla Verità. Ma cosa fa oggi il Filosofo o meglio il consulente filosofico? Consiglia umilmente e con rispetto, senza giudicare: «Chiamo dilettante in filosofia, scrive Bergson, colui che accetta, tali e quali, i termini di un problema usuale. far della buona filosofia consisterà invece nel creare la posizione del problema e nel creare la soluzione […]»;193 Ran Lahv chiama tutto ciò, comprensione, interpretazione e arricchimento o mutamento della “visione del mondo” di ognuno.
Quando egli (il filosofo) dice dunque, conclude Merleau-Ponty, che i problemi ben posti sono molto vicini a esser risolti, ciò non significa che si è già trovato, quando si cerca, ma che si è già inventato. E non vi è un problema che sarebbe di noi e una risposta che sarebbe nelle cose, un essere esterno da scoprire e una coscienza osservatrice: la soluzione è anche in noi, e l’essere stesso è problematico. Qualcosa di ciò che appartiene alla natura della domanda passa nella risposta […]. Il filosofo non si fonde o si perde, ma piuttosto, si sente superato dall’essere.194
La possibilità di una «filosofia terapeutica» è racchiusa, allora, nella capacità autocritica della filosofia stessa, che le ha permesso di mettere in mostra i limiti e la preziosità umana; la stessa, può essere la base di una riflessione critica permanente, nelle scienze umane. La varietà nel suo interno, è la linfa della filosofia come il suo «sfuggire» da uno o più metodi predefiniti. Non è mai esistito e non è forse un caso, nel cammino della filosofia, un filosofo che abbia ripreso e fatto sue interamente le parole del «padre» (M. Merleau-Ponty, ad esempio, ha riconosciuto l’importanza della riduzione fenomenologia di Husserl), senza successivamente «ucciderlo» per dire la sua (aggiungendo che, essendo da parte a parte in contatto con il mondo, non si può prescindere da esso), da farne spesso un sistema o comunque, una chiara visione del reale; ma soprattutto, non è mai esistito pensiero che non sia abbia dialogato con un altro pensiero, distante anche dei secoli. La filosofia, come la considerava M. Merleau-Ponty, pur essendo impegnata a ricercare il senso, è altresì uno spazio per dialogare; non si dimentichi che «la ricerca di senso continua è una progressiva presa di coscienza, e che non esiste il Senso ma l’insieme dei sensi contingenti».195 La contingenza dei «sensi» non è la verità in un sistema ma condizione metafisica del mondo. Tutto ciò, e non solo, contraddistingue la filosofia dalle altre scienze umane.
Sono così giunta alla fine della mia ricerca che mi ha riportato, non a caso, all’inizio del viaggio: nell’anima. Una fine che è sempre un nuovo inizio, in quanto ricca della conoscenza, del dialogo e del confronto dei tanti «Tu», che mi sono corsi in aiuto dandomi un loro consiglio: «Dal canto mio, posso solo assicurare che quanto ho scritto è sincero e scaturisce non solo da una personale meditazione, ma anche da ripetuti e appassionati confronti con molti altri filosofi e non filosofi, dei quali ho umanamente cercato di ascoltare e recepire le critiche e i consigli, le proposte e le talvolta indignate obiezioni»;196 personale la scelta di quale consiglio seguire, di quale strada percorrere.
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- Ogni organizzazione costituitasi per la formazione e divulgazione delle pratiche filosofica è regolata da un codice deontologico visibile nel sito delle varie organizzazioni, ad es. http://www.achenbach-pp.de/
- Il sito personale dell’iniziatore della consulenza filosofica, Gerd Achenbach: http://www.consulenzafilosofica.net/
- Il sito dell’Associazione Italiana per la consulenza filosofica Phronesis: http://www.pratichefilosofiche.net/ centro per lo studio delle pratiche filosofiche; http://www.psicofilosofia.it/ associazione italiana psicofilosofi; http://www.sicof.it/ società italiana counseling filosofico; http://www.nonterapia.ch/ scuola superiore di formazione all’esercizio del counseling filosofico;
- Il sito personale di Paola Teresa Grassi; http://www.consulenza-filosofica.it/
- Il sito personale di Neri Pollastri; http://www.phronesis.info/
-
Questo testo riprende il progetto portato avanti nella mia tesi di laurea in antropologia filosofica dal titolo: «La consulenza filosofica. Questioni e prospettive» - discussa all’Università «Tor Vergata» di Roma, il 26 maggio del 2005. ↩︎
-
Alessandro Volpone, Crisi della razionalità e ritorno alla pratica filosofica, disponibile all’indirizzo URL: http://utenti.lycos.it/alessandrovolpone/relCaselette/relazione.htm. ↩︎
-
Alessandro Volpone, Crisi della razionalità e ritorno alla pratica filosofica, reperibile all’indirizzo URL: http://utenti.lycos.it/alessandrovolpone/relCaselette/relazione.htm. ↩︎
-
G. B. Achenbach, Che cos’è la Pratica Filosofica?, 2001, Pagina introduttiva di G.B. Achenbach per l’associazione ISPP/ IGPP (International Society for Philosophical Practice/Internationalen Gesellschaft für Philosophische Praxis), reperibile nell’URL: http://www.geocities.com/philosophy_practices/Achenbach/Tradital1.htm. ↩︎
-
G. B. Achenbach apre il primo “studio” da professionista di filosofia nel mondo, battezzando con il nome Istituto per la pratica e la consulenza filosofica (Institut für philosophische Praxis und Beratung) il primo maggio 1981, a Refrath, Bergisch Gladbach, vicino Colonia. Ha poco più di trent’anni e si è da poco laureato con una tesi su Hegel intitolata Il piacere e la necessità, discussa con Odo Marquard e incentrata su una parte della Fenomenologia dello Spirito. Achenbach è generalmente considerato, anche dai suoi più accesi critici, il fondatore della “Pratica Filosofica”. Egli è stato il primo filosofo al mondo ad aprire uno studio professionale e a presentarsi all’opinione pubblica e sul mondo del lavoro, con un’attività, che da ormai più di vent’anni, costituisce la sua professione. ↩︎
-
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-
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-
M. Lo Russo, Una nessuna centomila pratiche filosofiche, in «Philosophy practice», 1 (2003). ↩︎
-
G. B. Achenbach ha organizzato congressi, conferenze e fondando, il 10 ottobre 1982, la prima organizzazione di categoria, la Gesellschaft für Philosophische Praxis (GPP), divenendo la personalità di riferimento (numericamente e qualitativamente) in materia di pubblicazioni sull’argomento. ↩︎
-
Alessia Brombin, Sulle tracce di Achenbach, in «Philosophy practice», 1 (2003). ↩︎
-
Pierre Hadot, La philosophie comme manière de vivre, Albin Michel, Paris 2001. ↩︎
-
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-
G. B. Achenbach, Die Eröffnung, in «Philosophische Praxis«, Jurgen Dinter, Koln 1987, pp. 64-65, trad. It., Neri Pollastri, L’apertura, in La consulenza filosofica, Apogeo, Milano 2004. Reperibile nell’URL: http://utenti.tripod.it//Neri_Pollastri/. ↩︎
-
Ivi, p. 66. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Il concetto di terapia, peraltro, nasconde varie difficoltà e prima fra tutte l’acritica assunzione della tesi che salute e benessere corrispondano all’assenza di disturbi e d’inibizioni, la quale dimentica che tale assenza non produce alcun «senso della vita» indispensabile al benessere. ↩︎
-
G. B. Achenbach, Philosophie als Beruf, cit., p. 29; trad. It., Neri Pollastri, Filosofia come professione in «La consulenza filosofica», Apogeo, Milano 2004. Reperibile nell’URL: http://utenti.tripod.it/Neri_Pollastri/. ↩︎
-
Ivi, p. 30. ↩︎
-
Ivi, p. 32. ↩︎
-
G. B. Achenbach, La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità per la vita, Apogeo, Milano 2004, p. 15; tit. originale Philosophische Praxis, Dinter Verlag, Köln 1987. ↩︎
-
G. B. Achenbach, L’apertura, in La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità per la vita, Apogeo, Milano 2004, p. 94; tit. originale Philosophische Praxis, Dinter Verlag, Köln 1987. ↩︎
-
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-
G. B. Achenbach, Philosophie als Beruf, cit., p. 32; trad. Ita. di Neri Pollastri reperibile nell’URL: http://utenti.tripod.it//Neri_Pollastri/. ↩︎
-
Ivi, nota 24. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ibidem. Di nuovo, sottese alle parole di Achenbach, la critica che il filosofo ha ragione di muovere, nei confronti delle psicoterapie e la conseguente presa di distanze dall’antisoggettività affermata dalle teorie psicologiche e psicoterapeutiche, che propongono la ricerca esaustiva dello sviluppo individuale (supponendo di possedere gli strumenti per il riconoscimento e la distinzione di ciò che per loro è sano/malato,normale/anormale, maturo/immaturo), uccidendo con violenza, il pensiero e il desiderio proprio di ogni essere umano. ↩︎
-
G. B. Achenbach, Philosophische Lebensberatung, in «Philosophische Praxis« , Dinter Verlag, Köln 1987, p. 57. ↩︎
-
N. Pollastri, Gerd Achenbach e la fondazione della pratica filosofica, in «Maieusis», 1 (2001). ↩︎
-
G. B. Achenbach, Il filosofo come consulente, in «La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità per la vita», Apogeo, Milano 2004, pp. 21-22; tit. originale Philosophische Praxis, Dinter Verlag, Köln 1987. ↩︎
-
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-
Ibidem. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Il titolo del libro, Del giusto nell’errore, è costruito sulla falsariga di un passaggio, tratto dal paragrafo intitolato Asilo per senzatetto, contenuto nei Minima Moralia, di Theodor Wiesegrund Adorno, in cui è affermato che «non si dà vera vita nella falsa» (Es gibt kein richtzkes Leben im falschen). ↩︎
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Non a caso nel capitolo Vom Richtigen im Falschen. Wege philosophischer Lebenskönnerschaft,fa dell’ironia nei confronti di questa pratica molto diffusa nel mondo germanico. Nel paragrafo intitolato Warum, zum Glück, hier nichts zum Glück zu lesen ist», (perché, per fortuna, qui non c’è nulla da leggere sulla felicità),ad esempio, la felicità, Glück, che in tedesco significa anche fortuna, è l’argomento preferito dai Lebenskünstler. Recentemente nei cataloghi librari di lingua tedesca, sono molte le pubblicazioni su questo argomento. 38 Lo scopo della Lebenskunst è la felicità, lo scopo della Lebenskönnerschaft è meritarsi la felicità. Il Lebenskünstler «dà forma alla propria vita», il Lebenskönner «si mette alla prova», l’uno «si fa la sua strada», l’altro «sta presso ciò che è giusto», l’uno è «flessibile», l’altro è «retto» e«fondato», l’uno da un significato alla propria vita, l’altro porta a compimento questo significato, l’uno cerca le stranezze e le curiosità della vita, l’altro vuole essere tutelato da una vita stupida, sbagliata, povera, l’uno fa di necessità virtù l’altro sta al posto della virtù in tempo di necessità, «l’uno sfugge l’ombra per cercare la luce, l’altro sfugge la penombra per cercare luci e ombre», l’uno risponde alla domanda sulla vita, l’altro cerca la domanda alla quale la vita è la risposta. ↩︎
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Achenbach sostiene che nel campo della psicoterapia tale esigenza è generalmente ostacolata, in quanto minaccia ogni regola precostituita ed ogni rigore; spesso lo psicoterapeuta auspica che essa possa essere in qualche modo racchiusa e indirizzata entro schemi almeno in parte preordinati: di fronte all’esigenza, di ogni tempo,di elaborare una domanda «filosofica» soggettiva, ai nostri giorni viene offerta una «risposta terapeutica»,che va bene per tutti, espropriando in tal modo il soggetto del proprio essere, della possibilità di ricercare una via personale di accesso ai problemi dell’individuo. ↩︎
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G. B. Achenbach , Selbstverwirklichung. Therapeutische Ambition und philosophischer Begriff, in «Philosophische Praxis«, Dinter Verlag, Köln 1987, p. 113; trad. It., Neri Pollastri disponibile nell’URL: http:/utenti.tripod.it//Neri_Pollastri/. ↩︎
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Ivi, p. 125. ↩︎
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G. B. Achenbach, Zur Weisheitder Philosophischen Praxis, pubblicazione privata, 1997. ↩︎
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Oggi gode di molto credito ed è assai diffusa anche in Italia, dove due associazioni si occupano di formare gli specialisti, che sono abbastanza richiesti in ambito scolastico. Sebbene curricolare e intenzionalmente orientata alla formazione, questa materia non deve esser confusa con l’insegnamento della filosofia, di solito interpretato come una didattica basata su programmi includenti l’apprendimento di nozioni quali il pensiero di filosofi del passato o le teorie sviluppate nella storia su specifiche questioni e problemi. ↩︎
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I principali sono L’ospedale delle bambole, che verte sul rapporto che il soggetto intrattiene con gli altri e il mondo; Elfie, che riflette sul pensiero stesso; Kio e Gus, dedicati alla riflessione sul mondo; Pixie, che si occupa del linguaggio; II prisma dei perché, che cerca di stimolare la riflessione sulle capacità di ragionamento; Lisa e Suki, incentrati rispettivamente sull’etica e sull’estetica. Racconti e manuali sono pubblicati in Italia a cura delle due associazioni nazionali sulla disciplina: il Centro Ricerca Insegnamento Filosofico (CRLF) e il Centro Interdisciplinare di Ricerca Educativa sul Pensiero (CIREP). Cit., Alessandro Volpone, Pratiche filosofiche, forme di razionalità, modi del filosofare contemporaneo, in «Kykéion», 8 (2002), p. 20. ↩︎
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Per approfondire M. Lo Russo, Una nessuna centomila pratiche filosofiche, in «Philosophy practice», 1 (2003). ↩︎
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Neri Pollastri, Il pensiero e la vita. Guida alla consulenza e alle pratiche filosofiche, Apogeo, Milano 2004, p. 28. ↩︎
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Ivi, p. 17. ↩︎
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Storicamente si conoscono la maieutica socratica e la disputatio medioevale, dove avvengono, uno dopo l’altro, lunghi monologhi confutatori, attualmente le tavole rotonde dei congressi filosofici, che coinvolgono solo gli addetti ai lavori, pochi partecipanti leggermente interattivi. Nel caso dei café-philo, invece, le interazioni verbo-concettuali si avvicinano a un gran numero di persone. Come testimoniano alcuni professori di filosofia animatori di café-philo,un tale approccio modifica, a lungo termine, anche la pratica della discussione filosofica nella classe conclusiva di un liceo. ↩︎
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Ivi, p. 18. ↩︎
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M. Sautet, Socrate al Caffè, Ponte alle Grazie, Milano 1997; tit. originale: Un café pour Socrate, Ed. Robert Laffont, S.A., Paris 1995. ↩︎
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Marc Sautet, Socrate al caffê, cit., p. 37, Ponte alle Grazie, Milano 1997; tit. orig., Un café pour Socrate, Ed. Robert Laffont, S.A., Paris 1995. ↩︎
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Ivi, pp. 37-38. ↩︎
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Ivi, p. 41. ↩︎
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Ivi, pp. 41-42. ↩︎
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Ivi, p. 42. ↩︎
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Neri Pollastri, Il pensiero e la vita. Guida alla consulenza e alle pratiche filosofiche, Apogeo, Milano 2004, p. 22. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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M. Lo Russo, Una nessuna centomila pratiche filosofiche, in «Philosophy practice», 1 (aprile 03). ↩︎
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Gerd B. Achenbach, Thomas Macho, Dar Prinaip Hei lung, Dinter, Köln 1985, p. 23; cit., Alessandro Volpone, Crisi della razionalità e ritorno alla pratica filosofica, disponibile all’indirizzo URL: http://utenti.lycos.it/alessandrovolpone/relCaselette/relazione.htm. ↩︎
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I riferimenti bio-bibliografici di questo paragrafo sono reperibili all’indirizzi URL: http://www.geocities.com/philosophy_practices. http://www.geocities.com/philosophy_practices/Raabe/breve_storia_del_CF.htm. Le definizioni di “Pratica Filosofica” provengono dall’URL: http://utenti.tripod.it/Neri_Pollastri/homepage.html. http://utenti.lycos.it/alessandrovolpone/Filosofia_e_consulenza_filosofica.htm. Cfr. Neri Pollastri, Il pensiero e la vita. Guida alla consulenza e alle pratiche filosofiche, Apogeo, Milano 2004, pp. 33-34 e 87-90. Neri pollastri, Il pensiero e la vita. Guida alla consulenza e alle pratiche filosofiche, Apogeo, Milano 2004, pp. 33-34 e pp. 87-90. ↩︎
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Tim LeBon, Wise Therapy, Continuum, London/ New York 2001, pp. 2-4. ↩︎
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Nella lingua inglese il consulente generico è denominato «consultant», mentre «counselor»è più propriamente l’operatore dell’aiuto in ambito psicologico. Non a caso, l’olandese Jos Kessels, che si definisce «Consulente del dialogo», usa l’espressione « Dialogue Consultant» e non «Counselor»( cfr Jos Kessels, The Socratics Dialogue as Method of Organizational Learning, in Wim van der Wlist (a cura di ), Persectives in Philosophical Practice, cit. p. 45. ↩︎
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Nata in Germania negli anni ’80, nel corso di vent’anni di storia della consulenza filosofica, si è diffusa in Olanda (dove nel 1995, un gruppo ha creato la sua associazione: Vereniging voor Filosophische Praktijk- VPF), Francia,Svizzera, Danimarca, Norvegia, poi in Israele, Australia Canada e più recentemente negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e l’Italia. Da anni vi sono studi anche in Belgio, Slovacchia, Lussemburgo, Repubblica Ceca, Sudafrica e perfino in Turchia. Il Congresso internazionale sulla Consulenza filosofica si è tenuto nell’estate del 1994 alla University of British Columbia in Canada, il secondo sì e tenuto in Olanda, il terzo a New York nell’estate 1997 e infine, ora ci sono anche corsi universitari sull’argomento. ↩︎
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Cfr. Alessandro Volpone, Crisi della razionalità e ritorno alla pratica filosofica, reperibile all’indirizzo URL: http://utenti.lycos.it/alessandrovolpone/relCaselette/relazione.htm. ↩︎
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Alessandro Volpone, Quale consulenza filosofica? reperibile all’indirizzo URL: http://utenti.lycos.it/alessandrovolpone/relCaselette/relazione.htm. ↩︎
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Antoine De Saint-Exupéry, Il Piccolo Principe, Bompiani, Milano 1994, tit. orig., Le petit prince, Gallimard, Paris 1943. ↩︎
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Platone, Repubblica, X, 604 B-D, in Tutti gli scritti. Il pensiero occidentale, a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2000. ↩︎
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M. Lo Russo, Una nessuna centomila pratiche filosofiche, in «Philosophy practice», 1 (aprile 2003). ↩︎
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G. B. Achenbach, Sulla sfida della consulenza filosofica alla filosofia accademica, in «La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità per la vita», ed.Apogeo, Milano 2004, p. 142; tit. originale Philosophische Praxis», Dinter Verlag, Köln 1987. ↩︎
-
G. B. Achenbach, Filosofia come professione, in «La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità per la vita», .Apogeo, Milano 2004, p. 69; tit. originale: Philosophische Praxis, Dinter Verlag, Köln 1987. ↩︎
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G. B. Achenbach, Einige Problemen der philosophischen Praxis, in «Philosophische Praxis«, Dinter Verlag, Köln, 1987, p. 80; trad. It., Neri Pollastri reperibile nell’URL: http://utenti.tripod.it/Neri_Pollastri/. ↩︎
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G. B. Achenbach, Herausforderung der akademischen Philosophie durch die philosophische Praxis, in «Philosophische Praxis«, Dinter Verlag, Köln 1987, p. 99; trad. It., Neri Pollastri reperibile nell’URL: http://utenti.tripod.it/Neri_Pollastri/. ↩︎
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Ivi, p. 103. ↩︎
-
Ivi, p. 104. ↩︎
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Ivi, pp. 104-105. ↩︎
-
Ivi, p. 105. ↩︎
-
G. B. Achenbach, Von Aufstieg und Fall des Philosophen, in Philosophische Praxis, Dinter Verlag, Köln 1987; cit., p. 47; trad. It., Neri Pollastri, Sull’ ascesa e sulla caduta del filosofo in La consulenza filosofica, Apogeo, Milano 2004. Reperibile nell’URL:http://utenti.tripod.it/Neri_Pollastri/. ↩︎
-
G. B. Achenbach,Il Filosofo come consulente, in «La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità per la vita», Apogeo, Milano 2004, p. 16; tit.orig., Philosophische Praxis, Dinter Verlag, Köln 1987. ↩︎
-
G. B. Achenbach, La consulenza filosofica sulla vita, in «La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità per la vita», Apogeo, Milano 2004, p. 86. ↩︎
-
Ivi, pp. 85-87. ↩︎
-
Peter B. Raabe, Teoria e pratica della consulenza filosofica. Idee fondamentali, metodi e casi di studio, Apogeo, Milano 2006, pp 126-128; tit. orig., Philosophical Counseling: theory and practice, Praeger, Westport (Connect.) 2001. ↩︎
-
G. B. Achenbach, Philosophy, Philosophical Practice und Psychotherapy, cit., p. 72. ↩︎
-
Ran Lahav, Comprendere la vita. La consulenza filosofica come ricerca della saggezza, Apogeo, Milano 2004, p. 128. ↩︎
-
Ivi, p. 137. ↩︎
-
Per quanto riguarda l’obiettivo pragmatico, sembra ragionevole pensare, sulla base sia di studi empirici che del buon senso, che i consultanti possano gestire meglio i loro problemi una volta che sono riusciti ad inserirli qualche schema coerente. Un quadro generale che delinea struttura, schemi e interconnessioni nella vita della persona, rende più facile gestire i problemi e lavorare in vista del cambiamento di se stessi. La consulenza filosofica può aiutare i consultanti a gestire i loro problemi dando loro una mano a organizzarli in uno schema comprensibile. ↩︎
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Ivi, p. 138. ↩︎
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Ran Lahav, Comprendere la vita. La consulenza filosofica come ricerca della saggezza, Apogeo, Milano 2004, pp. 125-126. ↩︎
-
Tim Le Bon, Consulenza filosofica: una visione personale, in «Philosophy practice», 1 (2003). ↩︎
-
Ulteriori informazioni sono reperibili all’URL: http://www.geocities.com/philosophy.practices/Achenbach/Tradital1.htm ↩︎
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Tim Le Bon, Consulenza filosofica: una visione personale, in «Philosophy practice», 1 (2003). ↩︎
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È il 1992, quando Shlomit Schuster parla della sua attività al connazionale Lahv, filosofo e neuropsicologo, operante in varie università israeliane e statunitensi. Assai colpito dalla novità, questi comincia ad occuparsi teoreticamente della materia e a praticare gratuite consulenze, a scopo sperimentale. Due anni dopo, nel 1994, organizza con Lou Marinoff la prima conferenza internazionale, a Vancouver; l’anno successivo cura, con Maria Tillmanns, il volume Essays on Philosophical Counseling, che ancor oggi costituisce una pietra miliare della letteratura specializzata. Insieme ad Achenbach, Lahav, è considerato il più interessante teorico della consulenza filosofica. Inoltre, si deve a Ran Lahav inoltre, la diffusione in America della consulenza Filosofica, passaggio che si rivelerà decisivo per la sua affermazione internazionale. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Modello metodologico, in cinque fasi, che egli ritiene solo euristico,affermando di recente la convinzione dell’importanza di lasciare quanta più libertà possibile al decorso del dialogo, per la necessità di far si, che la saggezza del pensiero «agisca» sulla persona, arricchendola, senza distrarla con la ricerca di «soluzioni del problema. Cfr. Ran Lahav, Un quadro concettuale per la consulenza filosofica, in «Comprendere la vita. La consulenza filosofica come ricerca della saggezza», Apogeo, Milano 2004. ↩︎
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Cfr. Peter B. Raabe, Teoria e pratica della consulenza filosofica. Idee fondamentali, metodi e casi di studio, Apogeo, Milano 2006. Consulente filosofico canadese, ha pubblicato negli ultimi anni due libri molto interessanti, Philophical Counseling e Issues in Philosophical Counseling. Il primo può essere considera una sorta di manuale introduttivo per consulenti filosofici e include una vasta panoramica sulla letteratura anglosassone della materia e la discussione di alcuni dei più importanti nodi teorici. Anche Raabe differenzia la consulenza filosofica da ogni genere di terapia, ma è decisamente critico nei confronti dell’approccio di Achenbach (che peraltro non conosce così bene come vorrebbe far credere, non utilizzando mai nella sua discussione i testi pubblicati solo in lingua tedesca).In particolare, egli si oppone all’idea della indefinibilità di un metodo e ancor più a quella che la consulenza filosofica sia scevra da qualsivoglia posizione intenzionale di fini, ritenendo invece con molta decisione che al centro delle intenzioni del consulente ci sia la volontà di risolvere i problemi del cliente. ↩︎
-
Cfr. Peter Raabe, Philosophical Counselling, Praeger, Westport (Connect.) 2001, p. 125; cit., Tim Le Bon, Consulenza filosofica: una visione personale, in «Philosophy practice», 1 (2003). ↩︎
-
Tim Le Bon, consulente inglese, è stato negli ultimi anni il principale animatore dell’associazione inglese e ha pubblicato vari contributi, tra i quali spicca il volume Wise Therapy, nel quale emerge più che altrove la tendenza anglosassone a distaccarsi dall’impostazione data da Achenbach alla disciplina. Le Bon — che non a caso oltre alla consulenza filosofica svolge anche altre attività come il counseling a orientamento psicologico e il coaching — dichiara in Wise Therapy (Continuum, London/New York 2001, p. 169): «in questo libro, come è comune (sebbene non generale), in Gran Bretagna, io uso le parole Therapy e Counseling sinonimicamente»; dimostrando in seguito, come la filosofia possa «essere utile» al counseling, alla terapia e ai terapeuti. ↩︎
-
Tim Le Bon — David Arnaud, Towards Wise Decision-Making. Critical and Creative Thinking, in «Practical Philosophy», 4, 3 (2001), pp. 25-31; cit., Tim Le Bon, Consulenza filosofica: una visione personale, in «Philosophy practice», 1 (2003) ,p. 41. ↩︎
-
Tim Le Bon, Wise Therapy, Continuum, London 2001; cit., Tim Le Bon, Tim Le Bon, Consulenza filosofica: una visione personale, in «Philosophy practice», 1 (2003) ,p. 41. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Cfr. Marinoff L., Platone è meglio del Prozac, Piemme, Casale Monferrato 2001; tit. orig., Plato, not Prozac!, Harper & Collins, 1999. ↩︎
-
Neri Pollastri, Il pensiero e la vita. Guida alla consulenza e alle pratiche filosofiche, Apogeo, Milano 2004, pp. 66-67. ↩︎
-
G. B. Achenbach, Filosofia come professione, in «La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità per la vita», Apogeo, Milano 2004; pp. 57-72; tit. orig., Philosophische Praxis, Dinter Verlag, Köln 1987. ↩︎
-
G. B. Achenbach, II filosofo come consulente, in «La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità per la vita», Apogeo, Milano 2004, pp. 17-25; tit. orig., Philosophische Praxis, Dinter Verlag, Köln 1987. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
G. B. Achenbach, Philosophische Praxis als Alternative zu Psychotherapie und Seelsorge, stampa privata, cit. in Eckart Ruschmann, Philosophische Beratung, Kohlhammer, Stuttgart 1999, p. 94. ↩︎
-
G. B. Achenbach, Il filosofo come consulente, contenuta in nota103, pp. 21-22. ↩︎
-
G. B. Achenbach, Filosofia come professione, pp. 65-66, contenuta in nota103 ↩︎
-
G. B. Achenbach, La consulenza filosofica sulla vita, p. 83, contenuta in nota103 ↩︎
-
G. B. Achenbach, Filosofia come professione, p. 65, contenuta in nota103 ↩︎
-
G. B. Achenbach, La consulenza filosofica sulla vita, p. 83, contenuta in nota103 ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 84. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 85. ↩︎
-
Ivi, p. 81. ↩︎
-
Vlastos Gregory, Studi socratici, Vita e Pensiero, Milano 2003, p.29; tit. orig., Socratic Studies, Cambridge University Press, Cambridge 1994. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 10. ↩︎
-
Ivi, p. 95. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 12. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 14. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 14-15. ↩︎
-
Giovanni Reale, Socrate. Alla ricerca della sapienza segreta, Bur, Milano 2004, p. 162. ↩︎
-
Epitteto, Manuale, Bur, Milano 2000. ↩︎
-
Lou Marinoff L., Pillole di Aristotele, Piemme, Casale Monferrato 2003, p. 136; tit. orig., The Big Questions, Harper & Collins, 2003. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 62. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Plotino, Enneade. Il pensiero occidentale, I, 6,9,30-32, Bompiani, Milano 2002. ↩︎
-
Nella mia tesi dal titolo «La consulenza filosofica. Questione e prospettive», ho cercato di ripercorrere a ritroso i passi fondamentali che ha compiuto la filosofia fino a giungere oggi alla riscoperta, la missione originaria e propria della filosofia: la «cura» dell’anima. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Cfr. J. Patoèka, Socrate, Bompiani, Milano 2003, pp. 395-397; tit. orig., Sókratés, Praga 1947. ↩︎
-
F. Nietzsche, La nascita della tragedia, nota introduttiva di G. CoW, versione di S. Giarnetta, Adelphi, Milano 199717, p. 99. ↩︎
-
Cfr. Emilio Baccarini, La persona e i suoi volti. Etica e antropologia, Anicia, II° Ediz. ampliata, Roma 2003. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Kierkegaard, Briciole di filosofia, in «Opere» cit. vol. II, p. 36, cit. contenuta in Giovanni Reale, Socrate. Alla ricerca della sapienza umana, Bur, Milano 2004, pp. 159. ↩︎
-
Ivi, p. 37. ↩︎
-
Si rincontra in questo modo ciò che si chiamata ironia complessa socratica in cui, quello che viene affermato è e non è ciò che si intende dire, in quanto il suo contenuto inteso in un senso è falso (senso superficiale o denotativo), inteso in un altro senso è vero (senso profondo e connotativo). ↩︎
-
Giovanni Reale, Socrate. Alla ricerca della sapienza umana, Bur, Milano 2004, pp. 159-160. ↩︎
-
Emilio Baccarini, Il tempo della vita. Elementi per una filosofia della cura, in «La persona e i suoi volti. Etica e antropologia», Anicia, II° Ediz. Ampliata, Roma 2003, pp. 237-248. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Neri pollastri, Il pensiero e la vita. Guida alla consulenza e alle pratiche filosofiche, Apogeo, Milano 2004, pp. 161-164. ↩︎
-
Vlastos G., Studi socratici, Vita e Pensiero, Milano 2003, p. 115; tit. or. Socratic Studies, Cambridge University Press, Cambridge 1994. ↩︎
-
Si legga a tal proposito il Menone, dialogo platonico, dove lo stesso affermerà «quando la vera opinione governa il corso di un’azione ciò che produce non è in alcun modo inferiore a ciò che è prodotto dalla conoscenza» (98C); in altre parole, non sarà più necessario, per ragioni di dignità, che ciascuno sia, per quanto può, filosofo, essendo sufficiente, per ragioni di efficacia, che lo sia solo chi governa le azioni dei più. ↩︎
-
Sul concerto di «Nozione materiale» cfr. Andrea Poma, La consulenza filosofica, in «Kykéion», 8 (2002), p. 41. ↩︎
-
È questione che esorbita l’ambito di questo libro quella che concerne la possibilità che anche le regole del ragionamento razionale possano esser messe in gioco. Come già accennato, quest’ultimo si basa essenzialmente sui principi di identità e non contraddizione, assieme al correlato della «differenza», che permette Ia definizione univoca del concetto. La riflessione razionale, filosofica, muove da questi, anche perché essi sono il presupposto della comprensione reciproca e della comunicazione tra dialoganti. A rigore, questi principi devono esser sempre ritenuti altrettanto precari e cangianti delle altre nozioni di contenuto; concretamente, questo non può però significare una loro abiura irrazionale, perché essi sono, nell’ambito della ricerca, «al momento certi». Per una discussione su questo tema condotta sulla filosofia del pensiero di Hegel, cfr. Neri Pollastri, L’assoluto eternamente in sé cangiante, La Città del Sole, Napoli 2001, pp. 233-248. ↩︎
-
Vlastos Gregory, Socrate: il filosofo dell’Ironia complessa, La Nuova Italia, Firenze 1998, pp. 57-58, ed. orig. Socrates:Ironist and moral Philosopher, Cambrige University Press, Cambrige 1991. ↩︎
-
Michelantonio Lo Russo, Perché esercizi spirituali oggi?, articolo del 21 maggio 2003, reperibile all’indirizzi URL: http://www.geocities.com/philosophy_practices. ↩︎
-
V. Frankl, Homo patiens. lnterpretazione umanistica della sofferenza, Salcorn. Brezzo di Bedero 1979, p. 105; tit. orig. «Homo patiens. Versuch einer Pathodizee, Wien, Deuticke 1950. ↩︎
-
Nei dialoghi platonici, in fondo, non è in gioco l’argomento del dialogo (per esempio l’amore o Ia giustizia), ma la figura di Socrate. La tradizione occidentale infatti, non ha mai abbandonato la tradizione dialogica, si pensi a Martin Buber e al principio dialogico da lui sostenuto: I’Io-Tu. ↩︎
-
Karl Albert, Sul concetto di filosofia in Platone, Vita e Pensiero, Milano 1991, p.65; tit.orig., Über Platons Begriff der Philosophie, Academia Verlag Richarz-Sankt Augustin, I ed., 1991. ↩︎
-
Neri Pollastri, In consulenza da un filosofo, per dar senso al racconto dell’esistenza, p. 2; art. contenuto in http://www.phronesis.info/. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 3. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Cfr. Ran Lahav, Comprendere la vita. La consulenza filosofica come ricerca della saggezza, Apogo, Milano 2004; Roberto De Ponticelli, L’ordine del cuore, Garzanti, Milano 2002; Neri Pollastri, La consulenza filosofica tra saggezza e metodo, in «Intersezioni», 1 (2003). ↩︎
-
Ivi, pp. 3-6. ↩︎
-
Peter B. Raabe, Teoria e pratica della consulenza filosofica. Idee fondamentali, metodi e casi di studio, Apogeo, Milano 2006, pp. 105-110. ↩︎
-
Eckart Ruschmann, Foundations of Philosophical Counseling, in «Inquiry: Critical Thinking Across the Disciplines», 17, 3, (1998), pp. 24. ↩︎
-
David Jopling A., Philosophical Counseling, Truth and Self- Interpretation, in «Journal of Applied Philosophy», 13, 3, (1996), p. 298. ↩︎
-
Shlomit Schuster, The Practice of Sartre’s Philosophy, in «Philosophical Counseling and Existential Psychotherapy», in «Jerusalem Philosophical Quaterly»,44 (1995), p. 111. ↩︎
-
David Jopling, op. cit., p. 298. ↩︎
-
Shlomit Schuster, Sartre’s Word a Paradigm for Self- Description in Philosophical Counseling, in «Vlist, Wim van der, «Perspectives in Philosophical Practice: Collected Lectures of the Second International Congress on Philosophical Pratice», Vereniging voor Filosofische Practijk, Leusden, Olanda 1996, pp. 20-21. ↩︎
-
Cfr. Barbara Norman, Philosophical Counseling: The Arts of Ecological Relationship and Interpretation, in R. Lahav e Venza Tillmanns, Maria (eds), «Essays on Philosophical Counseling», University Press of America, Lanham 1995, pp. 52-53. ↩︎
-
Cfr., Epicuro, Lettera a Meneceo, in Lettera sulla felicita, Bur, Milano 2007. ↩︎
-
Rollo May, psicologo “esistenzialista”, conoscitore della psicoanalisi ma che, nello stesso tempo, percepisce delle affinità non trascurabili tra la propria ricerca e la filosofia heideggeriana. ↩︎
-
Non c’è modo di definire aprioristicamente il concetto di “maturità”, ed è proprio necessario evitare che possa diventare veicolo di una definizione paranoica, avendo constatato che i miti pedagogici rappresentano un pericolo per la salute del soggetto. ↩︎
-
R. May, L’arte del counseling, Astrolabio, Roma 1989, p. 38. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 45. ↩︎
-
Ran Lahav, Comprendere la vita. La consulenza filosofica come ricerca della saggezza, Apogeo, Milano 2004, pp. 56-60. ↩︎
-
Per tutti i 2500 anni della storia della filosofia occidentale i filosofi hanno discusso questioni con applicazioni concrete e hanno sviluppato un ampio ventaglio di idee sul modo in cui la vita dovrebbe essere, compresa e vissuta. Alcuni esempi sono: i cinici, gli stoici, gli epicurei dell’antica Grecia e dell’antica Roma; varie filosofie religiose; le filosofie del Rinascimento, dell’Illuminismo e del Romanticismo; le filosofie sociali. Queste e molte altre filosofie sono state spesso usate per dare orientamento e forma alle vite degli individui e delle società; per quel tanto che sono state utilizzate per offrire consulenza agli individui sulle loro vite, possono essere viste come antecedenti della consulenza filosofica. ↩︎
-
Lou Marinoff ,consulente americano, ha definito il counseling “una terapia per persone sane”, situando ottimisticamente la “Pratica Filosofica” come possibile sostituto agli psicofarmaci prescritti dagli psichiatri americani. Criticato giustamente per la riduzione semplicistica della sua teoria e dagli stessi consulenti filosofici, per la sua “filosofia in pillole” che non può avere quell’ampiezza e quella complessità che ciascuno ritrova nella ricerca di una propria visione filosofica. ↩︎
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Neri pollastri, Il pensiero e la vita. Guida alla consulenza e alle pratiche filosofiche, Apogeo, Milano 2004, p. 223. ↩︎
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Ivi, pp. 223-224. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Raffaella Soldani, Intervista a Gerd Achenbach, in «Phronesis», 2 (2004), p. 128. ↩︎
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Cfr. nota 183, pp. 225-226. ↩︎
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Ivi, p. 226. ↩︎
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Raffaella Soldani, Intervista a Gerd Achenbach, in «Phronesis», 2 (2004), p. 140. ↩︎
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Cfr. nota 183, pp. 226-227. ↩︎
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G. B. Achenbach, La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità per la vita, Apogeo, Milano 2004, p. 60. ↩︎
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Seneca, Sulla felicità, 24, 1-4, Bur, Milano 2000. ↩︎
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Cfr. Neri Pollastri, Il pensiero e la vita. Guida alla consulenza e alle pratiche filosofiche, Apogeo, Milano 2004, pp. 84-86. ↩︎
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Ogni organizzazione costituitasi per la formazione e divulgazione delle pratiche filosofica è regolata da un codice deontologico visibile nel sito delle varie organizzazioni, ad ex. http://www.achenbach-pp.de/. il sito personale dell’iniziatore della consulenza filosofica Gerd Achenbach; http://www.consulenzafilosofica.net/. il sito personale di Paola Teresa Grassi; http://www.consulenza-filosofica.it/. sito personale di Neri Pollastri; http://www.phronesis.info/. il sito dell’Associazione Italiana per la consulenza filosofica Phronesis; http://www.pratichefilosofiche.net/. centro per lo studio delle pratiche filosofiche; http://www.psicofilosofia.it/. associazione italiana psicofilosofi; http://www.sicof.it/. società italiana counseling filosofico; http://www.nonterapia.ch/. scuola superiore di formazione all’esercizio del counseling filosofico. ↩︎
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Epitteto, Manuale, 51, 1-3, Bur, Milano 2000. ↩︎
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Cit., Maurice Merleau-Ponty, Elogio della filosofia, a cura di Carlo Sini, Editori Riuniti, Roma 1999. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ivi, p. 229. ↩︎