Stig Dalager, L’uomo dell’istante. Un romanzo su Søren Kierkegaard, Iperborea, Milano 2016, pp. 416.
«La vita si vive in avanti ma si comprende all’indietro» (dal Diario di Søren Kierkegaard). Questa sentenza sembra aver ispirato la scelta di Stig Dalager di iniziare la sua biografia romanzata del filosofo danese a partire dagli ultimi giorni di vita trascorsi da Kierkegaard presso il Frederickshospital, dove si era ricoverato in seguito a un malore che poco tempo prima lo aveva colto per strada. Come sottolinea Ingrid Basso nella Postfazione, è un Kierkegaard fatto di carne e sangue quello che Dalager mette in evidenza, un uomo fragile, incapace di reggersi sulle proprie gambe, con una testa troppo pesante in proporzione al corpo, indice di uno squilibrio profondo tra gli ideali ai quali Kierkegaard ha consacrato se stesso e il piano di realtà.
Tutto il romanzo, come del resto l’intera vita di Kierkegaard, ruota attorno alla storia d’amore con Regine Olsen, la giovane che il filosofo abbandona dopo appena un anno di fidanzamento, ma a cui non smetterà mai di pensare come all’unico amore della sua vita. La decisione di rompere con Regine matura dalla sofferta consapevolezza che la malinconia, di cui il filosofo si sente prigioniero, avrebbe inevitabilmente reso infelice l’amata e trasformato il matrimonio in una tortura. Per non esporre la fidanzata alle chiacchere della gente, Kierkegaard escogita una farsa in cui cerca di passare per una canaglia e un poco di buono, così da rendere la rottura inevitabile. Regine, che subodora questa macchinazione, si rifiuta di lasciarlo. Dovrà arrendersi suo malgrado, dopo aver cercato in ogni modo di rassicurarlo circa la natura incrollabile dell’amore, difronte alla irremovibile fermezza di lui. L’attrazione tra i due però non si esaurisce. Anche quando la relazione si è ormai ufficialmente interrotta, i loro sguardi continueranno a incrociarsi fuori dai bastioni della cittadina danese, fino alla partenza di Regine per le Indie Occidentali al seguito del marito Fritz Schlegel. La ragione profonda di questa condotta incomprensibile risiede propriamente nell’incapacità di Kierkegaard di amare la giovane fidanzata hic et nunc, nella pienezza dell’istante. Il filosofo può soltanto ricordare e cantare l’amore — come la forza seduttiva dell’epistolario si incarica di dimostrare — a condizione che l’amata si allontani da lui. Da vero poeta — quale egli si considera — l’unico elemento in cui si sente a proprio agio è l’idea, ovvero il fantasma della realtà. Quest’ultima infatti lo interessa solo nella misura in cui può offrire spunti alla sua immaginazione ipertrofica, come avveniva nelle lunghe passeggiate virtuali compiute da bambino insieme al padre tra le quattro mura dell’appartamento di Nytorv. Anche la produzione letteraria e le categorie che improntano la filosofia del Danese si comprendono alla luce della sua dolorosa esperienza di vita. Se attraverso l’aut-aut egli certifica l’impossibilità di armonizzare le contraddizioni del proprio essere, la categoria del singolo ipostatizza l’isolamento in cui Kierkegaard si trova confinato. Mentre, poi, la «malattia per la morte» (descritta nell’omonima opera del 1849) rappresenta la disperazione di volere essere se stessi e non poterlo diventare, angoscia è il sentimento paralizzante della «libertà di potere» che Kierkegaard ha dolorosamente sperimentato in prima persona. In quest’ottica, anche gli autori fittizi, ai quali il filosofo aveva attribuito la paternità delle proprie opere allo scopo di promuovere nel lettore una scelta responsabile di vita, appaiono, in realtà, come altrettante maschere dietro le quali si agita una personalità frammentata e in conflitto con se stessa.
Riconoscendosi privo del coraggio necessario per diventare marito — prima — e pastore luterano — poi —, a Kierkegaard non resta che interpretare la propria impotenza come un segno profetico, ritenendosi chiamato da Dio a un compito speciale: risvegliare l’esigenza della fede nei propri contemporanei. Non siamo troppo lontani dalla spiegazione genealogica del cristianesimo, alla cui origine Nietzsche poneva il risentimento dell’uomo debole nei confronti della vita. Nel romanzo di Dalager — su cui ci sembra aver inciso in misura determinante la monumentale e documentatissima biografia di Joakim Garff (Castelvecchi 2013) — il cristianesimo si presenta tutto sommato come un elemento secondario, indotto dall’educazione paterna e via via radicalizzato nella polemica con l’autorità religiosa del tempo. A tale proposito è significativo notare come, nelle quasi quattrocento pagine di cui consta il romanzo, Kierkegaard non prenda mai in mano la Bibbia («il libro — aveva scritto — che leggo più spesso, sta sempre sul mio tavolo») e non si raccolga in preghiera nemmeno una volta. Il filosofo si dimostra, al contrario, un distratto frequentatore di chiese, completamente assorbito dalla propria vicenda amorosa, persino quando proclama la parola di Dio dal pulpito di Kastelskirke. Un romanzo su Kierkegaard non poteva che essere anche un romanzo su Copenaghen, la città in cui il filosofo ha trascorso l’intera esistenza e alla quale era legato dallo stesso rapporto simbiotico che univa Socrate ad Atene. Passeggiare all’aria aperta, percorre in carrozza i viali della capitale e chiacchierare con la gente del popolo offriva a Kierkegaard un valido diversivo per sfuggire alla propria malinconia. Il lirismo dei paesaggi, descritti con la semplicità e l’immediatezza del «colpo d’occhio» (questo il significato etimologico del termine danese øjeblik, «istante») fa da controcanto a una prosa sorvegliatissima, che il lettore italiano ha il piacere di leggere nella traduzione esperta di Ingrid Basso. Il ricorso insistito al flash-back, la forza misurata dei dialoghi, l’uso della soggettiva libera indiretta, la studiata alternanza di interni ed esterni, la scansione del romanzo in lunghi piani sequenza anziché in capitoli, contribuiscono a rendere la biografia di Dalager un interessante «esperimento» cinematografico, dove la vita di Kierkegaard scorre sotto i nostri occhi come un’ininterrotta successione di istanti mancati su cui la morte stende infine il suo pietoso sipario.