Il comico difficile

Introduzione

Che gli esseri umani siano i soli animali capaci di ridere e piangere può essere messo in dubbio, ma che siano gli unici a sviluppare degli strumenti a questo scopo, non può esserlo. Tragedia e commedia, i due fronti dell’arte drammatica codificati da Aristotele nella Poetica,1 sono proprio questi strumenti. La difficoltà a conferire un significato univoco a questi due magmatici termini, è sintomatica.2 Vorrei in questo breve scritto tentare di identificare la ragione di questa difficoltà e proporre un’ipotesi di lavoro per risolverla, o per lo meno approcciarla.

Gli strumenti per far piangere non son difficili da mettere in atto: basta ferire una persona, fisicamente o moralmente. Anche questa facilissima operazione però non è direttamente, meccanicamente efficace. Se uno mi ferisce e io ho un’ancora al di fuori del rapporto con il feritore, posso o disprezzarlo oppure perdonarlo, e quindi non piangere. Se non ho questo punto d’appoggio, piangerò invece senz’altro. Piango solo se sono completamente immerso nel rapporto con il feritore, se il mio io è colpito davvero, al di là dello scudo con cui posso proteggerlo, o nel corpo o nello spirito. Far ridere è infinitamente più difficile: non c’è un’azione diretta che sia possibile mettere all’opera. Fare il solletico? Raccontare barzellette? Credo però che anche per il riso la meccanica sia la stessa che per il pianto: l’io deve venire colpito perché questo effetto ne nasca. E all’estremo opposto dell’azione che causa il riso, cioè nella passione corrispettiva, non c’è solo un’unica espressione, come per il dolore. Al di là del riso c’è la gioia, questa misteriosa realtà che potrebbe anche essere la migliore traduzione di εὐδαιμονία.

La μίμησις di Aristotele e di Platone

La Poetica di Aristotele è uno scritto fuori da ogni categoria, perché nessuno fino a lui, e nessuno fino a molto tempo dopo di lui, a quanto si dice,3 ha fatto dell’arte poetica un soggetto di studio specifico. Nel titolo del suo primo paragrafo, Aristotele è apodittico: poesia è imitazione, μίμησις. Immediatamente dopo dice cosa venga imitato: μιμήσεις τὸ σύνολον, il tutto nel suo insieme, nel suo comportamento, le sue passioni ed azioni, μιμοῦνται ἤθη καὶ πάθη καὶ πράξεις. Aristotele vuole anzitutto trattare dei principi della poetica (κατὰ φύσιν πρῶτον ἀπὸ τῶν πρώτων) e si lancia nella complessa suddivisione dei generi poetici che ha dato da pensare a due millenni e mezzo di studiosi.4 Elenca e suddivide le arti che usano «mescolati insieme» il ritmo, il discorso e l’armonia (ποιοῦνται τὴν μίμησιν ἐν ῥυθμῷ καὶ λόγῳ καὶ ἁρμονίᾳ). Questi tre sono da intendersi come elementi, cioè quelli che, combinati, porteranno alla bella poiesis (καλῶς ἕξειν ἡ ποίησις). L’oggetto proprio della ricerca di Aristotele in questo incipit sembra essere qualcosa di molto preciso, un’arte che ancora non ha un nome, ma dovrebbe averlo: «l’arte che si vale soltanto dei nudi discorsi e quella che si serve dei metri, sia mescolandoli tra loro sia di un’unica specie, si trovano ad essere fino ad oggi prive di un nome» (1447 A-B). Come esempi di questo oggetto vengono inizialmente fornite le opere di alcuni autori (ποιητής): i mimi di Stesicoro e Senarco da un lato, i dialoghi socratici dall’altro.

ἡ δὲ [ποίησις] μόνον τοῖς λόγοις ψιλοῖς <καὶ> ἡ τοῖς μέτροις καὶ τούτοις εἴτε μιγνῦσα μετ᾽ ἀλλήλων εἴθ᾽ ἑνί τινι γένει χρωμένη τῶν μέτρων ἀνώνυμοι τυγχάνουσι μέχρι τοῦ νῦν: οὐδὲν γὰρ ἂν ἔχοιμεν ὀνομάσαι κοινὸν τοὺς Σώφρονος καὶ Ξενάρχου μίμους καὶ τοὺς Σωκρατι-κοὺς λόγους οὐδὲ εἴ τις διὰ τριμέτρων ἢ ἐλεγείων ἢ τῶν ἄλλων τινῶν τῶν τοιούτων ποιοῖτο τὴν μίμησιν.

But the art which employs words either in bare prose or in metres, either in one kind of metre or combining several, happens up to the present day to have no name. For we can find no common term to apply to the mimes of Sophron and Xenarchus and to the Socratic dialogues: nor again supposing a poet were to make his representation in iambics or elegiacs or any other such metre — except that people attach the word poet to the name of the metre and speak of elegiac poets and of others as epic poets.5

Aristotele prosegue poi ponendo in una stessa specie le opere di Sofocle e Omero, perché la loro materia è nobile; e in una stessa specie quelle di Sofocle e Aristofane perché entrambi ritraggono persone in azione. Materia e forma sono ciò che aristotelicamente definisce la sostanza, la prima categoria, perciò la sua prima distinzione si rifà ad essa. I nudi discorsi lasciano a tutta prima un po’ perplessi, mentre quella che si serve di metri è senz’altro ciò che noi oggi, e una lunga tradizione prima di noi, chiama arte drammatica, messa in scena nei teatri greci, dove venivano rappresentati in modo strutturato dagli agoni, tragedie, commedie e drammi satireschi, ma anche molto altro, oltre ad opere poetiche (cioè metriche) antiche e nuove, anche nudi discorsi in prosa di varia circostanza.6

Con la Poetica Aristotele sembrerebbe anzitutto voler impiegare i suoi strumenti concettuali, per identificare cosa assimila e cosa distingue i dialoghi socratici e i mimi siciliani. Il genere letterario dei Dialoghi socratici, è stato abbastanza diffuso in Atene alla fin del V secolo, perché molti, e secondo Diogene Laerzio7 fra i primi Simone il ciabattino, misero per iscritto le discussioni condotte da Socrate. Certamente fra questi c’è anche Senofonte. Non credo però che sia questo l’esempio cui si riferisce Aristotele, perché non si porrebbe il problema della natura poetica di questi testi di pura cronaca. Oggetto della ricerca di Aristotele sono dunque certamente i Dialoghi socratici di un preciso autore, Platone, dei quali altrove Aristotele stesso dice che «sono per metà poesia» e in effetti, secondo la tradizione, Platone basò sui mimi siciliani la forma dei suoi Dialoghi.8 Credo che si possa leggere la Poetica come una risposta aristotelica alla serrata critica e al rigetto politico dell’arte drammatica da parte di Platone.9 Nella Poetica, come in nessun altro scritto di Aristotele è visibile come le analisi proposte da Platone vengano usate contro le conclusioni proposte da Platone stesso. Qui come altrove, Aristotele fa suoi gli strumenti platonici e nello stesso tempo rigetta le tesi a cui Platone giunge.

Opposizione fra Aristotele e Platone

È tipico del procedimento scientifico identificare il campo in cui si vuole situare un oggetto prima di studiarlo, e proprio questo Aristotele fa nei primi 5 capitoli della poetica, prima di dedicarsi alla tragedia per altri 20. Ma la commedia e il comico accompagnano la trattazione aristotelica della tragedia come un’ombra, come un contrappunto, riemergendo periodicamente come qualcosa di differente da…, cioè da quello di cui in quel momento Aristotele si occupa. I fautori del pensiero di Aristotele sostengono che la Poetica non sia incoerente, ma incompleta, perché si suppone che il secondo libro, che Diogene Laerzio elenca fra le opere dello Stagirita, sia andato perduto. Diogene parla poi addirittura di un terzo libro della Poetica.10 Naturalmente la cosa è stata molto discussa, ma per finire, la communis opinio si è fissata su una Poetica aristotelica in due libri, il secondo dei quali, dedicato alla commedia, sarebbe appunto perduto, mentre questo terzo libro sarebbe una parte Dei Poeti, non della Poetica.11

Il punto in cui è più evidente è che Aristotele si oppone alla tesi di Platone è proprio nell’assunto secondo cui la poetica è una parte dell’arte mimetica. Platone afferma invece chiaramente nel Sofista che l’arte mimetica è una parte dell’arte poetica,12 dove poetica e poietica traducono l’identica parola greca ποίησις.13 Nel Sofista infatti, Socrate procede all’opposto della Poetica, dividendo tutte le arti in poietica (produttiva) e ktetica (acquisitiva) e ponendo la mimetica fra le arti produttive.

Ma consideriamo anzitutto la divisione delle arti poetiche in Aristotele. Quella di cui non si conosce il nome, non usa altri strumenti dalla voce umana (φονή). Invece la musica strumentale e la danza usano l’armonia e il ritmo senza mescolarli con λόγος. Ma esse pure, prosegue Aristotele, sono mimetiche, perché μιμοῦνται ἤθη καὶ πάθη καὶ πράξεις, imitano comportamenti, passioni e azioni, così come fa l’ignota arte senza nome. Le arti plastiche e pittoriche poi, che usano colori e forme (χρώμασι καὶ σχήμασι), sono ricordate per analogia rispetto a queste arti ancora anonime. Quindi le arti che strictu sensu producono oggetti, come pittura e scultura, vengono integrate nella ricerca aristotelica, ma con una posizione un po’ eccentrica rispetto al suo oggetto di indagine, il cui punto focale restano quelle arti che si strutturano secondo la loro maggiore o minore strumentalità. L’arte poetica di cui qui ci si occupa è quella che non usa altri strumenti che il corpo e la voce. Il ritmo, il λόγος e l’armonia sembrano essere in Aristotele piuttosto elementi dell’opera, più che non criteri della sua riuscita. Ma Aristotele tace completamente di quelli che sono i mezzi stessi dell’arte teatrale greca,14 per sottolinearne invece l’origine e l’effetto (il riso e il terrore) e la suddivisione secondo tre diverse categorie. Di questa suddivisione dà una definizione così concisa che qualunque traduzione in una lingua moderna è costretta ad una parafrasi; nella quale è spesso sintetizzata l’idea del traduttore piuttosto che non l’intelligibilità del testo aristotelico (1447 a):

διαφέρουσι δὲ ἀλλήλων τρισίν, ἢ γὰρ τῷ ἐν ἑτέροις μιμεῖσθαι ἢ τῷ ἕτερα ἢ τῷ ἑτέρως καὶ μὴ τὸν αὐτὸν τρόπον.

[tragedia e commedia] si dividono rispettivamente in tre: per come mimano il diverso, o dal diverso che mimano oppure secondo il loro carattere proprio.

Questa tormentatissima frase va tenuta presente nella versione greca, perché tutte le traduzioni sono costrette ad interpretarla anticipando una soluzione che invece Aristotele non fornisce affatto.15 Aristotele condurrà la sua ricerca in tutt’altro senso rispetto a questo incipit, perché si dedicherà quasi esclusivamente alla tragedia per i successivi capitoli, l’ultimo dei quali è dedicato invece ad alcune particolari questioni omeriche. L’incompiutezza della Poetica di Aristotele esige essa stessa un’interpretazione perché fondarsi semplicemente sull’assunto che alcune parti siano state perdute, è una soluzione in fondo troppo facile. Questo scritto sembra sostanzialmente e non accidentalmente incompiuto. L’incipit dettava con chiarezza il suo scopo come la definizione delle arti che usano la φονή con λόγος. Aristotele accumula poi tutta una serie di caratteristiche mutuate dalle arti drammatiche teatrali che per finire non danno, nella Poetica, alcuna definizione univoca dell’arte di cui si andava in cerca. Si può forse dire che siamo di fronte al primo tentativo – fallito – di inserire i dialoghi platonici in un particolare genere artistico o poetico.

Mimesis nel Sofista di Platone

L’associazione della ποίησις alla μίμησις costringe a fare riferimento al Sofista di Platone, e l’ἑτέρος che Aristotele declina in diversi casi grammaticali in 1447 A per definire i modi dell’arte teatrale, pure. I quattro generi di cui Socrate si serve nel Sofista per il parricidio di Parmenide sono τό τε ὂν αὐτὸ καὶ στάσις καὶ κίνησις (254 d), l’essente, la stasi e il movimento, a cui aggiunge τὸ ταὐτὸν (255 c) l’identico. A questi quattro si aggiunge l’ἑτέρος, il diverso, che sottostà a un trattamento più complesso dei precedenti quattro generi:

Ξένος: τὸ δέ γ᾽ ἕτερον ἀεὶ πρὸς ἕτερον: ἦ γάρ. Θεαίτητος: οὕτως. Ξένος: οὐκ ἄν, εἴ γε τὸ ὂν καὶ τὸ θάτερον μὴ πάμπολυ διεφερέτην: ἀλλ᾽ εἴπερ θάτερον ἀμφοῖν μετεῖχε τοῖν εἰδοῖν ὥσπερ τὸ ὄν, ἦν ἄν ποτέ τι καὶ τῶν ἑτέρων ἕτερον οὐ πρὸς ἕτερον: νῦν δὲ ἀτεχνῶς ἡμῖν ὅτιπερ ἂν ἕτερον ᾖ, συμβέβηκεν ἐξ ἀνάγκης ἑτέρου τοῦτο ὅπερ ἐστὶν εἶναι.

Straniero: E il diverso è sempre in relazione a un diverso, non è vero? Teeteto: È così. Straniero: Non lo sarebbe, se l’ente e il diverso non fossero assolutamente differenti. Ma se un diverso partecipasse ad entrambe le Forme, come l’ente, ci sarebbe qualcuno dei diversi che non sarebbe diverso in relazione a un diverso. Ora invece, assolutamente, ci risulta che qualunque cosa sia diversa, necessariamente è quello che è, cioè diversa da una diversa.

L’essente, τό τε ὂν, è necessariamente nello stesso tempo identico a se stesso e diverso da altro. Ma τὸ θάτερον, l’altro, il contrario, il diverso, è uno dei nomi attribuiti alla Diade, il principio dell’indeterminato in quella che Aristotele testimonia essere stata la dottrina non scritta professata da Platone nell’Accademia.16 Anche la mescolanza, dal Sofista fino al Filebo, è un termine tecnico della dialettica platonica.17 Gli elementi della mimesis di cui Aristotele si serve nella Poetica sono dunque gli stessi di cui Platone si serve nel Sofista, in modo centralissimo, e che riprende in diversi altri dialoghi. Focalizziamoci sulla μίμησις come τέχνη, come arte. Nel Sofista Platone distingue l’arte tout court in due parti o idee (τεχνῶν πασῶν σχεδὸν εἴδη δύο 219 a) avvisando il lettore che una cosa insignificante come un pescatore alla lenza servirà a mostrare qualcosa di grande cioè la natura del sofista (218 e). Tutte le arti si dividono da un lato in arte poietica (ποιητικὴν), che produce qualcosa, e dall’altro in quella che acquista qualcosa che già c’è (κτητικὴ).18 La mimetica (ἥ τε μιμητική) è posta nella prima parte dell’arte, quella produttiva, che è anche definita come strumentale (ὃ δὴ σκεῦος). Nel Sofista, Platone si occupa della parte acquisitiva dell’arte, salvo poi, con una giravolta degna della miglior commedia, ripescare l’arte mimetica per definire l’oggetto della ricerca: il sofista. Sofista è infatti chi non usa uno strumento, ma se stesso, la propria voce o il proprio corpo, per produrre un’apparenza: quest’arte si chiama μιμητική (267 a). Ma produrre un’apparenza si può o conoscendo ciò che si va a riprodurre, oppure ignorandolo (267 d). Il sofista è uno che imita, simulando di sapere ciò che imita; il sofista pubblico è il demagogo, il sofista privato, che cerca di convincere della propria sapienza una persona o poche persone alla volta, imita l’arte con cui il vero sapiente produce contraddizioni, (μιμητὴς δ᾽ ὢν τοῦ σοφοῦ δῆλον ὅτι παρωνύμιον αὐτοῦ τι λήψεται 268 c), ma produce in realtà solo contraddizioni apparenti. Senza il riferimento al Sofista, credo che non sia possibile capire come i fattori elencati da Aristotele conducano ad una ποίησις riuscita, o quale sia la natura della loro mescolanza, perché tutto questo, aristotelicamente, resta un mistero. Anzi, la Poetica ha l’aria di riprodurre una serie di divisione in generi e specie dell’arte, e infine anche di quella teatrale, che precede Aristotele, e a cui egli si rifà proponendone una sistematizzazione.19

Di cosa è mimesi la mimesi?

Mi induce a crederlo anzitutto l’oggetto di cui si dà μιμήσεις per Aristotele, cioè il tutto, τὸ σύνολον, nel suo comportamento, le sue passioni e azioni: ἤθη καὶ πάθη καὶ πράξεις. E il σύνολον è, aristotelicamente, il composto di materia e di forma, l’essere realmente esistente, la sostanza portatrice degli accidenti, perfettamente assimilabile al τὸ ὂν del Sofista. È la realtà ad essere oggetto di mimesi nello spettacolo. Questa realtà è quella, nel teatro attico, della città, della convivenza civile, nelle sue πάθη καὶ πράξεις. Ma la definizione aristotelica sia di commedia che di tragedia non tiene alcun conto della funzione politica che è universalmente riconosciuta al dramma attico antico. Forse c’è un cenno di questa funzione politica nella misura della qualità e della natura dello spettacolo: la tragedia rappresenta personaggi che sono migliori, la commedia, personaggi che sono peggiori di noi. Noi sono gli spettatori, con ogni evidenza. Ma a parte questo sfuggente dettaglio, mancano in Aristotele una riflessione sull’autore, sull’attore, sul regista, e in fondo, anche sullo spettatore, perché solo la trama del racconto, la composizione delle azioni (1450 a), è messa in primo piano. In Platone queste riflessioni invece ci sono,20 così come c’è una riflessione sulla funzione politica del teatro,21 e sulla necessità di una critica non solo formale (come quella aristotelica, perché anche del plot non dice in realtà molto),22 ma propriamente del contenuto veicolato nell’azione drammatica nella sua integralità.23

Punto di contatto fra Platone e Aristotele

Rudolf Pfeiffer fa notare in alcune incisive pagine24 come tutti i concetti fondamentali che Aristotele usa nella Poetica siano platonici – da τέχνη a ἐπιστήμη, da μίμησις a ῥῆμα, da λόγος a στοιχεῖα – mentre la loro combinazione o l’accentuazione dell’analisi a loro riguardo differisce rispetto alla soluzione, spesso solo accennata, presente nei dialoghi platonici. Come fa rilevare Pfeiffer, una traccia profonda dell’analisi che Aristotele conduce nella Poetica resta del tutto invariata rispetto alla suo archetipo platonico, ed è l’idea dell’opera come analogo ad un organismo vivente. Pfeiffer basa la sua analisi del contributo aristotelico alla scienza delle lettere su questo punto, dettato da Platone nel Fedro (264 C):

Ma almeno questo tu lo affermi, ossia che ogni discorso deve essere composto come un essere vivente che abbia un suo corpo, sicché non risulta senza testa e senza piedi, ma abbia le parti di mezzo e quelle esterne scritte in maniera conveniente l’una rispetto al tutto?

Friedrich Pfister ha potuto mostrare come lo stesso Fedro sia composto, dal punto di vista del rapporto quantitativo fra le diverse sue parti, secondo la proporzione determinata dalla sezione aurea.25

Aristotele ammette che capire cosa sia il comico è difficile

Credo che si debba tener fermo che Aristotele ereditò da Platone questa concezione, integrandola però con dati storici e documenti d’archivio,26 correggendola secondo una prospettiva più schematica e prosaica e togliendole l’aura di iniziazione che in Platone aveva. Aristotele stesso però ci dice del limite della sua ricerca: che le origini della commedia sono più oscure rispetto a quelle della tragedia, perché nella sua origine dal giambo, dalla beffa e dalla derisione improvvisata, non veniva presa sul serio (Poetica 1449 A). Probabilmente negli archivi non ha trovato le liste dei vincitori degli agoni comici che sperava di trovarvi. Oltre alla definizione, anche l’origine dell’arte di cui si ricerca il nome è di difficile identificazione. Vorrei appoggiarmi ad un esempio che dimostra come il comico non fosse solo difficile in origine, ma lo è rimasto. Non credo che quello a cui mi appresto sia un errore di anacronismo, credo piuttosto che sia la dimostrazione, se mai ce ne fosse bisogno, che il comico ha sempre rappresentato, e continua a rappresentare, un problema di veramente difficile soluzione.

Perché Dante chiamò Comedìa il suo viaggio nell’oltretomba?

Piermario Vescovo si è posto questa domanda in diversi interventi, senza poter fornire una risposta univoca.27 Non è documentato come o in quale contesto a Dante sia giunto il termine commedia, tanto da indurlo dare come titolo all’opera in cui realizzò il voto a riguardo di Beatrice, espresso alla fine della Vita Nova: «io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna» (XLIII). Negli articoli che Vescovo dedica alla questione, ho trovato un illuminante riferimento allo scritto di Giorgio Agamben Categorie italiane, dove inizia così la sua trattazione:

Scopo di questo saggio è la situazione critica di un evento che, cronologicamente compiuto all’aprirsi del XIV secolo, ha esercitato un’influenza tanto profonda, che si può dire che esso non abbia ancora cessato di avvenire.28

L’evento in questione è proprio la titolazione della Commedia di Dante. Già Boccaccio non si raccapezzava per questo titolo, perché scrive che «pare […] non convenirsi a questo libro nome di commedia».29 Agamben nega che si possa tacciare Dante di incoerenza o che sia stato manchevole nel porre questo titolo.

Fino a prova contraria, noi riteniamo che Dante, come oculatissimo uomo, non può aver scelto il suo incipit con leggerezza o superficialità. Al contrario, proprio il fatto che la titolazione comica può apparire discordante rispetto a quanto noi conosciamo delle sue idee e quelle del suo tempo, deve far presumere che questa sia stata attentamente meditata.30

Vado direttamente all’interessantissima conclusione dello studio di Agamben, che è formulata come una definizione di tragedia e commedia in relazione reciproca: «la tragedia appare come la colpevolezza del giusto, la commedia come la giustificazione del colpevole».31 Piermario Vescovi ne è entusiasta ed afferma la sua piena adesione alla proposta di Agamben, malgrado la critica non abbia espresso lo stesso apprezzamento:

Giorgio Agamben ha richiamato brevemente, alcuni anni or sono, la questione proprio a proposito del titolo della Commedia di Dante, senza però seguito tra gli addetti ai lavori: «nella trattatistica medioevale, la classificazione dei tre stili, il cui prototipo era nella Rhetorica ad Herennium, e quella dei generi di narrazione poetica non sono necessariamente coincidenti. Commedia e tragedia, che non persero mai interamente la loro connotazione drammatica, erano comunemente elencate, accanto alla stira e alla mimica, nel genus activon o dramaticon (in cui parlano solo personaggi, senza interventi dell’autore)». Del ragionamento di Agamben condivido pienamente le proposte, nell’opposizione della commedia come genere in cui si perdona un colpevole alla tragedia come genere in cui si punisce un innocente (dove la scelta per la seconda dichiara Dante partecipe dell’eredità antitragica del mondo tardoantico, attraverso una valorizzazione che mette al centro il celebre passo dell’Epistola a Cangrande. La continuità del sistema platonico nella tarda tradizione grammatica latina è nota e ampiamente discussa nell’ambito della filologia classica, ma, mi sembra, senza circolazione significativa fuori da questo: per un panorama riassuntivo di indubbia utilità (anche per i riferimenti a grammatici tardo-latini minori, che qui non conta ricordare, e precedenti Diomede.32

Il testo dell’Epistola a Cangrande su cui Agamben si fonda è il seguente (24-25):

Est ergo subiectum totius operis, litteraliter tantum accepti, status animarum post mortem simpliciter sumptus. Nam de illo et circa illum totius operis versatur processus.

Si vero accipiatur opus allegorice, subiectum est homo, prout merendo et demerendo per arbitrii libertatem iustitie premiandi et puniendi obnoxius est.

È dunque il soggetto di tutta l’opera, se si prende alla lettera, lo stato delle anime dopo la morte inteso in generale; su questo soggetto e intorno ad esso si svolge tutta l’opera.

Ma se si considera l’opera sul piano allegorico, il soggetto è l’uomo in quanto, per i meriti e demeriti acquisiti con libero arbitrio, ha conseguito premi e punizioni da parte della giustizia divina.

La dichiarazione di Dante viene interpretata da Agamben, che la riformula in modo preciso:

In quanto 'commedia', il poema è in altre parole, un itinerario dalla colpa all’innocenza e non dall’innocenza alla colpa: e ciò non soltanto perché la descrizione dell’Inferno precede materialmente nel libro quella del Paradiso, ma perché comico e non tragico è il destino dell’individuo di nome Dante e, in generale, l’homo viatorche egli rappresenta. Dante ha cioè operato nell’Epistola a Cangrande, la congiunzione delle categorie tragico/comico col tema dell’innocenza e della colpa della creatura umana, in una prospettiva in cui la tragedia appare come la colpevolezza del giusto, la commedia come la giustificazione del colpevole.33

La radice di questa congiunzione (così moderna, commenta Agamben), è nella Poetica di Aristotele, dove il centro dell’esperienza tragica come di quella comica, è espresso in una parola che il Nuovo Testamento riprenderà: ἁμαρτία, errore, colpa o peccato. Io vorrei solo aggiungere che Dante riprende, non so proprio attraverso quali vie, anche un’invenzione di Aristofane comico: nelle Rane bisogna andare fin nell’Ade per conoscere la verità sulla poesia, e il giudice sarà Dioniso in persona. Anche questo depone per il fatto che quella di Dante sia davvero una commedia, e forse il nesso con Dante contribuisce a gettare una luce nuova sull’invenzione aristofanea. A proposito di una valutazione del mito, per esempio, si potrebbe sottolineare che nessuno si chiede se davvero Dante abbia passato diversi giorni nell’aldilà, o se stia mentendo quando ce lo racconta! Infine, anche Euripide pone in una sua tragedia Dioniso come giudice: nelle Baccanti questo giudizio sarà senza pietà per Penteo che con pervicacia non ha saputo riconoscere il Dio nella sua disguise umana e ha cercato in tutti i modi di impedire che ricevesse l’onore a lui dovuto.

Tragedia, commedia, ἁμαρτία, e il pericolo insito nell’insultare qualcuno

Le definizioni o descrizioni che Aristotele ci ha lasciato di commedia e tragedia hanno dunque uno stretto rapporto con l’ἁμάρτημα. Ma contrariamente a quanto Platone scrive, per lui queste arti non solo non sono pericolose, ma invece utili e benefiche. Il cuore della commedia per Aristotele è il risibile, definito come un errore o un peccato che non causa dolore né distruzione: τὸ γὰρ γελοῖόν ἐστιν ἁμάρτημά τι καὶ αἶσχος ἀνώδυνον καὶ οὐ φθαρτικόν. La tragedia invece è un mezzo di purificazione per mezzo della compassione e dell’orrore: δι᾽ ἐλέου καὶ φόβου περαίνουσα τὴν τῶν τοιούτων παθημάτων κάθαρσιν. Che una purificazione abbia luogo implica peccati e errori, anche se Aristotele dice che è dalle passioni stesse che con la tragedia ci si purifica. Come questa purificazione avvenga, per finire, non lo dice affatto.34

Le arti drammatiche, rendono visibile e purificano dall’ἁμάρτημα. Il fatto che le festività in cui i drammi erano rappresentati si svolgessero sotto l’egida di un Dio, Dioniso, e che il complesso scenico fosse costruito intorno ad un altare,35 pone la domanda sulla funzione specificamente religiosa di queste arti. La commedia in particolare era percepita dai non-ateniesi come un costume ben strano. Dione di Prusa detto Crisostomo (I secolo d.C.) racconta:

Gli ateniesi usavano ascoltare insulti, e addirittura, per Zeus, andavano a teatro proprio a questo scopo, per essere insultati (λοιδορηθησόμενοι). Organizzavano per questo una competizione e attribuivano premi a chi lo facesse meglio. Ma non facevano questo da sé, bensì unendosi alla volontà del dio (τοῦ θεοῦ συμβουλεύσαντος), e così ascoltavano Aristofane, Platone e Cratino senza far loro nulla di male.36

Cioè, i cittadini ateniesi, benché fossero insultati dagli autori delle commedie rappresentate, non facevano loro nulla di male (agli autori, non agli attori che erano semplice mezzo espressivo della volontà autoriale), non si vendicavano dell’insulto e perciò non passavano ai fatti, come secondo Dione, avrebbero fatto in qualsiasi altra occasione. Non passavano essi stessi all’azione, non entravano nell’agone, pur avendo perfettamente riconosciuto che è di loro che il poeta parlava. Che Alcibiade abbia annegato Eupoli, secondo la testimonianza molto posteriore della Suda,37 è forse una leggenda. Ma essa aggiunge al crimine omicida l’empietà, l’offesa al Dio, perché Alcibiade, passando all’atto, non ha accettato il giudizio che tramite il poeta comico il Dio dava su di lui. L’azione che nella normalità darebbe luogo alla razione, alla vendetta, nella rappresentazione drammatica viene interrotta. Ciò è reso possibile dalla celebrazione teatrale e in modo del tutto particolare dall’ispirazione del poeta, che non parla da sé, ma è tramite della parola del Dio. È chiaro che l’oggetto contundente è la verità, e una verità la cui fonte è in origine il Dio, causa dell’ispirazione per il poeta. Senza l’orizzonte divino, non è possibile la rappresentazione dell’ἁμάρτημα, né la purificazione da esso.

In questa complessissima struttura di azione e reazione, si potrà indagare cosa rappresenti la mimesi, cioè di cosa sia funzione l’espressione, la pièce teatrale stessa, ma essa è anzitutto strutturata come un dialogo con il Dio, che è giudice ultimo delle azioni umane. Se l’azione teatrale è limitata nel tempo e nello spazio, essa non lo è affatto nel suo orizzonte, nel suo significato, che inserisce il singolo spettatore nel cosmo intero, proiettandolo davanti al tribunale di Dio. L’intera polis, la comunità umana, è spettatrice del giudizio divino e giudica essa stessa della sua verità. Una commedia mediocre ne conterrà poca, una commedia vincente, moltissima. Un buon autore coglierà il vero dietro le apparenze dei comportamenti e saprà intesserlo nell’azione delle persone sulla scena in modo che venga riconosciuto e giudicato. Lo spettatore riconoscerà che è lui stesso ad essere messo in scena e questo spiega l’interesse appassionato per il teatro, dove i poeti parlano di me. Invettive e lodi, ψόγους e ἐγκώμια,38 sono gli strumenti propri dell’arte drammatica, sia della commedia che della tragedia, al di là dei metri, ed esprimono il giudizio che le sottende.

Per questo Aristotele può chiedersi come si debba chiamare quest’arte, unendola a quella che si serve di nudi discorsi, μόνον τοῖς λόγοις ψιλοῖς,39 perché la tesi che la anima può benissimo essere espressa in un giudizio del tutto privo di orpelli: «Alcibiade è un farabutto perché ha mutilato le erme e parodiato i misteri e per di più è un beone effeminato». Ma la differenza fra questa espressione nuda e quella drammatica, che ha come caratteristica di non far comparire in scena l’autore, il poeta, ma personaggi che questi muove, è che Alcibiade, il quale assiste necessariamente allo spettacolo, ha una duplice possibilità: accettare il giudizio divino o rifiutarlo. Non ha invece nessuna possibilità di non riconoscersi. Il giudizio del pubblico verteva anche su questo: se uno spettatore, preso di mira dal comico, aveva la forza d’animo di sopportare l’insulto. In questo modo gli spettatori entravano essi stessi nell’agone drammatico, in una dialettica raffinatissima fra il tutto del popolo e la posizione di una singola persona, che questa fosse l’autore, o il bersaglio del dramma rappresentato. L’esito dell’operazione drammatica è di causare una συμβουλία, secondo l’efficacissima espressione di Dione Crisostomo più sopra riportata, un’unificazione delle volontà degli spettatori, della polis. Ma se questa non fosse stata originata nell’ispirazione con cui il Dio anima il poeta, non sarebbe stata affatto possibile. Il riso, che la commedia ha lo scopo di causare, è il frutto immediato e istantaneo, nel quale sono identici il giudizio e la liberazione dall’ἁμάρτημά. Con il riso, le volontà si uniscono in una sola.


  1. Aristotele, Poetica. Come tutte le altre opere classiche che citerò, anche questo testo è disponibile in greco e in inglese nella Perseus Digital Library (Greek and Roman Materials, http://www.perseus.tufts.edu/hopper/collection?collection=Perseus%3Acollection%3AGreco-Roman). Le definizioni di tragedia e commedia nel testo pervenutoci della Poetica sono le seguenti, dove representation traduce μίμησις. “Tragedy is, then, a representation of an action that is heroic and complete and of a certain magnitude — by means of language enriched with all kinds of ornament, each used separately in the different parts of the play: it represents men in action and does not use narrative, and through pity and fear it effects relief to these and similar emotions” (1449 B). “Comedy, as we have said, is a representation of inferior people, not indeed in the full sense of the word bad, but the laughable is a species of the base or ugly. It consists in some blunder or ugliness that does not cause pain or disaster, an obvious example being the comic mask which is ugly and distorted but not painful” (1449 A). ↩︎

  2. L’Enciclopedia Europea della letteratura non ha né un articolo relativo alla commedia, né uno relativo alla tragedia. ↩︎

  3. Perché Platone, che dedica alla critica dei poeti molti dei suoi scritti – Repubblica e Ione in particolare – non avrebbe che condannato l’arte drammatica, cfr. B. Torregiani, voce Teatro, Enciclopdia Europea della letteratura, p. 2414. ↩︎

  4. C. Vassallo lascia intravedere la profondità storica del dibattito: «Tripartizione e bipartizione dei generi poetici in Platone e nella tradizione antica a partire da Aristotele», in Hermes (2011), anno 139, fasc. 4, pp. 399-412. ↩︎

  5. Nell’edizione proposta da Perseus è inserita [ἐποποιία], secondo l’edizione del testo di R. Kassel, Aristotle’s Ars Poetica, Oxford, Clarendon Press (1966). È chiaro però che qui non si tratta affatto dell’epopea, ma di distinguere fra diversi generi di ποίησις. ↩︎

  6. Il nesso fra ποίησις, μίμησις e ῥῆμα si situa proprio qui. Che l’oggetto del Fedro di Platone non sia, come sembra, solo l’oratoria, è cosa da dimostrare. Tuttavia ne sono profondamente convinta. Nei teatri attici si tenevano senz’altro anche nudi discorsi. Ad esempio quelli funebri, come il Menesseno di Platone – che Cicerone dice venga ancora letto ogni anno in Atene (M. Tulli Ciceronis, Rhetorica, Oratio 44, 151, o quello di Pericle in Tucidide, Guerra del Peloponneso, Libro II, 35-46. Dove potevano mai esser pronunciati se non in un teatro? ↩︎

  7. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Libro II, 5, cur. M. Gigante, Laterza Bari (1962). ↩︎

  8. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Libro III, 2 secondo cui Platone avrebbe usato soprattutto Epicarmo. ↩︎

  9. Che la Poetica sia molto indebitata con i Dialoghi platonici è universalmente accolto dagli studiosi, che si differenziano spesso solo per il partito che prendono, per Platone oppure per Aristotele. Quando questa presa di posizione è forte e un po’ intemperante, Aristotele è tacciato di incompetenza e scarsa comprensione, Platone invece di eccessiva sofisticatezza e irrazionalismo. ↩︎

  10. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Libro II, 5, 46. ↩︎

  11. Cfr. M. Gigante, nota 81, p. 78. ↩︎

  12. A. Schiapparelli, P. Crivelli, Aristotle on poetry, in C. Shields (ed), The Oxford Handbook of Aristotle, Oxford (2012): pp. 213-214: “Aristotle classifies all the activities of the arts with which his treatise is concerned as 'imitations' ('mimeseis', 1447a16). He therefore seems to place poetry within imitative art as a species within its genus (cf. 9 1451b28−9)”. ↩︎

  13. È ben vero che nella Repubblica (395 a) sia commedia che tragedia sono dette μιμήματα, ma dal punto di vista degli attori che non possono contemporaneamente agire come tali sia nella tragedia che nella commedia. Non sono infatti loro ad esercitare l’arte drammatica: è l’autore. Il gioco complesso di azione e passione si riflette nelle diairesi di Platone. Forse perseguendole fino in fondo si può venire a capo anche della Poetica di Aristotele. Non intendo però procedere più oltre per il momento. ↩︎

  14. R. Janko, Aristotle on Comedy, pp. 100 ss. Elenca i rimproveri che nel tempo sono stati fatti alla trattazione aristotelica dell’arte drammatica, i quali risaltano maggiormente dalla trattazione della commedia che non di quella della tragedia. Alla commedia era consacrato il secondo libro della Poetica, andato perduto, e che Janko ricostruisce in base ad un testo anonimo del Tractatus Coislinianus integrato a brani dei Prolegomena ad Aristofane di Giovanni Tzetzes. Ed ecco la lista di rimproveri ad Aristotele: “We are not told how laughter is aroused; its essential nature is not discussed. We receive no new information on the origin of comedy, and only one passage indicates awareness of comedy outside Attica. Many aspects of Old Comedy remain unexamined – the role of political and social criticism through the 'comedy of ideas', the animal chorus, the use of fantasy and the nature of illusion in the plays, the parabasis and its parts, the centrality of the agon. Equally, the salient characteristic of New Comedy are not discussed, especially the prevalence of such tragic techniques as peripeteia and anagnorisis, division into five acts, stock names and types, and the loss of metrical and structural variety”. A questo elenco potrei aggiungere che Aristotele tace completamente sull’uso di nomi allusivi per i personaggi presi di mira, e l’uso di nomi propri per un’invettiva diretta; non parla affatto della materia coprolalica, esplicitamente sessuale o bulimica della commedia antica; non accenna alla stretta contemporaneità dell’invettiva a cui la commedia antica è legata, e oltre a questo c’è sicuramente molto altro. ↩︎

  15. L. Palumbo, μίμησις Rappresentazione, teatro e mondo nei dialoghi di Platone e nella Poetica di Aristotele, Loffredo (2008), traduce, seguendo la tradizione, questa tormentatissima frase in questo modo: «A distinguere l’una dall’altra le varie forme di mimesis, come viene detto subito dopo, stanno tre criteri: il criterio dei mezzi adottati per compiere la rappresentazione, il criterio degli oggetti della rappresentazione, il criterio dei modi attraverso i quali viene realizzata la rappresentazione», p. 493. ↩︎

  16. A partire da H. Krämer, Arete in Platon und Aristoteles (1959) e K. Gaiser, Platons ungeschriebene Lehre (1963), sono scorsi fiumi d’inchiostro sul tema dei principi primi di Platone. Malgrado la ricostruzione sistematica di Krämer e Gaiser sia stata spesso rifiutata, oggi nessuno può più limitare lo studio di Platone ai soli dialoghi, prescindendo dalle autotestimonianze di Platone nel Fedro, in particolare l’ultima parte sul valore dello scritto rispetto all’oralità, e la Lettera VII, dove un Platone senza maschere afferma che un suo scritto sui principi primi non c’è né ci sarà mai. Per la ricostruzione delle dottrine non scritte è fondamentale Aristotele, Metafisica, 987, 30 ss. «L’aver posto l’Uno e i Numeri fuori dalle cose, a differenza dei Pitagorici, e anche l’aver introdotto Forme, furono conseguenza dell’indagine basata su pure nozioni, che è propria di Platone: i suoi predecessori, infatti, non conoscevano la dialettica. Invece, l’aver posto una diade come natura opposta (τὸ δὲ δυάδα ποιῆσαι τὴν ἑτέραν φύσιν) all’Uno fu al fine di poter fare derivar da essa, in modo facile, come da una matrice, tutti i numeri, tranne quelli primi. E, invece, accade proprio il contrario; questa dottrina in effetti, non è ragionevole». Traduzione di Giovanni Reale (cur) in Aristotele, Metafisica, Rusconi (19973). Non mi pare che nessuno abbia ancora messo in rapporto i principi delle dottrine non scritte di Platone con la Poetica di Aristotele. Gaiser si è occupato moltissimo del teatro attico antico, ma afferma di non voler trattare né di eros né di philia né di psychè per limitarsi a qualcosa di accettabile alla critica a lui contemporanea. Platons ungeschriebene Lehre, Stuttgart 19682, p. 8. ↩︎

  17. Politico, 273 a; Repubblica, 441 2; 458 d; 501 b; 616 c; Timeo, 24 c e altre 17 occorrenze; Crizia, 111 e; 121 b; Fedone 59 a e altre 4 occorrenze; nel Filebo la mescolanza è promossa a principio dell’essere insieme alla «causa, il limite e l’illimitato» 30 a. ↩︎

  18. 219 B-C. L’arte produttiva (ποιητικὴν) porta all’essere ciò che prima non era, mentre la parte dell’arte che invece non crea qualcosa (ἐπειδὴ δημιουργεῖ μὲν οὐδὲν τούτων), ma si impadronisce di ciò che già c’è (τὰ ὄντα καὶ γεγονότα), è un’arte che ha in qualche l’abilità di acquisire (τὰ μέρη τέχνη τις κτητικὴ). ↩︎

  19. L. Palumbo, in μίμησις, cit., p. 489, n 3, afferma: «Il testo della Poetica è giustamente paragonato al libro decimo della Repubblica, perché si tratta dei due testi in cui i due filosofi si interrogano sull’essenza della poesia. C’è da annotare però che qui Aristotele definisce l’essenza della poesia a partire dalla collocazione di questa nel genere della mimesis. Platone in Resp. X definisce invece l’essenza della mimesis stessa, al cui interno colloca poi la poesia. In questa prospettiva l’indagine platonica è primaria rispetto a quella aristotelica e quest’ultima sembra presupporla: sembra partire dal punto in cui si ferma l’analisi platonica che fa della poesia una parte del genere mimetico.» ↩︎

  20. Platone è sempre molto attento a far sapere ai suoi lettori quando i miti nei Dialoghi sono sua creazione; nel Timeo, il demiurgo è una chiara raffigurazione dell’autore poetico. ↩︎

  21. Atene è una teatrocrazia, secondo le Leggi III, 701 a. Dopo aver descritto la desolazione della sua città in preda della plebaglia nei teatri, l’Ateniese afferma: «Sono convinto che talvolta bisogna saper prendere le redini del discorso proprio come si fa coi cavalli, e non si deve, al pari di chi abbia una bocca senza freni, lasciarsi portare dalla forza del parere e, per dirla con un proverbio, farsi disarcionare perfino da un asino.» ↩︎

  22. Si limita a metter in rilievo l’azione (πράξεις), dove determinanti non sono affatto i personaggi, mentre determinanti sono la riuscita o il fallimento dell’azione, il passaggio dalla fortuna alla sfortuna o l’inverso. ↩︎

  23. Non sappiamo cosa Socrate abbia detto ad Aristofane comico ed Agatone tragico, mentre li faceva addormentare sul far del giorno, costringendoli ad ammettere che uno stesso uomo avrebbe saputo esser tragediografo e commediografo. (Simposio, 223 d). Sappiamo però come Platone vuole che venga interpretato Omero, in modo da evitare la «vera menzogna: Nessuno sopporterebbe di essere coscientemente ingannato su quello che è il fondamento del suo essere e sui principi primi per importanza; anzi, la cosa che teme di più è proprio di essere tratto in fallo su tali punti.» (Repubblica II, 381 a). Segue immediatamente la serratissima critica ad Omero. Vengono censurati i passi dell’Odissea che si riferiscono all’anima nel racconto di Achille ad Odisseo nell’Ade: qui l’anima è descritta come qualcosa di assolutamente spregevole perché per gli eroi omerici è nel corpo che risiede l’identità dell’uomo, mentre la psychè non ne è che l’ombra. Platone mette definitivamente, politicamente, eticamente e filosoficamente in relazione l’arte teatrale con la verità, per lui è questa il criterio ultimo del suo valore. ↩︎

  24. R. Pfeiffer, Geschichte der klassischen Philologie, Hamburg (1970), pp. 90-112. ↩︎

  25. F. Pfiste, Ein Kompositionsgesetz der antiken Kunstprosa, in Philologische Wochenschrift (1922), pp. 1195-1200. ↩︎

  26. A. W. Pickard-Cambridge, The Dramatic Festivals of Athens, Oxford (1953), pp. 69 ss. Suppone che Aristotele ebbe accesso agli archivi degli Arconti dal 334 a.C. alla sua morte. Le liste aristoteliche sono alla base della catalogazione dei grammatici alessandrini del scolo successivo. ↩︎

  27. In particolare P. Vescovo, Dante e il “genere drammatico”, in Dante e l’arte 1, 2014, Barcellona (2014); “Sermo de capris”. Comedia, egloga, genus activum, in Lettere Italiane, Vol. 66, No. 1 (2014), pp. 107-134. ↩︎

  28. G. Agamben, Categorie italiane, Marsilio, Venezia 1998, p. 3. ↩︎

  29. G. Agamben, cit., p. 4. Si riferisce a G. Boccaccio, Il commento alla Divina Commedia e gli altri scritti intorno a Dante, cur. D. Guerri, Bari 1918, p.115. ↩︎

  30. G. Agamben, cit., p. 5. ↩︎

  31. G. Agamben, cit., p. 12. ↩︎

  32. Cfr. G. Rolán, Breve introducción a la problemática de los géneros literarios: su clasificación en la antigüedad clásica, in Cuadernos de filología clásica, n. 4, 1972, pp. 213-238. ↩︎

  33. G. Agamben, cit., p. 12. ↩︎

  34. Proprio questo, il desiderio di capire che purificazione si tratti, è il motore che spinge R. Janko a ricostruire filologicamente i testi della poetica di Aristotele, cioè la Poetica e I Poeti. Scrive: «The detractors of Aristotle’s poetic theory, from the first-century BC writer Philodemus onwards, when faced with a truly great mind whose breadth and depth one can barely apprehend, grind out the same old arguments against him. To read their objections, whether in a Herculaneum papyrus or in print, only increases my wonder at Aristotle’s grasp on human nature and emotion, his knowledge of the Greek’s literature (as well of so much lesser works now lost), his intellectual courage in challenging his teacher Plato’s structure against literature and art, the extent of his sympathies, and the brilliance of his theory of mimesis as the basis for all theories of art. Moreover, through his theory of catharsis, as we can see now more clearly, he insists that art, and even comedy, must have a place in any society where the human imagination retains its freedom.» Si può avere lo stesso entusiasmo di Janko per l’arte e la catarsi come espressione di una società davvero libera, senza condividere la sua opinione sul rapporto che lega Aristotele a Platone. Questo è possibile fondandosi su una prospettiva più ampia e realistica che non l’opinione che Aristotele stesso aveva a riguardo di Platone. Le opere fondamentali di Janko sulla poetica di Aristotele sono le seguenti: Aristotle on Comedy: towards a reconstruction of Poetics II (London, 1984), Aristotle: Poetics, with the Tractatus Coislinianus, reconstruction of Poetics II, and the fragments of the On Poets (Indianapolis, 1987), Philodemus: the Aesthetic Works. Vol. I/1: On Poems Book 1 (Oxford, 2001). ↩︎

  35. M. Totaro, Storia del teatro greco, Le Monnier, Roma 2008, riproduce le piante disegnate da Pickard-Cambridge. L’altare è situato dietro la skene. ↩︎

  36. I. Storey, Fragments of Old Comedy, Philonicus to Xenophon Adespota, Oxford (2011), pp. 88-91. ↩︎

  37. Suda, 2.92, p. 24, Wessner cit., in O. Douglas, S. Fragmenta comica 8.1, Text and Commentary on Eupolis frr. 1–146, Helsinki 2012, p. 223. ↩︎

  38. Aristotele, Poetica, 1448 b, 25 ss. ↩︎

  39. Ibidem↩︎