Per una (meta)critica della ragion pratica

1. Sullo spirito e la lettera in filosofia (1790-1799)

A voler caratterizzare da un punto di vista filosofico la fase conclusiva del diciottesimo secolo si potrebbe a buon ragione partire dal fecondo dibattito alimentato dalla rapida diffusione della filosofia critica. È a tal proposito utile circoscrivere l’ultimo decennio fissando due date simboliche che fanno riferimento alla pubblicazione di altrettanti scritti kantiani: si tratta del saggio Über eine Entdeckung, nach der alle neue Kritik der reinen Vernunft durch eine ältere entbehrlich gemacht werden soll del 1790 e della Erklärung in Beziehung auf Fichtes Wissenschaftslehre del 1799. Caratterizzati da una differente genesi e da referenti polemici altrettanto distinti (nel primo caso Eberhard, nel secondo Fichte), questi due scritti manifestano nondimeno una comune preoccupazione ermeneutica. È lo stesso Kant a informarci in maniera univoca intorno ai propri propositi asserendo in un celebre luogo della Erklärung che

la filosofia critica, per la sua irresistibile tendenza a soddisfare la ragione dal punto di vista teoretico come da quello morale-pratico, deve serbare la convinzione che ad essa non si impone alcun mutamento di vedute, né alcuna correzione, né alcuna ricostruzione del suo edificio dottrinale.1

Sono molti i motivi per i quali Kant avvertì l’esigenza di operare questa puntualizzazione. Il giovane Schelling dovette senz’altro individuarne uno assai importante se attraverso una lettera destinata a Fichte non mancò di sottolineare che il gesto kantiano andava considerato nel quadro dell’Atheismusstreit, ossia della disputa sull’ateismo che in quegli stessi mesi aveva coinvolto il filosofo della Wissenschaftslehre costringendolo com’è noto a lasciare l’Università di Jena.2 A parere di Schelling dunque Kant aveva agito in questo modo «per non compromettersi con un filosofo in odore di ateismo, trasferitosi da poco a Berlino e quindi avvicinatosi a lui anche per sede di lavoro»;3 un autore che per giunta aveva legato il proprio nome al suo sin dal lontano 1792, anno di pubblicazione del noto Versuch einer Kritik aller Offenbarung. E tuttavia comprenderemmo solo parzialmente le motivazioni che spinsero il Nostro a redigere l’Erklärung se le riconducessimo in via esclusiva alla pur legittima osservazione di Schelling. Infatti la presa di posizione kantiana faceva seguito ad alcune lettere scritte due anni prima, attraverso le quali l’anziano filosofo prussiano aveva già espresso considerazioni analoghe e di fatto contribuito in maniera decisiva a ridimensionare l’ambizione fichtiana di ergersi a tutore dello spirito della filosofia critica. Ambizione che, lungi dal custodire un significato marginale all’interno della vicenda intellettuale dell’autore di Rammenau, aveva vieppiù caratterizzato l’intero quinquennio trascorso da questi a Jena a partire dal maggio del 1794.

La piccola cittadina del Ducato di Weimar costituiva uno dei centri universitari nei quali più radicato era l’interesse per la filosofia critica. Di fatto qui insegnavano Reinhold e Schmid ma, è bene non sottovalutarlo, anche Chr. G. Schütz e G. Hufeland, ossia i due redattori della celebre «Allgemeine Literaturzeitung». Nata nel 1785, essa conquistò presto e a lungo recitò un ruolo di estremo rilievo nel panorama editoriale tedesco; Fichte stesso ne divenne collaboratore nel 1793 pubblicandovi una recensione allo Aenesidemus oder über die Fundamente der von Reinhold in Jena gelieferten Elementar-Philosophie (1792) dello «scettico» G.E.L. Schulze. E, sempre sulle pagine della «Gazzetta letteraria», si configurò alcuni mesi più tardi il primo di una lunga serie di scontri tra Fichte e quel K. Chr. Schmid precedentemente menzionato. Esegeta della prima ora della pagina kantiana, ché aveva pubblicato diversi anni prima un vero e proprio lessico della filosofia critica, con una Dichiarazione del febbraio 1794 accusò Fichte di avere una confidenza troppo precaria con la lettera del Criticismo per poter ambire a farsi depositario del suo spirito. Il fatto è degno di nota per due ragioni almeno: anzitutto perché i tempi e i modi dell’intervento di Schmid, nonché l’autorevolezza di cui questi godeva nell’ambiente jenese, valsero a generare in Fichte il sospetto che vi fosse un esplicito interesse ad ostacolare la sua imminente nomina a docente nella medesima cittadina;4 in secondo luogo, perché la dicotomia tra un’interpretazione secondo lo «spirito» o la «lettera» costituisce a ben vedere una delle chiavi di lettura dell’intero dibattito tardoilluministico. Essa interesserà dapprima Lessing relativamente alla querelle sul suo presunto spinozismo (Pantheismusstreit), poi Leibniz nella cornice della contrapposizione tra la metafisica universitaria tedesca e la kantiana Transzendentalphilosophie e infine lo stesso Kant, nell’ottica del dibattito alimentato dalla rapida consacrazione della filosofia critica seguita alla pubblicazione della Kritik der reinen Vernunft (1781).5

Né è privo di significato questo, che i tre avvenimenti indicati si intrecciano in maniera tale che la stessa pubblicazione delle Morgenstunden oder Vorlesungen über das Daseyn Gottes (1785) di Mendelssohn, se da un lato è evidentemente riconducibile alla polemica con Jacobi relativa allo spinozismo di Lessing, dall’altro veicola una esplicita accusa nei confronti di Kant, reo di aver disposto nella Dialettica trascendentale della KrV una «distruzione unilaterale» delle idee di ragione afferenti all’esistenza di Dio e all’immortalità dell’anima. (Accusa registrata dal filosofo prussiano che infatti nella Dialettica della seconda Critica non mancherà, forse anche per questo motivo, di configurare per la ragione pratica un accesso al sovrasensibile negato a quella speculativa.) Analogamente la pubblicazione del saggio kantiano Über eine Entdeckung (1790), occasionato dalle critiche che gli venivano mosse da Eberhard e citato in apertura di questo paragrafo, lungi dal rimanere nell’ottica dello scontro dialettico tra Kant e il battagliero docente di Halle,6 lungi cioè dal ricevere significato unicamente nel contesto della contrapposizione tra la filosofia critica e la retroguardia accademica leibnizio-wolffiana, veicolava vieppiù le medesime obiezioni che a distanza di qualche anno i successori di Kant, segnatamente Fichte e Schelling, rivolgeranno al Nostro. Facendo riferimento a Leibniz, nello scritto del 1790 Kant asseriva infatti di non riconoscere una radicale divergenza tra la propria teoresi e quella del Matematico; e, adducendo che occorre non farsi confondere dalla lettera («come degli imitatori che, per somigliare perfettamente al loro modello, ne imitano anche la mimica e i difetti di pronuncia»), evidenziava la necessità di sostituirla con una interpretazione adeguata all’intenzione, ossia, ancora una volta, allo spirito. Vale a dire: altro è Leibniz, altro è il leibnizianesimo.

Questo scritto kantiano dovette esercitare una grossa influenza su Fichte così come su Schelling, se nel 1795 nel saggio Vom Ich als Prinzip der Philosophie quest’ultimo sentenzierà che i kantiani avevano mancato di intendere il reale significato della Critica della ragion pura e per questa via lo spirito stesso della filosofia critica; e se il filosofo della Wissenschaftslehre redigerà un articolo dall’inequivocabile titolo Sullo spirito e la lettera in filosofia, non evitando di sferrare a distanza di qualche tempo un attacco ancor più aspro agli interpreti di Kant nelle dense pagine della Seconda Introduzione alla Dottrina della Scienza.7 E tuttavia, oltreché dagli articoli e dai saggi pubblicati (si pensi ad esempio al suggestivo intreccio tra la schellinghiana Allgemeine Übersicht e le due Introduzioni fichtiane alla Wissenschaftslehre, verificatosi sulle pagine della nuova serie del «Philosophisches Journal»), la natura dell’atteggiamento di Fichte nei confronti della filosofia kantiana è ampiamente documentata dal carteggio che nell’ultimo decennio del secolo impegnerà lui e Schelling. Ma anche dal carteggio che, su altro versante, coinvolgerà i due Stiftler Schelling e Hegel. In particolare, in una celebre lettera del gennaio 1795 indirizzata a quest’ultimo, che da poco aveva lasciato Tubinga per trasferirsi a Berna, Schelling fa il punto sulle prospettive dischiuse dal dibattito filosofico contemporaneo, manifestando all’amico un duplice proposito. Fatta salva cioè la necessità di prendere le mosse dalla svolta epistemologica attuata dal criticismo, secondo Schelling si rendeva necessario anzitutto operare una sorta di purificazione della filosofia kantiana stessa dalle contaminazioni dogmatiche che andavano depositandovisi;8 e in secondo luogo avviare la determinazione dei fondamenti del criticismo. Per quanto riguarda quest’ultimo punto, propriamente il Nostro asserisce che

la filosofia non è ancora alla fine. Kant ha dato i risultati; le premesse mancano ancora. E chi può intendere i risultati senza le premesse? […] Fichte solleverà la filosofia a un’altezza tale che la maggior parte degli attuali kantiani [«die meisten der bisherigen Kantianer…»] avrà le vertigini. […] Egli compirà l’opera!^[9]

E da una lettera che viceversa Hegel invierà all’amico nella primavera successiva, lettera che invero sorprende per il tono insolitamente entusiastico che vi viene utilizzato, si evince altresì come il sentimento di Schelling trovasse chiara conferma presso altri, autorevoli interpreti del dibattito tardoilluministico:

[…] Niethammer diede l’annunzio per l’inizio dell’anno di una rivista filosofica. Che se n’è fatto? Hölderlin mi scrive spesso da Jena, è quanto mai entusiasta di Fichte, al quale attribuisce grandi propositi. Come deve far piacere a Kant scorgere già i frutti del proprio lavoro in così degni seguaci! Il raccolto un giorno sarà magnifico!^[10]

Beninteso, «si tratta di veri e propri frutti, cioè di nuove creature, non delle sintesi ed esposizioni più o meno autorizzate in compendi e dizionari dei concetti e della terminologia kantiana, né di interpretazioni ufficiali».9 E tuttavia, come pure è stato giustamente osservato, l’ottimismo hegeliano fu largamente disatteso nella misura in cui alla fine, pur maturando, i frutti intravisti non furono riconosciuti come propri da Kant, il quale anzi con l’Erklärung intese liquidare una volta per tutte la controversa questione relativa alla propria eredità filosofica. Del fatto che quest’ultima fosse in cattive mani, proprio come era precedentemente accaduto con Leibniz, Schelling era certamente persuaso; e forse fu proprio questo il motivo per cui nel raccogliere l’invito di Niethammer a recensire la Dottrina della Scienza, egli riterrà di doverne operare nelle pagine della Allgemeine Übersicht una preliminare contestualizzazione mediante un confronto con la più recente letteratura filosofica.

Aderire alla nuova filosofia implicava fare i conti innanzi tutto con Kant, in secondo luogo con i contemporanei di una certa statura che comunque a Kant avevano già fatto riferimento (Reinhold soprattutto), poi con i sedicenti kantiani, infine con i kantiani raccomandati da Kant stesso.10

2. Philosophia schismatica. Le tre coordinate della morale kantiana

Tutto quanto sinora premesso ci consente di individuare un carattere essenziale nel quadro della prima Rezeptionsgeschichte del criticismo. La crescente considerazione di cui la filosofia kantiana a partire dal 1781 divenne oggetto e che fu costantemente alimentata dai suoi numerosi e validi interpreti,11 aveva cagionato due esiti ben distinti tra gli estimatori della nuova dottrina così come presso i suoi detrattori. Tra coloro che scelsero di aderirvi vi fu chi riteneva bisognasse limitarsi ad un compito esegetico-divulgativo, finalizzato ad alleggerire le difficoltà della pagina kantiana in modo tale da renderla maggiormente perspicua e con ciò stesso più fruibile (l’espressione più suggestiva di questo orientamento è probabilmente costituita dallo Enzyklopädisches Wörterbuch in sei volumi di G.S.A. Mellin); e chi viceversa, come Fichte ma anche Reinhold, pensò fosse necessario prendere le mosse dalla teoresi kantiana per svilupparne in maniera conseguente le premesse, correggendo magari i tanti aspetti aporetici della riflessione critica. (È in quest’ottica che si situano i tentativi di determinare i fondamenti del criticismo: in particolare Fichte avvertiva vieppiù l’esigenza «protoromantica» di neutralizzare quel carattere problematico della filosofia critica costituito dai molteplici dualismi che ne caratterizzano l’architettura noetica.) E tuttavia anche tra coloro che ritennero di doversi opporre alle tesi di Kant, vi fu chi reagì in maniera dogmatica, beninteso sia in campo teologico che filosofico, limitandosi ad una considerazione acritica o tendenziosa della Transzendentalphilosophie, e chi invece ne individuò i nodi aporetici configurando pertanto una risposta teoreticamente feconda. Ed è rilevante considerare che anche tra questi ultimi, così come tra gli estimatori della Critica, fu proprio il carattere «dualistico» di questa filosofia a calamitare l’attenzione maggiore. Nell’ultimo decennio del diciottesimo secolo, tra gli altri, un autore in particolare si farà portavoce del dissenso alimentato dalla rapida diffusione del programma kantiano: è quel J.G. Herder che pure di Kant era stato promettente allievo. È a Herder che propriamente intendiamo fare riferimento al fine di: a) documentare in maniera efficace la differenza ora soltanto accennata tra una opposizione dogmatica e una autentica alla filosofia critica; b) anticipare il confronto vero e proprio con la pagina kantiana, relativamente alla problematica «dualistica», quale si terrà nel paragrafo conclusivo di questo nostro saggio.

Attorno alla herderiana Metakritik zur Kritik der reinen Vernunft (1799)12 ha lungamente aleggiato un pregiudizio di carattere storiografico concernente la genesi dello scritto. Si vorrebbe infatti ricondurlo a ragioni prevalentemente biografiche, relative cioè alla latente polemica antikantiana del Nostro, quale fu incoraggiata dalla pubblicazione da parte di Kant di due recensioni alle Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit. Apparse anonime in un fascicolo del 1785 della «Allgemeine Literaturzeitung», esse configurarono di fatto una sorta di solenne bocciatura dello scritto herderiano. E tuttavia se caratterizzassimo in questo modo la genesi della Metakritik mancheremmo di coglierne l’autentico significato, ignorando al contrario tanto il carattere sistematico e non già «occasionale» della trattazione quanto la coerenza teoretica con la quale essa si situa nella più ampia cornice della complessiva riflessione herderiana. E, cosa forse più importante, non prenderemmo in considerazione i riferimenti che emergono da un confronto con l’epistolario dell’autore, dal quale si evince tra le altre cose che il progetto dell’opera è immediatamente successivo alla pubblicazione della Critica della ragion pura. Più interessante sarebbe semmai accostare lo scritto herderiano alla Metakritik über den Purismus der Vernunft di Hamann la quale, scritta nel 1784 e nota a Herder, fu pubblicata postuma nel 1800. Fatta salva la differente prospettiva teoretica dalla quale evidentemente muovono i due autori, gli scritti in questione condividono due tematiche di fondo: la critica del «dualismo originario» tra intelletto e sensibilità che sottende alla riflessione kantiana (a tal proposito è significativo il titolo della prima parte della Metakritik herderiana: «Verstand und Erfahrung»); la mancata considerazione da parte di Kant del linguaggio e della sua relazione con la ragione (la seconda parte si intitola appunto: «Vernunft und Sprache»).

Ed è proprio nella sezione conclusiva della seconda parte che Herder traccia un suggestivo bilancio relativo al programma kantiano, intitolandolo inequivocabilmente «Il fallimento della Critica della ragion pura». Scrive il Nostro:

Anziché definire la filosofia critica come una filosofia distruttiva (essa finora non ha distrutto nulla), la si dovrebbe definire piuttosto una filosofia scismatica (philosophia schismatica): poiché ovunque essa rivolga lo sguardo, si producono antinomie e scissioni.13

Benché non venga esplicitamente menzionato, è assai probabile che Herder stia qui riferendosi a Mendelssohn che, come abbiamo già ricordato in precedenza, nelle Morgenstunden aveva giudicato la filosofia kantiana come «distruttiva» sulla base di una considerazione della Dialettica trascendentale della KrV. Ma ciò che più importa è che nella medesima cornice, quasi a voler compendiare il dissenso che aveva accompagnato la rapida diffusione della filosofia kantiana, Herder riassume le molteplici obiezioni che ad essa venivano ormai mosse da più fronti relativamente ai topoi della «cosa in sé» e della distinzione tra ragione pratica e teoretica. Egli si muove di fatto su un terreno speculativo ma è presumibile che le sue obiezioni risulterebbero parimenti significative se applicate alla sfera della filosofia morale; e può in tal senso soccorrerci il proposito di avvicinare il paradigma di una morale della ragion pura facendo leva su quelle che considereremo le sue tre coordinate.14

La Kritische Beleuchtung dell’Analitica della ragion pura pratica è una sorta di nota generale posta a conclusione del primo libro della Kritik der praktischen Vernunft (1788). È una sezione breve e per certi versi marginale, che una lettura distratta potrebbe pertanto reputare priva di interesse. Qui Kant prende inizialmente le mosse da una giustificazione del motivo per cui l’erigendo sistema della ragion pura pratica debba assumere «proprio questa forma sistematica e nessun’altra, quando essa venga confrontata con un altro sistema che ha per base una simile facoltà conoscitiva»,15 laddove l’altro sistema al quale si fa riferimento è ovviamente quello della ragione pura speculativa. Il problema che le pagine della Dilucidazione anzitutto agitano è dunque proprio dianzi menzionato di una considerazione del rapporto tra i due impieghi, teoretico e pratico, della ragione. Abbiamo cioè a che fare con la relazione tra i due indirizzi di essa: quello conoscitivo, erogato in rapporto agli oggetti dell’intuizione empirica, e quello produttivo. Ma quest’ultimo si attua soltanto nella misura in cui la ragione stessa fornisce una legge alla volontà, sicché il problema dal quale occorre partire nell’ambito di una «critica dell’analitica» è più propriamente inerente alla «possibilità di princìpi pratici a priori».16 Si evince per questa via il motivo per cui le due Critiche presentano una struttura argomentativa sostanzialmente invertita: laddove cioè nella KrV l’analisi prende le mosse dal dato sensibile (l’oggetto dell’intuizione), pervenendo previa considerazione dei princìpi puri dell’intelletto (le categorie) sino alle idee della ragione; nella KpV l’analisi parte diversamente da princìpi a priori, giungendo ai concetti degli oggetti (ciò che si deve produrre) e trattando finalmente della «relazione della ragion pura pratica con la sensibilità».17 E Kant suggerisce infatti di rilevare nella suddivisione dell’Analitica della ragion pura pratica la figura di un sillogismo: dal principio morale (l’universale della premessa maggiore), alla sussunzione sotto di esso di azioni buone o cattive (il particolare del termine medio), alla finale determinazione soggettiva della volontà (l’individuale della conclusione).

A ben vedere però la dialettica di universale e particolare all’interno della teoresi kantiana è ben più che un elemento occasionale, o comunque periferico; diversamente esso rivela un carattere costitutivo, quanto aporetico, dell’intera filosofia trascendentale. La natura problematica di questo segno distintivo della riflessione di Kant è ben rivelata, ad esempio, dalla centralità noetica di quello che è un vero punctum dolens dell’indagine etica del filosofo prussiano: il concetto di «rispetto» (Achtung). Tale nozione si situa sul solco della dicotomia tra sfera sensibile e intelligibile, ossia di quel «dualismo originario» denunciato dai critici di Kant, testimoniando con estrema urgenza le difficoltà che inevitabilmente afferiscono a questa frattura. Kant era consapevole del fatto che la critica della ragione pura speculativa potesse fondare la dimostrazione della possibilità di una conoscenza razionale pura a priori in modo «del tutto facile ed evidente mediante esempî tratti dalle scienze»;18 e che invece la dimostrazione che la ragione pura sia pratica, ossia che possa determinare la volontà senza far riferimento a motivi determinanti empirici, dovesse attuarsi entro l’uso razionale pratico più comune («aus dem gemeinsten praktischen Vernunftgebrauche»). Di fatto la ragione pratica in generale, la ragione «comune» per intenderci, deve costituire di per sé il fondamento della possibilità sua peculiare di essere pratica in quanto pura. E in questa prospettiva «il sentimento di un rispetto» soccorre la ragione ordinaria segnalandole la distinzione tra i moventi derivati dalla sensibilità e il movente della legge morale, che è alla base della complessa fenomenologia del «fatto di ragione» quale accompagnerà l’indagine etica del Kant maturo come una costante. E tuttavia, nel fuoco semantico della dicotomia tra universale e particolare, oggettivo e soggettivo, razionale e empirico, e via discorrendo, è possibile ricondurre moltissimi altri cardini argomentativi di una morale della ragion pura. Sicché sembra mirata la polemica constatazione di Herder il quale, prendendo le mosse dalla kantiana separazione tra analitica e estetica (i. e. tra intelletto e sensibilità), nella Metakritik farà riferimento alla filosofia critica sentenziando che «le dicotomie sono la sua specialità, talvolta essa si meraviglia persino che non tutto si possa dividere in due».19

A parziale sostegno della tesi di Herder si pensi infatti alla contrapposizione presente nella pagina kantiana tra massima e legge pratica, tra legalità e moralità, tra mundus intelligibilis e fenomenico, tra Objekt e Gegenstand, tra possibilità morale e fisica, homo noumenon e phaenomenon, movente e motivo determinante, tra libertà e natura, tra un essere razionale überhaupt e l’uomo (sic et simpliciter). Conseguentemente, questa rilevazione ci consente di suffragare l’ipotesi secondo cui l’impianto noetico della morale kantiana faccia sostanzialmente leva sulla dicotomia tra universale e particolare, che sottende alle coppie oppositive in precedenza menzionate, nonché su due ulteriori istanze che, figurando anch’esse nelle dense pagine della Dilucidazione, configurano a nostro modo di vedere altrettante «coordinate» della riflessione etica dell’autore di Königsberg: si tratta anzitutto del tentativo di riguadagnare la felicità al discorso morale, ciò che porterà alla nozione di sommo bene nelle pagine della Dialettica della ragione pura pratica; e infine della difficoltà relativa alla questione della libertà. In questa sede ci limiteremo a prendere in considerazione la prima delle tre istanze qui indicate.20

3. Fenomenologia di un dualismo: universale e particolare

L’Analitica della ragion pura pratica costituisce la sezione più voluminosa della Critica omonima; in essa Kant intende dare risposta al quesito sulla possibilità di princìpi pratici a priori, del quale dicevamo precedentemente. Pertanto l’argomentazione è inerente all’analisi degli elementi primi di una ragione pratica in generale, ossia quei princìpi, oggetti e moventi che maturano un significato ben preciso nell’economia di essa in quanto ne articolano il funzionamento. Nel §1 della sezione Kant ricupera l’argomentazione della Grundlegung: infatti nel testo del 1785 la ragione pratica era stata definita come il soggetto di azioni compiute in base a un principio; la KpV prende pertanto le mosse dall’articolazione dei princìpi pratici quali informano l’agire umano. Scrive il Nostro: «I princìpi pratici sono proposizioni che contengono una determinazione universale della volontà, la quale ha sotto di sé parecchie regole pratiche»;21 essendo regole generali che implicano una serie di regole subordinate, essi si suddividono dunque in massime e leggi pratiche. Il soggetto agente considera la condizione contenuta dalle massime come valida soltanto per la propria volontà, ossia nel particolare; e dalle leggi, ricava viceversa princìpi la cui condizione è universalmente valida, tale cioè per la volontà di tutti gli esseri razionali. Ma come è stato giustamente osservato, la preliminare distinzione tra massime e leggi custodisce un preciso carattere strategico; essa contiene infatti il presupposto che si possano dare leggi pratiche, che si possano cioè dare princìpi pratici validi oggettivamente, vale a dire universalmente e non solo per il soggetto agente. A ben vedere però, il fatto che si diano tali leggi veicola già una risposta positiva alla Grundfrage dell’Analitica: se la ragione pratica possa contenere in se stessa un motivo sufficiente alla determinazione puramente razionale della volontà.

E tuttavia nello Scolio al §1, che riassume in maniera assai sommaria quanto più diffusamente argomentato nelle pagine della Grundlegung, Kant va oltre ricuperando quella nozione di imperativo che ricopriva un ruolo centrale proprio nel testo del 1785. Il concetto di imperativo custodisce un significato ben preciso all’interno della indagine etica di Kant: esso afferisce come è noto a quella particolare specie di esseri razionali la cui volontà non è esclusivamente determinata all’azione dal movente razionale ma si configura altresì in relazione agli impulsi sensibili. L’imperativo è di conseguenza la formula che il comando della ragione, rappresentazione di un «principio oggettivo, in quanto sia necessitante per una volontà»,22 assume per esseri razionali finiti, ossia presso soggetti che siano condizionati da appetiti sensibili oltreché dalla legge pratica. Nondimeno è proprio quest’ultima, la legge pratica, ciò che l’autore di Königsberg intende preservare in queste battute distinguendola da altre prescrizioni pratiche, segnatamente da quei precetti che, veicolati dagli imperativi ipotetici (tecnici o pragmatici che siano), esprimono regole oggettivamente sì, epperò solo condizionatamente valide. Infatti Kant asserisce che

affinché la ragione possa dare leggi, si richiede che essa abbia bisogno di presupporre semplicemente se stessa, perché la regola è oggettiva e universalmente valida solo quando vale senza condizioni accidentali e soggettive, che distinguono un essere razionale da un altro.23

Dunque, affinché si dia una ragione pura pratica, giacché è esattamente questa l’istanza fondamentale che la KpV eredita dalla Fondazione, occorre conferire alla ragione stessa il particolare statuto di facoltà delle leggi, è necessario cioè affrancarla dalla particolarità soggettiva dell’essere che ne è partecipe. E di fatto nell’ottica argomentativa degli scritti kantiani di filosofia pratica l’uomo non è mai coinvolto immediatamente nel discorso morale bensì solo mediatamente, ossia solo («allein darum» si legge esplicitamente nella Grundlegung24) in quanto essere razionale. Tuttavia, se da un lato questa impostazione garantisce a Kant di salvaguardare l’universalità oggettiva delle leggi che la ragione enuncia, è d’altro canto vero che una tale universalità si configura come tale proprio perché non considera quelle che Kant stesso definisce le «condizioni accidentali e soggettive, che distinguono un essere razionale dall’altro». Riguardo alle leggi pratiche occorre pertanto astrarre da tutto quanto attiene all’orizzonte soggettivo e accidentale, da tutto quanto cioè attiene materialiter alla distinzione di quegli esseri razionali finiti che solo il fatto di esser partecipi della ragione accomuna. In questa prospettiva matura l’argomentazione kantiana dei paragrafi successivi dell’Analitica. E il Leit-Motiv che attraversa queste pagine è appunto quello dell’universalità e oggettività di quella legge morale per mezzo della quale soltanto la ragione pura è pratica. L’attenzione di Kant si focalizza perciò sul problema concernente l’origine di una legge siffatta. Ma donde essa possa venir tratta è subito chiaro al filosofo tedesco, giacché questi esclude anticipatamente tutti quei princìpi pratici che «presuppongono un oggetto (materia) della facoltà di desiderare come motivo determinante della volontà».25

Pertanto nei paragrafi che seguono il Nostro è precipuamente motivato dal proposito di escludere dalla determinazione razionale della volontà tutto quanto si riferisca all’oggetto del volere, ossia alla materia dell’agire.26 E in quest’ottica trovano perciò esplicazione i concetti di «facoltà desiderativa» (Begehrungsvermögen) e «motivo di determinazione» (Bestimmungsgrund) appena introdotti nel discorso. Il primo di essi non ricorre frequentemente negli scritti kantiani di morale, sebbene nel tessuto argomentativo della KpV svolga l’importante funzione di definire l’uomo, beninteso non già l’essere razionale bensì l’uomo come essere moralmente finito, in quanto essere vivente dotato di moventi in base ai quali agisce. Di fatto in una nota contenuta nella Prefazione si legge che «la vita è la facoltà, che un essere ha, di agire secondo le leggi della facoltà di desiderare»,27 e che quest’ultima è la proprietà «di essere mediante le sue rappresentazioni la causa della realtà degli oggetti di queste rappresentazioni». Ma soggiunge immediatamente Kant che «il piacere è la rappresentazione della corrispondenza dell’oggetto o dell’azione colle condizioni soggettive della vita, cioè col potere di causalità di una rappresentazione relativamente alla realtà del suo oggetto».28 Il riferimento al piacere (Lust) ha uno scopo ben preciso, quello di ribadire il fatto che tutto quanto pertiene alla sfera dell’accidentale e del soggettivo non contiene quel carattere di necessità e universalità proprio della legge pratica. La ragione non può perciò pensare il piacere come motivo determinante della volontà, ché esso è sempre un piacere determinato e quindi non pensabile a priori bensì variabile in rapporto alle preferenze di ogni individuo. La legge morale deve essere ritenuta valida dalla ragion pura come tale, indipendentemente dall’essere che ne partecipi.

La nozione di Bestimmungsgrund è chiaramente definita nelle pagine della Fondazione. Qui la preliminare distinzione tra fine e mezzo, vale a dire tra «ciò che serve alla volontà come fondamento oggettivo della sua autodeterminazione» e ciò che «invece contiene solo il fondamento della possibilità dell’azione» (il cui effetto è appunto tale fine), conduce alla più importante distinzione tra «il fondamento soggettivo del desiderare», o movente, e «il fondamento oggettivo della volontà», o motivo determinante.29 Sullo sfondo di tale distinzione si situa ancora una volta la dicotomia tra universale e particolare, segnatamente tra essere razionale e uomo. Sicché il capitolo della KpV dedicato ai Moventi della ragion pura pratica, beninteso ai moventi e non già ai motivi determinanti, altro non sarà che il tentativo di render ragione del modo in cui la legge pratica (universale) può esser compresa da un soggetto (particolare) come propria motivazione ad agire. Ma se da un lato il concetto di Bestimmungsgrund pare accordarsi perfettamente con la tesi sostenuta nel Teorema I dell’Analitica della KpV, secondo cui tutti i princìpi pratici che presuppongono un oggetto, essendo empirici, non possono fornire leggi pratiche, d’altro canto solo nello Scolio al Teorema IV l’esatta definizione della nozione di motivo determinante pare emergere in maniera sufficientemente perspicua. Qui infatti, dopo aver ribadito che «non può mai esser tenuto per legge pratica un precetto pratico che implichi una condizione materiale (e quindi empirica)»,30 Kant soggiunge: «Ora è bensì innegabile, che ogni volere deve avere anche un oggetto e quindi una materia; ma non perciò questa è il motivo determinante e la condizione della massima».31 Queste affermazioni sollecitano le due seguenti osservazioni: a) a ben vedere, l’accusa di rigorismo etico maturata in virtù di una lettura insoddisfacente dei testi kantiani e sovente agitata a mo’ di spauracchio nei confronti di un paradigma morale della ragion pura, può essere agevolmente confutata proprio sulla scorta di questa precisazione. Infatti come è stato giustamente rilevato, nell’ottica argomentativa dell’etica kantiana il concetto di felicità (Glückseligkeit), che riassume la molteplicità dei fondamenti empirici di determinazione della volontà, non è assente32 bensì, lungi dal configurarsi come principio sommo della moralità (o, per ricuperare la dizione di queste pagine, come motivo determinante dell’agire), è alla moralità stessa subordinato; b) se, riferendoci al Teorema II, la totalità «dei princìpi materiali, come tali, sono di una sola e medesima specie e appartengono al principio universale dell’amor proprio (Selbstliebe), ossia della propria felicità»,33 se cioè la soddisfazione di un desiderio con un piacere equivale alla soddisfazione del principio dell’amor di sé, quale «coscienza del diletto della vita»34 (sicché la felicità stessa è riconducibile alla mera facoltà desiderativa e pertanto vincolata alla sensibilità), allora emerge la funzione strategica dei concetti di Begehrungsvermögen e Bestimmungsgrund.

Questa funzione documenta l’emancipazione del sistema etico kantiano dai modelli precedenti: «Contrariamente alla filosofia morale tradizionale, [per Kant] ciò che è assolutamente buono non consiste in un oggetto sommo della volontà»;35 il Nostro ritiene anzi che alla cattiva tendenza di «riporre il motivo determinante, che deve servire come legge, in altro che nella forma legislativa della massima»36 debba esser ricondotto l’errore di fondo di una lunga tradizione morale. Propriamente l’errore emerge mediante una contraddizione logica e una pratica, giacché è il principio stesso della moralità a esser minato dal proposito di elevare a princìpi universalmente e necessariamente validi «regole empiricamente condizionate». E nel secondo Scolio al Teorema IV, il filosofo di Königsberg non si esime perciò dal compito di classificare in un prospetto ben assortito tutte le dottrine morali dell’eteronomia. Scopo di questa classificazione, che s’inserisce nel solco di analoghe considerazioni formulate nella Grundlegung37 nonché in alcuni scritti degli anni ’60, è esattamente quello di respingere tutte le filosofie morali che ammettano dei fini che debbano «precedere la determinazione della volontà mediante una regola pratica e contenere il fondamento della possibilità di questa».38 Tali dottrine morali, anche quelle di Wolff e Crusius giacché soltanto apparentemente fondate sulla ragione, configurano infatti un oggetto precostituito rispetto alla volontà.

Dunque, volendo ricuperare le valutazioni di Otfried Höffe, ciò che per Kant è assolutamente buono non consiste in un oggetto sommo della volontà. E infatti il celebre incipit della Fondazione sottolinea in maniera ferma che «nulla è possibile pensare nel mondo, anzi, in generale anche al di fuori di esso, che possa essere ritenuto buono senza limitazione, se non una volontà buona (ein guter Wille)».39 Ma la proposizione che inaugura lo scritto del 1785 non viene ulteriormente precisata da Kant, sicché la sua natura «meta-etica e non etico-normativa»40 emerge soltanto alla luce di una considerazione di carattere globale. Di fatto, siamo dell’avviso che al fine di comprendere l’esatto significato dell’affermazione kantiana occorra anzitutto tener presente quanto abbiamo sinora rilevato mediante il confronto con le pagine della KpV, ossia che affinché le massime soggettive assumano il carattere di leggi pratiche nessun oggetto deve in realtà costituire il fondamento determinante del volere (ciò che di fatto equivarrebbe a prendere «la materia della volontà […] come motivo determinante di essa»41); in secondo luogo bisogna parimenti rammentare le critiche che il filosofo di Königsberg rivolse alla philosophia practica universalis di Wolff e della corrente facente capo a questi. Infatti come rivelano gli appunti manoscritti, in particolare la Reflexion 6725, Kant è dell’avviso che il bene sia soltanto una idea e che per pervenire a realtà necessiti di una volontà (libera), ossia di un soggetto che agisca (autonomamente). Dunque la critica delle morali «eteronome», che ricorre assai frequentemente negli scritti di filosofia pratica del Kant maturo, costituisce la mera pars destruens della fondazione trascendentale dell’etica. Questa, ci pare di poter asserire, si articola perciò in tre fasi: a) si ha la definizione del concetto di moralità e la sua applicazione alla condizione dell’uomo quale essere razionale finito (donde la complessa fenomenologia degli imperativi e l’introduzione di concetti come quello di dovere o interesse, i quali parrebbero fuori luogo se non si tenesse sempre in considerazione il tenace sforzo kantiano di saldare incondizionato e condizionato,42 di conciliare cioè universale e particolare); b) si fonda la moralità sull’autonomia, suo principio supremo, e si tenta di dimostrarne la realtà effettiva, la sua Wirklichkeit, con la celebre tesi del «Faktum der Vernunft»; c) finalmente, la dottrina dei postulati completa l’edificazione del sistema di etica introducendo conseguentemente alla filosofia della religione.

Ora, nell’analisi che abbiamo appena condotto della proposizione kantiana contenuta nel primo Scolio al Teorema IV, quella cioè secondo cui «è bensì innegabile, che ogni volere deve anche avere un oggetto, e quindi una materia; ma non perciò questa è il motivo determinante e la condizione della massima», ci siamo soffermati prevalentemente sulla seconda parte dell’enunciato. E infatti, in accordo con la prima formulazione dell’imperativo categorico, nella Grundlegung il canone del giudizio morale veniva espresso nei termini seguenti: «È necessario poter volere che una massima delle nostre azioni divenga una legge universale»;43 osservazione che sarà ricuperata dalla KpV sul solco della preliminare e paradigmatica distinzione tra condizioni formali-oggettive e materiali-soggettive della «possibilità di una legge in genere».44 Tuttavia, se «soltanto una legge formale, cioè tale che non prescriva alla ragione niente altro che la forma della sua legislazione universale come condizione suprema delle massime, può essere a priori un motivo determinante della ragion pratica»,45 allora fa problema la prima parte dell’enunciato preso in esame, quella cioè secondo cui è pur sempre necessario assumere un oggetto del volere. Si impone infatti un interrogativo: occorre cioè domandarsi quale possa essere l’oggetto di una volontà pura, ossia di una volontà che deve essere determinata esclusivamente dalla mera forma della legge; insomma: cosa può volere una volontà pura? A questa domanda, alla quale è di fatto dedicato il secondo capitolo dell’Analitica trascendentale della KpV, si dovrà rispondere non tralasciando di considerare in pari tempo le differenze sostanziali che intercorrono tra le tesi espresse nella seconda Critica e quelle sostenute nella Fondazione.


  1. Cfr. Kant, I., Erklärung in Beziehung auf Fichtes Wissenschaftslehre, trad. it. in Cesa, C., Le origini dell’idealismo tra Kant e Hegel, Loescher, Torino 1981. ↩︎

  2. Cfr. Fichte, J.G. — Schelling, F.W.J., Carteggio e scritti polemici, a cura di F. Moiso, Prismi, Napoli 1986. Per quanto riguarda invece l’Atheismusstreit conviene pur sempre segnalare il prezioso volume curato da G. Moretto che contiene gli scritti fichtiani afferenti alla disputa, Fichte, J.G., La dottrina della religione, Guida, Napoli 1989. ↩︎

  3. Cfr. Tatasciore, C., Introduzione a Schelling, F.W.J., Criticismo e idealismo. Rassegna generale della letteratura più recente, Laterza, Roma-Bari 1996. ↩︎

  4. Donde l’astio che, maturato in quest’occasione, caratterizzerà anche successivamente il confronto tra i due e che di fatto condurrà allo scontro decisivo sulle pagine del «Philosophisches Journal» di F.I. Niethammer, di cui Fichte diverrà condirettore. ↩︎

  5. Cfr. Kant, I., Kritik der reinen Vernunft, in KGS IV (trad. it. a c. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, Critica della ragion pura, introd. di V. Mathieu, Laterza, Roma-Bari 200110; d’ora in poi KrV). ↩︎

  6. Contro la filosofia kantiana Johann August Eberhard aveva fondato il Philosophisches Magazin (1788-91; dal 1792 al 1795 si chiamerà Philosophisches Archiv). ↩︎

  7. L’articolo fichtiano del 1795 non fu mai pubblicato sulla rivista alla quale era destinato: «Die Horen»; fondata da Schiller in quello stesso anno, essa divenne assai presto «il periodico più significativo del gruppo di Jena-Weimar» (Cesa) ospitando interventi di Goethe, Herder e del giovane Schlegel. Per conoscere l’intervento fichtiano occorrerà attendere un fascicolo del «Philosophisches Journal» del 1799, nell’ottica del quale però esso acquisirà la fisionomia di una mera replica alle tesi espresse da Kant nella coeva Erklärung. Per quanto riguarda Prima e Seconda Introduzione alla Dottrina della scienza, in italiano sono state recentemente pubblicate in un unico volume a cura di C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 1999. ↩︎

  8. Le schellinghiane Lettere filosofiche su dommatismo e criticismo risentono ampiamente di questo proposito del loro autore, in particolare laddove (come nella prima lettera) si fa esplicito riferimento al fraintendimento della Critica attuato dai teologi tubinghesi. Per l’edizione italiana delle Lettere cfr. quella a c. di G. Semerari, Laterza, Roma-Bari 1995, la quale è accompagnata dalla traduzione della coeva Neue Deduktion↩︎

  9. Cfr. Tatasciore, C., Introduzione a Schelling, F.W.J., cit., p. XII. ↩︎

  10. Idem, p. VIII. ↩︎

  11. Tra costoro occorre ricordare almeno: Joh. Schultz, docente dell’Università di Königsberg noto per essere l’unico Ausleger della filosofia critica ufficialmente «autorizzato», che scrisse le Erläuterungen über des Herrn Professor Kant Critik der reinen Vernunft (1784); Karl L. Reinhold che tra il 1786 e il 1787 pubblicò i Briefe über die Kantische Philosophie nel «Teutscher Merkur» di Chr. Wieland; K. Chr. E. Schmid, autore nel 1786 della Critik der reinen Vernunft im Grundrisse zur Vorlesungen nebst Wörterbuch zum leichtern Gebrauch der Kantischen Philosophie nonché polemico detrattore di Fichte in quel di Jena; l’ottimo J.S. Beck che tra il 1793 e il 1796 darà alle stampe lo Erläuternder Auszug aus den kritischen Schriften des Herrn Prof. Kant, auf Anrathen desselben↩︎

  12. Cfr. Herder, J.G., Eine Metakritik zur Kritik der reinen Vernunft (trad. it. a c. di I. Cubeddu, L. Formigari e I. Tani, Metacritica, Editori Riuniti, Roma 1993). ↩︎

  13. Idem, II, 7. ↩︎

  14. A tal proposito mi permetto di rinviare il lettore al mio Filosofia pratica e individualità. Sulle meditazioni etiche del giovane Schleiermacher, Edizioni Dante & Descartes, Napoli 2002. La struttura del volume è tale che in via preliminare vengono analizzati alcuni nodi aporetici della filosofia morale kantiana; successivamente si configura un confronto tra questo paradigma (deontologico) ed il suo opposto, l’etica aristotelica (eudaimonistica); infine, alla confluenza dei due modelli di riferimento viene individuata nella riflessione etica del giovane Schleiermacher una assai originale alternativa. Il carattere di novità del volume è costituito dal fatto che l’analisi che vi viene condotta del pensiero schleiermacheriano fa leva esclusivamente su alcuni luoghi della sua produzione giovanile (1789-93). In questo periodo infatti egli compone le cosiddette «rapsodie etiche» (Dilthey): tre scritti nei quali, ed è questa la tesi di fondo del mio libro, vengono dibattuti altrettanti nodi problematici dell’etica kantiana. Si tratta de: 1) la frattura tra universale e particolare, analizzata nello scritto Sul valore della vita (l’unica delle tre «rapsodie» tradotta in italiano: Marietti, Genova 2000); 2) la nozione di sommo bene, discussa nel saggio Über das höchste Gut; 3) il concetto di libertà, nello scritto incompiuto Über die Freiheit↩︎

  15. Cfr. Kant, I., Kritik der praktischen Vernunft, A159, in KGS V (trad. it. a c. di F. Capra, Critica della ragion pratica, Laterza, Roma-Bari 1997; d’ora in poi KpV). ↩︎

  16. Cfr. KpV A160. ↩︎

  17. Ibidem. Seppure in via meramente analogica, il capitolo conclusivo dell’Analitica equivale pertanto ad una sorta di «estetica» della ragione pura pratica. ↩︎

  18. Cfr. KpV A163. ↩︎

  19. Cfr. Herder, J.G., Metakritik, cit., trad. it. p. 167. ↩︎

  20. Per una discussione approfondita delle ulteriori due istanze, cfr. Spano, H., Filosofia pratica e individualità, cit., §§ 1.3.2 e 1.3.3; pp. 36-65. Di fatto il paragrafo conclusivo di questo articolo corrisponde al § 1.3.1 del volume. ↩︎

  21. Cfr. KpV A35; corsivo nostro: si noti la frequenza con la quale l’elemento dell’universale, in contrasto con quello del particolare, ricorre nell’argomentazione kantiana. ↩︎

  22. Cfr. Kant, I., Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, 413, in KGS IV (trad. it. a c. di F. Gonnelli, Fondazione della metafisica dei costumi, Laterza, Roma-Bari, 1997; d’ora in poi GMS); l’espressione kantiana è particolarmente perspicua: «Die Vorstellung eines objectiven Princips, sofern es für einen Willen nöthigend ist, heißt ein Gebot (der Vernunft), und die Formel des Gebots heißt Imperativ»; come dire, nella misura in cui un principio oggettivo è costrittivo per il volere, la rappresentazione di tale principio è detta «comando» (della ragione) e la formula di tale comando «imperativo». ↩︎

  23. Cfr. KpV A38. ↩︎

  24. Cfr. GMS 425. ↩︎

  25. Cfr. KpV A38. ↩︎

  26. Non possono non tornare alla mente alcune considerazioni kantiane formulate negli anni che precedono la pubblicazione della prima Critica; la Reflexion 6721 (in KGS XIX), suona infatti come segue «die motiva moralia betreffen entweder die form der Handlung oder die materie»; forse non è superfluo ricordare che la congiunzione testuale «entweder — oder» ha valore disgiuntivo esclusivo. ↩︎

  27. Cfr. KpV A16. ↩︎

  28. Ibidem↩︎

  29. Cfr. GMS 427; in queste battute il «fondamento di determinazione» è ancora definito come «Bewegungsgrund». ↩︎

  30. Cfr. KpV A59-60. ↩︎

  31. Ibidem↩︎

  32. Anzi esso «ottiene, in quanto bene, un posto sicuro nell’ambito della dottrina dei postulati»; per la citazione, cfr. Höffe, O., Immanuel Kant, München, C.H. Beck, 1983 (trad. it. di S. Carboncini, Immanuel Kant, a. c. di V. Verra, Bologna, Il Mulino, 1986; p. 160). Beninteso, il concetto di sommo bene deve essere «rappresentato come oggetto della volontà ormai determinata a priori quanto alla sua forma», cfr. KpV A113-114; corsivo nostro. ↩︎

  33. Cfr. KpV A40. ↩︎

  34. Ibidem↩︎

  35. Cfr. Höffe, O., cit., p. 162. ↩︎

  36. Cfr. KpV A61-62. ↩︎

  37. Cfr. GMS 409 sgg, ma anche da 441 a 445, ove peraltro si legge: «Allenthalben, wo ein Object des Willens zum Grunde gelegt werden muß, um diesem die Regel vorzuschreiben, die ihn bestimme, da ist die Regel nichts als Heteronomie»; corsivo nostro. Vale a dire, ovunque sia necessario porre a fondamento un oggetto della volontà per prescriverne la regola che la determini, tale regola null’altro è che eteronomia. ↩︎

  38. Cfr. KpV A70. ↩︎

  39. Cfr. GMS 393. ↩︎

  40. È lo stesso Höffe a rilevare che, di là da quanto viene usualmente affermato, nella Fondazione Kant non prende le mosse «dai concetti della buona volontà e del dovere. Egli inizia con una definizione concettuale che in realtà è implicita, dunque con un enunciato meta-etico e non etico-normativo». ↩︎

  41. Cfr. KpV A70. ↩︎

  42. La ragione dell’impiego della nozione di dovere (Pflicht) è espressa chiaramente da Kant allorché questi lo riconnette al concetto di volontà buona epperò «unter gewissen subjectiven Einschränkungen und Hindernissen», in relazione cioè a determinate limitazioni di carattere soggettivo cfr. GMS 397. ↩︎

  43. Cfr. GMS 424. ↩︎

  44. Cfr. KpV A60. ↩︎

  45. Cfr. KpV A113. ↩︎