Ortega, l’uomo-massa e il senso della Storia

Una parola ultima e semplice che dica il senso vero della storia non c’è.

Come le lettere di una parola, la vita e la storia hanno un senso.

— Wilhelm Dilthey

Quello che proprio non capisco è come tu possa pensare che la democrazia e la tua cultura possano convivere. Alla massa non interessa affatto, perché la testa non vuole domande e la pancia vuole soddisfazione. Alla politica neppure, perché il suo potere dipende dalla stupidità della massa. E tantomeno interessa ai veri potenti, a quelli che hanno i soldi, perché la cultura costa denaro.

— Rob Riemen

Se la storia sembra a tratti rivelare con un certo anticipo il destino di una civiltà, questo può accadere forse proprio durante certe svolte epocali, quando c’è una trasfigurazione di valori e riferimenti e nuovi soggetti sembrano disegnare scenari fino ad allora inediti. Uno di questi mutamenti epocali è contrassegnato secondo Ortega dall’avvento delle «masse» sulla scena storica durante l’era moderna, quando s’incomincia a «non trovare posto» in pubbliche manifestazioni, spettacoli, concerti o assemblee.

La maniera migliore di avvicinarsi all’idea di «massa» è infatti per Ortega proprio quella di riferirci a un’esperienza visiva, sottolineando un aspetto della nostra epoca che è ogni giorno sotto i nostri occhi: «semplicissimo ad essere enunciato, per quanto non sia altrettanto semplice ad essere analizzato, lo possiamo denominare il fenomeno della agglomerazione, del «pieno». Le città sono piene di gente. Le case, piene di inquilini. Gli alberghi, pieni di ospiti. I treni, pieni di viaggiatori. I caffè, pieni di consumatori. Le strade, piene di passanti. Le anticamere dei medici più noti, piene di ammalati. Gli spettacoli, non appena non sono troppo estemporanei, pieni di spettatori. Le spiagge, piene di bagnanti. Quello che prima non soleva essere un problema incomincia ad esserlo quasi a ogni momento: trovar posto».1

Questo fenomeno del «pieno», del «non trovar posto», era tuttavia comparso con un notevole anticipo già durante l’età imperiale romana, quando poteva capitare di non trovare posto a teatro o lungo il percorso di un ritorno trionfante da una guerra vittoriosa. «La storia dell’Impero Romano — scrive Ortega — è anche la storia del sovvertimento e dell’imperio delle masse, che assorbono e annullano le minoranze dirigenti e si mettono al loro posto. Allora si produce anche il fenomeno dell’agglomeramento, del pieno. Per questo, come ha osservato assai bene Spengler, fu necessario costruire, proprio come adesso, enormi edifici. L’epoca delle masse è l’epoca del colossale».2

Certo, dopo l’impero romano, le masse sembrano riaffacciarsi sul proscenio della storia, e questa volta con un ruolo da stabili protagoniste, durante la rivoluzione francese e d’allora in poi hanno costituito un soggetto dotato di una personalità autonoma, dando vita a dinamiche sociali e culturali del tutto particolari e rivoluzionarie.

Intorno agli inizi degli anni trenta del Novecento, il fatto che caratterizza la vita pubblica europea è, secondo Ortega, proprio «l’avvento delle masse al pieno potere sociale».3 Poiché le masse non sono in grado di «dirigere la propria esistenza, e tanto meno governare la società»,4 all’epoca della pubblicazione del suo saggio — uno dei suoi più letti e conosciuti in tutto il mondo — l’Europa soffre «la più grave crisi che tocchi di sperimentare a popoli, nazioni, culture. Questa crisi si è verificata più di una volta nella storia. La sua fisionomia e le sue conseguenza sono note. Se ne conosce anche il nome. Si chiama ribellione delle masse».^[5]

2. La ragione storica e la felicità

La riflessione di Ortega sul ruolo e le prerogative delle masse s’intreccia con quelle concernenti il significato e la funzione della storia: questa è il tentativo di recuperare il «tempo perduto, di quella parte attuale di noi uomini che è il nostro passato, e che ci è sconosciuto».5 Ciò che si nasconde nel tempo passato può essere ritrovato attraverso la narrazione, che «è una forma della ragione, nel senso più esteso del termine, come lo è la ragione fisica, matematica, logica».6 Anzi, dato che il raccontare è l’unica attività «capace di comprendere la realtà umana, poiché l’essenza di questa è di essere storica, è storicità»,7 la ragione storica è «più razionale della fisica, più rigorosa, più esigente […] non accetta niente come puro fatto, ma fluidifica ogni fatto nel fieri da cui proviene».8

Ortega è convinto che l’uomo sia un animale fantastico, un essere narrante, e che la storia universale costituisca «lo sforzo gigantesco e ultramillenario di mettere, piano piano, un po’ di ordine nella fantasia», addomesticando la nostra smisurata immaginazione e affinando così progressivamente le nostre facoltà intellettuali.9 Il progressivo sviluppo di tali facoltà ha naturalmente un ruolo decisivo nella costante ricerca della felicità da parte dell’uomo: questa lo induce infatti a cercare di trasformare il mondo e, più in particolare, la specifica circostanza in cui si trova a vivere. L’essere umano aspira infatti a vivere in un mondo in cui siano realizzabili tutti i suoi desideri, anche quelli più improbabili o addirittura impossibili, e per conseguire quest’obiettivo egli deve sviluppare una tecnica. Anche la fisica, che per tanti secoli ha costituito la disciplina di riferimento per tutte le altre scienze naturali, ha assunto un ruolo così rilevante perché lasciava intravedere «la possibilità di una tecnica illimitata», costituendo perciò una sorta di «organo della felicità umana», tanto che il suo progressivo imporsi può essere considerato «il fatto più importante della storia universale».10

Pur cercando costantemente di conseguire una maggiore felicità mediante lo sviluppo della tecnica, la storia umana non è tuttavia raffigurabile come un progresso continuo lungo questa via direttiva, ma è piuttosto costituita da epoche di avanzamento e di regresso, o di riposo, durante le quali prevalgono alternativamente i novatori o i conservatori, coloro che hanno fiducia nel futuro e nel progresso o coloro che se ne stanno sulla difensiva, gli ottimisti che preferiscono spenderli in divertimenti o piuttosto i pessimisti che preferiscono investire i loro denari in medici e medicine.

«Qualche volta mi è capitato di pensare — scrive Ortega — che ci sono due specie di epoche storiche: in alcune gli uomini si preoccupano più di procurarsi dei piaceri che di evitare dolori; in altre succede l’inverso. Un sintomo economico può servire d’indice per differenziarle: nelle prime si paga di più il giullare che il medico che toglie il dolore, nelle seconde più il medico del giullare. Noi viviamo decisamente in un’età di questa seconda specie: abbiamo eccellenti cliniche e orribili spettacoli; inventiamo analgesici nuovi ma non divertimenti».11

Nell’ambito di questa alternanza di fasi storiche, la cultura di una civiltà può manifestare i segni di una crisi profonda, tanto profonda da metterne in discussione la stessa sopravvivenza. Con il termine «cultura» Ortega si riferisce al «sistema di convinzioni ultime sulla vita: ciò che si crede del mondo con fede assoluta e radicale. Questa fede può essere scientifica o no, religiosa o senza Dio. L’importante è che l’uomo veda davanti a sé, con evidenza decisiva, l’architettura del suo mondo. Poiché vivere è trattare con un ambiente, preoccuparsene, sperare e temerlo. Se questo ambiente nel quale si vive si disorganizza, se manca di punti cardinali su cui orientarsi, se l’uomo giunge a questa ultima sincerità di non sapere ciò che è possibile e ciò che è impossibile, non può vivere autenticamente. Siccome non ci sarà mai una ragione per fare una cosa piuttosto di un’altra si abituerà a vivere provvisoriamente».12

Quando l’uomo non riesce a vedere distintamente davanti a sé l’architettura del suo mondo e quindi non si trova saldamente collocato all’interno di un sistema di credenze e convinzioni, rischia di trovarsi in una situazione drammatica. Egli può tuttavia non rendersi conto di tale drammaticità per il semplice fatto che la vita è nel suo complesso sempre avvertita come un fatto positivo e una promessa di felicità. Se la storia è una costante ricerca della felicità da parte dell’uomo e se tale ricerca si manifesta innanzitutto nel tentativo di vivere più comodamente, più a proprio agio, in una maniera che sia meno oppressa e condizionata dai bisogni materiali, dal lavoro e dal dolore, gli aspetti negativi della vita, il dolore e la fatica, non costituiscono per questo elementi esclusivamente negativi. Ogni epoca impara a trasformarli, a contestualizzarli e a rielaborarli in modo che risultino accettabili. Anche gli storici, dunque, dovrebbero cercare di comprendere che cosa abbia reso ogni epoca sopportabile, o accettabile, complessivamente felice, dovrebbero cioè proporsi «di capire ciò che nella sua ultima intimità fu la vita di questa o quell’epoca», e poiché «ogni epoca si sente, in fondo, felice»,13 la storia dovrebbe innanzitutto cercare di comprendere cosa ha reso possibile la specifica forma di felicità propria di ogni epoca.

Che la vita sia nel suo complesso sempre felice è provato secondo Ortega dal fatto che «nessuna epoca ha voluto seriamente essere diversa. Il vago desiderio di ciò — di vivere in questo o in quel tempo passato o futuro — appartiene alla voluttà della vita e contribuisce a definire la fisionomia di certi secoli. Ma le disgrazie sono appena meteoriti che cadono sulla felicità costitutiva, sostanziale, inalterabile, di ogni astro. I lamenti sui ‘tempi che corrono’ sono un fattore di piacere, di gioia della lamentela, la delizia del piangere. In Hegel c’è un’allusione a questo fatto — continua Ortega — che non ho visto sottolineata né sfruttata da nessuno. Ogni epoca ha la sua vita e la sente come sua, perché in essa, così come è, si sente felice. L’errore sta nel credere che la felicità escluda il dolore e le noie. Invece le include, essi ne sono ingredienti necessari. Lo storico non ha capito un’età se non si è calato fino allo strato in cui è felice. Terribile mistero della vita che è in ogni tempo profondamente, irremovibilmente, beata e riposa in se stessa».14

3. Tra passato e futuro

La gioia e il dolore costituiscono dunque i due lati di una stessa medaglia e si alimentano e interpretano a vicenda. Analogamente, la ragione storica e la ragione vitale non possono prescindere una dall’altra, in quanto la storia è necessariamente, se la si intende correttamente, nient’altro che storia della vita in tutti i suoi multiformi aspetti. La ragione storica è pertanto una ragione «dialogante e comunicativa»,15 che aspira a conseguire un’immagine complessiva dalla vita umana nel tempo.16 Poiché la vita è inesorabilmente proiettata verso il futuro, per individuare la direzione di tale proiezione la storia non può che cercare di ripercorrerla a ritroso. Ma in tale ricerca del passato, l’obiettivo rimane essenzialmente quello di decifrare il futuro, ovvero di cercare di capire ciò che dobbiamo essere e diventare.

La vita è infatti «questa paradossale realtà che consiste nel decidere ciò che dobbiamo essere; pertanto, nell’essere ciò che ancora non siamo, nel cominciare ad essere il futuro. Contrariamente all’essere cosmico, il vivere comincia dal dopo».17 «Il mio futuro — spiega Ortega — mi fa scoprire il mio passato per realizzarsi. Il passato è ora reale, poiché lo vivo, e quando incontro nel mio passato i mezzi per realizzare il mio futuro, allora scopro il mio presente. E tutto questo accade in un istante; in ciascun istante la vita si dilata nelle tre dimensioni del tempo reale interiore. Il futuro mi riporta verso il passato, questo verso il presente, da qui mi proietto di nuovo verso il futuro che mi lega al passato, e questo ad un altro presente, in un eterno movimento».18

La vita umana ha una dimensione essenzialmente storica proprio in quanto è proiettata verso il futuro e può interpretare se stessa solo grazie all’ipotetico viaggio di ritorno dal suo futuro anteriore. Siamo ciò che siamo solo alla luce di ciò che potremo essere stati, sia in quanto individui che come civiltà. La conseguenza più rilevante di tale ineludibile storicizzazione dell’esistenza è la radicale impermanenza della condizione umana: l’uomo non sarà per sempre ciò che è oggi, così come oggi è diverso da ciò che è stato in passato. L’uomo non sarà mai per sempre ciò che è stato: «la permanenza delle forme nella vita umana è un’illusione ottica originata dalla rozzezza dei concetti con cui le pensiamo, e in virtù della quale idee che solo varrebbero se applicate a quelle forme astrattamente, si usano come se fossero concrete e, di conseguenza, come se rappresentassero autenticamente la realtà».19

La filosofia, nel suo tentativo di interpretare il mondo, la vita e la storia, sarà dunque altrettanto transeunte, ma al tempo stesso dovrà cercare di superare e conservare, come prima Hegel e poi Croce hanno in modo diverso sostenuto, le proprie precedenti posizioni: «il tempo attuale richiede i tempi anteriori, e perciò una filosofia è quella vera non quando è definitiva — cosa inimmaginabile — ma quando porta in sé, come le viscere, i passati e scopre in essi il «progresso all’interno di sé medesima». La filosofia è così storia della filosofia e viceversa».20

Se la filosofia e la storia della filosofia coincidono, è anche perché sia la filosofia che la storia hanno, in definitiva, come loro oggetto privilegiato la vita stessa. Si potrebbe dire, che mentre la filosofia si rapporta alla vita partendo dai suoi problemi, la storia la narra e ricostruisce a partire dalle sue soluzioni e dai rischi ad esse connessi. La storia, più in particolare, è definita da Ortega «la scienza sistematica della realtà radicale che è la vita. È, quindi, scienza del più rigoroso e più attuale presente».21 Ma l’oggetto di tale scienza è del tutto particolare, è sfuggente e cangiante. Poiché l’oggetto della storia è la vita umana e in essa tutto «è un rischio costante e assoluto»,22 la storia dovrà conseguentemente sempre cercare di decifrare le forme assunte da tale rischio nelle diverse epoche che si proporrà di indagare. La conoscenza storica sarà pertanto il tentativo di conoscere il progetto che stiamo intraprendendo e il rischio ad esso connesso, tutte le difficoltà che ci accingiamo ad affrontare, perché «la pretesa o progetto che siamo opprime con il suo particolare profilo il mondo che ci circonda. E questi risponde a quella vessazione, accettandola o opponendo resistenza, facilitando cioè la mia pretesa in alcuni punti o mettendola in difficoltà in altri».23

Vivere significa sempre vivere nel presente e poiché il presente può essere letto e interpretato solo alla luce di quanto un giorno saremo stati, l’esercizio della ragione storica costituisce il principale strumento e antidoto contro il rischio continuo di sbagliare vita, di trovarci un giorno a scoprire di aver vissuto una vita non nostra. Nel suo pellegrinare nel tempo e nella vita, la ragione storica consente all’umanità di liberarsi di volta in volta delle catene e delle limitazioni che si nascondono nel tempo presente rendendo la sua vita sempre un po’ più libera e consapevole.

«L’uomo — scrive Ortega — vivendo, fa e rifà. Continua ad accumulare essere, passato: diviene un essere nella serie dialettica delle sue esperienze. Questa dialettica non fa parte della ragione logica, ma di quella storica, è la Realdialetik su cui Dilthey, l’uomo cui dobbiamo di più sull’idea della vita, il pensatore più importante della seconda metà del secolo XIX, fantasticava in un angolo delle sue carte. In cosa consiste questa dialettica che non sopporta le facili anticipazioni della dialettica logica? Ah! Questo è quanto occorre verificare con i fatti (…). L’uomo è quel che gli è accaduto, ciò che ha fatto. Sarebbero potute succedergli, avrebbe potuto fare altre cose, ma quello che gli è effettivamente successo, che ha fatto costituisce un’inesorabile traiettoria di esperienza che porta con sé, come il vagabondo, il fagotto dei suoi averi. L’uomo è il pellegrino dell’essere, colui che è essenzialmente emigrante. Per questo non ha senso porre limiti a ciò che l’uomo è capace di essere».24

4. Progresso e senso della storia

La vicenda di un simile pellegrinaggio smentisce la favola che l’uomo sia un animale essenzialmente egoista, come Hobbes, Smith e altri prime e dopo di loro hanno ritenuto: «è stato un incalcolabile errore sostenere che la vita, abbandonata a se stessa, tende all’egoismo, quando invece è, alla sua radice e per essenza, inevitabilmente altruista. La vita è il fatto cosmico dell’altruismo ed esiste solo in quanto emigrazione dell’Io vitale verso l’Altro».25

La vita è in viaggio verso l’Altro, è un continuo pellegrinaggio verso ciò che ci manca, che proprio in quanto ci manca è più presente e reale di quanto si trova già nella nostra disponibilità. «Ogni cosa nella mia vita è — scrive ancora Ortega — originariamente un sistema o equazione di comodità e scomodità. Quando una cosa mi è comoda, mi fa problema, perché ne ho bisogno e non ho «a che fare» con essa, perché mi manca. Le cose, quando mancano, incominciano ad avere un essere. L’essere è appunto, ciò che manca nella nostra vita, l’enorme buco o vuoto della nostra vita che il pensiero, nel suo sforzo incessante, si affanna a colmare».26

Il continuo tentativo di colmare, da parte dell’uomo, tale vuoto costituisce un nervo teso all’interno del suo destino. Ma il destino individuale non coincide per questo necessariamente con quello della civiltà a cui l’individuo appartiene. La costante ricerca della felicità che attraversa la vita umana può infatti assumere forme diverse in relazione alle prospettive teoriche e conoscitive adottate da ciascuno e queste talora entrano in contrasto stridente con quelle della civiltà in cui si trova a vivere. Ma non solo: il destino esistenziale di ogni individuo può trovarsi in contrasto anche con quell’insieme di credenze, convinzioni e conoscenze che caratterizza la prospettiva che tendenzialmente orienta la sua stessa vita. La possibilità di un tale stridente contrasto dovrebbe farci comprendere che, sebbene noi «dobbiamo, senza alcun dubbio e sempre di più, vivere con idee», dovremmo anche cercare di «smettere di vivere a partire dalle nostre idee e imparare a vivere a partire dal nostro inesorabile, irrevocabile destino. È quest’ultimo a dover decidere sulle nostre idee e non il contrario».27

Un obiettivo simile potrebbe risultare astratto e o incomprensibile se non tenessimo conto che per Ortega il destino di ognuno si manifesta in una vocazione riconoscibile, e che è pertanto intorno a tale riconoscimento che le nostre idee possono disporsi organicamente, così da dar corpo a una architettura del mondo di fronte alla quale non si corra il rischio di perdere l’orientamento e di tradire la propria vita.

La possibilità stessa di un simile tradimento ci aiuta poi a comprendere perché la storia non consista in un progresso continuo e lineare. Il fatto che il destino individuale possa trovarsi in contrasto con il sistema d’idee di ciascuno rende gli individui variabili imprevedibili e restituisce loro un ruolo determinante nella storia. L’hegeliana astuzia della ragione trionfa anche in virtù di questa imprevedibilità, dato che, per realizzare il suo piano razionale, la usa per nutrire la stessa razionalità del proprio disegno: se infatti ciascuno operasse per realizzare il progetto razionalmente più condivisibile questo potrebbe attuarsi a prescindere dai contributi personali più originali e imprevedibili, trasformando la ragione stessa in una mera esecutrice di un piano preordinato in base alla condivisione di un comune e immutabile progetto razionale, la qual cosa, in effetti, non richiederebbe una grande dose di astuzia.

Le critiche orteghiane all’idea progressista prendono così le mosse proprio da questa disamina più generale della condizione umana e della sua relazione con la storia e arrivano a cogliere le implicazioni illiberali e deterministiche dello storicismo di matrice hegeliana — del quale pur condivide, come si è accennato, alcuni aspetti fondamentali — evidenziando in esso rischi non molto diversi da quelli che in seguito vi verranno ravvisati anche da Popper.^[29]

«L’idea progressista — scrive Ortega — consiste non esclusivamente nell’affermare che l’umanità — un ente astratto, irresponsabile, inesistente — progredisce (il che è certo), ma che per di più progredisce necessariamente. Una simile idea ha reso insensibile l’europeo e l’americano nei confronti del rischio radicale, dinanzi cioè alla sostanza stessa dell’uomo. Se infatti l’umanità progredisce inevitabilmente, vuol dire che possiamo lasciar perdere tutto, toglierci qualunque preoccupazione, irresponsabilizzarci, o — come diciamo in Spagna — «tumbarnos a la bartola», lasciare che essa, l’umanità, ci conduca inevitabilmente alla perfezione ed alla felicità. La storia umana resta pertanto svuotata di ogni drammaticità e ridotta ad un tranquillo viaggio turistico organizzato da una qualunque agenzia turistica Cook di rango superiore. Marciando così sicura verso la sua pienezza, la civiltà in cui siamo imbarcati è come l’omerica nave dei Feaci, che senza alcuna guida navigava dritta verso il porto. Noi paghiamo adesso proprio questa sicurezza».28

Proprio il fatto che il destino individuale non dipende in maniera deterministica da alcun sistema conoscitivo, impedisce che la vita possa trasformarsi in un simile viaggio organizzato. L’uomo non ha di fronte a sé soltanto un mondo organizzato più o meno razionalmente, ma un mondo che è attraversato da un mistero indecifrabile: «nella vita dell’uomo, il contorno è più potente dell’uomo, precisamente perché una delle sue parti — il futuro — non è lì. Ed il futuro è infinito non già nel tempo e nella quantità, ma nella qualità. È l’indefinito: mistero, informe, imminente». L’uomo ha quindi bisogno di ridurre tale infinito «alla dimensione finita e limitata della sua vita. Deve, cioè, forgiare uno scorcio finito dall’infinito».29

È grazie alla forma assunta da questo scorcio finito che anche il futuro può prendere forma, e attraverso di esso anche il nostro presente: «nella vita la causa del nostro ora è il nostro futuro, che è pertanto anteriore. La vita comincia con l’essere futuro e solo perché noi viviamo nel futuro sorge la circostanza presente con i suoi caratteri concreti, comodi o scomodi».30

Il fatto che la vita possa essere letta e vissuta intraprendendo un duplice viaggio di andata e ritorno verso e dal futuro attraverso il passato, la rende essenzialmente storica e ne fa il realistico e intelligibile oggetto d’indagine della storia. Né l’una né l’altra si sviluppano in modo lineare e continuo verso il futuro, ma entrambe prendono forma anche attraverso la retroazione dello stesso futuro sul passato, e viceversa.

La concezione orteghiana del rapporto tra il passato e il futuro nella storia individuale e collettiva era già stata anticipata per alcuni aspetti da Dilthey. Anche per il filosofo tedesco infatti «la nostra concezione del significato della vita muta continuamente. Ogni progetto di vita è manifestazione di una comprensione del significato della vita. Ciò che ci proponiamo come scopo nel futuro, condiziona la determinazione del significato di ciò che è passato».31

Ortega riconosce a Dilthey, tra gli altri suoi meriti, quello di aver rifiutato una concezione intellettualistica della conoscenza e di aver considerato la coscienza individuale come parte di una coscienza umana universale. Entrambi, attribuiscono alla ragione storica un ruolo fondamentale nell’ambito della vita umana, sia di quella individuale che di quella che caratterizza lo sviluppo di ogni civiltà. Ortega, tuttavia, sottolinea in maniera più marcata il fatto che la storia non è semplicemente un’applicazione della ragione ai temi storici e vitali, ma è — come spiega Julián Marías — «estratta dalla vita, cioè, è la vita nella sua funzione di farci apprendere intellettualmente la realtà».32 In altri termini, la vita, pervade la ragione stessa in maniera rigorosa e capillare, «la costituisce, e non è qualcosa di secondario e derivato».33 Il compito della storia non consiste, pertanto, solo nel tentativo di spiegare dei fenomeni storici, così come un fisico potrebbe proporsi di spiegare dei fenomeni naturali, ma piuttosto in quello di intendere il suo stesso senso, che coincide con il senso del fenomeno umano, della vita umana in generale. Fine di ogni storico sarà dunque il cercare di dilatare la propria perspicacia per comprendere un senso che non è ancora pienamente emerso e che continua a costruirsi anche mentre cerchiamo di comprenderlo.

Per realizzare un simile obiettivo, che sfiora il paradosso, dobbiamo saperci distanziare e avvicinare a un tempo al periodo storico che stiamo indagando: da un lato dobbiamo distanziarci dal tipo di umanità che lo ha abitato e incarnato per scoprire quanto la differenzia dal nostro modo di rapportarci alla vita, a noi stessi e alla società; d’altro lato possiamo riuscire a conseguire un simile obiettivo solo partendo dal presupposto che siamo legati a quell’umanità, che risulterà per tanti aspetti molto diversa e distante dalla nostra, da un’affinità essenziale, e cioè dal fatto che siamo entrambi alla ricerca del senso che emana dalla nostre vite.34 Questa affinità essenziale ci permette di procedere sulla via della ricostruzione storica, nella ricerca del senso che dalla storia emana, ciò che si può fare cercando di «vedere se nel caos rappresentato dalla serie confusa degli avvenimenti possano essere individuati linee, aspetti, tratti, insomma una fisionomia», perché «non esiste un’epoca nella quale il destino storico non abbia rappresentato qualcosa come un volto o un sistema di forme riconoscibili».35

5. La storia e le generazioni

Così come l’andamento della vita ha dei periodi di stasi, in cui sembra riposarsi e non procedere, anche l’incedere della storia subisce fasi alterne, rivelandosi ondulatorio piuttosto che lineare, e ciò, in particolare, a causa del gioco che vi svolgono i contrasti generazionali. Nonostante la continuità apparente del processo che ci ha condotto fino al punto in cui siamo, sarebbe «falso dire che la storia cambia costantemente. La realtà storica è capace anche di riposare. La storia cambia ogni quindici anni durante i quali riposa, e cambia ogni quindici anni perché è questa la durata del predominio di una generazione. La generazione è il passo con cui cammina la storia e per questo la vita umana consiste in un dramma di architettura diversa per ogni generazione».36

Ogni civiltà giunge al momento culminante dal quale produce le prospettive filosofiche e culturali che la caratterizzano non secondo un processo continuo e ascendente, come il progressismo post-illuminista immagina. Il conflitto generazionale che pervade ogni realtà storica determina infatti fasi diverse e contrastanti, durante le quali la storia avanza più rapidamente o tende a contrarre e ridurre la propria andatura.

«La realtà storica, nel suo nucleo denso e sostanziale, è costituita sempre dalla collaborazione polemica di due generazioni. L’aspetto essenziale nel concetto di ‘generazione storica’, a differenza delle generazioni genealogiche — cioè zoologiche -, non è che le generazioni si succedono ma, in un certo senso, nel contrario: che in gran parte del tempo le generazioni coincidono, si sovrappongono, s’incastrano. Ci sono sempre due generazioni che agiscono pienamente allo stesso tempo, sugli stessi temi e sulle medesime cose, però con differente indice di età e, pertanto, in direzioni diverse: una in difesa, l’altra all’attacco.37

Come scrive Adone Brandalise, la teoria orteghiana delle generazioni «tende pertanto a dimostrare che la storia è sempre mutamento ma, nello stesso tempo, che questo mutamento non è continuismo orientato o progressismo generico. Dire che la realtà cambia costantemente non significa annullare il cambiamento nella pura ripetitività, né segnalare un ritmo rassicurante che renda la stessa mutazione pura prosecuzione. La successione delle età può dare luogo ad accelerazioni o a rallentamenti, a soste pressoché totali o a improvvisi scatti innovativi. In questo senso esiste una relazione di analogia tra il succedersi delle generazioni e il modo in cui Ortega immagina la vicenda individuale».38

 Se sul piano individuale «io sono io e la mia circostanza» — per usare una frase che ricorre più volte negli scritti orteghiani e che designa il centro della sua filosofia — sul piano storico «la generazione è il luogo  in cui la stessa circostanza si fa ‘io’».39 Ma sia che si tratti d’individui sia che si tratti di generazioni, chi oggi gioca in difesa può scegliere questa strategia a ragion veduta e con fondati motivi solo se ha giocato all’attacco da giovane e possiamo ritenerci davvero adulti solo nella misura in cui sappiamo riconoscere i nostri errori di gioventù, ma abbiamo anche conservato viva e attiva la memoria delle cause e del significato di tali errori, della tendenza a trasformare il mondo e noi stessi che li ha motivati.

6. L’uomo-massa e la storia

Una riconoscenza analoga a quella che dovremmo avere verso il nostro passato individuale dovremmo averla anche nei confronti della storia e della cultura. Noi «pensiamo ciò che pensiamo, amiamo ciò che amiamo, le nostre illusioni e i nostri entusiasmi sono ciò che sono perché prima di noi gli uomini avevano pensato, amato e adorato altre cose e tutto rimane custodito nella memoria. Conserviamo il passato per evitarlo: questo è il privilegio umano. L’uomo maturo deve la sua maturità all’essere stato giovane; se gli estirpassimo, come per incanto, questa sua giovinezza, l’uomo maturo cesserebbe di essere tale e comincerebbe ad essere di nuovo giovane. La maturità, per quanto risulti paradossale, è fatta di giovinezza e di fanciullezza. Perché l’uomo sia maturo, bisogna che la sua gioventù non se ne sia andata del tutto, ma continui ad essere giovane nella peculiare forma di ‘esserlo stato’. Lo stesso accade con la vita collettiva, con la vita storica. L’occidentale di oggi è così com’è perché prima è stato positivista e democratico, e prima ancora assolutista e razionalista, e prima umanista, e prima ancora cristiano come San Francesco o Dante ecc. Tutti questi modi d’essere perdurano nel tipo storico attuale, nella forma in cui l’uomo occidentale ‘è stato’ una volta».40

Gli uomini che hanno la fortuna e la capacità di poter riconoscere lo sfondo del proprio destino presente nelle civiltà che hanno contribuito a forgiarlo saranno però solo coloro che avranno sviluppato gli strumenti intellettuali necessari per rileggere «criticamente» la storia, e quindi costituiranno soltanto un’elite limitata, perché si tratta di un’impresa non facile, rispetto alla quale è impossibile che un’epoca riesca a fornire equamente a tutti gli strumenti intellettuali e morali più idonei.41 L’accesso ad un uso appropriato della ragione storica risulta limitato e circoscritto a pochi, perché «la ragione è stata e sarà sempre essenzialmente qualcosa di ricercato. Per questo lo snobismo di fronte ad essa è molto giustificato ed è stato di grande fecondità nello svolgimento della vicenda umana. È stato necessario arrivare alla bestialità del nostro tempo, che forse non trova riscontro in nessun altro momento del passato, perché questo snobismo quasi sparisca. L’uomo-massa in effetti crede di sapere tutto senza bisogno di ragioni».42

La peculiare forma di presunzione che caratterizza l’uomo-massa dipende dal fatto che questi «crede che la civiltà in cui è nato e che usa è tanto spontanea e primogenita come la Natura».43 Questa credenza lo trasforma in un essere primitivo, al quale la civiltà appare come un luogo selvaggio. Per lui i principi stessi su cui si fonda la civiltà contemporanea non esistono: «non lo interessano i valori fondamentali della cultura, non si fa solidale con essi, non è disposto a porsi al loro servizio».44

Tra le molte cause che hanno determinato questo fenomeno, ad Ortega preme sottolinearne una in particolare: «la civiltà, quanto più si avanza si fa più complessa e più difficile. Ogni volta è minore il numero di persone il cui intelletto sia all’altezza di questi problemi. Il dopoguerra ce ne offre un esempio assai esplicito. La ricostruzione dell’Europa — quando Ortega scrive queste righe si stanno ancora vivendo le drammatiche conseguenza del primo conflitto mondiale — è un’impresa troppo algebrica, e l’europeo «volgare» si rivela inferiore a così sottile compito. Non che manchino le teste. Più esattamente ci sono alcune teste, molto poche, però il corpo volgare dell’Europa non vuole mettersele sopra le spalle. Questo squilibrio fra la sottigliezza complicata dei problemi e la capacità delle menti sarà ogni volta maggiore se non si trova un rimedio, e rappresenta la più elementare tragedia della civiltà».45

Una simile tragedia è destinata a sopraggiungere solo nel momento culminante di un’epoca di decadenza, e cioè quando le minoranze più qualificate e autorevoli sotto il profilo morale e intellettuale perdono le loro qualità di eccellenza. Quando tali minoranze perdono quelle qualità che determinavano la loro elevazione e il loro prestigio divengono inefficaci e corrotte, e allora contro di esse «si ribella giustamente la massa».46 Questa tende però a generalizzare le obiezioni ispirate da una aristocrazia dirigente divenuta ormai inadeguata e, invece di cercare di «sostituirla con un’altra più virtuosa», cerca di «eliminare ogni aristocrazia. Si arriva a credere che è possibile l’esistenza sociale senza minoranza eccellente; ancor di più: si costruiscono teorie politiche e storiche che presentano come ideale una società senza aristocrazia. Siccome questo è positivamente impossibile, la nazione continua acceleratamente la sua traiettoria»» .47

Tale traiettoria conduce i popoli a realizzare una società sempre più precaria e disorganica, in cui la concordia sociale si rivela sempre più carente e inadeguata; ovvero, a dare vita a società che, in senso stretto, non sono tali. Un insieme d’individui infatti forma una società solo se tra loro sussiste una concordia sociale sufficiente per stabilire i criteri che permettono di scegliere chi deve guidarli; altrimenti la stessa società sarà destinata a sopravvivere in uno stato di torpore. Questi due aspetti non sono indipendenti, perché ogni sostanziale concordia implica la condivisione di «una credenza ferma e comune su chi deve comandare».48

7. Le masse, gli intellettuali e la filosofia

Ortega è convinto che, man mano che una civiltà progredisce, la realizzazione di tale concordia sia sempre più problematica e che la società sia anche destinata a imbattersi in pericoli sempre maggiori.49 Tra questi, quello che spicca sugli altri come il più gravoso di conseguenze epocali è la tendenza all’omogeneizzazione che accompagna la crescita degli agglomerati umani. Una simile omogeneizzazione è una cosa ben diversa dalla condivisione di quei valori o principi che per Ortega dovrebbero stare alla base della società. A causa del ruolo sempre più ingombrante che tali agglomerati assumono nella storia, i tesori della civiltà, i valori su cui essa si fonda, la capacità di discuterli e assimilarli con cognizione di causa tendono a dissolversi nella massa e le persone che sarebbero capaci di opporre una qualche resistenza agli effetti negativi di tale fenomeno sono sempre più incapaci d’incidere sulla storia come vorrebbero e potrebbero.

L’uomo-massa è «fatto di fretta, montato su null’altro che su alcune esigue e povere astrazioni», e per questo motivo «è identico da un capo dell’Europa all’altro. A lui si deve il triste aspetto di asfissiante monotonia che va assumendo la vita in tutto il continente. Quest’uomo massa è l’uomo previamente svuotato della sua propria storia, senza passato nelle viscere e, per tanto, docile a tutte le discipline chiamate «internazionali». Più che un uomo, è soltanto una carcassa d’uomo costituito da meri idolafori; manca di un «dentro», di una intimità sua, inesorabile e inalienabile, di un io che non si possa revocare. Di qui il fatto che è sempre disponibile per fingere di essere qualsiasi cosa: è l’uomo senza la nobiltà che obbliga: sine nobilitate, snob».50

A differenza delle persone culturalmente e spiritualmente più «nobili», che si lasciano guidare da valori morali da cui non deflettono e che sono pronti a dedicare la propria vita a forgiare l’ethos di una società, lo «snobismo» dell’uomo massa è viceversa un effetto della sua indifferenza verso qualsiasi sistema di valori e principi. Anche la sua propensione a ribellarsi, dipende essenzialmente da questa sua mancanza d’identità: deve ribellarsi perché solo riunendosi ad altri in una massa riesce a percepire realmente ciò che è.

Come si è già accennato, l’entrata delle masse sulla scena della storia costituisce un evento ricco di conseguenze virtualmente drammatiche. Le masse sono portate a ribellarsi non soltanto per rivendicare dei diritti legittimi e realistici, ma anche perché sono costituzionalmente refrattarie a confrontarsi dialogicamente con le minoranze qualificate di una società. Esse non costituiscono soltanto un imponente agglomerato umano dal punto di vista quantitativo, ma sono contrassegnate da un atteggiamento peculiare nei confronti della storia e della cultura. Non s’identificano con una o più classi sociali e non sono identificabili attraverso un criterio economico. Per masse cioè non si deve intendere «soltanto, né principalmente, la ‘massa operaia’. Massa è l’uomo medio. In questo modo si converte ciò che era mera quantità — moltitudine — in una determinazione qualitativa: è la qualità comune, è il campione sociale, è l’uomo in quanto non si differenzia dagli altri uomini, ma ripete in se stesso un tipo generico» .51

In modo apparentemente paradossale, questa sua caratteristica si traduce in una presuntuosa indifferenza nei confronti dei valori e principi di cui sono portatrici le personalità più eminenti. L’uomo-massa finisce infatti col dimostrarsi privo di umiltà proprio in quanto, identificandosi con la moltitudine, presume di poter trarre da tale identificazione un’autorità indiscutibile, che lo può indurre a porsi al di là e al di sopra della norme morali su cui si deve necessariamente basare ogni civiltà e di poter fare a meno di qualsiasi controllo critico delle posizioni che abbraccia. Anche la sua fiducia negli specialisti, nel progresso della scienza e della tecnica, non è che una convalida di quest’atteggiamento di fondo: egli può credere soltanto all’autorità di coloro di cui non è in grado di verificare la competenza, di coloro che usano un linguaggio che non può comprendere piuttosto che di coloro che sarebbe invece capace di capire ed eventualmente criticare,52 disdegnando i requisiti morali e culturali che potrebbero renderlo più consapevole e più responsabile.

Ortega non si sofferma molto ad indagare quali siano le ragioni di una simile atteggiamento di fondo dell’uomo-massa sotto il profilo psicologico e non lo attribuisce a qualche pulsione di tipo inconscio, come fanno invece, in modi diversi, sia Le Bon che Freud. Il concetto di massa in Ortega si differenzia da quello di «folla» quale è usato da Gustave Le Bon in un’opera famosa che uscì nel 1895, nonostante che i due concetti condividano alcune caratteristiche importanti. Per Le Bon, «quali che siano gli individui che compongono la folla, per simili o diversi che possano essere il loro modo di vita, le loro occupazioni, carattere e intelligenza, il solo fatto di essere trasformati in massa li dota di una sorta di anima collettiva, in virtù della quale essi sentono, pensano agiscono in modo del tutto diverso da quello in cui ciascuno di essi, preso isolatamente, sentirebbe o penserebbe e agirebbe».53 L’incessante mobilità delle folle non opera secondo Le Bon «che sulle cose superficiali. In realtà, esse hanno degli istinti conservatori irriducibili e, come tutti i primitivi, un rispetto feticista per le tradizioni, un orrore incosciente per le novità capaci di modificare le loro condizioni d’esistenza».54

Le masse cui fa riferimento Ortega non hanno invece una propensione alla conservazione, o almeno non ce l’hanno nello stesso senso cui fa riferimento Le Bon, perché non sono afflitte né da tale ossessivo rispetto delle tradizioni né dal terrore per le novità. Anche nell’accezione orteghiana del termine però, esse sono caratterizzate dalla tendenza ad assecondare quanto è già in atto e sta avendo storicamente successo, a procedere per inerzia e in base al principio del minimo sforzo, o della minima tensione, il che le induce a nutrire una certa diffidenza, che talora può trasformarsi in fastidio, o addirittura in odio e disprezzo, per tutti quegli individui portatori di valori non convenzionali verso i quali esse sono inclini a scagliarsi con particolare sollecitudine.

Certo è che, in ogni caso, le masse cui di cui parla Ortega, come si è visto, non s’identificano con il proletariato, mentre questa identificazione caratterizza — per esempio secondo alcuni sociologi della «Scuola di Francoforte» — le «folle» che costituiscono l’oggetto del saggio di Le Bon, nel quale «l’apparenza della descrizione scientificamente spassionata delle masse si mescola con una sostanziale metafisica della storia che riecheggia politicamente la critica restauratrice alla Rivoluzione francese. È in questo spirito che Le Bon identifica costantemente «massa» con proletariato moderno e movimento socialista. […] La massa, per Le Bon, è essenzialmente nemica della civiltà».55

Per Ortega, invece, le masse non s’identificano con nessuna classe e costituiscono una formazione sociologicamente ed economicamente trasversale. Tuttavia, nonostante questa differenza, anche per il filosofo castigliano esse possono rivelarsi nemiche della civiltà, e ciò nella misura in cui si ritengano portatrici di un diritto peculiare e ultimo. Non lo sono però essenzialmente, perché quando sanno riconoscere gli individui che sono portatori di valori di riferimento e sanno lasciarsi guidare dalla persone cui riconoscono autorevolezza sotto il profilo morale e intellettuale, dalla loro azione e dal loro ruolo non scaturisce alcun pericolo particolare.56 Questo si concretizza solo quando non sono in condizione di riconoscere chi sarebbe in grado di guidarle o quando, attribuendosi aprioristicamente le conoscenze necessarie per autogovernarsi, ritengono di poter fare a meno della guida d’intellettuali organici, cioè di persone capaci di avere una visione d’insieme della società, della sua storia e della sua cultura, del complesso dei suoi saperi e delle sue credenze.

Uno dei motivi che può indurre le masse a non riconoscere l’autorevolezza di tale tipologia d’intellettuali è, come si è accennato, il trionfo dello specialismo in ogni ambito culturale. Lo specialismo ha infatti sempre di più contraddistinto non solo la scienza — il che è forse inevitabile — ma anche la vita culturale e ha instaurato una frattura decisa tra il ruolo degli intellettuali e la capacità delle masse di comprendere le loro analisi e le loro proposte. L’inaccessibilità ai linguaggi tecnici e spesso criptici di un’intellighenzia iper-specializzata ha da tempo sottratto alle masse ogni possibile controllo di quanto le minoranze autorevoli che potrebbero guidarle sostengono e teorizzano. I mezzi di comunicazione di massa, lungi dal colmare una tale distanza, sembrano piuttosto rafforzarla proprio nella misura in cui assecondano i gusti stereotipati di un pubblico massificato e non si adoperano per colmare questo divario, che un’elite di specialisti non è portata a cercare di ridurre, ma anzi, ad assecondare. Lo specialista tende infatti a sostenere, nelle discipline in cui non è particolarmente competente, «posizioni da primitivo, da ignorantissimo; ma le assumerà con energia e sufficienza senza ammettere — e questa è la cosa paradossale — «specialisti» di queste questioni. Nello specializzarlo, la civiltà lo ha reso ermetico e soddisfatto dentro la sua limitazione; però questa stessa sensazione interiore di dominio e di valore lo porterà a voler prevalere al di fuori della sua specialità», con il risultato che anche l’uomo più qualificato, lo specialista più competente, che dovrebbe costituire in sé l’opposto dell’uomo massa, «si comporterà senza qualità e come uomo-massa in quasi tutte le sfere della vita».57

Tra l’uomo-massa e gli specialisti tende così ad instaurarsi un rapporto che oscilla tra l’indifferenza e un’ammirazione astratta e formale, che si basa in lui sull’inespressa convinzione di poter prendere parte alla vita culturale della società solo come fan di qualche suo affermato protagonista di cui non è in grado di controllare la competenza e l’autorevolezza. Questa sua incapacità di partecipare attivamente e consapevolmente alla vita culturale della società in cui vive gli impedisce così di attingere alle fonti che potrebbero guidarne l’azione e lo sviluppo verso la propria individuazione personale, inducendolo a rifugiarsi in un relativismo di fondo e a evitare di sottoporsi a dei principi morali. Egli non tende ad apprezzare una morale antiquata piuttosto che innovativa, o viceversa, perché — come scrive Armando Savignano — «il centro del suo regime vitale consiste precisamente nell’aspirazione a vivere senza sottoporsi a nessuna morale».58 Egli «manca — secondo Ortega — semplicemente di morale, che è sempre, per essenza, sentimento di sottomissione a qualcosa, coscienza di osservanza e obbligo».59

Una tale condizione non è tuttavia così semplice da sostenere come potrebbe sembrare a prima vista: infatti «dalla morale non è possibile affrancarsi senz’altro», perché anche quando «non ci si vuole affidare ad alcuna norma, bisogna pure, velis nolis, sottostare alla norma di negare ogni morale: e ciò non è amorale ma immorale. È una morale negativa che conserva della positiva la forma vuota».60 Nell’epoca contemporanea un simile immoralismo è arrivato «a un prezzo molto basso, e chiunque si vanta di esercitarlo», mascherandosi talora da rivoluzionario o da reazionario. Ma in qualsiasi modo l’uomo-massa intenda mascherare la propria condizione essenziale alla fine «il suo stato d’animo consisterà, in maniera decisiva, nell’ignorare ogni obbligo e sentirsi, senza che egli stesso sospetti perché, soggetto di illimitati diritti».61

Le elite intellettuali che potrebbero costituire un punto di riferimento decisivo per l’uomo-massa nella nostra epoca finiscono invece con l’assecondare la sua logica: esse tendono infatti a sottrarsi al loro compito storico e culturale quando cercano di proporre scenari in cui l’uomo possa essere indefinitamente felice e realizzato piuttosto che lavorare esse per prime alla costruzione di quella cultura dei doveri e di quel substrato etico dalla cui diffusione potrebbe indirettamente scaturire anche una maggiore felicità per l’intera società.

Nei primi decenni del Novecento l’intellettuale s’impegna, secondo Ortega, a progettare e realizzare utopie piuttosto che cercare di costituire, come il suo ruolo imporrebbe, un punto di riferimento fondamentale per la creazione di un ethos collettivo. Egli vorrebbe rendere felici gli uomini, liberarli radicalmente dal male e dall’oppressione e restituire loro una dignità nuova, ma nel cercare di conseguire questi obiettivi tende inavvertitamente a proporre scorciatoie gradite alle masse, dimostrandosi previamente sedotto dalla possibilità di ottenere il loro consenso. Cadendo egli stesso nella tentazione di assecondare l’uomo-massa, gli permette di prosperare in una società in cui tale ethos collettivo latita, in cui cioè non vi sono quei valori condivisi che anche per Hegel costituivano l’elemento saliente per la realizzazione di una società e di uno Stato «etici».

Questo tipo umano dominante nell’epoca contemporanea risulta quindi difficilmente riformabile anche da parte di quegli intellettuali che, cercando di utilizzare il linguaggio più chiaro possibile e di argomentare in maniera trasparente — come, secondo Ortega, un intellettuale dovrebbe sempre cercare di fare — si sforzano di entrare in contatto con lui e di porlo in condizione di utilizzare le sue facoltà razionali e spirituali. Anche in virtù di questa mancata comunicazione, i suoi difetti tendono così a perpetuarsi e a diffondersi in modo pericoloso: alla fine, essi risultano tanto gravi «che se non li si estirpa produrranno in modo inesorabile l’annientamento dell’Occidente».62 Siamo infatti di fronte ad «un uomo ermetico, che non è aperto effettivamente a nessuna istanza superiore», che è restio ad ogni ragionevole messa in discussione del suo orizzonte di valori e di riferimenti culturali, tanto da far sorgere il fondato sospetto che non sia in condizione di potersi ridestare ad una vita personale autentica. Dall’epoca del suo avvento come protagonista sul proscenio della storia, contrariamente a quanto il progressismo è portato a ritenere, si è registrata un’involuzione culturale e civile.

L’inerzia mentale del «progressismo» tende a supporre che mentre avanza la storia cresca anche il margine d’azione e di libertà che viene concesso all’uomo per divenire una «persona». Questo è per esempio, secondo Ortega, quanto credeva «l’onorato ingegnere, ma niente affatto storico, Herbert Spencer». Ma le cose non stanno esattamente in questo modo: «la storia è piena di regressi in quest’ordine di cose, e forse la struttura della vita della nostra epoca impedisce in sommo grado che l’uomo possa vivere come persona».63 Non può vivere come una persona perché «manca di serietà», perché non gli importa nulla della verità: per lui tutte le verità sono intercambiabili e niente è irrevocabile, tanto che può passare con disinvoltura dalla tragedia alla farsa^[66] e abbracciare con disinvoltura le ultime mode culturali e artistiche in maniera acritica e irrazionale.64

La ribellione di cui è capace questa tipologia d’uomini può dunque produrre solo due generi d’effetti, entrambi forieri di conseguenze drammatiche: «la decadenza della società e l’apoteosi del collettivo. La menzionata ribellione consiste semplicemente nel fatto che le masse non vogliono essere masse»,65 non vogliono cioè prendere coscienza della condizione che le spinge a riconoscersi solo in gruppi o agglomerati dai contorni indefiniti e delle conseguenze regressive e barbariche di tale identificazione.^[69]

Per Ortega, l’uomo massa è «un primitivo nella civiltà», un individuo mancato, incapace di accedere a qualsiasi forma di nobiltà morale e intellettuale.66 Ciò che lo rende «non nobile» è essenzialmente l’incapacità di accedere alla propria solitudine, alla solitudine del pensiero autentico, che sa rinunciare a quell’assieme di riferimenti collettivi e omogeneizzanti di cui invece l’uomo-massa non riesce a fare a meno per orientarsi nel mondo e nella società.67 La sua identificazione con tali riferimenti è infatti qualcosa di radicalmente diverso rispetto alla condivisione di valori etici: questi impongono doveri e senso di responsabilità da cui l’uomo-massa rifugge e dai quali si sente in qualche modo immune.

Anche quando non si riferisce esplicitamente a Nietzsche, Ortega ne richiama alla memoria l’aristocratica diffidenza nei confronti di ogni tipo di «gregge» umano. L’uomo-massa non ha infatti bisogno di diventare una persona, e tanto meno di diventare un uomo che sappia nietzschianamente andare oltre se stesso e i principi e valori dominanti nella propria circostanza storica, semplicemente perché, in senso stretto, non è un uomo. Egli tende infatti a identificarsi con un indefinito agglomerato umano proprio per evitare di accedere alla propria specifica umanità; cerca il previo consenso di individui o gruppi presupponendo di essere già un individuo libero, ancor prima di avere mai sperimentato il prezzo di qualsiasi forma di libertà. Più il mondo diventa complesso, più si rivelano soggettivamente fragili, precarie e approssimative le strategie che potrebbero condurre alla sua propria individuazione, e questa circostanza ha su di lui un effetto scoraggiante e deprimente, inducendolo a identificarsi con un agglomerato immaginario, anonimo e impersonale, ma che proprio per questo è in condizione di muoversi e agire come un solo individuo. Proprio nella misura in cui tale agglomerato umano non è composto da individui, ma solo dagli echi e frammenti di un io impersonale, tende a comportarsi come un soggetto unico e compatto.

Ortega è convinto che gli agglomerati umani siano virtualmente disponibili a lasciarsi educare da alcuni uomini illuminati e a seguirli talora in modo consapevole e responsabile, ma questo può accadere solo quando non siano diventati «masse» in senso compiuto sotto il profilo qualitativo. Se queste fossero disposte a lasciarsi guidare da principi etici condivisi e accettassero il confronto dialogico con le minoranze culturalmente qualificate, esse potrebbero svolgere un’azione positiva in qualsiasi contesto politico che fosse disposto a riconoscere i loro sacrosanti diritti; ma, al contrario, esse sono sempre più nella condizione di non riuscire a distinguere chi sappia guidarle da chi sa accattivarsi il loro consenso con procedure demagogiche. Man mano che la società si fa più complessa, man mano che lo specialismo trionfa, rischiando di trasformare sempre più gli individui, come Max Weber aveva ipotizzato, in «specialisti senza intelligenza e in gaudenti senza cuore»,68 man mano che esso prende il posto di quella cultura a tutto tondo che aveva nell’esercizio della filosofia e della ragione storica il suo cuore pulsante e che all’inizio del secolo scorso, almeno nei paesi con istituzioni politiche liberali, era ancora in grado di far sentire la propria voce con una qualche autorevolezza, il disorientamento delle masse è sempre più destinato ad accrescersi e con esso anche la loro attitudine a lasciarsi guidare dai media e dalla sollecitazioni demagogiche che questi veicolano.

Questa circostanza pone una volta di più in evidenza il problema generale del rapporto che gli intellettuali, gli scienziati, gli uomini colti hanno, nell’era della specializzazione, con le masse stesse, e del tipo di azione che essi potrebbero svolgere per favorire da parte di queste un uso autenticamente comunicativo della regione, che nel contesto storico della modernità è invece sempre più rivolta a perfezionare la propria funzionalità strumentale.

A questo riguardo, Jürgen Habermas ha posto in evidenza come le «grandiose unilaterilazzazioni» che caratterizzano la vita intellettuale e la ricerca scientifica dell’età moderna pongano dei seri interrogativi circa la possibilità di una mediazione comunicativa che ne renda disponibili l’azione e i risultati per l’intera cittadinanza, e a questo proposito si chiede: «come può la ragione, ormai scissa nei suoi momenti, conservare la propria unità all’interno dei diversi ambiti culturali, e come possono le culture degli esperti, che si sono segregate in sublimi forme esoteriche, mantenere un rapporto con la prassi comunicativa quotidiana? ».69

Forse, è proprio in questo contesto problematico che la filosofia potrebbe tornare ad assumere un ruolo da protagonista sulla scena culturale, perché «un pensiero filosofico che non si sia ancora distolto dal tema della razionalità, né dispensato da un’analisi delle condizioni dell’incondizionato, si trova messo di fronte a questa duplice esigenza di mediazione».70 Secondo Habermas, «nella prassi comunicativa quotidiana le interpretazioni cognitive, le aspettazioni morali, le espressioni e valutazioni devono in ogni caso compenetrarsi reciprocamente. I processi d’intesa che si svolgono nel mondo della vita hanno perciò bisogno di una tradizione culturale in tutta la sua estensione, e non soltanto delle benedizioni della scienza e della tecnica. Così la filosofia potrebbe riattualizzare il suo riferimento alla totalità assumendo un ruolo di interprete rivolto al mondo della vita. O, per lo meno, potrebbe contribuire a rimettere in moto la comunicazione interrotta fra il cognitivo-strumentale, il pratico-morale e l’estetico-espressivo».71

Tuttavia, anche abbandonando la filosofia il ruolo del giudice che sovrintende alla vita culturale per proporsi come attività d’interpretazione e di mediazione tra i vari ambiti culturali e scientifici, essa si troverà comunque di fronte — secondo Habermas — a un problema cruciale: «com’è possibile riaprire quelle sfere delle scienza, della morale e dell’arte, che ora si sono separate e irrigidite quali culture di esperti, e ricollegarle senza ledere la razionalità che è loro propria, all’impoverita tradizione del mondo della vita, in modo tale che i momenti separati della ragione si ritrovino insieme, in un nuovo equilibrio, nella prassi comunicativa quotidiana? »72

In una prospettiva orteghiana, una risposta alla domanda posta da Habermas si dimostra sempre più urgente, in quanto la scienza empirica, con le sue continue invenzioni e scoperte, produce ogni giorno benefici che l’uomo-massa utilizza ricevendoli in dono come per effetto di una pratica magica di cui non è in grado di controllare le procedure. Questa situazione lo pone in uno stato di sudditanza psicologica diffusa, quella stessa condizione di sudditanza da qualsiasi conoscenza fondata e autorevole rispetto al fascino del cui prestigio la filosofia aveva saputo per secoli fornire gli anticorpi adeguati.73

Questa carenza dell’esercizio dell’agire comunicativo, favorita anche dalla marginalizzazione del lavoro filosofico, fa sì che acquisiscano un carattere violento anche i tratti, apparentemente non violenti, che caratterizzano le più comuni procedure d’intesa. Queste finiscono infatti con il rivestirsi di un alone autoritario nella misura in cui assecondano in maniera apparentemente libera e spontanea modelli comportamentali e criteri interpretativi decisi altrove, nel luogo invisibile e astratto in cui ogni forma di autorità prende inavvertitamente corpo. Come osserva ancora Habermas, a fronte della violenza legittimata da una simile forma di autorità soltanto la «riserva di principio di una comprensione universale e libera dal dominio» potrebbe porre di nuovo in condizione di «distinguere fondamentalmente il riconoscimento dogmatico dal discorso vero»; come attesta il fatto che proprio «la ragione, nel senso del principio del discorso razionale, è la roccia su cui sinora le autorità di fatto si sono sfracellate, piuttosto che essercisi fondate sopra».74

La necessità, ben avvertita da Habermas, di un continuo riequilibrio tra la diffusione di un uso della ragione puramente strumentale e la rivalutazione e riattivazione della ragione comunicativa s’impone proprio per imparare a discernere tra posizioni dogmaticamente assunte come proprie dalla masse e le argomentazioni che conservino come parametro fondamentale quello di una verità razionalmente sostenibile. Nell’ambito della sua teoria dell’agire comunicativo, che si propone di spiegare «i fondamenti normativi di una teoria critica della società», Habermas osserva come «le controistituzioni che il mondo vitale sviluppa da se stesso per limitare la dinamica autonoma del sistema di azione economico e di quello politico-amministrativo», dovrebbero cercare di sottrarre «all’intervento dei media di controllo e di guida» almeno «una parte degli ambiti di azione organizzati formalmente», per «riconsegnare queste «zone liberate» al meccanismo di coordinamento delle azioni costituito da comprensione e intesa».75

Tuttavia, il progressivo venir meno della funzione critica della filosofia, dell’esercizio di consapevolezza che essa comporta e di quello sviluppo culturale organico che essa favoriva rischia di rendere illusoria l’efficacia di quanto auspicato da Habermas, perché la massa tende, motu proprio, ad essere sempre più autoreferenziale e più «invertebrata», preda virtuale di mode e convenzioni introiettate in maniera acritica. Secondo Ortega, infatti, essa ha sempre di più l’impressione di potersi sostituire a qualsiasi elite autorevole divenendo promotrice della sua storia e del suo destino. La sua cieca fiducia nell’azione, nell’assemblearismo, in una improbabile democrazia diretta, in un diritto fondato sul successo e sul consenso di agglomerati umani ben visibili dall’alto dei media non asseconda degli ideali, ma inavvertitamente gli interessi di settori di quel potere e di quell’autorità che vorrebbe combattere, e ciò ricorrendo spesso alle indicazioni fuorvianti dell’utopia. Questa ha svolto nella storia un’azione efficace ogni volta che ha saputo proporsi come pungolo e come una sollecitazione ellittica rispetto al reale, come ispiratrice di un criterio riformatore, e non quando si è configurata come una soluzione storicisticamente necessaria dei problemi dell’umanità. Le masse sembrano invece, sulla scia dell’opera d’intellettuali compiacenti, cavalcare l’utopia proprio in questo senso, conferendole una dignità nuova, che fa sempre più leva sul culto del vincitore e della quantità preponderante: ogni singolo uomo-massa sembra sempre più assorbito dall’identificazione immediata con istanze liberatorie facilmente condivisibili e guarda con ostilità e diffidenza a chiunque agisca da una posizione di minoranza o, ancor di più, in maniera isolata e autonoma da gruppi di potere e di successo.^[80]

I principi del liberalismo e del liberalismo socialista che hanno fornito dei riferimenti fondamentali per lo sviluppo della civiltà politica occidentale negli ultimi tre secoli — e sui quali, secondo Ortega, dovrebbe fondarsi anche qualsiasi speranza in una società umana migliore di quella presente —^[81] sembrano alla massa in genere troppi blandi, obsoleti e talvolta inconsistenti o ipocriti. Essa è attratta dalle utopie, piuttosto che da ideali, e il liberalismo è un’ideale, e non un’utopia. L’ideale, quando è davvero tale, non è per Ortega «né fantasia né sogno: è l’anticipazione di una realtà futura» e quindi, in quanto seguace di ideale, ogni liberale dovrà adoprarsi per la «trasformazione della realtà presente».76 Trasformandosi in un precipitato di luoghi comuni, la massa crede invece di potersi lasciare alle spalle gli «ideali», cioè quanto sta alla base della civiltà politica che pur ne ha riconosciuto il ruolo decisivo, per abbracciare delle «utopie», e ciò confidando nelle proprie iniziative spontanee e apparentemente destinate a conseguire una condizione radicalmente liberatoria rispetto ad ogni forma di oppressione. Il diritto di usare la ragione senza dover rendere conto ad una verità comunicabile e argomentabile, intersoggettivamente controllabile e appurabile — da cui discende il diritto di non usarla affatto — la induce a rinunciare al confronto dialogico, che gli pare sempre più un orpello e un ostacolo alla propria libera e liberatoria iniziativa.

8. Massima indistinzione e minima tensione

L’uomo-massa, questo nuovo protagonista della storia, ha contribuito massicciamente a realizzare le più grandi tragedie del secolo appena trascorso. Ortega le ha sapute preannunciare con un notevole anticipo, almeno rispetto ai loro esiti più devastanti. Il fatto che l’uomo-massa rivesta però ancora oggi, nell’odierna società mass-mediatica, un ruolo di assoluto protagonista, che nell’era della globalizzazione risulta ancora più diffuso e invasivo, può indurre a temere che stiano per realizzarsi drammi di portata analoga a quelli che pensavamo di esserci lasciati definitivamente alle spalle.

Ma se una simile circostanza dovesse mai verificarsi, ciò potrebbe accadere solo in una maniera più sorda e strisciante rispetto al secolo appena trascorso, perché ciò che contraddistingue l’attuale modo di ribellarsi delle masse può fare a meno di quei leader carismatici di cui ha avuto bisogno in passato. La ribellione delle masse si è fatta oggi più rumorosa e più silenziosa a un tempo: più rumorosa perché la massa produce un diffuso chiacchiericcio, omologato e ripetitivo, che avvolge l’esistenza quotidiana di ciascun individuo; silenziosa perché non ha bisogno di affermarsi in una voce, può fare a meno di figure che se ne facciano interpreti. La massa agisce ormai utilizzando astutamente gli individui come pretesti ed occasioni, come simboli ed icone, ma senza che nessuno di questi sia davvero determinante e indispensabile per guidare la sua ribellione, che può ormai assumere alternativamente le sembianze di una pura acquiescenza all’esistente.

Nonostante che il suo scenario di riferimento fosse assai diverso da quello attuale, Ortega presagì che la massa avrebbe sempre di più assecondato il principio «del minimo sforzo» e che avrebbe pensato con sempre «minor rigore»; il suo repertorio di curiosità, di idee, di punti di vista, sarebbe progressivamente diminuito, «fino a cadere sotto il livello imposto dalle necessità dell’epoca. Avremo — scrive Ortega — il caso di una razza intontita, intellettualmente degenerata».77 L’uomo-massa tenderà così sempre di più ad essere soddisfatto di sé. Egli «cercherà di affermare e dare per buono quanto trova in se stesso: opinioni, ambizioni, preferenze, gusti»,78 ad essere preda della «fauna ripugnante» dei demagoghi^[85] e a farsi a sua volta demagogo: la demagogia si annida infatti nella sua mente e da essa, da questa forma di «degenerazione intellettuale», deriva «la sua stessa irresponsabilità di fronte alle idee che maneggia».79

La tendenza all’omogeneizzazione che caratterizza la civiltà occidentale, e ormai mondiale, evoca la tendenza della vita in generale — già sottolineata da Freud e successivamente da Arnheim80 — a raggiungere il livello massimo possibile di caos e di quiete, il massimo livello d’indistinzione e il minimo livello di tensione possibili, quella condizione di massima omogeneizzazione già evidenziato in fisica dal secondo principio della termodinamica. Secondo tale principio, la natura tende irreversibilmente a conseguire il massimo stato di quiete e di disordine, disordine che coincide con il livello minore di distinzione tra gli elementi che compongono un insieme dinamico. Con l’avvento dell’uomo-massa sulla scena storica tutte le differenze tra gli individui che renderebbero possibile una società basata su rapporti inter-individuali lascia il posto a un protagonista assoluto e indistinto, a un elemento unico e compatto che tutto riduce a sé ordinando le relazioni tra gli uomini in modo tale da ridurre le specifiche caratteristiche individuali a varianti trascurabili e marginali. L’indistinzione dell’uomo-massa, la sua tendenza fondamentale ad assecondare il principio del minimo sforzo mentre si appiattisce su dei paradigmi culturali che non è in grado di porre in discussione, potrebbe costituire il segnale che la società umana sta diventando — nonostante un’offerta di proposte che in ogni campo appare abbondante e varia — sempre più indifferenziata e omogeneizzata, e che la «gente» è destinata a comportarsi sempre di più come un individuo unico, proteso ad assecondare flussi di idee e di comportamenti preordinati e uniformi. Un simile preordinamento coinciderebbe con il minor livello di distinzione possibile tra i suoi componenti, che si troverebbero così sempre di più a procedere nella vita assecondando criteri e principi standardizzati e impersonali. L’uomo-massa avrebbe quindi buon gioco nell’accelerare, nell’ambito della società umana, quella tendenza all’omogeneizzazione irreversibile che può condurre in definitiva solo alla massima quiete e alla morte dell’insieme. L’organismo sociale, sempre più complesso, produrrebbe cioè paradossalmente criteri di differenziazione sempre meno articolati e complessi, più monocordi e rigidi, favorendo una distribuzione delle differenze individuali sempre più grossolana, deprimendo la funzione della ragione storica, dialogica e comunicativa a vantaggio dello sviluppo di una ragione unicamente strumentale e riducendo così anche le possibilità di contributi personali originali alla vita della comunità umana.

Rispetto all’epoca di Ortega, oggi le masse non sembrano nemmeno avere più bisogno di ribellarsi ad alcunché per percepire la loro esistenza: esse si specchiano sempre più nella quiete di un virtuale successo omologato, nella acquiescente ripetitività dei loro atti e dei loro desideri. Se l’uomo-massa sembra in grado di tracciare il senso di un destino, di una fase radicalmente nuova rispetto a tutte le precedenti, questa pare sempre più imperniata sulla sua anomia, su un relativismo globalizzato e sul culto di tutto ciò che solo nella massa può trovare la propria rivelazione e identità.

Il ritorno dello spirito umano a se stesso dopo l’attraversamento di un simile medium epocale non potrà naturalmente più consistere nel ritorno ad una fase precedente della storia, ad un epoca già percorsa dello sviluppo spirituale dell’umanità. Come Hegel aveva anticipato, se la vita di un popolo, e quindi anche di un popolo globalizzato, deve far maturare il proprio frutto, se deve portare a compimento il suo principio e trovare soddisfacimento «nel produrre il proprio principio», tale frutto non potrà però «tornare nel suo grembo, dal quale è nato. Il popolo non giunge a goderlo, bensì questo diviene per esso un’amara bevanda. Il popolo, la sua attività, è questa sete infinita del frutto, il quale, nell’assaporarlo, diviene però la bevanda che avvelena l’esistenza del popolo stesso, la sua distruzione, e il frutto diviene nuovamente seme, ma seme e inizio di un altro popolo, nella misura in cui tale seme dà vita a quest’altro popolo e lo conduce alla maturità».81

Se l’avvento delle masse sullo scenario della storia costituisce, nel nostro caso, questo «frutto» cui Hegel fa riferimento, esse non potranno goderne se non bevendo il calice dei suoi effetti distruttivi su loro stesse, come è avvenuto durante la rivoluzione francese e quella russa,82 ma proprio una simile amara bevanda è destinata a costituire l’incipit di una fase successiva della storia dello spirito e della civiltà, in cui forse le masse saranno nuovamente in grado di apprezzare la relazione che effettivamente può favorirne l’emancipazione: quella relazione con le minoranze ispirate da valori morali e autentiche vocazioni conoscitive e comunicative, con le quali ogni uomo-massa potrebbe e dovrebbe apprendere l’arte d’interagire dialetticamente e criticamente, in modo da contribuire alla formazione di un ethos realmente condiviso.

Nonostante quest’auspicabile scenario virtuale, le masse sembrano però inclini a perpetuare il loro atteggiamento pedissequo e passivo, che in nome di una propria libertà già effettiva o di una liberazione imminente rinuncia a sviluppare quella ragione, storica, dialogica e comunicativa dalla quale soltanto può procedere ogni autentico perfezionamento della razza umana. Solo rispettando il ruolo guida delle minoranze culturalmente e moralmente qualificate, solo riconoscendo le prerogative di coloro che hanno saputo cimentarsi con una Bildung impegnativa ed esigente, le masse possono sottrarsi all’azione distruttiva che — nel lungo periodo, ma pur sempre all’interno di una fase già avviata — sarebbero altrimenti destinate ad esercitare su se stesse.83

Quest’aspetto dell’analisi orteghiana lascia sicuramente aperti non pochi interrogativi: se infatti le masse non sono capaci di riconoscere le personalità autorevoli che sarebbero in grado di guidarle, chi potrebbe o dovrebbe farlo? Certo, se la vita sociale e culturale di un popolo o di una civiltà globalizzata dovesse essere caratterizzata da intellettuali che si prescelgono e indicano tra loro a vicenda come punti di riferimento autorevoli — sul modello della Repubblica ideale immaginata da Platone — questo non contribuirebbe certamente a migliorarne il rapporto con le masse né a mitigare gli effetti dell’impatto di queste sulla storia e sulla società. D’altra parte, in questo caso, qualsiasi procedura democratica di elezione in qualsiasi ambito della vita sociale e politica verrebbe destituita di qualsiasi fondamento, perché tali personalità non potrebbero essere individuate dalle masse né prima né dopo che tali elite si siano proposte quali loro interlocutrici privilegiate. Da un lato, quindi, non pare sussistano metodologie d’ingegneria sociale intenzionate a conseguire un maggior livello di consapevolezza critica e di libertà effettiva che possano fare a meno di proporre e voler favorire un più assiduo e articolato confronto tra le masse e le minoranze autorevoli di ogni società; d’altro lato, le masse non sono in condizione d’individuare tali minoranze, né queste sono in condizione di autocandidarsi in maniera efficace senza il consenso delle masse. Sembrerebbe dunque che, alla luce di queste considerazioni, tutta l’analisi orteghiana su questa materia conduca verso un circolo vizioso.

Ciò nonostante, si può cogliere una via d’uscita dall’alternativa stringente in cui queste riserve ci hanno condotto tenendo conto del fatto che Ortega non intende prospettare alcuna soluzione radicale e perentoria di una simile antinomia: egli suggerisce piuttosto come sia possibile superarla solo mitigandone progressivamente gli effetti negativi e paralizzanti, ciò che è possibile contrapponendole l’esercizio di quella ragione storica, comunicativa e vitale che la civiltà contemporanea tende a relegare ad un ruolo palliativo o decorativo, in pratica ad una attività salottiera destinata ad alimentare un immaginario convegno multimediale di specialisti che si esprimono su temi che vanno ben al di là delle loro competenze settoriali. Attraverso un adeguato lavoro dialogico — che potrebbe essere intrapreso da quegli intellettuali che avvertano tutta l’urgenza e serietà della posta in gioco — sarebbe invece possibile persuadere lo stesso uomo-massa a considerare come in ogni caso non possa sottrarsi all’adozione di principi morali, di criteri che siano adatti a orientarlo nella sua esistenza, inducendolo così, nel contempo, a prendere atto di quanto risulti poco efficace il tentativo di prelevare supinamente tali criteri dall’agglomerato umano da cui si sente indistintamente rappresentato. Si tratterebbe, dunque, di far nascere la consapevolezza che gli effetti rassicuranti della sua identificazione con un indistinto agglomerato immaginario non solo non gli consentono di giungere ad una esistenza autentica, ma che sono anche destinati a ritorcersi contro di lui e contro lo stesso modello di società in cui si riconosce in maniera così poco critica.

Il problema posto dalla nozione orteghiana di uomo-massa dipende dal fatto che questi ignora di essere tale; se lo sapesse, conterrebbe già gli anticorpi necessari per non appartenere in definitiva a tale stato. Di riflesso, solo chi sa di essere comunque in qualche modo condizionato dalla massa può mitigare in lui stesso tale condizione, che a livello almeno germinale è presente in chiunque. Così come l’uomo massa è presente in ogni classe sociale, all’interno di ogni professione e di ogni istituzione, dell’Accademia e dei media, analogamente, anche chi non è sprovvisto di tali anticorpi è presente trasversalmente in ogni settore della società. Nella misura in cui è in grado di percepire e riconoscere l’influenza di qualsiasi tipo di agglomerato umano sulla sua vita, del consenso previo che può ottenere da rapporti umani anche parzialmente massificati, nella misura in cui si rende conto di quanto la ricerca di consenso possa anche inavvertitamente influenzare il suo modo di pensare e i suoi comportamenti, egli è in condizione di esercitare nel contempo la paziente e quasi certosina impresa della continua, quotidiana de-massificazione del proprio stato. Ma il fatto che l’uomo-massa — ovvero colui che può essere a pieno titolo considerato tale — ritenga invece di essere immune da tale influenza, il fatto che egli si ritenga libero, spontaneo, autonomo, creativo, originale persino, fa in genere di lui un quasi impercettibile ingrediente di una massa invertebrata. Dunque, il problema principale che la sua stessa esistenza nella storia pone può essere formulato come segue: visto che l’uomo-massa non è in grado di riconoscersi come tale, per quale motivo dovrebbe poter entrare in conflitto con la propria condizione? Cosa potrebbe renderlo avvertito del proprio stato se ritiene superfluo qualsiasi confronto con quelle minoranze autorevoli cui fa riferimento Ortega, tanto da giungere, in alcuni casi, a negarne persino l’esistenza, considerandole comunque, nella migliore delle ipotesi, come un indebito orpello velatamente vessatorio? E come potrebbero tali minoranze entrare in contatto con lui?

Questi interrogativi potrebbero essere destinati a rimanere senza risposta, anche tenendo conto della funzione psicologica che l’identificazione con la massa può rivestire per ogni membro di una comunità numerosa: la dipendenza dell’uomo-massa dagli agglomerati umani che costituiscono i suoi punti di riferimento può infatti essere posta in relazione con la sua dipendenza simbolica dall’Altro, nell’accezione in cui Jacques Lacan usa questo termine.84 L’uomo-massa percepisce infatti l’ascendente dell’Altro fin nelle viscere della propria vita, lo coglie nell’aria che respira e vi si subordina volentieri. L’Altro non coincide con un qualcuno definito, anche se qualcuno può occuparne il posto: esso manifesta oggi la sua legge in tutto ciò che va per la maggiore, nella moda e negli stili di vita irriflessivamente assunti come propri, nei modi di pensare all’apparenza «nuovi» e «originali», specialmente se questi si ammantano di un’aria in qualche modo trasgressiva.

La progressiva desublimazione che la massa incessantemente asseconda e incoraggia può essere certo funzionale — come Marcuse ha ben sottolineato — alla efficienza del sistema economico e culturale. Operando nella sfera sessuale, ma non solo, essa funziona come «un sottoprodotto dei controlli sociali attivati dalla realtà tecnologica, che diffonde la libertà mentre intensifica il dominio»,85 tanto che può essere letta come il complemento essenziale dello stesso principio di prestazione: essa permette infatti a tale principio di realizzarsi sempre meglio compensando il livello di tensione eccessiva che la prestazione produce, e ciò con gli strappi, gli interludi dello «sballo» e del piacere reiterato attraverso espedienti ormai globalizzati. Una simile «desublimazione istituzionalizzata» induce nella massa una «coscienza felice che facilità l’accettazione dei misfatti di questa società»,86 coprendo la paura e la frustrazione che la pervadono, ma la sua azione non riuscirebbe mai a essere massicciamente diffusa se non fosse riconosciuta a sua volta come un valore aggiunto nel luogo stesso dell’Altro, né potrebbe rivelarsi utile per veicolare e controllare i modelli culturali attraverso i quali si accede ai piaceri della vita, come attesta il fatto che per molti anni, quando le masse erano già all’opera sulla scena della storia, essa era assente o preventivamente bandita.

I rapporti tra desublimazione e prestazione non sono mai diretti e immediati: solo nella misura in cui l’Altro opera in entrambe, esse possono coordinarsi e realizzarsi nei modelli culturali e negli stili di vita in cui di volta in volta l’Altro s’incarna, cosicché l’efficientismo della «prestazione» possa essere effettivamente integrato e coadiuvato dall’allentamento di tensione reso possibile dalla «desublimazione». Lo stesso concetto marcusiano di desublimazione repressiva asseconda quindi, in questo senso, il principio del «minimo sforzo» cui Ortega fa riferimento: tale desublimazione allenta infatti la tensione eccessiva originata dal principio di prestazione e la riequilibra in un modo illusoriamente liberatorio. Riducendo la tensione libidica e sociale incoraggia le soluzioni più agili e comode, le scorciatoie più immediate e i percorsi meno complessi, quelli che richiedono il minor sforzo critico e rielaborativo.

L’uomo-massa percepisce il potere della mediazione simbolica dell’Altro e vi si immola: che siano ad esercitarla concretamente delle mode, delle utopie, o una particolare tipologia di «emozioni» l’importante è che queste provochino un crescente effetto agglomerante, tale da rendere difficile il «trovar posto» nei luoghi cui occasionalmente si manifestano e da rendere visibile il consenso dell’Altro. Importando in questo contesto un’espressione di Slavoj Žižek, si potrebbe dire che la massa costituisce una sorta di metasoggetto, che come Dio o la ragione «oltrepassa l’intenzione del soggetto. Esso può funzionare come rassicurazione capace di pacificare e di fortificare».87 Le considerazioni svolte a questo riguardo da Žižek suonano pertinenti non soltanto alla figura del Master, o del despota,88 ma anche alla massa cui fa riferimento Ortega. Chi si asserve al consenso dell’Altro può conservare in esso il suo posto, mentre chi non si adegua al suo richiamo «dispotico» sente messa a repentaglio la propria stessa vita. Come il «grande Altro» di cui parla Lacan, così anche la massa di cui parla Ortega è dunque una sorta di macchina parassitaria: essa è l’invisibile impostura che può diventare di colpo ben visibile ogni volta che riesce a serrare le fila e a darsi un obiettivo.89

Dilthey aveva spiegato come le intuizioni religiose del mondo producano interpretazioni della realtà che scaturiscono da un rapporto stretto con l’invisibile:90 ebbene, come accade spesso per gli approcci di tipo religioso alla vita e alla società, l’uomo-massa si rapporta al suo agglomerato di riferimento come al luogo invisibile in cui le coordinate dell’esistenza sono già state decise; luogo invisibile, ma non muto, perché è lo stesso occupato dall’Altro, e quindi emana di per sé coordinate e direttive.

Il compito di recepire tali direttive in maniera consapevole e critica, il non subirle in maniera passiva in virtù dell’autorità che procede dal «gran numero» di cui ogni massa si compone, la scommessa di saper interagire dialogicamente con tale presunta e invisibile autorità, per Ortega non possono prescindere dal rapporto con quelle figure che sono ancora oggi in grado d’incarnare degli esempi e dei riferimenti fondamentali, con quelle «aristocrazie» spirituali e culturali che è sempre più difficile per la massa riconoscere e ascoltare. Ma questa stessa esigenza, avvertita da Ortega come cruciale, pone di fronte a quel circolo vizioso cui si è fatto cenno, le cui implicazioni non sono facilmente risolvibili o aggirabili.

Se questa nuova epoca della storia umana non potrà mai costituire una mera ripetizione di civiltà trascorse, in cui le minoranze autorevoli svolgevano una funzione decisiva nella società — come accadeva nella polis greca, in cui tale relazione vigeva però tra elite di diverso grado culturale e non coinvolgeva realmente l’intera popolazione — ciò non impedisce che possa un giorno trovarsi costretta a rivalutare il ruolo che tali elite possono svolgere: ma se questo scenario potrà mai rivelarsi attuale, ciò sarà possibile solo perché l’uomo-massa sarà divenuto consapevole della sua debolezza oltre che della sua forza, delle sua responsabilità individuale oltre che dei propri diritti, e cioè solo a patto che, in questa nuova fase, che per ora può essere considerata solo un auspicio, invece d’identificarsi con questi ultimi considerandoli un dato acquisito da cui spiccare un risolutivo balzo in avanti, sappia considerarli piuttosto come il presupposto iniziale di un rapporto con la cultura e la storia che si annuncia — data la sempre maggiore complessità della società in cui viviamo — inevitabilmente faticoso e problematico, esente da possibili scorciatoie efficaci. Ciò che potrebbe indurre l’uomo-massa — che in misure diverse si annida in ognuno di noi — a coltivare un simile rapporto con la ragione storica e comunicativa, dialogica e narrativa, è la consapevolezza che solo mediante lo sviluppo di tale rapporto ogni persona e ogni cittadino può giungere progressivamente a una reale emancipazione dalla propria condizione massificata: solo attraverso una sempre più articolata presa di coscienza di tutti quei fattori che potrebbero ostacolare l’esercizio e lo sviluppo della ragione storica, solo attraverso questo paziente esercizio di consapevolezza, l’umanità può infatti prendere coscienza delle proprie catene, evitando così sia di adagiarsi nel raggio della loro azione sia di ferirsi seriamente per intraprendere inconsulti tentativi di fuga.

La fede nel progresso complessivo dell’umanità, in un progresso meccanicisticamente predeterminato, favorisce proprio il tentativo di attuare entrambe queste due opposte strategie, di adattamento o di fuga, quasi si sostenessero a vicenda. L’uomo-massa asseconda sempre un’idea di progresso che deriva dai successi della scienza e della tecnica; egli sembra affetto da un progressismo assoluto e da uno storicismo superficiale. Ai suoi occhi tutto ciò che viene dopo è migliore di ciò che viene prima, per lo stesso motivo, induttivamente generalizzato, per cui l’ultimo modello di telefonino o di automobile sono migliori dei rispettivi precedenti. Egli tende così a considerare migliori anche le ultime idee, le ultime opere d’arte e le ultime canzoni, tende cioè a considerarle più interessanti e «attuali» rispetto a quelle del passato, più proiettate verso il futuro perché ad esso più vicine. Ciò che è passato è semplicemente passato, ed è meglio lasciarselo alle spalle: l’uomo-massa sembra infatti non prendere molto sul serio l’idea che solo attingendo in maniera «critica»91 dal passato sia possibile lavorare in maniera consapevole e responsabile alla costruzione del futuro.

Così come tutte le ultime mode soppiantano le vecchie con strattoni risoluti e repentini, il presente in cui egli prospera fa terra bruciata intorno a sé, dato che si ritiene superiore per il semplice fatto di essere l’ultimo rappresentante della sua specie. Ma ogni volta che il presente trionfa in questo modo nella storia, la storia propone già il suo passo successivo, la sua irruzione nel presente, un’irruzione che costringerà chi lo abita a familiarizzarsi di nuovo con la ragione storica e ad apprendere la difficile arte di osservare sé dall’esterno, dal passato e dal futuro, riconciliandosi così con la stessa dialettica del processo che lo ha condotto ad essere ciò che è, a quella stessa dialettica che ogni individuo umano intrattiene necessariamente col tempo della sua esistenza.

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  1. J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, in Scritti politici, trad. it. Torino 1979, pp. 811-812 ↩︎

  2. Ivi, p. 817. ↩︎

  3. Ivi, p. 811. ↩︎

  4. Ibidem. ↩︎

  5. J. Ortega y Gasset, Una interpretazione della storia universale, trad. it. Milano, 1978, ed. cit. 1994, pp. 93-94 ↩︎

  6. Ivi, p. 97. ↩︎

  7. Ibidem. ↩︎

  8. J. Ortega y Gasset, Storia come sistema, in Aurora della ragione storica, trad. it. Milano, 1983, ed. cit. 1994, p. 238. ↩︎

  9. J. Ortega y Gasset, Una interpretazione della storia universale, cit., p. 230. ↩︎

  10. Ivi, p. 234 ↩︎

  11. J. Ortega y Gasset, Lo spettatore, trad. it. Parma, 1984, ed. cit. 1993 p. 91. ↩︎

  12. Ivi, p. 201. ↩︎

  13. Ivi, p. 212. ↩︎

  14. Ivi, pp. 212-213. ↩︎

  15. Come scrive Antonio Regalado García, «Ortega concepì la ragione storica come una forma del pensiero in radicale opposizione alla tradizione, alla quale avrebbe dovuto partecipare la comunità dei ricercatori, cioè, come una ragione dialogante e comunicativa» (A. Regalado García, El laberinto de la razon: Ortega y Heidegger, Madrid 1990, p. 303). ↩︎

  16. Lo stesso Antonio Regalado García, osserva come si possa evincere la paternità hegeliana del concetto di ragione storica dal fatto che essa è anche «una visione della totalità, una attualizzazione nella storia della verità della storia che Ortega qualificò come «demistificazione del reale»» (ibidem). ↩︎

  17. J. Ortega y Gasset, Che cos’è Filosofia, trad. it. Torino, 1973, p. 208. ↩︎

  18. Ivi, p. 209. ↩︎

  19. J. Ortega y Gasset, Appunti sul pensiero, la sua azione teurgica e demiurgica, in Idee per una storia della filosofia, trad. it. Firenze 1983, pp. 64-65. ↩︎

  20. J. Ortega y Gasset, La Storia della filosofia di Émile Bréhier, in Ortega y Gasset, Idee per una storia della filosofia, cit., p. 107. ↩︎

  21. J. Ortega y Gasset, Storia come sistema, in Aurora della ragione storica, cit., p. 232. ↩︎

  22. J. Ortega y Gasset, Meditazione sulla tecnica, in Aurora della ragione storica, cit., p. 288. ↩︎

  23. Ivi, pp. 295-296. ↩︎

  24. J. Ortega y Gasset, Storia come sistema, in Aurora della ragione storica, cit., p. 228. ↩︎

  25. J. Ortega y Gasset, Il tema del nostro tempo, trad. it. Milano 1985, ed. cit. Varese, 1994, p. 119. ↩︎

  26. J. Ortega y Gasset, Lezioni di Metafisica, in Metafisica e Ragione storica, trad. it. Milano, 1989, ed. cit. 1994, p. 94. ↩︎

  27. J. Ortega y Gasset, Goethe dal di dentro, in La conquista della felicità, trad. it. Milano 1986, p. 216. ↩︎

  28. J. Ortega y Gasset, L’uomo e la gente, trad. it. Roma, 1996, p. 40. ↩︎

  29. J. Ortega y Gasset, Che cos’è la conoscenza, in Origine e epilogo della filosofia, trad. it. Milano, 2002, p. 157. ↩︎

  30. Ivi, p. 117. ↩︎

  31. W. Dilthey, Der Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissensschaften, in Gesammelte Schriften, vol. VII, p. 233 (trad. nostra). ↩︎

  32. J. Marías, La filosofia de la vida, in Biografia de la filosofia, 1953, in Obras, Madrid, 1969, t. II, p. 623; cfr. A Savignano, La ragione storica e vitale, cit., pp. 146-147. ↩︎

  33. Ibidem; cfr. A Savignano, La ragione storica e vitale, cit., p.147 ↩︎

  34. Cfr. A. Savignano, La ragione storica e vitale, cit., p. 149. ↩︎

  35. J. Ortega y Gasset, Una interpretazione della storia universale, cit., p. 21. ↩︎

  36. Cfr. J. Ortega y Gasset, Vives o l’intellettuale, trad. it. Padova 1997, pp. 29-30. Fin da giovane, Ortega aveva avvertito come ogni generazione costituisse il punto d’intersezione di una generazione anteriore con una successiva.La realtà storica di una generazione — scrive - consiste nell’essere il punto d’intersezione di una generazione anteriore che l’ha preparata e una successiva che emana e deriva da quella: ogni generazione è discepola di una più vecchia e maestra di un’altra più giovane» (Testo manoscritto inedito, cit. in. Julián Marías, Ortega — Circumstancia y vocación, Madrid 1983, ed. cit. 1984, pp. 157-158). ↩︎

  37. Ivi, pp. 31-32. ↩︎

  38. A. Brandalise, En torno a Ortega, in Ortega y Gasset, Vives o l’intellettuale, trad. it. Padova, 1997, pp. 118-119. Come scrive Armando Savignano, secondo Ortega «la vita può configurarsi o come accettazione cosciente del passato, o come rifiuto dei valori tradizionali. Vi sono generazioni che sentirono una sufficiente omogeneità tra ciò che ricevettero e il proprio. Così si vive in epoche cumulative. Altre volte hanno sentito una profonda eterogeneità con entrambi gli elementi, e sopraggiungono epoche eliminatorie e polemiche, generazioni di combattimento. Nelle prime, i nuovi giovani, solidarizzando coi vecchi, si assoggettano ad essi; nella politica, nella scienza, nelle arti continuano a governare gli anziani. Sono tempi di vecchi. Nelle seconde, poiché non si tratta di conservare e accumulare, ma di eliminare e sostituire, i vecchi sono sostituiti dai giovani. Sono tempi di giovani, età di iniziazione e belligeranza costruttiva» (A. Savignano, J. Ortega y Gasset, La ragione vitale e storica, trad. it. Firenze, 1984 pp. 166-167). ↩︎

  39. Cfr. A. Brandalise, En torno a Ortega, cit., p. 119. ↩︎

  40. J. Ortega y Gasset, Vives o l’intellettuale, cit. pp. 32-33. ↩︎

  41. Un’analisi sotto alcuni aspetti concordante con quella di Ortega è stata intrapresa, pochi anni dopo la pubblicazione de La ribellione delle masse, da Hermann Keyserling, secondo il quale «per l’immensa maggioranza il senso più facile a trovare è, come abbiamo detto, la fusione dell’individuo nella collettività. Ma, secondo ogni evidenza, in tale caso si tratta di una narcosi, non già d’un senso vero e proprio. Tuttavia, i rari individui capaci d’un reale approfondimento possono trovare, appunto nelle epoche catastrofiche, l’ambiente più propizio al loro sviluppo interiore. Infatti, tali epoche costringono colui che possiede una intensa vita interiore a ripiegarsi su se stesso, a cercare dentro di sé quel contento del suo stato presente che gli sarà certo rifiutato, nel mondo esterno, per il resto della vita. Senza la guerra del Peloponneso, Platone non si sarebbe mai spiegato in tutta la sua grandezza. Senza il collettivismo crudele e gaudente del mezzo in cui Gesù si trovava — collettivismo che perseguitava chiunque da esso si scostava — il seme piantato dal profeta israelita che si attirò il disprezzo anche dei suoi, non avrebbe mai dato nascita all’albero vigoroso della chiesa cristiana. Così ciò che era la miseria della maggioranza, è stato in ogni tempo la ragion d’essere per l’arricchimento interiore degli eletti» (H. Keyserling, La rivoluzione mondiale e la responsabilità dello spirito, trad. it. Milano, 1935, pp. 152-153). A questo riguardo, Keyserling ritiene, d’accordo con Hans Hesse, che sia «nobile tutto ciò che non è la massa», perché «fra la nobiltà e la massa esiste un abisso eterno». I nobili sono individualisti, animati dal sentimento di essere persone insostituibili, ma per la stessa ragione sono anche persone pronte a sacrificarsi al tutto. Essi possono abbracciare contemporaneamente i valori dell’individualismo e del socialismo, cogliendone la relazione essenziale al di là delle contrapposizioni di rito, e ogni nazione può svilupparsi armonicamente sotto il profilo culturale, sociale ed economico solo quando riesca a garantire «un campo d’azione sufficiente allo spiegarsi libero e disinteressato dei caratteri nobili» (cfr., ivi, pp. 182-183). ↩︎

  42. J. Ortega y Gasset, Vives o l’intellettuale, cit. p. 79. ↩︎

  43. J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, cit. pp. 869-870. ↩︎

  44. Ibidem. ↩︎

  45. Ibidem. ↩︎

  46. J. Ortega y Gasset, Spagna invertebrata, in Scritti politici, cit., p. 565. ↩︎

  47. Ivi, p. 565. Per quanto concerne l’aristocraticismo di Ortega e l’influenza che su di esso ha avuto il pensiero di Nietzsche, vedi G. Sobejano, Nietzsche en España, Madrid 1967, pp. 554 e 558, e più in generale la nota che a questo tema dedica A. Savignano in J. Ortega y Gasset, La ragione vitale e storica, cit. p.189 (nota 44). ↩︎

  48. J. Ortega y Gasset, Sull’impero romano, in Scritti politici, cit. p. 993; cfr. A. Savignano, J. Ortega y Gasset, La ragione vitale e storica, cit. p.189. ↩︎

  49. Cfr. J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, cit. p. 870: «Civiltà progredita è una stessa cosa che problemi ardui. Quanto maggiore è il progresso, maggiore è il pericolo». ↩︎

  50. Ivi, p. 788. «In Inghilterra — precisa Ortega in nota - le liste degli abitanti residenti indicavano unitamente a ciascun nome l’ufficio e il rango della persona. Per questo accanto al nome dei semplici borghesi appariva l’abbreviazione s. nob. Cioè, senza nobiltà. Questa è l’origine della parola snob» (ibidem, nota a). ↩︎

  51. J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, cit., p. 813; cfr A. Savignano, J. Ortega y Gasset, La ragione vitale e storica, cit. p. 192. ↩︎

  52. Cfr. N. R. Orringer, Ortega y sus fuentes germànicas, Madrid, 1979, p. 276. ↩︎

  53. G. Le Bon, Psicologia delle folle, Milano, 1946, p. 28; cfr. Istituto per la Ricerca sociale di Francoforte, Lezioni di Sociologia, trad. it. Torino 1966, p. 88. ↩︎

  54. G. Le Bon, Psicologia delle folle, Milano, 1946, p. 52; cfr. Istituto per la Ricerca sociale di Francoforte, Lezioni di Sociologia, cit., p. 89. ↩︎

  55. Istituto per la Ricerca sociale di Francoforte, Lezioni di Sociologia, cit., p.90. Un’altra interessante differenza che emerge tra il saggio di Le Bon e quello di Ortega è costituito dall’importanza attribuita da quest’ultimo all’inconscio, inteso quale scaturigine dei comportamenti delle folle, dei loro atteggiamenti fideistici, emozionali e insurrezionali. In questo, l’analisi di Le bon anticipa alcuni tratti delle riflessioni freudiane in merito allo stesso tema. Nel 1921 Freud pubblicava lo scritto Psicologia delle masse e analisi dell’io, saggio nel quale, prendendo le mosse da Le Bon, Freud individuava nelle masse le occasioni sociali che potevano permettere agli individui di liberare pulsioni inconsce altrimenti destinate a rimanere represse nella loro sfera privata. Adorno e Horkheimer vedono nel testo di Freud un passo ulteriore rispetto a quanto sostenuto da Le Bon, nonché un superamento della metafisica reazionaria che ravvisano in esso. Freud avrebbe indagato come «il singolo, pur comportandosi per lo più in modo radicalmente diverso da quando si trova coartato nella condizione di massa, venga a cadere psicologicamente in questa condizione. Questo scritto di Freud, di grandissima fecondità, è rimasto meno conosciuto di quanto merita. Egli cerca la risposta nelle condizioni che permettono al singolo, nella massa, di «affrancarsi dalle rimozioni dei suoi impulsi istintuali inconsci», e che gli appaiono comparabili a quelle della nevrosi: a differenza di tutti gli psicologi precedenti, quindi, Freud non si arresta alla spiegazione del fenomeno che può offrire la suggestione, ma cerca di spiegare quest’ultima risalendo «alla sua natura libidica»» (Istituto per la Ricerca sociale di Francoforte, Lezioni di Sociologia, cit., p. 92). In Psicologia delle masse e analisi dell’io - un’opera del 1920, che precede quindi di un decennio La ribellione delle masse - Freud si pone in effetti il problema di come nella psicologia delle masse vengano elusi taluni processi di tipo narcisistico attraverso il rapporto con altri. La psicologia delle masse si occupa proprio dei meccanismi che consentono un simile mutamento degli investimenti energetici, mutamento che non può secondo Freud essere semplicemente ricondotto all’esistenza di un irriducibile «istinto gregario», a una «pulsione sociale» insita nella natura umana. Piuttosto, anche gli effetti di un simile ipotetico istinto dovrebbero essere ricondotti, almeno per quanto concerne le sue manifestazioni iniziali, all’ambito familiare (cfr. S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’io, trad. it. Torino, 1975, pp. 11-12). Più in particolare, Freud ritiene che tali comportamenti socialmente orientati siano riconducibili all’azione della libido. Questo concetto, tratto dalla teoria dell’affettività, sta per Freud alla base di ciò che, più in generale, si chiama amore, o Eros, e delle sue varie manifestazioni. La massa verrebbe dunque tenuta insieme dalla potenza dell’amore, e anche colui che si lascia suggestionare da altri lo fa perché probabilmente «vi è in lui un bisogno di stare in armonia con gli altri anziché di contrapporsi ad essi, e quindi forse si comporta così «per amor loro»» (cfr., ivi, p.32-35). Il fatto di ricondurre il comportamento gregario che caratterizza le masse ad una forma di amore, oltre a denotare una sostanziale incomprensione del fenomeno da parte di Freud, manifesta anche il suo approccio meccanicistico a quelle problematiche psicologiche per la cui trattazione è diventato famoso. Le masse che durante la rivoluzione francese assistevano trepidanti alle esecuzioni capitali sarebbero dunque state piene di amore, e così coloro che plaudivano ai grandi dittatori del secolo appena trascorso, pur sapendo che cosa questi ultimi andavano preparando o realizzando. Una accezione così generica del termine «amore» può avere come principale conseguenza solo quella di svuotare tale nozione di qualsiasi contenuto specifico e positivo, riducendolo ad una delle tante manifestazioni della libido. Freud dimostra in questa occasione di tenere in pochissima considerazione una lunghissima tradizione di riflessioni in merito, che va da Platone fino Spinoza, Leibniz, Hegel e Schopenhauer (per citarne solo alcuni), i quali tutti avevano in modi diversi utilizzato il concetto di amore in maniera ben più circostanziata e pertinente alla sua reale fenomenologia. ↩︎

  56. Questi individui cui Ortega fa riferimento sono molto simili a quegli stessi individui storico-universali cui Hegel attribuiva la capacità di forgiare quell’ethos popolare in assenza del quale qualsiasi personalità è destinata a rimanere irrealizzata, sebbene Ortega non nutra nella loro azione durante l’era dell’uomo-massa la stessa fiducia che poteva nutrirvi Hegel. Essi sembrano poter trarre tale universalità da loro stessi, anche quando sembrano voler attuare solo dei loro fini particolari. La loro frequentazione della filosofia li rende però capaci di riconoscere l’universale e di volerlo (Cfr. G. F. Hegel, Filosofia della storia universale, trad. it. Torino 2002, pp. 64-65). Essi sono per Hegel i più «ragionevoli», perché «comprendono nel migliore dei modi quale sia la questione predominante; ciò che vogliono e fanno è corretto e giusto, sebbene, dal momento che gli altri ancora non lo sanno, la loro volontà e la loro azione appaiono come la loro causa personale, la loro passione, il loro arbitrio. Gli altri devono tuttavia obbedire, perché sentono quanto è corretto e giusto, perché questo, interiormente, già appartiene loro, pur pervenendo soltanto ora alla forma dell’esserci» (ivi, p. 65). A differenza della situazione descritta da Hegel, l’efficacia dell’azione di questi uomini storico-universali sembra scarsamente efficace già nella prima metà del Novecento, quando le masse stesse pensano di poter giocare d’anticipo quanto al criterio più adeguato per poterli riconoscere. È vero che anche le masse possono riconoscere in tali uomini ciò che già appartiene a loro, ma proprio per questo, proprio per il fatto che esse presuppongono di poter riconoscere la questione fondamentale prima e meglio di qualsiasi individuo storico-universale, sono solite sceglierli come vessilli e rappresentanti occasionali di quello spirito del tempo che loro già prima e direttamente pensano d’incarnare. ↩︎

  57. J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, cit., p. 887. ↩︎

  58. A. Savignano, J. Ortega y Gasset, La ragione vitale e storica, cit. p. 298. ↩︎

  59. J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, cit., p. 948. ↩︎

  60. Ivi, pp. 948-949. ↩︎

  61. Ivi, p. 947. ↩︎

  62. J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, cit., p. 800. ↩︎

  63. Ibidem. ↩︎

  64. Il fatto che anche l’arte, in questo contesto, tenda a «disumanizzarsi», a trasformarsi, abbandonando il meriggio della chiarezza e dell’intelligibilità, in un puro stile capace di provocare una sorta di contagio psichico incosciente (cfr. Ortega y Gasset, La deshumanización del arte, Madrid, 1987, ed. cit. 1993, pp.67-68) o, come pensa Adorno, che dei «solidi borghesi», per i quali essa «non sarà mai abbastanza irrazionale», cerchino di tenerla lontana dall’esercizio della coscienza critica e immune da «qualsiasi aspirazione alla verità», può essere interpretato come un ulteriore sintomo della situazione descritta da Ortega (cfr. T. W Adorno, Minima moralia, trad. it.Torino, 1954, p. 71). ↩︎

  65. Cfr. ivi, p. 278. ↩︎

  66. Cfr. G. Alonso Dascal, La rebelión de las masas: pronóstico de una realidad desafisiante, in Revista de Estudios Orteghianos, 2, 1001, pp. 275. ↩︎

  67. Questa impossibilità di accedere alla propria solitudine da parte dell’uomo-massa è sottolineata, sebbene nel contesto di un’analisi sociologica e politica molto diversa, anche da Marcuse, secondo il quale, nell’era della desublimazione repressiva, «la solitudine, la condizione stessa che sosteneva l’individuo contro ed oltre la sua società, è divenuta tecnicamente impossibile» (H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, trad. it. Torino, 1964, p. 90); mentre per Adorno essa costituisce una sorta di ultimo rifugio critico, l’unico modo autentico e non reificato di partecipare alla vita della comunità, tanto che nella società capitalistica contemporanea, «per l’intellettuale, la solitudine più scrupolosa è la sola forma in cui può conservare un’ombra di solidarietà» (T.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 18). ↩︎

  68. Secondo Max Weber, qualora l’attività economica si spogli definitivamente del senso etico-religioso che l’aveva accompagnata sino agli albori del capitalismo e si associ a «passioni puramente agonali», la società sarà destinata a impietrarsi in una meccanicizzazione febbrile: «allora in ogni caso per gli ultimi uomini di questa evoluzione della civiltà potrà essere vera la parola: «specialisti senza intelligenza, gaudenti senza cuore: questo nulla si immagina di esser salito ad un grado di umanità, non mai prima raggiunto»» (M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, trad. it. Firenze 1945, ed. cit. 1977, p. 306). Weber coglie in maniera precisa, e con notevole anticipo, i problemi connessi allo sviluppo della democrazia nella società di massa:«l’importanza dell’attiva democratizzazione di massa - scrive - sta nel fatto che il capo politico non viene più proclamato candidato sulla basa del riconoscimento della sua buona prova nella cerchia di uno stato di notabili, per poi diventare capo in virtù del suo emergere in parlamento, bensì conquista la fiducia e la fede delle masse — e quindi la sua potenza — con mezzi demagogici. Guardando all’essenziale delle cose, ciò comporta una forma cesaristica di selezione dei capi; e in effetti ogni democrazia ha questa inclinazione. Il mezzo specificamente cesaristico è il plebiscito: esso non è una normale «votazione» o «elezione», ma la professione di una «fede» nella vocazione di capo di colui il quale pretende per sé questa acclamazione» (M. Weber, Economia e società, vol. II, trad. it. Milano, 1961, p 756). Per Weber «il pericolo della democrazia di massa per la politica dello Stato consiste infatti in primissimo luogo nelle possibilità di una forte preponderanza di elementi emotivi nella politica. La «massa» in quanto tale, prescindendo dagli strati sociali che la compongono nel singolo caso, «pensa soltanto fino a domani». Essa è infatti, come insegna qualsiasi esperienza, sempre esposta all’influenza attuale puramente emozionale e irrazionale; e del resto essa condivide di nuovo questo carattere con la monarchia moderna «autogovernate», che presenta gli stessi fenomeni» (ivi, p. 767). ↩︎

  69. J. Habermas, Etica del discorso, trad. it. Roma-Bari, 1985; ed. cit. 1993, pp. 21-22 ↩︎

  70. Ibidem. ↩︎

  71. Ivi, pp. 22-23. ↩︎

  72. Ibidem. ↩︎

  73. Non è un caso che la filosofia non abbia «bisogno né di protezione, né di attenzione, né di simpatia da parte delle masse» (J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, cit., p. 866). Essa è tutelata dalla sua «pura inutilità», che «la affranca da ogni soggezione all’uomo medio. Sa di essere per essenza problematica, e abbraccia allegramente il suo libero destino di uccello del buon Dio, senza chiedere a nessuno che l’accetti, senza raccomandarsi né difendersi. Se riesce di giovare sinceramente a qualcuno per qualcosa, ne gioisce per la semplice simpatia umana, però non vive di questo vantaggio che le è estraneo, né se lo propone, né lo spera» (ivi, pp. 866-867). ↩︎

  74. J. Habermas, Agire comunicativo e logica delle scienze sociali, trad. it Bologna, 1970, ed. cit. 1980, p. 515. ↩︎

  75. J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, trad. it. in due voll., Bologna, 1986, vol. II, p. 1077-1078. ↩︎

  76. Ivi, p. 331. La prospettiva ideale del liberalismo trova secondo Ortega un’espressione efficace nelle seguenti parole di Pestalozzi: «È necessario volgere gli occhi a quanto accade, al fine di conservare limpida in noi la sensibilità per quel che deve accadere» (ibidem). Gli ideali liberali e del socialismo liberale, che per Ortega rappresenta l’unico socialismo possibile (cfr, ivi, p. 330), proprio in quanto ideali, e non utopie, non si rivelano particolarmente accattivanti per le masse. La diffidenza generale nei confronti del liberalismo viene spiegata anche da Croce in termini simili: essendo il liberalismo «negazione dell’utopia», esso, «messo a riscontro con le varie concezioni trascendenti, le quali offrono determinatezza di fede e sicurezza di speranza in una definitiva beatitudine, è stato giudicato scettico e pessimistico: scettico, perché ripone la verità non altrove che nella assidua e infaticabile indagine del pensiero, e pessimistico, perché similmente, negando uno stato di felicità che è nient’altro che una metafora, ripone la felicità unicamente nella gioia di lavorare e combattere, come l’uomo sempre deve e può. […] Così, togliendo all’uomo l’illusione del definitivo acquisto e dello stabile possesso della verità, della virtù e della felicità, la dottrina liberale priva se stessa di due mezzi assai efficaci per chiamare attorno a sé il volgo di qualsiasi ordine sociale; e ciò fa sì che le si assegni anche un altro carattere, che è di nuovo titolo di ammirazione e nuova accusata cagione di debolezza: il carattere aristocratico onde è improntata la sua concezione e il suo metodo, che la rende (si dice) comprensibile e accetta ai pochi ma senza presa sulle moltitudini»(B. Croce, La storia come pensiero e come azione, Bari 1938, ed cit. 1965, pp.234-235). ↩︎

  77. J. Ortega y Gasset, Spagna invertebrata, in Scritti politici, cit., p. 574. ↩︎

  78. J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, cit., p. 849. ↩︎

  79. Ivi, p. 802. ↩︎

  80. La pulsione di ritornare ad uno stadio inanimato annuncia per Freud la pulsione di morte che caratterizza ogni organismo vivente, manifestando una sua specifica inerzia: «l’aver riconosciuto che la tendenza dominante della vita psichica, e forse della vita nervosa in genere, è lo sforzo che trova espressione nel principio di piacere, inteso a ridurre, a mantenere costante, a eliminare la tensione interna provocata dagli stimoli (il ‘principio del Nirvana’, per usare un’espressione di Barbara Low), è in effetti uno dei più forti argomenti che ci inducono a credere nell’esistenza delle pulsioni di morte» (S. Freud, Al di là del principio di piacere, trad. it Torino, 1975, pp. 89-90). A questo riguardo, Rudolf Arnheim osserva come, sulla scia di Fechner, in quest’opera, del 1929-20, Freud pose in relazione il principio di piacere con quello della riduzione di tensione, vale a dire con l’accrescimento o diminuzione dell’eccitazione psichica. […] Quanto Freud desidera dimostrare è che lo sforzo di mantenere la tensione a livello minimo, o di eliminarla interamente, costituisce la tendenza dominante di un’esistenza psicofisica (principio di Nirvana). Tale riduzione di tensione viene concepita da Freud come dissolvimento catabolico. Gli istinti sono pulsioni dell’organismo vivente a ritornare allo stato inorganico. Obbiettivo della vita è la morte» (R. Arnheim, Entropia e arte, saggio sul disordine e l’ordine, trad. it. Torino 1974, ed. cit. 1989, pp. 62-63). ↩︎

  81. G.F. Hegel, Filosofia della storia universale, trad. it. Torino, 2001, pp. 27-28. ↩︎

  82. Cfr. J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, cit., pp. 871-872. ↩︎

  83. Lo stretto rapporto tra libertà, cultura e nobiltà di spirito è stato di recente analizzato ed esposto in maniera efficace da Rob Riemen, in particolare relativamente al pensiero di Thomas Mann. Il grande scrittore tedesco pensava infatti che «noi non siamo liberi perché non riconosciamo nulla al di sopra di noi, ma perché onoriamo qualcosa al di sopra di noi». La cultura, in quanto via d’accesso alla verità e testimone di un mondo in perenne trasformazione, dovrebbe costituire il terreno che nutre ogni autentica Bildung dell’uomo, la sua educazione morale e spirituale, perché «distruggere la cultura significa distruggere la verità. E distruggere la verità non è altro che privare l’uomo della sua dignità» (R. Riemen, La nobiltà di spirito, trad. it Milano, 2010, pp. 73-74 e 39-40). Proprio Thomas Mann ci ricorda come anche Dostoevskij considerò il declino spirituale e culturale come il primo germe del declino di ogni nazione, perché quando in una nazione si estingue « «l’esigenza di un comune perfezionamento individuale […] si estinguono allora a poco a poco anche le ‘civiche istituzioni’ perché non c’è più nulla da conservare»» (T. Mann, Considerazioni di un impolitico, trad. it. Bari, 1967, p. 462). Mann pare concordare con Dostoevskij anche quando quest’ultimo osserva che, quando una nazione abbia voltato le spalle al suo idale etico-religioso, quello che subentra non è ««altro che un bisogno, quasi un’angoscia panica, di unirsi, al solo scopo […] di ‘salvare la pancia’; l’adunarsi dei cittadini non conosce ormai altro scopo»» (ibidem). Questa diffidenza nei confronti delle adunanze di cittadini e delle loro rivendicazioni è, fatte salve alcune sostanziali differenze tra le loro motivazioni rispettive e gli esiti delle loro analisi, comune a due grandi scrittori ed evocano decisamente tematiche care ad Ortega. Sempre nello stesso saggio — che fu composto tra il 1915 e il 1918, e quindi oltre un decennio prima de La ribellione delle masse - lo scrittore tedesco osserva, per esempio, come alla massa sembri sempre più giusta «la forma di giustizia più semplice, rozza e primitiva, quella che senza far tanti complimenti affibbia a tutti lo stesso. La quale, anzi, apparendole giustizia assoluta, mette la massa in una posizione di resistenza morale a ogni forma aristocratica del diritto con quel pathos che chiunque sia invece conscio dell’imperfezione implicita in ogni ordinamento giuridico, non riuscirà mai a far suo, e col quale la massa finisce per forza col vincere; e solo con la massa, con quel suo pathos per la giustizia così primitivo e anti-aristocratico è possibile oggi fare politica» (ivi, p. 232). ↩︎

  84. Jacques Lacan considera l’uomo «un animale in preda al linguaggio» e il suo desiderio definito dal «desiderio dell’Altro», dato che «il soggetto deve trovar la struttura costitutiva del suo desiderio nella beanza aperta dall’effetto dei significanti in coloro che per lui vengono a rappresentare l’Altro, in quanto la sua domanda è loro soggetta» (J. Lacan, La direzione della cura, in Scritti, trad. it Torino, 1974; in due voll., vol. II, p. 624). Poiché è «come desiderio dell’Altro che il desiderio dell’uomo trova forma» (J. Lacan, Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano, in Scritti, cit., vol. II, p. 816), egli teme costantemente di sparire nell’Altro. Per farsi riconoscere dall’Altro l’uomo proferisce «ciò che è stato solo in vista di ciò che sarà» (J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, in Scritti, cit., vol. I, p. 293), proiettandosi così incessantemente nel futuro anteriore di ciò che sta per divenire, perché in ciò che «sarà stato» intravede la possibilità del suo pieno e irreversibile riconoscimento. Più in particolare, nell’era contemporanea, in virtù di questo suo essenziale desiderio di riconoscimento da parte dell’Altro l’uomo tende a creare le premesse di una sua integrazione efficace nell’ordine simbolico cui è necessariamente sottomesso partecipando il più attivamente possibile all’opera della scienza e assecondando i comportamenti e gli usi che essa impone, dimenticando così la propria soggettività: «egli collaborerà efficacemente all’opera comune col suo lavoro quotidiano e ornerà i suoi svaghi di tutte le gradevolezze di una cultura profusa che, tra il romanzo giallo e le memorie storiche, tra le conferenze educative e l’ortopedia delle relazioni di gruppo, gli darà di che dimenticare la sua esistenza e la sua morte e insieme di che misconoscere in una falsa comunicazione il senso particolare della sua vita» (ivi, p. 275). ↩︎

  85. H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 91. Per Marcuse la desublimazione può rivelarsi repressiva nella misura in cui determina «una localizzazione della libido, la riduzione della sfera erotica all’esperienza ed alle soddisfazioni sessuali […]. Fintanto che la maggior libertà comporta una contrazione piuttosto che un’estensione e uno sviluppo dei bisogni istintuali, essa opera a favore anziché contro lo status quo di generale repressione, tanto che si potrebbe parlare di «desublimazione istituzionalizzata» (ivi, p. 92). ↩︎

  86. «La perdita di coscienza dovuta alle libertà di gratificazione concesse da una società non libera dà origine ad una coscienza felice che facilita l’accettazione dei misfatti di questa società» (ivi, p. 94). ↩︎

  87. «La tesi fondamentale di Lacan - scrive Žižek - è che il Master è, per definizione, un impostore: il Master è qualcuno che, trovandosi al posto della mancanza costitutiva della struttura, agisce come se tenesse le redini di quel surplus, del misterioso X che elude la comprensione della struttura. È questo che segna la differenza tra Habermas e Lacan, in rapporto al ruolo del Master: in Lacan, il Master è un impostore, tuttavia, il posto da lui occupato — il posto della mancanza nella struttura — non può essere abolito, poiché proprio la finitezza di ogni campo discorsivo impone la sua necessità strutturale» (S. Žižek, Il Grande Altro. Nazionalismo, godimento, cultura di massa; trad. it. Milano, 1999, p. 162). In sintesi vi è per Žižek «una sorta di metasoggetto, (Dio, la ragione, la storia, l’ebreo),» che «oltrepassa l’intenzione del soggetto. Esso può funzionare come rassicurazione capace di pacificare e di fortificare (fiducia religiosa nella volontà di Dio»), (ivi, p. 88). ↩︎

  88. È l’esistenza di un simile metasoggetto che consente di sacrificare se stessi per un despota, ed è in virtù di tale sacrificio che si può conservare il proprio posto nel Grande Altro, laddove il rischiare la propria vita contro il despota implicherebbe invece la perdita del suo sostegno, e quindi l’esclusione dalla comunità, «dall’ordine sociale incarnato dal nome del despota» (cfr. ivi, p. 116). ↩︎

  89. Qualora si concepisca il potere che la massa esercita sull’uomo-massa orteghiano come un potere di tipo dispotico, queste osservazioni di Žižek risultano calzanti anche per definire tale rapporto di subordinazione totale. L’ordine simbolico imposto dal grande Altro può quindi trasfigurarsi, nella massa e attraverso di essa, in «una macchina parassitaria che si introduce nell’essere umano e si aggiunge a esso come una sua protesi artificiale» (cfr. S. Žižek, Credere, trad. it. Roma, 2005, p. 102). ↩︎

  90. Cfr. P. Rossi (a cura di), Lo storicismo tedesco, Torino, 1977, p. 230. ↩︎

  91. Con l’aggettivo «critica» ci si riferisce anche, sebbene non soltanto, al concetto di «storia critica» in Nietzsche, che inquadra tale concetto nell’ambito di una tripartizione più generale degli atteggiamenti che si possono assumere nei confronti della storia nel modo seguente: «se l’uomo che vuol creare cose grandi ha in genere bisogno del passato, se ne impossessa per mezzo della storia monumentale; chi invece ama perseverare nel tradizionale e in ciò che è venerato da gran tempo, coltiva il passato come storico antiquario; e solo colui al quale una sofferenza presente opprime il petto, e che a ogni costo vuol gettare via il peso da sé, ha bisogno della storia critica, vale a dire di quella che giudica e condanna. […] Il critico senza sofferenza, l’antiquario senza pietà, il conoscitore della grandezza senza la capacità della grandezza sono tali piante diventate erbacce, estraniate al loro terreno naturale e perciò degenerate» (F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, trad. it. Milano 1974, ed. cit. 1979, pp. 23-24). In particolare, Nietzsche si rivolge a coloro che hanno un atteggiamento critico nei confronti della storia con queste parole: «solo con la massima forza del presente voi potete interpretare il passato: solo nella più forte tensione delle vostre qualità più nobili indovinerete ciò che del passato è degno di essere conosciuto e preservato ed è grande. Uguale con uguale!Altrimenti abbasserete il passato a voi» (ivi, p. 55). Habermas osserva come per Nietzsche, senza un simile approccio critico, anche il lavoro dello storico che si cimenti col tentativo di conseguire la massima obiettività nelle sue ricostruzioni storiografiche perda di «forza plastica» e non sia in grado di penetrare realmente nel passato. A suo avviso, infatti, Nietzsche «analizza l’inefficacia di una tradizione culturale staccata dall’azione e trasferita nella sfera dell’interiorità: «Il sapere che viene preso in eccesso, senza fame, anzi contro il bisogno, oggi non opera più come motivo che trasformi e spinga verso l’esterno, ma rimane nascosto in un certo caotico mondo interno […]. E quindi tutta la cultura moderna è essenzialmente interna […], un ‘manuale di cultura interna per barbari esterni’». La coscienza moderna, oberata di sapere storico, ha perduto quella «forza plastica della vita», che mette gli uomini in condizione di «interpretare il passato» con lo sguardo rivolto al futuro e «con la massima forza del presente». Le scienze dello spirito che procedono metodicamente, siccome seguono un ideale falso, perché irraggiungibile, di oggettività, neutralizzano i criteri necessari alla vita e diffondono un relativismo paralizzante: «in tutti i tempi fu diverso, non conta come tu sia». Esse bloccano la capacità «di infrangere e di dissolvere [ogni tanto] un passato, per poter vivere [nel presente]». Come già i giovani hegeliani, nell’ammirazione storicistica per il ‘potere della storia’ Nietzsche fiuta una tendenza, che fin troppo facilmente si rovescia nell’ammirazione della politica realistica per il nudo successo» (J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, trad. it. Roma-Bari 1987, pp. 87-88). ↩︎