Chi pensa il più profondo ama il più vivo.
— Friedrich Hölderlin
Penso che le persone siano onde: mai né vincenti né perdenti. Solo onde.
— Federico Moccia
Soltanto uno è il soggetto del grande sogno della vita.
— Arthur Shopenhauer
1. Un’estetica ontologica
L’arte si propone, per Macedonio Fernández, la stessa cosa della metafisica: è «un modo diverso di provocare uno stato mistico, che è enucleazione della nozione dell’essere, dell’identità personale e della continuità storica personale» (TN, p. 141). In questo senso, la sua estetica potrebbe essere succintamente definita «un’estetica ontologica».
Come scrive Joe Anne Engelbert, per Macedonio l’arte dovrebbe mirare a produrre una sorta di «schock ontologico» (MS, p. 99), il disorientamento esistenziale del soggetto, la perdita della certezza di sé e l’annullamento dell’io. Poiché questo per Macedonio non esiste, lo scopo dell’esperienza estetica sarà quello di farsi musa capace di dissolvere il velo di Maya che c’induce a credere nell’esistenza dell’io e del mondo.
Così come Macedonio non crede all’esistenza di un oggetto distinto e separato dal soggetto, così non crede all’esistenza della bellezza naturale, di una bellezza cioè oggettiva, che goda di un’esistenza propria, distinta da quella di chi la prova: in una parola, dal suo sentido peculiare. Tutto ciò che si chiama bellezza naturale evoca per lui un’idea teleologica e pratica: allude cioè alla salute, alla bontà, all’agilità, alla forma, «a tutto ciò che sostiene la vita» (AR, p. 238). Ma la bellezza non consiste in ciò che sostiene o asseconda la vita, «la bellezza è solo artistica», e lo sarà tanto di più quanto meno sarà realistica, cioè quanto meno potrà essere considerata una copia della realtà (cfr. Ibidem.).
Macedonio respinge ogni concezione realistica dell’arte perché pensa, come Platone, che in questo modo non si fa che imitare imperfettamente e innecessariamente la vita. Ma la bellezza, nell’arte, non è un’imitazione della bellezza nella vita: la bellezza esiste solo nell’espressione artistica, che non è mai né informativa né realistica, né tanto meno cerca di suscitare o evocare sensazioni.
Macedonio definisce «arte culinaria» tutta l’arte che cerca di provocare o evocare sensazioni, mentre ritiene che la vera arte, ciò che chiama Belarte, dovrebbe suscitare solo emozioni. L’arte non dovrebbe infatti esibire abilità, ostentare pazienza (come quella che può essere evocata da certi tessuti o miniature) e, soprattutto, dovrebbe abbandonare decisamente ogni forma di realismo, perché questo non si propone di provocare emozioni pure, ma solo emozioni fondate su sensazioni, su fatti, su eventi più o meno tragici e, quindi, su elementi e situazioni non estetiche (cfr. NO, p. 238).
Nella migliore delle ipotesi, il realismo può provocare l’ammirazione per l’esercizio di una capacità mimetica, ma copiare il mondo e la vita non è Belarte, perché equivale a dar forma ad una bellezza spuria, frutto dell’associazione di diversi elementi sensoriali. La Belarte infatti dovrebbe sempre essere arte di un solo organo, come riesce, meglio di ogni altra, a essere la musica. Le arti simultanee e combinate — come ad esempio la danza — sono per Macedonio «mostruosità, impossibilità psicologiche, perché psicologicamente non si fondono», non vengono percepite simultaneamente e non si confermano reciprocamente nel sentire psichico (AR, p. 242). Per questo pensa che ogni arte dovrebbe assomigliare il più possibile alla musica che, oltre ad avvalersi di un solo strumento sensoriale, è per sua essenza priva di argomento o contenuto, e — come sostiene Shopenhauer — è priva di rappresentazione, pura manifestazione della volontà di vivere (cfr. MO, p. 344 e p. 346). Come la musica, che non fa riferimento a immagini o a concetti, e che non evoca sensazioni d’altro genere, nemmeno le altre arti dovrebbero ricorrere ad elementi spuri. La letteratura, quindi, non dovrebbe contenere niente di musicale al suo interno, dovrebbe rinunciare all’evocazione di sensazioni e avvalersi il meno possibile di motivazioni o di argomenti; dovrebbe anzi tendere alla «purezza della totale omissione di motivazione che caratterizza la musica» (AR, p. 239), pur rinunciando a conseguire effetti sensorialmente musicali. In questo modo potrebbe rivolgersi interamente alla produzione di emozioni, che saranno tanto più artistiche quanto più saranno intellettualmente disorientanti, in grado cioè d’incrinare e spaesare la presunta identità dell’io e la sua credenza in un mondo esterno.
La musica è un’arte ideale perché è senza motivazione, non è sottoposta in assoluto al principio di causalità, e ogni Belarte dovrebbe sempre tendere a produrre stati senza motivazione; perché «quanto più corposa, abbondante è la motivazione (il perché di un’allegria, la causa terrena di una tristezza) minore è l’arte» (Ivi, pp. 241-242).
Solo l’arte «senza autenticità» — cioè che non si proponga d’essere un’imitazione o una simulazione della realtà — è l’arte autentica, oppure — nel modo ancor più perentorio in cui si esprime Macedonio — solo «la non autenticità è il segno dell’arte autentica» (Ivi, pp. 241-242). Per questo il realismo è «la menzogna dell’arte». Con il termine «realismo» bisogna intendere «tutta l’arte che non è pura tecnica», sia che si tratti del Don Chisciotte, di un poema di Poe, di Madame Bovary o del Werther. L’arte consiste infatti «solo nella tecnica di suscitare stati d’animo che non si trovano nella vita», né del lettore né dell’autore. Per questo costituiscono errori estetici sia il raccontare che il descrivere: perché evocano sensazioni tratte dalla vita reale e non costituiscono esercizi di pura tecnica volti a suscitare emozioni, dando piuttosto corpo ad una miscellanea realista in cui compaiono brandelli di persone viventi travestite da personaggi, e quindi «gesti, accenti, vestiti, tavole apparecchiate, camere da letto, montagne, deflagrazioni, lampi», che in fondo servono solo a farci vedere una volta di più «ciò che vediamo nelle strade ogni giorno» (Ivi, p. 241).
È su queste premesse che si fonda la sua distinzione tra un’arte presunta e un’arte effettiva, tra ciò che chiama Culinaria e ciò che chiama Belarte (cfr. Ivi, p. 236). Quest’ultima è autoristica, nasce cioè «da un’emozione non pratica e suscita un’emozione non pratica, non da sensazioni o per la sensazione» (Ibidem). L’arte è emozione, stato d’animo, mai sensazione, e per questo non deve copiare né menti né cose, che altrimenti è soltanto una culinaria, come «tutta l’arte che si approvvigiona dal sensoriale» e come «tutta la versificazione» (Ibidem), con i suoi ritmi, consonanze e onomatopee.
«Chiamo Belarte» — puntualizza Macedonio — «unicamente, le tecniche indirette (non dirette: copia o imitazione) per suscitare stati psicologici in altre persone, che non siano né ciò che sente l’autore né ciò che sembrano provare i personaggi in ogni momento. Gli «argomenti» sono extra artistici, non hanno qualità di arte, e devono essere meri pretesti per far operare la tecnica» (Ibidem).
Per quanto nell’arte realista i tentativi di allucinazione della realtà possano risultare efficaci, essi non sono artistici; «al contrario — precisa ancora Macedonio — pare che vadano direttamente contro l’arte, che è per essenza ciò che è senza realtà, il puramente inautentico, ciò che è esente dalla miseria informativa, istruttiva» (cfr. Ivi, p. 241).
La Belarte è dunque senza argomento e senza cause: le motivazioni di un sentimento devono essere bandite dall’arte, così come riesce a fare la musica. Se la prosa riuscisse a fare a meno di argomenti e motivazioni, se la letteratura in genere rinunciasse a ogni effetto sonoro, eufonico o cacofonico, se evitasse di evocare sensazioni riproducendo la realtà, allora, dato che un simile risultato sarebbe per lei senz’altro più difficile da raggiungere rispetto alla musica, potrebbe superare la musica in purezza (cfr. ivi, 244).
La Belarte della parola pura — cioè priva di pretese musicali, pittoriche, e dunque, sinteticamente, di riferimenti alla realtà — deve quindi «aspirare a ottenere nel lettore unicamente quelli stati d’animo che né la vita né altra Belarte possono suscitare, e per questo deve essere arte di tecnica pura, cioè senza argomento, né verità, né comunicazione delle emozioni dell’autore, né sofferenze o felicità esibite dai personaggi, né pretese di creatività o fantasia» (Ivi, p. 245), e deve invece puntare alla «commozione dell’essere della coscienza in un tutto» (HU, p. 260).
Soltanto in via subordinata rispetto a questo fine, Macedonio arriva a giustificare le narrazioni informative e le descrizioni, pur ritenendole comunque espedienti artistici secondari e strumentali. Se possono acquisire un valore estetico, ciò dipende dal fatto che possono insinuare nel lettore una «emozione d’inesistenza», che è poi ciò che «si propone di raggiungere l’artista» (AR, p. 246) .
Più concretamente, per Macedonio si può usare il racconto informativo per compiacere «i sogni di passioni o vanità del lettore», così come fanno i giornalisti, ma questa operazione può avere nel lavoro dell’artista solo una funzione puramente tecnica, perché quella primaria deve consistere sempre ne «l’estirpazione della certezza della vita nel lettore» (Ibidem).
L’arte letteraria può conseguire questo obiettivo in tre modi diversi, o meglio, attraverso tre generi distinti: la metafora, o poesia, l’umoristica concettuale e la prosa del personaggio, o romanzo (AR, p. 347).
Queste «sono le sole Belarti pure della parola, o prosa […]. La metafora, o poesia, è il raggiungimento di una autenticazione del sentire dell’autore: per questo — scrive Macedonio — per me è dubbiosamente artistica, ma almeno non è effusione» (Ibidem). Infatti, non è con le interiezioni e i grossolani eventi tragici dei drammi che si può autenticare il sentimento di un autore, ma solo con la metafora, o interiezione concettuale, perché solo essa è in grado di cogliere la somiglianza con ciò che l’autore ha sentito (cfr. Ibidem).
Se l’umorismo concettuale ha lo scopo e la prerogativa di produrre per un istante «la credenza nella razionalità o realtà dell’assurdo» (Ivi, p. 249), il romanzo usa i personaggi
non per far credere in loro (realismo puerile), ma per far sentire personaggio il lettore, attentando incessantemente alla certezza della sua esistenza, attraverso procedimenti che cercano di disimpegnare le persone in personaggi, unico fine che non può raggiungersi con altra Belarte» (Ivi, p. 248).
Sia l’umorismo concettuale che la prosa seria hanno però lo stesso obiettivo: quello di provocare nel lettore la percezione della sua irrealtà. A questa credono infatti, sebbene solo per un istante, sia il lettore della prosa concettuale dell’assurdo sia l’ascoltatore del motto di spirito concettuale; e questa stessa impressione d’irrealtà consegue la prosa seria quando induce il lettore a dubitare, anche solo per un istante, della realtà del mondo e di se stesso.
Credo di aver compreso — scrive ancora Macedonio — che senza dottrine, spiegazioni e soprattutto senza raziocinii possono essere creati due momenti, gli unici veramente artistici, nella psiche del lettore: il momento del nulla intellettuale attraverso l’umoristica concettuale, ancor meglio denominata illogica dell’arte, e il momento del nulla dell’essere coscienziale, usando i personaggi (narrativa) per l’unico uso artistico a cui dovrebbero essere destinati, non per far credere in un carattere, in un racconto, ma per far sì che il lettore, per un istante, si creda lo stesso personaggio, strappato alla vita […]. Così come i personaggi o ‘persone dell’arte’assumono il destino unico e nuovo di produrre, all’improvviso, lo spavento d’inesistenza del lettore — che non è persona d’arte, ma persona d’esistenza — così nell’umoristica gli avvenimenti, gli accadimenti minimi necessari, non si propongono di conseguire la credenza in ciò che è successo, ma di sostenere una aspettativa di comprensione e derivarla istantaneamente da un secondo di credenza nell’assurdo (HU, 260-261).
l’unica letteratura o prosa artistica […] è ciò che tende non al realismo, ma a irrealizzare l’uomo, il cosmo, cioè: la prosa non ha altro fine artistico che quello metafisico conseguito, perseguito non discorsivamente, ma per l’impressione dell’assurdo creduto, o di autoinesistenza creduta, frutto di una preparazione non raziocinante, progressiva, preannunciata verso una conclusione, ma sorprendente (AR, 249).
Nel caso specifico dell’arte letteraria, Macedonio insiste inoltre, e a più riprese, sulla contrapposizione tra simmetria e asimmetria, tra il compás (termine questo che, sebbene sia traducibile in italiano con «ritmo», «tempo», «battuta», per come viene usato da Macedonio è forse più corretto tradurre con «metrica») e ciò che chiama ritmo:
il ritmo e l’asimmetria — scrive — sono specificatamente estetici, cioè uguali alla vita per la sua disuguaglianza e irregolarità. Il ritmo equivale alla prosa, alla sonata pura, alla libertà di movimento, come l’asimmetria in pittura, come la vita e il mondo. Il ritmo è la non regolarità, e non compás laxo, come si vorrebbe per confondere. Il compás, viceversa, è tanto antimusicale come antiletterario, perché non vivibile e antivitale (Ivi, pp. 249-250).
Per compás pare dunque che debba intendersi un ritmo regolare, come quello dei versi scanditi da una metrica regolare, che costituisce l’equivalente temporale della simmetria nello spazio: «c’è qualcosa di più desolante per la speranza dell’arte — si domanda retoricamente Macedonio — della passione per la simmetria che notiamo nella sistemazione dei mobili, quadri e cianfrusaglie di tutte le nostre case?» Per il «compás è lo stesso: è il modello del subalterno» (Ivi, p. 250), in quanto sottopone la poesia alle prerogative sensoriali e musicali della metrica.
La Belarte letteraria perfetta è quindi la prosa, perché tutte le altre, essendo sensorialmente gradevoli, si avvalgono di strumenti esteticamente viziosi, e perché, a differenza delle opere in versi, che sono un ibrido antiestetico di prosa e musica, ha il merito non secondario di fare a meno del compás e della rima (cfr. Ivi, pp. 250-251).
Macedonio si dichiara quindi in totale disaccordo con l’opinione di chi assimila il verso a un’espressione musicale in quanto entrambi sarebbero partecipi del ritmo, che evoca il palpitare del cuore:
è sorprendente — scrive — che si sia pensato di autorizzare un modo di una Belarte per usarlo anche in un’altra […]. Il verso è letterario solo nella sua prosa, cioè nei suoi concetti e immagini e nella progressione sentimentale di cui concetti e immagini sono meri segni, strumenti.
Certo, il verso sarebbe un fenomeno musicale se lo fosse anche il compás, ma poiché per Macedonio non è così, il verso risulta di fatto, ai suoi occhi, come
una prosa fallita […]. La cosa comica che è successa al verso — precisa al riguardo — è doppia: che cercando di salvarsi attraverso la musica, ha tratto il peggio da essa: il compás, e ha inventato una stupida ipotesi di musica: la rima, con la quale a nessun musicista sarebbe mai potuto capitare di appestare la musica (Ivi, p. 251).
La rima gli pare evocare un’idea di «effusione», far leva su una musicalità impropria, mentre nella Belarte letteraria per Macedonio
non deve esserci effusione diretta, perché l’arte ha orrore innanzi tutto dell’autenticità; l’arte nacque per svolgere un lavoro coscienziale, non per fare la vita; però accetta l’autenticazione attraverso la prova, e l’unica prova di aver sentito è il successo della metafora. Chi non consegue la metafora non ha sentito, la metafora è la prova di aver sentito. Autentica un sentire, perché solo chi sente può creare una metafora (TN, pp. 138-139),
così come solo l’uso consapevole della metafora può conferire alla Belarte la sua autentica dimensione estetica.
2. La metafora e disumanizzazione dell’arte
Per illustrare l’importanza della metafora, Ortega y Gasset si serve dell’esempio di un cristallo, perché può aiutarci «a comprendere intellettualmente ciò che istintivamente, con perfetta e sensibile evidenza, dobbiamo sapere nell’arte: un oggetto che riunisce la doppia condizione di essere trasparente e che ciò che in esso traspare non è una cosa distinta, è lo stesso. Allora bene: questo oggetto — continua Ortega — che è trasparente a se stesso, l’oggetto estetico, incontra la sua forma elementare nella metafora. Io direi che oggetto estetico e oggetto metaforico sono una stessa cosa, oppure che la metafora è l’oggetto elementare, la cellula bella» (DA, p. 152).
La trasparenza dell’oggetto a se stesso, attraverso la metafora, è per Ortega il tratto caratteristico dell’opera d’arte, perché la metafora lascia vedere il proprio oggetto nello stesso momento in cui lo vela e lo trasfigura. L’aspetto soggettivo, la prospettiva, il punto vista particolare adottato di volta in volta e quello oggettivo, riconoscibile intersoggettivamente, sono fusi in un solo atto artistico; nella dimensione estetica l’oggetto traspare all’interno della visione o prospettiva del soggetto, pur essendo una sola cosa con questo.
Anche per Macedonio la metafora salda questi due aspetti in una realtà sola, dove non sono più separabili la componente psicologica individuale e quella concettuale oggettiva: il vissuto intenzionato è unico, e assume la forma concettuale che la metafora riesce a far trasparire e a promuovere
La metafora può essere usata, secondo Ortega, anche per eludere, e in generale per i fini più diversi. Nella poesia, per esempio, la si è spesso usata per «nobilitare l’oggetto reale», mentre nelle nuove forme d’ispirazione poetica serve piuttosto a ricondurre l’oggetto alla sua semplice e povera condizione reale: «l’arma lirica può così rivolgersi contro le cose naturali per ferirle o assassinarle» (ivi, p. 75). In questo senso può essere considerata come uno strumento della disumanizzazione dell’arte. Ma non è l’unico: uno ancora più semplice consiste secondo Ortega nella sostituzione della prospettiva abituale:
dal punto di vista umano, infatti, le cose hanno sempre un ordine, una gerarchia determinata. Alcune ci sembrano più importanti, altre meno, altre ancora totalmente insignificanti. Per soddisfare l’ansia di disumanizzare non è, quindi, necessario alterare le forme primarie delle cose. Basta invertirne la gerarchia e fare un’arte in cui appaiano in primo piano, evidenziati e con aria monumentale, i fatti minimi della vita. Questo è il nesso latente — continua Ortega — che unisce i modi dell’arte nuova, in apparenza tanto distanti. Uno stesso istinto di fuga e di evasione dal reale viene soddisfatto sia nel sovra-realismo della metafora sia in ciò che si può definire infra-realismo. All’ascensione poetica può sostituirsi un’immersione sotto il livello della prospettiva naturale (Ivi, p. 76).
I maggiori esempi di come si può estremizzare il realismo superandolo, sono secondo Ortega le opere di Proust, di Ramon de la Serna e di Joyce (cfr. Ibidem):
Ramón può comporre tutto un libro su i seni — qualcuno lo ha chiamato ‘nuovo Colombo che naviga verso gli emisferi’- o sul circo, o su l’alba, o sul Mercato o sulla Porta del sole. Il procedimento consiste precisamente nel rendere protagonisti del dramma vitale i quartieri bassi dell’attenzione, ciò a cui di solito non facciamo caso (ibidem).
In un modo molto diverso, ma sotto questo profilo analogo, Proust disdegna le antiche forme letterarie messe in atto nei romanzi del diciannovesimo secolo e dedica «una disumana attenzione alle fini strutture dei sentimenti, delle relazioni sociali, dei caratteri» (Ivi, p. 77). Sempre per la stessa tendenza alla disumanizzazione, «sostantivizzandosi, la metafora diviene, più o meno, protagonista dei destini poetici. Questo implica che l’intenzione poetica ha sensibilmente cambiato di segno, che si è rovesciata. Prima la metafora si riversava sopra la realtà, come un ornamento, un incastro o un mantello pluviale. Ora, al contrario, cerca di eliminare ogni riferimento extra-poetico o reale, cercando di diventare la res poetica in quanto tale» (Ibidem).
Ma questa inversione del processo estetico non è — secondo Ortega — esclusiva della metafora, ma si verifica in ogni espressione artistica come tendenza generale. Noi infatti possediamo del reale solo «le idee che siamo riusciti a formarci» (Ibidem), ma poiché tra l’idea e la cosa permane sempre una certa distanza, «il reale trabocca dal concetto che vorrebbe contenerlo. L’oggetto è sempre di più e in altro modo rispetto a come lo si è pensato nell’idea» e ciò nonostante che sia per noi spontaneo credere che la «realtà sia ciò che pensiamo di essa» (Ivi, p. 78). Ma se invece di considerare le idee per quello che sono, e cioè dei meri schemi soggettivi, le «facciamo vivere come tali, con il loro profilo spigoloso, rachitico, ma trasparente e puro — insomma, se ci proponiamo deliberatamente di realizzare le idee — le avremo disumanizzate, derealizzate. Perché esse sono, in effetti, irrealtà. Trattarle come realtà è idealizzarle — falsificarle ingenuamente -. Farle vivere nella loro stessa irrealtà è, diciamo così, realizzare l’irreale in quanto irreale. Qui non andiamo dalla mente al mondo, ma al contrario, diamo plasticità, rendiamo oggettivi gli schemi, l’interno e il soggettivo» (Ibidem).
Per Ortega, anche l’espressionismo e il cubismo — ma potremmo aggiungere, e a maggior ragione, anche l’astrattismo e il concettualismo — vanno in questa direzione: «dal dipingere le cose si è passati a dipingere le idee» (Ivi, p. 79).
Ora, se ci soffermiamo sul nodo concettuale intorno a cui vertono queste considerazioni di Ortega — ovvero quello per cui si tratterebbe, per l’arte contemporanea, di abbandonare ogni tentativo di commisurare le idee alla realtà, e di cercare di realizzarle attraverso quella tendenza diffusa che lo stesso Ortega definisce «volontà di stile» (Ivi, p. 67), cioè di conferire loro una realtà propria, realizzando, quindi, l’irreale — si può meglio comprendere anche in cosa consista l’antirealismo di Macedonio: abolendo ogni confine tra realtà e sogno, o pensiero, della realtà, anche Macedonio tende infatti a conferire alle idee in generale — e quindi anche a tutto ciò che accade nel sentido, come passioni, desideri, dolori, gioie o piaceri — uno statuto reale assoluto, li considera cioè una realtà a cui non se può contrapporre un’altra, per così dire, più reale, o più oggettiva, perché non esiste alcuna oggettività oltre il sentido.
Così, se Ortega concepisce lo stile come il modo migliore per «derealizzare» le cose e le persone, dato che «ciò che dice lo stile non lo può dire qualcos’altro» (Ivi, pp. 160-161), l’autoristica di cui parla Macedonio è animata da intenti non meno «de-realizzanti». Accedendo a un piano puramente coscienziale, infatti, anche nel Museo del romanzo dell’Eterna si finisce, in questo senso, per derealizzare il reale, il che è tuttavia possibile solo facendone percepire l’impossibilità. Per questo nel Museo non ci sono persone, ma — potremmo dire, usando le stesse parole di cui si serve Ortega riferendosi all’opera di Pirandello — «pseudopersone che simbolizzano idee», e cioè meri portatori simbolici di stati d’animo ricorrenti e vocazionali, ciascuno dei quali ruota intorno ad una resistenza del reale a un proprio ideale, o, ancora meglio, ad una passione eminente.
Ortega considera l’opera di Pirandello il prototipo di questa concezione estetica: I Sei personaggi in cerca d’autore condividono infatti, secondo il filosofo castigliano, un destino doloroso che costituisce un mero pretesto per farci assistere ad un dramma delle idee, al dramma «di alcuni fantasmi soggettivi che gesticolano nella mente di un autore» (cfr. Ibidem). Ma come «pseudopersone» potrebbero anche essere interpretati i personaggi del Museo, che non sono costruiti sul modello di persone verosimili, ma su quello ideale di individui che si sono imbattuti in un’impossibilità, che si sono incagliati in qualcosa di reale nel senso in cui questo termine è usato da Lacan, ovvero in qualcosa che «è sempre al suo posto» (IT, p. 374) e, al tempo stesso, «ammette qualcosa di nuovo, che è appunto l’impossibile» (QC, p. 171). Proprio questa esperienza dell’impossibilità del reale permette infatti ai personaggi del Museo di abbandonare ogni certezza esistenziale incentrata sull’io e di accedere a quella dimensione ayoica che ne fa portatori di una dimensione sovrasoggettiva e cosmica, sue pseudo-personificazioni: personificazioni, cioè, che riguardano allo stesso modo il loro senso e destino come quello di ogni altro individuo, nonché del mondo stesso, che esiste solo come un riflesso all’interno in un «qualsiasi» sentido individuale. In questo senso per Macedonio esiste una monade-mondo, che però è percepibile, leibnizianamente, solo come il riflesso di un mondo unico all’interno di ogni monade individuale, e cioè di ogni sentido, che costituisce per lui l’unica possibile realtà.
3. L’antirealismo di Macedonio
Quella che, secondo Auerbach, era stata la svolta del realismo ottocentesco nei romanzi di Stendhal e di Balzac, ovvero «l’irruzione nel realismo del serio ‘esistenziale’e tragico» (AM, p. 254), la mescolanza del serio con la realtà quotidiana, ha nel «romanzo nuovo» cui fa riferimento Ortega ulteriori e ben più drastici sviluppi.
Le basi del realismo moderno consistono, sempre secondo Auerbach, nella «trattazione seria della realtà quotidiana», nel fatto «che ceti sociali più estesi e socialmente inferiori siano assurti a oggetti d’una raffigurazione problematico-esistenziale», ma anche, d’altro lato, nell’inserimento «di persone e di avvenimenti qualsiasi e d’ogni giorno nel filone della storia contemporanea, del movimentato sfondo storico» (AM, p. 267).
Ebbene, si potrebbe dire che questi avvenimenti «qualsiasi» del realismo non sono, per Macedonio, abbastanza «qualsiasi». Anche se la storia del realismo ha saputo, come Macedonio sostiene che si debba fare, rendere artistico «qualsiasi» fatto, includendo tra questi anche quelli apparentemente meno «elevati» (si pensi, per esempio, al Bue squartato di Rembrant, o ai personaggi della Commedia umana di Balzac), questa caratteristica del realismo non è stata sviluppata adeguatamente. La belarte letteraria non dovrebbe infatti limitarsi a trattare in modo serio temi o personaggi «qualsiasi», ma dovrebbe spingersi a rendere «qualsiasi» ogni avvenimento, circostanza, problema e, soprattutto, ogni persona. Dovrebbe, cioè, far percepire ad ogni lettore, o più in generale fruitore, la propria interscambiabilità esistenziale e prospettica con qualsiasi altro soggetto o personaggio. E non solo: l’arte dovrebbe saper rendere evidente la pienezza di senso che si nasconde in ogni singolo gesto, anche il più minuto e apparentemente insignificante, in ogni singola emozione, e dovrebbe restituire ad ogni parola lo spazio simbolico e la dimensione metaforica di cui ha bisogno per non essere relegata alla funzione di un mero strumento rappresentativo, a semplice indice di un frammento di un ipotetico mondo reale. Solo muovendosi nella dimensione del «qualsiasi» la Belarte potrà andare oltre l’illusione di realtà prodotta dall’esperienza quotidiana, da quanto ogni giorno affligge o preoccupa il nostro supposto io, e solo in tale dimensione potrà consentire una vera e propria educazione estetica. L’attenzione alle impasse psicologiche e ontologiche in cui ciascuno può venire a trovarsi, la trasfigurazione dei piccoli eventi della vita e delle emozioni più fugaci di ogni persona in altrettante vie d’accesso ai personaggi ayoici che si celano in ognuno è ciò che l’educazione estetica dovrebbe, attraverso la Belarte, saper favorire, evocando quello «stupore metafisico annidato nella quotidianità» (BO, p. 26) che secondo Fernando Savater costituisce una delle tematiche più ricorrenti anche nell’opera di Borges, il più prestigioso amico e discepolo di Macedonio.
Il termine «qualsiasi» ha qui un significato diverso da «tutti», ma analogo a «ciascuno», cioè a «tutti uno per uno». Solo «uno per uno», prospettiva che si riversa in un’altra prospettiva, il mondo e la vita assumono un senso; il che significa che non c’è un senso uguale per tutti, omnicomprensivo, ma che ogni senso riflette l’intero senso, e tuttavia lo riflette nella sua precarietà, in quanto senso mancante, breccia che attraversa il sentido e vi insinua quella stessa mancanza ad essere che caratterizza ogni personaggio del Museo. Se in questo luogo utopico ogni personaggio è «musa» per gli altri e costituisce una sorta di proiezione microcosmica di un cosmo ipotetico, è anche vero che in ciascuna di queste proiezioni regna una ferita aperta, un vuoto temporale o un punto cieco, e comunque un’impossibilità radicale. Ogni prospettiva individuale è incentrata sulla sua particolare esperienza di tale impossibilità. L’idea nietzschana e orteghiana di prospettiva si anima così di tanti punti di fuga quanti sono le ossessioni dei personaggi del romanzo. Il mondo è uno, ma lo è solo per ciascuno, secondo l’impossibilità di cui ciascuno consiste: i tanti mondi diversi che ne vengono fuori però non si giustappongono, perché non sono ancorati ad altrettanti io, ma sono instabili e portati a debordare, ad uscire fuori di sé, a mescolarsi, sovrapporsi e «altruizzarsi» fino a perdere il proprio centro. È solo in questo incessante movimento centrifugo, così ben reso nel Museo, che il mondo può conservare la propria unità nella forma di una «festa mobile», di una sorta di «happening intercoscienziale», la cui possibilità è a sua volta fondata sull’esperienza dell’irrealtà dell’io e dell’avverarsi, per ciascuno, dell’impossibile.
Se per Cartesio è impossibile per il pensiero separarsi dalla coscienza, per i personaggi del Museo è impossibile sottrarsi a quel flusso monocoscienziale in cui si muovono e s’incontrano: essi possono solo sognare, talvolta, di uscire dal romanzo, ma anche questo sogno, impossibile da realizzare, fa parte del sogno dell’essere, nel senso soggettivo ed oggettivo del genitivo: si tratta cioè del sogno di un io solo congetturale, che sussiste solo in quanto sognato dall’essere di un sentido di cui ciascun io fittizio costituisce solo l’occasione per attribuire a un soggetto una particolare interpretazione prospettica.
Anche l’Eterna coincide con il proprio sogno, infatti è divenuta tale perché qualcuno l’ha sognata e continuerà sempre a sognarla, mentre non sa di essere sognato da lei. Più in generale, si può dire che nel Museo, ogni volta che una prospettiva individuale accede alla propria dimensione transindividuale, essa può essere inglobata da chiunque acceda alla stessa dimensione, quasi fosse stata raggiunta una condizione archetipica dello spirito.
L’amore costituisce, in questo senso, come per Plotino, la principale via d’accesso a questa dimensione, e l’Eterna ne costituisce l’impersonale personificazione. Ma una simile dimensione transindividuale è resa possibile dal fatto che la coscienza non è una proprietà del corpo, non ha luogo nel corpo. L’uomo non è, come suggeriva Pascal, «una canna pensante», perché nulla di esteso ha esistenza propria: c’è solo il pensiero, la «res cogitans» cartesiana, e questo può sognare di essere una canna, può credere ostinatamente di essere una canna che pensa.
Anche i personaggi del Museo sognano soltanto di avere dei corpi: è per questo che possono aderirvi completamente, come invece non può fare chi sia recluso in una veglia dualista o in un romanzo realista.
Sulla scia di Hume e di Berkeley, Macedonio pensa che gli idealisti non si siano «accorti che la concezione dell’Io è un realismo […], un’intelligibilità oziosa, che è nuovamente la sostanza» (NT, 339). Sia il realismo che suppone l’esistenza della materia sia quello che presuppone quella dell’Io hanno la stessa caratteristica saliente: «la negazione dell’effettualità dei nostri stati» (ibidem).
Quest’errore dell’idealismo è dunque per Macedonio speculare a quello del realismo: sono due facce di una stessa medaglia, e muovendosi alternativamente su una o sull’altra delle sue facce è impossibile accedere alla sua concezione dell’arte e, in particolare, della letteratura.
Tale concezione può risultare ancora più chiara se prendiamo in esame i risultati estremi della posizione realista, due esempi di ciò che Lukacs considera come effetti della dissoluzione del romanzo, e cioè le opere di Zola e di Joyce.
Il falso oggettivismo del metodo di Zola si manifesta — secondo Lukács — «con molta chiarezza nel fatto che, prima di tutto, Zola identifica il banale col tipico e lo contrappone soltanto all’individuale, al semplicemente interessante e, in secondo luogo, nel fatto che egli non vede più il caratteristico e l’artisticamente significativo nell’azione, nella reazione attiva dell’uomo agli avvenimenti del mondo esterno. La raffigurazione epica delle azioni è sostituita, in lui, dalla descrizione degli stati e delle circostanze.» (GL, pp. 168-169).
«La scuola di Zola, nel senso preciso della parola, si disgregò presto» — scrive ancora Lukács — «ma lo zolismo, il falso oggettivismo del romanzo sperimentale continua a vivere, con la sola differenza che i fili, che ancora legavano Zola al vecchio realismo, si spezzano sempre di più, e il programma di Zola si realizza in maniera sempre più pura […]. Con molta più forza, naturalmente, sono rappresentati il soggettivismo e l’irrazionalismo, che fanno la loro comparsa subito dopo la disgregazione della scuola di Zola nel senso stretto del termine. Questa tendenza trasforma il romanzo in un aggregato di fotografie istantanee della vita interiore dell’uomo e alla fine porta alla completa dissoluzione di ogni contenuto e di ogni forma del romanzo (Proust, Joyce)» (Ivi, p. 172).
In effetti, Zola si propone di descrivere, nelle sua opere d’impianto naturalistico, una realtà autonoma e oggettiva, senza che al narratore sia concesso di penetrare nel sentido dei suoi personaggi; mentre con l’Ulisse di Joyce siamo all’interno di un sentido interamente articolato ed espresso, e quindi di nuovo oggettivato, ridotto a puro fenomeno. Nel soliloquio di Molly Bloom, per esempio, Joyce non si sofferma sul sentido stesso, non lo lascia risuonare e non lo intenziona in maniera specifica (come risulta anche dall’uso della punteggiatura), ma lo sviluppa verbalmente e lo estroflette immediatamente e completamente.
Il confronto tra la teoria estetica che presiede all’opera di Macedonio ed è esposta anche all’interno del Museo e quella che è sottesa all’opera di Joyce richiede comunque un esame più circostanziato, che non può prescindere dal ruolo peculiare che il pensiero metafisico di Macedonio gioca all’interno della sua concezione della letteratura e del romanzo.
4. La metafisica cucurbitacea di un monoindividuo universale
Nel racconto «La zucca che si fece cosmo» — in cui si narra di una zucca che, essendo cresciuta a dismisura, giunge a coincidere col mondo intero — Macedonio propone la sua «metafisica curbitacea», chiedendosi «se non siamo per caso cellule del Plasma immortale» (MN, p. 68), cioè di «una Totalità tutta interna, Limitata, Immobile (senza Traslazione), senza Relazione, perciò senza morte» (ivi 68-69). Ogni Io è come questa zucca omnipervasiva, che coincide col mondo e diviene così l’insieme delle sue relazioni interne; è il romanzo che abitiamo come personaggi che possono solo sognare la loro esistenza e che possono ritrovarsi solo acquisendo la consistenza di un monoindividuo immortale, in grado di riconoscersi solo in una lucida confusione, simile, per certi versi, a quella in cui si riconosce anche il protagonista di 8 e 1/2 di Fellini in una delle sue scene finali.
I lettori di questo e di altri racconti di Macedonio potranno così, fin dalle prime pagine, essere sorpresi e spiazzati dalla metafisica, anche esplicita, che li anima e li struttura; ma forse non giungeranno a separarsi, nemmeno provvisoriamente, dalla certezza di esistere come soggetti autonomi e coincidenti con qualsivoglia loro presunta personalità.
Probabilmente, quest’effetto può prodursi solo nel Museo, rispetto al quale la «metafisica cucurbitacea» cui fa riferimento Macedonio potrebbe essere considerata come l’ipotesi che traccia il destino e il compito del futuro autore-lettore del romanzo. I racconti di Macedonio potrebbero quindi essere interpretati, nonostante la loro autonomia e specificità letteraria, come la sintesi compatta del disegno metafisico-letterario che dovrà realizzarsi nel romanzo attraverso l’apporto dei suoi lettori-autori.
Questi dovranno infatti scardinare le fondamenta metafisiche e psicologiche del proprio io illusorio trasfigurandosi in entità superiori, in identità non più separate, ma attraversate simultaneamente dall’esistenza e dall’inesistenza, nonché da tutte le opposte o diverse prospettive in cui gli può accedere di lasciarsi risucchiare.
In altri termini, il riflettersi in ogni individuo e lettore nell’intero mondo con cui arriva a coincidere può consentirgli di non identificarsi più col proprio io e di accedere alla dimensione, in un certo senso meno separata e circoscritta, del proprio Sé.
Può essere a questo riguardo interessante ricordare quanto Jung scrive a proposito dell’Ulisse di Joyce: ciò che in questo romanzo ci scuote di più è che «dietro mille veli non si nasconde nulla, che esso non si rivolge né allo spirito né al mondo, e che freddo come la luna, guardando da cosmiche lontananze, esso lascia che scorra la commedia del divenire, dell’essere e del morire» (RA, 134-135).
Sebbene il modo in cui nell’Ulisse si manifesta la dimensione distaccata e oggettivante della coscienza del suo autore sia per taluni aspetti assai diversa, se non opposta, alla relazione che l’autore del Museo ha con la sua opera, altre considerazioni di Jung possono farci intravedere anche qualche analogia non marginale. Si potrebbe supporre — scrive ancora Jung — che in un mondo di tanti ‘nulla’non resti che l’io, James Joyce. Ma si è visto comparire forse fra tutte le larve dell’io un solo Io reale? Certo, tutte le figure dell’Ulisse sono diverse da quel che sono; sono ‘se stesse’sotto tutti gli aspetti, eppure non possiedono un Io, un centro umano acutamente cosciente, non possiedono quell’isola dell’Io, circondata dal caldo Dedalus, Bloom, Harry, Lynch, Mulligan, e com’altro si chiamano, parlano e agiscono come in un sogno comune che non ha principio né fine e che esiste solo in quanto ‘Nessuno’, Odisseo invisibile, lo sogna. Nessuno lo sa, eppure ognuno vive solo perché lo vuole un dio. Così è la vita, ed è per questo che le figure di Joyce sono a tal punto reali: vita somnium breve. Ma quell’Io che tutti li contiene non compare mai, non si tradisce mai con un giudizio, con una partecipazione o con un antropomorfismo. L’Io del creatore di quelle figure non si ritrova più ed è come se esso fosse disciolto nelle innumerevoli figure dell’Ulisse. Eppure, ed anzi proprio per ciò, tutto quanto, persino l’interpunzione mancante del capitolo finale, è Joyce stesso. La sua coscienza staccata, contemplante, che abbraccia con indifferenza e con un solo sguardo la coesistenza atemporale degli avvenimenti del 16 Giugno 1904, deve dire a quel fenomeno: ‘Tat twam asi’- questo sei tu — tu in senso superiore: non l’Io ma il Sé, poiché soltanto il Sé può contenere l’Io e il non-Io, il mondo sotterraneo, le viscere, le imagines et lares e il cielo» (Ivi, p. 136).
Certo, queste considerazioni junghiane non risultano, almeno a prima vista, altrettanto appropriate al Museo. La differenza principale che balza agli occhi è riconducibile a quell’abbraccio indifferente cui Jung fa riferimento parlando del rapporto di Joyce con i personaggi de L’Ulisse. Tuttavia, sebbene quelli del Museo siano ben lontani dall’essere delineati con un’analoga indifferenza analitica e mimetica, potrebbero essere anch’essi interpretati come gli effetti della dispersione o diffusione della personalità dell’autore, il quale, essendo a sua volta personaggio, confonde le proprie tracce riconoscendo e percorrendo, per alcuni tratti, quelle degli altri coprotagonisti. Nella dimora del romanzo, infatti, ogni riconoscimento comporta un altruizzarsi, la sospensione del proprio Sé in una dimensione ayoica: i personaggi non sono messi a fuoco attraverso il resoconto realistico delle loro azioni o dei loro pensieri, ma si manifestano solo come nodi di possibilità irrisolte, senz’altro fondamento ontologico, acquisendo a poco a poco una loro a-realistica, sospesa, immaginativa consistenza. È questa circostanza a far perdere le tracce di un loro io ipotetico e a renderli tutti più affini al loro Sé, tant’è vero che nel Museo non c’è spazio per atteggiamenti inautentici o sentimenti poco sinceri: ognuno è interamente se stesso, fino alle conseguenze eticamente più estreme, talvolta fatali, in ogni caso persistenti e circolari.
È proprio Borges a evidenziare questo aspetto, che costituisce quasi una prerogativa assoluta: «Nel romanzo — scrive — Macedonio esigeva che tutti i personaggi fossero eticamente perfetti; il contrario di quel che sembra proporsi la nostra epoca, salvo l’unica e degnissima eccezione di Shaw, che ha immaginato e modellato eroi e santi» (PR, p. 185); e ognuno, nel Museo, è eroe o santo almeno per la sua identificazione con una passione irriducibile e assoluta, per la sua coincidenza con un centro di cui gli sfuggono i confini: l’unica certezza di cui è capace è che tali confini sono anche quelli del mondo, dell’unico mondo. Anche all’autore del Romanzo non tocca in sorte un destino diverso, tanto che nemmeno lui può coincidere con alcun io: anche per lui la circostanza di esistere si profila soltanto come una dimensione ulteriore della propria pluri-inesistenza virtuale.
La concezione estetico-letteraria di Macedonio sembra dunque, per un verso, proporre un flusso coscienziale poliprospettico parallelo a quello proposto da Joyce. Inoltre, nel Museo qualcosa di eguale ritorna sempre al suo posto nell’esistenza di ogni personaggio, tanto che la concezione circolare del tempo che caratterizza l’Ulisse sembra trovare qui una sua nuova variante: gli abitanti della dimora del Romanzo, infatti, sembrano scivolare da un tempo circolare nello scenario nuovo di un eterno presente, per ognuno sempre identico. Anche i piccoli accadimenti menzionati con sorprendente intermittenza hanno la funzione prevalente di segnalare la perseveranza di un vissuto dominante.
Per altro verso, il Museo si differenzia profondamente dall’Ulisse, perché se quest’ultimo può essere inteso come un ulteriore e ancor più criticabile effetto del mimetismo naturalista, dove si tende a dispiegare immediatamente qualsiasi intenzione o emozione mediante quelle che Lukács definisce una serie «di fotografie istantanee della vita interiore dell’uomo» (GL, p. 172), e dove chi scrive rinuncia a soffermarsi, attraverso un processo introspettivo intrapreso da un punto di vista esterno, su quelle che possono rivelarsi come cruciali perni esistenziali della vita di ogni personaggio, tanto che nessuno sembra davvero dubitare mai di qualcosa; nel Museo, viceversa, ogni personaggio è costantemente alle prese con una vocazione e, al tempo stesso, con un’esitazione ontologica che gli sono consustanziali.
Il mimetismo che Lukács imputa a Joyce non sembra tuttavia imputabile all’opera di altri autori che hanno caratterizzato la storia letteraria dei primi decenni del Novecento. Per esempio, esso non pare riferibile a Proust, dove ogni sentido è narrato in modo fenomenologicamente meticoloso, tanto da far affiorare ogni volta il peculiare sguardo del narratore: ma anche in questo caso, a differenza di quanto accade nel Museo, ogni vissuto è sempre ancorato ad un io che non dubita mai della sua consistenza ontologica, ad un io crocevia che solo il lavoro della memoria può scomporre e riconfigurare secondo un disegno organico intelligibile. Sebbene, come fa notare Remo Bodei, nella Recherche i diversi io del narratore possano succedersi come altrettante «varietà di possibili nuovi centri di aggregazione dell’esperienza», dando vita ad una teoria di «io di ricambio» in cui mutano di volta in volta sia il tono affettivo sia il modo di comprendere le cose (cfr. RB, pp. 122-123), nemmeno in questo caso si abbandona la prospettiva realistica imperniata sulla centralità di un luogo privilegiato, di un io che rimane comunque — nonostante le sue oscillazioni e pur dando vita ad un mondo che sembra coincidere con il sentido del narratore — identico a sé e ben distinto da tutti gli altri che si profilano nel ricordo. La realtà sociale e la vita parigina rimangono sullo sfondo come una presenza variegata e costante, mentre gli stati d’animo e le disposizioni psicologiche di Marcel vi si stagliano contro ogni volta senza perdere mai la cognizione del tempo proprio della sua esistenza specifica. Ogni slittamento dalla propria identità psicologica è controllato e ancorato ad un io persistente, che ritrova nel proprio passato le ragioni del suo sentimento del mondo.
Nel Museo del Romanzo dell’Eterna, invece, Macedonio abolisce effettivamente ogni riferimento ad una realtà oggettiva e separata, al contrasto tra i diversi io e il mondo, alla trama e alla storia, al contesto sociale e culturale, come nessun scrittore più o meno realista si era mai sognato di fare. In base alla sua concezione della Belarte, infatti, ciò da cui ogni romanzo dovrebbe prendere le mosse non sono le situazioni o le sensazioni dell’esperienza quotidiana, ma la domanda essenziale che avvolge al suo interno qualsiasi persona supposta reale insieme a qualsiasi personaggio supposto immaginario, domanda che non scaturisce dalla loro storia o dagli «avvenimenti» della loro vita, ma dalla percezione della propria inesistenza, che conferisce loro la propria peculiare disancorata consistenza.
5. La dimora immaginaria del Museo
Secondo il critico César Fernández Moreno le chiavi di lettura dell’opera di Macedonio Fernandez sono tre: la poematica del pensare, l’umoristica concettuale e la narrativa di passione (cfr. FR; pp. 337-338 e 338, nota 1), chiavi di lettura che si rivelano tutte pertinenti e utili all’interpretazione del Museo del romanzo dell’Eterna, romanzo che può, per buone ragioni che sarebbe qui difficile sintetizzare, essere considerato il suo capolavoro letterario.
La poematica del pensare è l’arte di subordinare la scrittura al pensiero vivo, quale può scorrere realmente solo in personaggi non realistici, i cui pensieri si snodano all’interno di un unico flusso coscienziale; l’umoristica concettuale concerne l’attitudine dei personaggi a rovesciare i canoni che ispirano la credenza nell’io e nel mondo, il gusto per l’acrobazia intellettuale, la piena accettazione dei paradossi che il pensiero genuino sa proporre a se stesso; la narrativa di passione è una narrativa non brutta, ovvero che evita d’intrattenersi su tutti quegli stati d’animo che non sono in grado di saturare l’anima.
Questa nuova concezione del romanzo — o, per meglio dire, dell’antiromanzo, la cui estetica era già stata almeno in parte preannunciata da Ortega y Gasset negli anni venti e che ha un precursore letterario, già a metà del diciottesimo secolo, nel Tristam Shandy di Laurence Sterne — di un romanzo cioè ricco di digressioni autoreferenziali e d’interrogazioni sul proprio senso estetico — ha in Macedonio, ad un tempo, uno dei teorici più consapevoli e uno dei suoi autori più originali e poetici.
«Le opere più interessanti della letteratura romanzesca attuale — scrive Nelida Salvador — hanno un elemento comune: quello d’interrogarsi, nel loro stesso sviluppo, sulla forma del romanzo» (cfr. NS, p. 117). Nel Museo, questa tendenza giunge al punto di differirne sorprendentemente a lungo l’inizio, fino quasi a dimostrarne l’impossibilità paralizzante, lasciando nel contempo intravedere l’attitudine del suo autore a trasfigurarsi incessantemente nella luce riflessa dagli altri personaggi della sua opera.
Il Museo del romanzo dell’Eterna (Primo romanzo bello) , fa seguito ad Adriana Buenos Aires (Ultimo romanzo brutto) , e nel progetto originario doveva essere pubblicato insieme a quest’ultimo, che sarebbe «brutto» per il fatto di essere ancora partecipe di una concezione narrativa ancora troppo realistica. Difficile descrivere le caratteristiche fondamentali del Museo: certo non si tratta di un romanzo realista. Come si è già visto, e come la Jalabert rileva in modo puntuale, per Macedonio l’arte realista non fa che imitare imperfettamente e innecessariamente la vita (cfr. MS, 108). Inoltre, per lui la bellezza nell’arte non è un’imitazione della bellezza nella vita, per il semplice fatto che, considerata in se stessa, fuori da un sentido, la bellezza non esiste: essa può essere prodotta solo dall’arte attraverso un’espressione indiretta, non informativa (cfr. Ivi, pp. 109-110).
Coerentemente con questa posizione antirealista, mutano nell’arte di Macedonio la funzione dei personaggi e dell’eroe. Come rilevano Patricia Garcia e Raquel L. Poblet, se per Lukács «l’eroe nel romanzo è colui che emerge dalla scissione tra la pura empiria della vita e un senso (sentido) che si è perso», di modo che il romanzo scaturirebbe dalla loro contrapposizione; «Macedonio riformula il luogo dell’eroe per chi crea uno spazio da cui lui costruisce la finzione: questo sarà lo spazio dell’Eterna, eroe puro del Museo. . ., sarà il luogo della verità, in cui non abitano le parole» (DN, p. 52).
Ma se non si tratta di un romanzo realistico, non è neanche un romanzo fantastico, o almeno non lo è secondo l’accezione del termine proposta da Tzvetan Todorov, e ciò nonostante alcune caratteristiche che potrebbero suggerire l’idea opposta.
Secondo Todorov, infatti, «il fantastico dura soltanto il tempo di un’esitazione: esitazione comune al lettore e al personaggio» (LF, p. 43). Sotto questo profilo, per le «esitazioni» ontologiche in cui incorrono, o almeno dovrebbero incorrere, sia il lettore sia i suoi personaggi, anche il Museo potrebbe essere annoverato tra le opere di questo genere letterario.
Inoltre, Todorov ritiene che uno dei tratti del fantastico consista nella cancellazione dei confini tra soggetto e oggetto (cfr. LF, 120), e data l’indeterminatezza di tali confini nel Museo, questa potrebbe costituire un’ulteriore ragione per inserirlo in questa tipologia letteraria.
Tuttavia, tali criteri sembrano, ad un esame più circostanziato, entrambi piuttosto generici e poco pertinenti, come testimonia la difficoltà di inquadrare il Museo nella classificazione proposta dallo stesso Todorov: lo «strano puro», il «fantastico strano», il «fantastico meraviglioso» e il «meraviglioso puro» (LF, 46), sebbene esista forse la possibilità di inserire il Museo in quest’ultima categoria, qualora lo si facesse rientrare nell’ambito del «Meraviglioso puro, non giustificato», che è caratterizzato, come sostiene Mabille, dal tentativo d’intraprendere «l’esplorazione più completa della realtà universale» (cfr. Ivi, p. 59).
Ma anche quest’espressione di Mabille ha un significato ambiguo e a sua volta troppo generico, e sembra riferirsi ad una modalità di «esplorazione» assai diversa da quella intrapresa nell’opera di Macedonio.
Se poi consideriamo che il Museo risulta decisamente un’opera poco «verosimile», e che Todorov considera l’inverosimile opposto al fantastico, una simile collocazione appare ulteriormente problematica. Ricordando la definizione di Soloviov e di James secondo la quale «anche il racconto fantastico comporta due soluzioni, una verosimile e soprannaturale, l’altra inverosimile e razionale», e precisando che si accede al fantastico quando è difficile optare per questa seconda soluzione, e si è di conseguenza pronti ad adottare l’ipotesi del soprannaturale piuttosto che l’assenza di una spiegazione (cfr. Ivi, pp. 48 e 51), le categorie utilizzate dallo studioso russo non sembrano atte a cogliere la peculiarità del romanzo di Macedonio.
Tuttavia, il Museo potrebbe rispondere ad un requisito antirealistico che Todorov attribuisce alla letteratura in generale. Scrive infatti:
una visione corrente e semplicistica presenta la letteratura (e il linguaggio) come un’immagine della ‘realtà’, come un ricalco di ciò che essa non è, come una serie parallela e analoga. Ma questa visione è doppiamente falsa poiché tradisce sia la natura dell’enunciato che quella dell’enunciazione. Le parole non sono etichette incollate a della cose che esistono in quanto tali indipendentemente da esse. Quando scriviamo, non facciamo altro che scrivere: l’importanza del gesto è tale che non lascia spazio a nessun’altra esperienza. E al tempo stesso, se scrivo, scrivo su qualcosa, anche se questo qualcosa è la scrittura. Perché la scrittura sia possibile, essa deve partire dalla morte di ciò di cui parla: ma questa morte la rende a sua volta impossibile giacché non c’è più di che scrivere. La letteratura non può diventare possibile che in quanto si renda impossibile. O ciò che si dice è lì, presente, e allora non vi è posto per la letteratura; oppure si fa posto alla letteratura, e in tal caso non c’è più niente da dire. Come scrive Blanchot: ‘Se il linguaggio, e in particolare il linguaggio letterario, già in anticipo non si slanciasse costantemente verso la propria morte, esso non sarebbe possibile, giacché la sua condizione, e il suo fondamento, è questo movimento verso la sua impossibilità’ (Ivi, p. 178).
Ora, pur ammettendo che l’arte non consiste nella «riproduzione di una ‘realtà’», perché «essa non viene dopo di questa, imitandola», (PP, p. 125), questa prerogativa non realistica dell’arte in genere — sottolineata sia da Todorov sia da Macedonio, e per la quale tutta l’arte letteraria potrebbe essere ridotta, in senso lato, al genere fantastico — non pare sufficiente per inserire il Museo, semplicemente in virtù dell’assenza programmatica di realismo, nel genere più specificatamente fantastico cui fa riferimento Todorov.
Ciò nonostante, il romanzo di Macedonio sembra possedere qualche tratto in comune con alcune opere di questo tipo. Citando Henry James, Todorov ricorda ad esempio, nel suo La poetica della Prosa, le parole con cui Mr. Gedge — custode, insieme alla moglie, del museo dove sono custodite le opere del sommo poeta nazionale — commenta l’esito del racconto La morte dell’idolo, di cui è uno dei coprotagonisti:
In realtà, non c’è un autore; un autore, cioè, di cui si possa parlare. Vi sono tutte queste persone immortali, nell’opera; ma non c’è nessun altro. Non solo l’autore è un prodotto dell’opera, è anche un prodotto inutile. L’illusione dell’essere deve essere dissipata; ‘un simile individuo non esiste’ (Ivi, pp. 129-130).
Quest’accenno all’illusione da dissipare in cui consiste ogni autore, sembra infatti prefigurare una delle tematiche centrali nel Museo, in cui l’autore è sì presente, ma in una forma trasfigurata rispetto all’autore storico.
Nella parte finale dello stesso saggio, Todorov fa capire a chiare lettere che la nozione di fantastico non richiede preliminarmente alcun rinvio all’eccezionale o allo stupefacente, giacché l’essere fantastico di un personaggio si può manifestare in condizioni e circostanze «normali». In Kafka, per esempio, è l’uomo «normale» a essere «fantastico» e, come si è visto, anche per Macedonio la letteratura dovrebbe trattare situazioni assolutamente normali, mostrando quanto paradossale e sorprendente possa risultare tale normalità. Infatti, come i personaggi kafkiani, ciò che caratterizza o contraddistingue i personaggi del Museo — conferendo loro qualcosa che assomiglia a una personalità definita — non è la presunzione che essi siano dotati di un io, quanto il saper vivere, ciascuno in un modo che gli è peculiare, sentimenti e stati d’animo assolutamente normali con un rigore esasperato, ripercorrendo ciascuno la genesi dello stato, o sentido, che lo domina fino alle sue conseguenze più drastiche
6. I personaggi filosofici di un romanzo metafisico
I personaggi del Museo, inoltre, sembrano sviluppare al massimo limite una delle tendenze più rilevanti nella storia della letteratura degli ultimi due secoli: l’inclinazione alla riflessione, e nella fattispecie, alla riflessione filosofica.
In effetti, alcuni dei protagonisti dei romanzi più significativi della prima metà del novecento tendono a pensare di più rispetto ai classici del realismo ottocentesco e lo spazio dedicato dal narratore all’esame del loro tempo interiore si dilata a discapito di quello dedicato all’azione. In Proust, Mann e Musil, questa tendenza giunge, ancorché in modi diversi, alla massima espressione. In Kafka, in particolare, assume poi le sembianze di una proiezione del soggetto all’interno di uno scenario allegorico in grado di evidenziare la sua collocazione paradossale all’interno dell’universo simbolico.
Questa tendenza può essere però già percepita nell’Ottocento: rispetto ai grandi romanzi del XVIII secolo, infatti, i personaggi dei grandi romanzi realisti del XIX secolo, e in particolare di quelli degli autori russi (si pensi ad esempio a Dostoevskij), sembrano sempre di più indulgere, come rileva Bachtin, «al sogno, alla predicazione e all’ammaestramento inattivo, alla riflessione sterile»; (ET, p. 142) sterile: ovvero non proiettata necessariamente verso l’azione o non sempre idonea a trasformarsi in azione.
Nel romanzo a-realistico di Macedonio, la tendenza dei protagonisti all’inazione si fa assoluta, tanto da farli coincidere con una sorta di ipotetici centri spirituali irradianti pensieri e desideri dominanti, finalisticamente preorientati seppur divaganti, veri e propri fasci di stati d’animo e riflessioni il cui centro coincide con la propria meta, con un’agnizione radicale, con un’illuminazione che ne trascende la dimensione individuale, rispetto alla quale la stessa nozione di «io» diviene ridondante. Alla luce di tale finalismo interno, anche la loro apparenza corporea appare residuale, si rivela come una conseguenza illusoria e marginale, e l’azione può intervenire solo come l’ultimo atto virtuale di una serie di pensieri circolari.
La concezione della letteratura propria del Museo, inglobando il lettore all’interno del romanzo e sollecitandolo alla critica della sua posizione di soggetto, giunge a trasfigurare il soggetto stesso in una realtà ipotetica, a sospenderlo ontologicamente tra le parentesi che gli sono provvisoriamente fornite dai suoi deboli confini, percepibili solo attraverso il gioco di sguardi e desideri degli altri personaggi, tra i quali sono da annoverare anche l’autore e il lettore. A quest’ultimo, in particolare, così come al «critico» nell’accezione di Roland Barthes, sarà proposto di «continuare le metafore dell’opera» (CV, p. 59) senza cercare di ridurla ad un significato prevalente, fino a svelare quella «assenza del soggetto» (ivi, 58) che, sempre secondo Barthes, la letteratura enuncia. «Solo la lettura ama l’opera — scrive Barthes — e mantiene con essa un rapporto di desiderio. Leggere è desiderare l’opera, voler essere l’opera, rifiutarsi di giustapporle una parola che le sia estranea: l’unico commento che un lettore puro, e che rimanesse tale, potrebbe produrre, è il pastiche (come testimonia l’esempio di Proust, amante delle letture e dei pastiches») (Ivi, p. 63).
E proprio con un pastiche si potrebbe continuare a scrivere il Museo, che Macedonio indica, nel suo prologo finale, come «il primo ‘libro aperto’nella storia letteraria» (MR, p. 328). Qualsiasi lettore futuro sarà quindi autorizzato «a correggerlo e pubblicarlo liberamente» (Ibidem), menzionando o meno la sua opera e il suo nome, per sviluppare il «confusionismo deliberato» che lo caratterizza e la sua «fecondità coscienziale liberatrice» (Ivi, p. 329), la cui artificiosità consiste nell’indebolire, nella coscienza, «la nozione e la certezza di essere, dalla quale procede l’intimidazione universale dell’altrettanto assurda e vacua nozione verbale del non-essere. Esiste solo un non essere: quello del personaggio, quello della fantasia, quello dell’immaginato. L’immaginatore non conoscerà mai il non essere» (Ibidem). L’immaginatore, potremmo chiosare, colma d’essere il non essere di ogni ipotetico esistente.
In questo senso, il Museo potrebbe essere considerato un «immaginario romanzo metafisico»: in esso non c’è posto per la distinzione tra fantasia e realtà, ma solo per immaginatori e immaginati. E non c’è posto nemmeno per una vera e propria trama: si sviluppa infatti in maniera digressiva e rapsodica, legando passato e futuro in un unico eterno presente e fornendo sempre nuovi spunti di riflessione e di passione ai personaggi che lo abitano. Lo si potrebbe per questo definire anche un «romanzo metafisico di passione», che inizia grosso modo a metà del suo tragitto, dopo cinquantasette prologhi ricchi di considerazioni etiche ed estetiche, in cui le coscienze dei singoli personaggi possono essere viste come aspetti, momenti o attitudini di un unico flusso monocoscienziale, in cui irrompono con una certa regolarità squarci di lirismo e interrogativi drastici, considerazioni filosofiche minuziose, incalzanti, commoventi o divertenti, ma tutte imperniate sul rapporto che ogni personaggio, autore compreso, ha con l’Eterna e con i suoi riflessi all’interno dell’opera.
7. I personaggi del Museo e l’Eterna
Nel Museo la domanda che concerne l’Essere non è riconducibile a domande circa la sua storia o il suo futuro. L’Essere assomiglia all’apertura originaria, alla domanda sul senso dell’Essere di cui parla Heidegger e che per Macedonio ci avvolge sin dall’inizio, che quasi ci osserva e ci «sente» instancabilmente dalla sua prospettiva ideale, cioè particolare-universale.
L’Eterna — che di tale prospettiva ideale costituisce il momento focale — sa che non può essere amata da quel tutto-amore privo di passato che le è mancato; sa che il proprio passato è stato irrimediabilmente disunito e che non può modificarlo, per cui, non essendo stata prima d’essere amata, non potrà mai tornare ad essere quel che non è stata.
D’altra parte, l’essere amata di una passione assoluta le conferisce il dono di poter illuminare di una luce nuova il passato di chi la ama, fino a modificarlo radicalmente. Ognuno — sia egli personaggio, autore, lettore o controfigura dell’autore, come nel caso del Presidente — sarebbe infatti condannato a permanere chiuso nel suo passato se proprio l’Eterna non fosse in grado di cambiarlo, e poiché può fare, con il passato di chi la ama, ciò che non riesce a fare con se stessa, chi la ama può coltivare la fondata speranza di poter modificare il proprio passato.
L’Eterna non ha inizio, o almeno non ne ha uno diverso da quello in cui qualcuno ha iniziato ad amarla, e perciò è destinata a vivere con la tragica convinzione di non aver vissuto il suo stesso inizio, nell’ipotesi angosciosa d’un passato scoperto d’amore, di una esistenza nata prima d’esser nata e d’essere quindi nata vuota, priva di vita. Gli altri personaggi del Museo sembrano invece tutti alla ricerca di una possibilità, di quella stessa possibilità invocata da Kierkegaard come antidoto della disperazione. Ma non sarà per la fede in un Dio scandaloso e paradossale che potranno arginare gli effetti della loro disperata leggerezza, dell’assenza di un ancoraggio nel reale, ma solo per la loro fede nell’amore-passione, nell’amore che non ha timore di accogliere pienamente la passione, di farsi suo testimone ed esegeta. Solo l’Eterna incarna adeguatamente l’impossibilità della morte cui i personaggi del romanzo sono consegnati: in quanto possibilità di modificare il loro passato, lei costituisce la possibilità per eccellenza, quella dell’eterna rinascita, che può fare a meno di ricorrere a qualsiasi forma di fede perché è già certezza di salvezza, ovvero, passione d’inesistenza, dato che, oltre la passione di non esistere più amando, nulla è.
Il desiderio che permane talora nei personaggi del Museo di passare all’esistenza extraromanzesca della vita è in questo senso a sua volta illusorio: come potrebbe infatti passare all’esistenza ciò che già esiste in una forma assoluta e comunque superiore, ciò che costituisce un momento spirituale di una catena musicale, in cui ogni momento è contessuto insieme agli altri all’interno di un unico sviluppo complessivo? La disarmonia prestabilita che regna nel romanzo sembra avere, nell’armonica arte della fuga, la regola del suo sviluppo: i personaggi sembrano infatti altrettanti temi che si succedono e sovrappongono, voci di strumenti di una conversazione polifonica, idee fisse che si muovono e adoperano per modificarne altre non meno tenaci, punti di fuga in altrettante prospettive, in un crescendo entropico ricco di evocazioni metaforiche e paradossi concettuali. La coscienza della mancanza ad essere che accompagna l’Eterna e che attraverso di lei trasmigra in ogni personaggio colloca la mistica presente nel romanzo oltre ogni possibile fede religiosa: questa pare infatti all’autore malata per la sua vocazione collaterale di negare l’Essere, mentre quella dell’Eterna è fede-passione nella pienezza dell’Essere, in un essere senza male, la cui disperazione essenziale è frutto di solo-amore, dell’amore unico e solo per quella pienezza dell’Essere da lei evocata.
Siamo qui di fronte alla dialettica di un misticismo radicale: proprio in virtù di una fondamentale mancanza ad essere, l’Eterna può colmare quella che impedisce a chi la ama di modificare il proprio passato. Se l’amore, come sostiene Lacan, è il dono di «ciò che non si ha» (RP, 59; cfr. FI, 214), l’Eterna lo impersona nel modo più compiuto, perché lei dona esattamente questa possibilità, di modificare il proprio passato, non avendo per sé questa possibilità.
Per questo, per quest’unisono del pensare con l’amore, ogni volta che un qualsiasi sentimento per la sua intensità trabocca non può far altro che riversarsi su quello degli altri, che gli daranno voce in altri modi, fino a dare vita ad un monologo intercoscienziale polifonico. A differenza che in Beckett, qui però le varie voci non si giustappongono, non slittano le une sulle altre senza reale interazione, ma sciolgono e superano la loro dimensione essenzialmente monadica, si scompongono ed intrecciano in dialoghi aperti, debordando sempre un po’da se stesse. Non urtano sordamente contro una materia gommosa e invisibile, come nel teatro beckettiano, ma danno vita ad una «pluralità coscienziale con intercausalità immediata» (MR, p. 274) dove ciascun personaggio, pur rimanendo fedele alla propria vocazione essenziale, è altrettanto profondamente percorso dal desiderio di condividerla con gli altri e sembra volersi nutrire di quelle altrui come di allettanti variazioni della propria, come fosse destino il doverle ricondurre nell’alveo della propria coscienza e nel disegno che la dirige verso la propria meta.
Se anche possono provare sentimenti negativi — come l’invidia o l’accidia — i personaggi del romanzo lo fanno in quanto anche tali sentimenti possono condurli in direzione del polo opposto-positivo, polo verso cui ogni sentire sembra irrimediabilmente attratto. Così l’invidia — che «è la peggiore ineleganza della personalità, una mancanza di egocentrismo (finché non si ottiene la Passione, bisogna essere assolutamente egocentrici; e, nell’amore, del tutto senza io)» (Ivi, p. 213) — ha proprio nell’egocentrismo il suo primo opposto positivo, mentre quest’ultimo può trovarlo nella passione, che è il «vero stato mistico» (Ivi, p. 266), e nell’essere senza io dell’amore. L’invidia, dunque, anela anch’essa, attraverso una serie di rovesciamenti dialettici, al suo opposto-positivo estremo, alla scomparsa cioè del cuore stesso dell’invidia, lasciando dell’io solo quanto basta a iniziare di nuovo il percorso da capo qualora dovesse avventurosamente ritrovarsi al punto di partenza per essersi dimenticato di come ha fatto a giungere fino al riconoscimento della propria inesistenza.
La perdita di confini tra io ed io che la passione comporta non ne produce tuttavia — come quelle che solitamente accompagnano alcune sindromi psicotiche — una analoga tra l’io e il reale, semplicemente perché in questo caso non v’é il reale; se vi fosse, tutta la filosofia e l’opera letteraria di Macedonio si baserebbe su una enorme forclusione: nel reale, e cioè nella dimora del romanzo, sarebbe stato rigettato ogni contenuto psichico. Ma il reale è per Macedonio solo un altro luogo, il luogo ipotetico di un compimento che è impossibile nella dimora del romanzo, all’interno del quale ciascun personaggio è condannato all’incompiutezza per il fatto di aderire costantemente alla propria essenza di domanda e alla domanda di poter coincidere con la propria essenza, nonché per il costituire solo un momento all’interno di uno sviluppo coscienziale unitario e polimorfo.
Si potrebbe ricordare, parafrasando Pessoa, che parlare con sincerità significa non sapere con quale sincerità si parli e che siamo variamente altri da un io di cui non sappiamo se esista (cfr. FP, p. 69). Anche in questo senso, tutti i personaggi del romanzo risultano, una volta di più, assolutamente sinceri, coincidenti col proprio demone, incapaci di concepire una qualsiasi forma di inautenticità perché sono in ogni momento ciò che pensano. Una simile sincerità, fuori dal romanzo, può irrompere nella vita solo per qualche istante, come nell’impressione d’inesistenza che rende vana qualsiasi maschera; mentre all’interno del Museo ciascun io presunto è certo della propria consistenza, ma lo è soltanto, dialetticamente, perdendo ogni certezza di sé nella perseveranza del proprio domandare, per la monomania filosofica — la stessa che ha caratterizzato il pensiero di ogni grande metafisico — che contraddistingue la posizione di ognuno nel contesto generale e che ci fa scoprire come ciascuno non sia superfluo, ed anzi risulti necessario, una possibilità che sarebbe incongruo non vedere realizzata.
La bontà umana vi si manifesta costantemente anche per questo: per il fatto che ciascuna posizione coscienziale, a causa della propria eccentricità spirituale prosegue senza soluzione di continuità verso le speculazioni e le rivelazioni di altri personaggi, fino a rendere manifesta la solidarietà fraterna che li avvince tutti dentro il romanzo, e lasciando presagire che, se anche vi fosse un fuori, essi non potrebbero che portarsi seco la loro sistematica complementarietà, perché in qualsiasi Olimpo volessero recarsi il dolore sarebbe comunque di casa, spudoratamente affratellato in un solo sentido con la propria gioia. Nella dimora del romanzo, infatti, anche la tristezza si fa lieta per la confidenza nel prossimo vivente e per la possibilità di una comunione immediata con la passione di chiunque, che elide ogni io presunto e che talvolta è foriera di una felicità errabonda e radicale.
Come in certi film di Godard, dove il pensiero irrompe talora in un quotidiano che dà forma a una storia solo sospesa e irrisolta, anche qui tale irruzione coglie, in un reale appena accennato, quanto basta per consentire a ciascun personaggio di subentrare a se stesso nella coscienza di un altro personaggio. Del resto, noi siamo soltanto i motivi che eleggiamo per il nostro dolore e la nostra gioia; oltre questi, non siamo, o siamo altri che non vorremmo essere; ma se adottiamo tali motivi, se li amiamo per un’unica passione in entrambi i casi, allora siamo chiunque li condivida, siamo tanti io-senza più io, debordanti da sé, senza più centro né storia, frammenti siderei e vaganti di un unico riflesso dell’Essere; riflesso particolare, quindi, di un riflesso universale, fatto della stessa unica sostanza.
8. La poesia di Macedonio, Borges e l’ultraismo
In quale misura la vita e la morte di Elena de Obieta incisero sulla vita e sull’opera di Macedonio Fernández, nonché sul significato che egli attribuì alla morte, all’impossibile morte, è complesso valutare con esattezza, ma certo pare arduo volerne prescindere.
Elena e Macedonio si sposarono nel 1901; insieme ebbero quattro figli; lei morì nel 1920. La sua figura costituisce un riferimento importante, se non essenziale, sia per il poema Elena Bellamorte che per l’Eterna del Museo.
Tuttavia, Elena non fu l’unica donna importante della sua vita; oltre a lei, anche Consuelo Bosh, che Macedonio conobbe intorno al 1923-1924, incarnò ai suoi occhi quell’amore pienamente compiuto, in grado cioè di eternizzare l’istante e di modificare il passato, che doveva costituire la vocazione più ricorrente nel principale personaggio femminile del suo romanzo più emblematico.
Donna generosa, appassionata, «non compassionevole, ma gioiosa, felice di darsi alla pienezza dell’immenso sentire dell’identificazione» (cfr. CE, p. 19), Consuelo costituisce per alcuni studiosi dell’opera macedoniana, come ad esempio Ana Camblong, il modello prevalente de l’Eterna, tanto che quest’appellativo sostituì il nome di Consuelo in alcuni scritti a lei dedicati e in seguito inseriti nel Museo (cfr. Ivi, p. 20).
In ogni caso, al di là di ogni concreto riferimento biografico, sia nel Museo sia nella maggior parte delle poesie di Macedonio la nostalgica evocazione della donna amata si converte sempre nella sua perenne presenza, nell’annullamento del proprio io e nell’ineluttabile trasfigurazione della morte nella bellezza. La pienezza dell’amore può far sì che nessun passato abbia su chi lo ha vissuto alcun potere, semplicemente perché prima dell’amore non si è stati. Così il desiderio fondamentale dell’Eterna è di «non essere prima d’amare» (MR, p. 270) e di realizzare quel «tutto-amore» in cui sia possibile «vivere la vita di un altro, annullando quasi la propria» e procedere alla «sostituzione completa e costante del vivere per se stessi con il vivere mediante un’altra vita» (CE, p. 15).
Ma come interagisce questa concezione dell’amore con la produzione letteraria e con la teoria estetica di Macedonio? Esattamente attraverso la metafora, perché solo «la metafora prova che si è sentito. Autentica un sentire perché solo colui che sente può creare una metafora» (TN, p. 139).
Come si è visto, questa figura retorica assume un ruolo essenziale nel suo modo di concepire e fare poesia, paragonabile per importanza a quello che le attribuisce Borges nella sua poetica, come testimonia la seconda conferenza del ciclo tenuto ad Harvard nel 1967 e dedicato a questo tema (cfr. IP, pp. 25-42). Anche il legame stretto che sussiste tra amore, morte e oblio — tre temi ricorrenti nelle poesie di Macedonio — è essenzialmente metaforico. Si può anzi sostenere che il classico legame tra amore e morte è reso metaforicamente più evidente e forte proprio attraverso il concetto di oblio. Una tragedia, ad esempio, potrà risultare esteticamente riuscita nella misura in cui eviterà di ricorrere a suicidi, incesti o adulteri, perché la Belarte non ha bisogno di questo genere di fatti, di emularne la drammaticità. Il più eminente argomento tragico sarà invece «l’idillio-tragedia dell’amore e della sua cessazione per oblio», perché l’oblio di coloro che amiamo, senza la loro morte, «è più tragedia e più morte della morte» (AR, pp. 237-238).
«Solo dell’amore c’è morte — scrive Nelida Salvator riassumendo in modo efficace il pensiero di Macedonio in proposito — ed è la bellezza di amore. La morte così intesa non può annullare l’amore senza accentuarlo, ‘provandolo attraverso l’assenza e la speranza’. Solo l’oblio è in grado di tagliare il vincolo tra due anime, perciò ‘in ogni oblio c’è tutta la morte, l’unica morte’» (NS, p. 68). In una simile ipotesi estetico-metafisica, prima ancora che letteraria, la trama e l’argomento possono risultare solo un puro pretesto, posticcio e antiestetico, e anche l’amore può consistere solo in un sentimento destrutturato, la cui storia e trama sono poco rilevanti.
L’amore per Macedonio «è uguaglianza» (MR, p. 225), «è reciprocità» (NT, p. 242), perché ogni volta che viene meno la reciprocità inizia l’oblio. Questo non è ubicato in un io, così come non vi è ubicato l’amore, ma insorge al suo posto nello stesso luogo franco da ogni dualismo, e costituisce, per chiunque ami, l’unica morte possibile. Solo non amando o non essendo amati si può morire, perché chi ama può vivere fuori dal proprio io, in una dimensione sospesa tra sogno e realtà, o in un romanzo-museo in cui i corpi non nascondono di essere solo idee viventi di corpi ed egli può essere attraversato interamente da tale alterità come da un’unica passione pervasiva e ricorrente. Chi non ama, viceversa, è destinato a rimanere prigioniero dell’illusione dell’io e, quindi, a non accedere alla possibilità della morte, dato che, per l’io, una volta che abbia preso atto della propria inesistenza, nemmeno la morte è possibile.
Questa concezione del rapporto tra amore e morte, nonché tra la morte e la bellezza, è ancora più evidente alla luce della produzione poetica di Macedonio. Così, nella poesia intitolata Supplica alla vita, dedicata a Elena de Obieta (PC, p. 25), i temi della morte e della «vita ingannatrice» si trasfigurano in quello dell’eterno ricongiungimento nella coppa ricolma di una passione celeste, dove due anime possano essere sempre cullate «da un unico sogno», fino alla spiaggia di un «unico sospiro»:
Luce della vita ingannatrice volubile mareggiata dell’esistenza che gonfi il seno della sonnolenza con una brezza triste o inebriante sulla riva di un nuovo secolo crudele o sorridente — chi può saperlo? - l’anima fragile ci hai portato sulla cresta di una chimera.
Portino via, se vuoi, gli altri bicchieri e lascino soltanto della passione celeste la coppa ricolma, e nell’inganno degli inganni, cullate sempre da un unico sogno unite, dovunque e fino alla spiaggia di un unico sospiro, portino via queste due anime. Così sia.
In un’altra poesia, La morte non è il nulla (PC, p. 55), le implicazioni metafisiche e mistiche dell’assenza dell’amata sono tratte fino alla conseguenza più paradossale: «che nulla è», per lo scambiarsi di posto della vita e delle morte e il loro reciproco inverarsi, per entrambe l’unico possibile riconoscimento, necessariamente reciproco, come soltanto reciproco può essere l’amore:
La morte non è il nulla, ma che nulla è. Il nascere non è la vita, ma che nulla è. Terreno qual è, si sbaglia a piangerti il cuore perché sei nella nostra mente, e fosti prima che fosse visto nella nostra mente tutto ciò che sei, che è, perché mai non fosti se non nella nostra mente e la nostra mente è l’unica che non fu mai. Amarti, poi, dovemmo, perché tu viva e non affliggerti, perché non possa perderti.
In Credevo Io (PC, p. 44), lo stesso tema, già proprio per esempio della poesia cortese, dell’amore come ascesa ad un’esistenza autentica, pienamente dedicata, e priva pertanto di paura, perché interamente pervasa dall’eternità di un sentire, è risolto con una modulazione ancora più classica e geometrica, metafisicamente più essenziale e persuasiva, più euritmica, e tuttavia priva della rigida simmetria propria del compás e dei versi rimati:
Non a tutto arriva amore, perché non può rompere il ramo con cui la morte tocca. Ancor meno può la morte se nel cuore dell’amore la sua paura muore. Ancor meno può la morte, perché la sua paura non può entrare nel petto dov’è amore. Che la morte governa la vita; l’amore la morte.
Le tre poesie sopra riportate rivelano, forse più concisamente di altre, sia i contenuti salienti dell’estetica macedoniana sia i fondamentali principi ispiratori della sua opera in versi. Non si tratta per Macedonio di rendere musicalmente, con il verso, un’emozione, ma di suscitare un’emozione attraverso il pensiero essenzialmente metaforico, quasi riportandolo scarnamente sulla pagina, senza contestualizzarne l’origine né ricondurlo alle sensazioni che potrebbero, in un tempo della vita, averlo nutrito più o meno silenziosamente. In Credevo io, ad esempio, paura, amore e morte si giustappongono e integrano nello scenario di una relazione compiuta, che lascia spazio solo a quelle immagini metaforiche — come «ramo» o «petto» — che ne sorreggono la trasfigurazione in una emozione sola e conclusiva, in un’emozione che scaturisce da un puro pensiero, assolutamente coincidente con un solo sentido.
Alla luce di queste considerazioni, le analogie con l’estetica ultraista — e, almeno fino a un certo periodo, anche con l’estetica di Borges — risultano evidenti. Secondo Jo Anne Engelbert, i principi che presiedono all’opera letteraria di Macedonio sono «gli stessi adottati dagli ultraisti»: per esempio, come nell’ultraismo, anche «in Macedonio l’arte narrativa non dovrebbe cercare d’informare o d’istruire, né fare appello all’esperienza sensoriale dei lettori» (MS, p. 113).
Ma se questa può costituire tutt’al più una pregiudiziale comune, al fine di rendere riconoscibili le affinità più rilevanti tra le rispettive poetiche è utile ricordare qui come Borges — nelle rivista Nosotros, in cui pubblicò i suoi primi scritti — riassume l’estetica dell’ultraismo:
Schematizzato — scrive -, l’atteggiamento attuale dell’ultraismo può riassumersi nei principi seguenti:
- riduzione della lirica al suo elemento primordiale: la metafora;
- soppressione delle frasi di collegamento, delle zeppe e degli aggettivi inutili;
- abolizione dei particolari ornamentali, del confessionalismo, della precisione delle circostanze, delle prediche e della ricercata nebulosità;
- sintesi di due o più immagini in una sola, il che rafforza il loro potere suggestivo.
Le poesie ultraiste consistono in una serie di metafore ognuna delle quali possiede la propria suggestività e compone una visione inedita di un frammento della vita. La differenza fondamentale che esiste tra la poesia in vigore e la nostra è questa: nella prima, la trovata lirica è magnificata, messa in rilievo; nella seconda, è soltanto brevemente notata (cfr. GG, p. 9).
Dopo aver citato questo passo, Gerard Genot osserva, nella sua monografia su Borges, che in uno dei paragrafi conclusivi dello stesso scritto
viene espressa una delle idee che diventeranno fondamentali dell’estetica di Borges, anche quando si sarà staccato dal movimento ultraista: ‘La poesia lirica non ha fatto altro, finora, che oscillare tra la caccia agli effetti uditivi o visivi ed il prurito di esprimere la personalità dell’autore. Il primo dei due compiti concerne la pittura e la musica, il secondo si fonda su un errore psicologico, dato che la personalità, l’io, non sono se non un’ampia denominazione collettiva che congloba la pluralità di tutti gli stati di coscienza’ (ibidem).
In questi brani, oltre all’evidente risonanza del pensiero metafisico di Macedonio, ci pare sia opportuno sottolineare il ruolo che la metafora svolge sia nella poetica ultraista sia in quella dello stesso Borges, per il quale questa figura retorica ha il merito di saper «alludere» senza spiegare: «le cose solo suggerite sono molto più incisive di quelle spiegate» (IP, pp. 33-34), e forse proprio a questa prerogativa della metafora dovrebbe essere ricondotta la centralità che essa assume sia nella sua poetica sia in quella ultraista. Nella propria, come si è visto, Macedonio le attribuisce un’importanza analoga. In generale, si può sostenere che, sebbene con accentuazioni talora diverse, tutti i requisiti menzionati da Borges a proposito dell’ultraismo sono presenti anche nelle poesie di Macedonio e che questi può quindi essere considerato un esponente di questo pur variegato movimento.
Ciò, naturalmente, non deve far dimenticare alcune differenze fondamentali tra i modi in cui Macedonio e Borges concepiscono e fanno poesia, e che sono riassunti in maniera efficace da quest’ultimo nel prologo dedicato all’opera dell’amico: «Un’altra causa della sua facilità letteraria era l’incorreggibile dispregio delle sonorità verbali e persino dell’eufonia. Non sono lettore di melodiuzze, affermò una volta; e le preoccupazioni prosodiche di Lugones o di Dario gli parevano del tutto vane. La poesia, affermava, sta nei caratteri, nelle idee o in una giustificazione estetica dell’universo; quanto a me, dopo tanti anni, io penso che sta essenzialmente nell’intonazione, in un certo respiro della frase» (PR, p. 805).
Se queste osservazioni possono risultare pertinenti e utili per delineare i rapporti tra le rispettive poetiche e al fine di evidenziare la relazione di entrambe con quella dell’ultraismo, non sono però altrettanto utili per individuare i principi da cui Macedonio potrebbe avere tratto spunto per la sua produzione in prosa, nella quale dà prova di un’originalità non riconducibile a nessuna scuola, né anteriore né successiva. In altri termini: i principi dell’ultraismo, attivi nella produzione poetica, non costituiscono un elemento particolarmente caratterizzante nei suoi romanzi o nei suoi racconti, in cui il tratto più peculiare consiste nel tentativo di produrre nel lettore quell’effetto d’irrealtà di sé e del mondo su cui ci siamo a lungo soffermati, ricorrendo ad una tecnica che con i principi dell’ultraismo sopra delineati ha solo un rapporto indiretto e mediato.
Per quanto concerne invece l’influenza di Macedonio su Borges — rilevata da numerosi studiosi di entrambi gli autori e tale da indurre il poeta Pedro Juan Vignale a definire Borges come «il Platone incoffessato» di un Macedonio che rivestirebbe, in tale interpretazione, i panni di Socrate (cfr. MS, p. 36) — la si può evidenziare anche ricordando, come fa ancora Genot, la premessa scritta da Borges al suo primo libro di poesie, Fervore di Buenos Aires, pubblicato solo due anni più tardi rispetto all’articolo apparso su Nosotros, dove rivolge al lettore le seguenti parole: «Se le pagine di questo libro consentono qualche verso felice, mi perdoni il lettore la scortesia di averlo usurpato io, previamente. I nostri nulla differiscono di poco: è banale e fortuita la circostanza che tu sia il lettore di questi esercizi, ed io il loro estensore« (FB, pp. 8-9).
Di questa teorizzazione della possibilità di «un plagio alla rovescia» — che annulla quasi la differenza con l’altro invitando a considerare ogni altro solo come una nuova occasione per l’insorgere del medesimo sentido poetico — Borges è in effetti debitore a Macedonio, che appare — come ha rilevato Rodríguez Monegal — «non solo come il precursore di una modalità, in sé passeggera, di Borges; ma anche come la guida delle sue prime riflessioni, come l’ispiratore del suo idealismo solipsista» (BU, p. 175)
Per Macedonio infatti, come nota Diego Vecchio, dire «sentito da un altro e non sentito sono la stessa cosa. Di fatto, la nozione di ‘altro’è per Macedonio tanto illusoria come la nozione di tempo, spazio, causalità o io. Anche l’altro è un’appercezione, un io che, invece di stare dentro, sta fuori. L’altro è un alter-ego, prodotto dal dualismo del proprio e di quello altrui. E il campo fenomenico, che è uno solo, non accetta alcuna forma di dualismo» (EG, p. 49).
L’altro, dunque, non c’è, perché o è già in me, come un mio sentido, oppure è impensabile e inconoscibile. In altri termini, Macedonio è un monista, e lo è anche nella sua estetica letteraria: per lui «autore e lettore sono due stati psichici intercambiabili, che appartengono allo stesso psichismo universale» (EG, p. 129). Per questo, possono essere considerati l’uno il sogno dell’altro: l’autore può considerarsi un sogno del lettore, e questi un sogno dell’autore (cfr. Ibidem); e per questo qualsiasi opera letteraria — e forse, più in generale, artistica — può essere concepita come una sorta di usurpazione o di anticipazione di un vissuto e di una prospettiva metafisico-estetica già inscritti nel novero di possibilità che l’umanità è comunque destinata a percorrere, anche se attraverso un solo individuo e un solo mondo, perché entrambi coincidono comunque con l’unico mondo, perché possono essere solo riflessi del mondo unico in cui si forma ogni sentido.
Questo snodo centrale della metafisica di Macedonio si rivela dunque decisivo per la comprensione della sua estetica, così come evidenzia una volta di più l’influenza fondamentale che il pensiero di Shopenhauer ha su entrambe: anche per quest’ultimo, infatti, «soltanto uno è il soggetto del grande sogno della vita […]. È un grande sogno che viene sognato da ogni singolo essere, ma in modo tale che tutti i suoi personaggi lo sognino in sua compagnia» (ID, 72).
Sigle bibliografiche
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