Amor mortis e potenziamento esistenziale: Il problema etico in Spinoza e in Schelling

1. La degenerazione dello spirito di purezza

L’etica di Spinoza e quella di Schelling sono in profondo contrasto: la prima mira ad un potenziamento esistenziale, mentre la seconda è ancora sostanzialmente rivolta all’imparare a morire di Platone. Ma qual è il Platone di Schelling? Di certo il platonismo nel corso dei secoli è spesso degenerato fino a confondere l’esigenza di una purificazione liberatrice — atta cioè alla conquista di una dimensione etica della realtà — con tutta una serie di fobie (contro il corpo, la felicità, le passioni, la vita ecc.), diventando così di volta in volta nichilismo, amor mortis, filosofia della tristezza e della malinconia, e traducendosi poi non di rado nell’utopico tentativo volto a ottenere quella totale sublimazione e annientamento delle passioni che si trova alla base di tante morali repressive.

Rispetto a tale fobia (a dir il vero sconosciuta al Platone che aveva posto il pathos della meraviglia alla base della filosofia) la posizione di Spinoza rappresenta in età moderna un salutare antidoto. Egli infatti ci insegna che cancellare e annientare le passioni con la volontà è semplicemente impossibile in quanto una passione non può essere limitata se non da un’altra passione più forte.1

Certo se fra i sentimenti non si riconoscono differenze essenziali, allora un’etica basata sui sentimenti non sfuggirà mai alle critiche che già Kant rivolgeva a Hume, ma se invece si ipotizza, come ha fatto Brentano alla fine dell’Ottocento, l’esistenza di una differenza di natura fra sensazioni ed emozioni intenzionali — se si mette in luce ad es. che l’atto dell’amare è qualcosa di profondamente e fondamentalmente diverso da una mera sensazione di piacere, o che l’atto dell’odiare si pone su di un piano ben distinto da quello in cui si situa una sensazione di dolore provocata dall’urto di una mano su di un oggetto — allora un’etica fondata su emozioni autonome dalla sensibilità non necessariamente può essere etichettata come un’etica sensualistica.

E proprio sul rapporto fra etica e sfera emozionale la lezione spinoziana è ancora attuale: le passioni non vanno condannate in massa, né annientate attraverso un’etica della volontà, quanto piuttosto correte, equilibrate, aggiustate con la pazienza di un ottico che modella la lente di un occhiale. Le passioni ci danno, nell’immediatezza, un’immagine confusa, si tratta allora di ordinarle e di metterle a fuoco, ma non di cancellarle. E la stessa cosa vale anche per la vita etica: essa non si raggiunge facendo terra bruciata di tutte le emozioni, ma equilibrandole sapientemente fra di loro. Le passioni infatti sono sia positive (come la letizia) sia negative (come la tristezza) (Cfr. Eth. III, prop. 11, scholium).

Ma Spinoza ci insegna anche qualcosa di più: ci dice che tale morale repressiva non si è imposta a caso e che essa è connessa alla figura del tiranno.2 La domanda che Spinoza si pone nel 1670 (Prefazione al Trattato teologico-politico) è esemplare: perché gli uomini si battono per la propria schiavitù come se si trattasse della loro stessa libertà? Per Spinoza la morale della tristezza è funzionale sia alla mentalità dello schiavo che a quella del tiranno. Lo schiavo, o come dirà Nietzsche l’uomo risentito, ha bisogno di tale morale rinunciataria per giustificare la propria debolezza e la propria incapacità di vivere. A sua volta il tiranno sfrutta a proprio vantaggio le passioni tristi che indeboliscono e rendono l’uomo dipendente. A ben vedere quindi la morale repressiva non elimina tutte le passioni, ma si basa su quelle più negative: ad es. l’uomo terrorizzato dal tiranno è prima di tutto un uomo in preda alla paura. Le morali repressive costruiscono la propria fortuna sull’angoscia e sulla paura, e in primo luogo sulla paura che tutti noi proviamo spontaneamente verso la morte. È questa paura la passione incontrollata che danneggia l’uomo e lo spinge ad un comportamento irrazionale.

In Spinoza si può invece ritrovare la rivendicazione al diritto alla felicità, in contrapposizione ad una lunga tradizione di pensiero che ha esaltato la filosofia come culto della morte e della tristezza: «L’uomo libero non pensa a niente meno che alla morte; e la sua sapienza è meditazione non della morte ma della vita» (Eth. IV, prop. 67). Infatti l’uomo libero non agisce per paura della morte ma concentra le proprie energie al fine di vivere in modo più attivo e intenso:

L’uomo libero, cioè chi vive soltanto secondo il dettame della ragione, non è guidato dalla paura della morte, ma desidera direttamente il bene, cioè agire, vivere, conservare il proprio essere sulla base della ricerca del proprio utile; e perciò non pensa a niente meno che alla morte, ma la sua sapienza è meditazione della vita (Eth. IV, prop. 67, demonstr.).

2. L’etica di Spinoza come etica del potenziamento esistenziale

Tutta l’etica di Spinoza è pervasa da un’idea affascinante e allo stesso tempo grandiosa. Qual è — si chiede Spinoza nella XIX lettera a Blyenbergh — il significato dell’invito «a non mangiare quel frutto» che Dio rivolge ad Adamo? Spinoza, secondo quanto suggerisce Deleuze, mette qui radicalmente in discussione un’interpretazione corrente: Adamo sbaglia ad intendere le parole «non mangiare quel frutto» come un divieto. Dio non vieta ad Adamo qualcosa che farebbe bene, in nome di una morale rinunciataria. Egli semplicemente gli rivela che quel frutto è avvelenato, che mangiandolo subirà una dannazione esistenziale. Adamo dovrebbe quindi seguire quell’invito al fine di evitare un danno, non una punizione.

Tutta l’etica spinoziana è qui, in questo imperativo semplicissimo: evita ciò che provoca danno e tristezza e va verso ciò che incrementa l’esistenza e la felicità. Tuttavia bisognerebbe chiedere a Spinoza: che cosa avrebbe dovuto fare Adamo udendo tali parole? Forse seguire l’invito divino in nome della fede o della fiducia? Anche qui Spinoza con la sua teoria della libertà sorprende e disorienta: Adamo in realtà non deve compiere un’azione etica in base al libero arbitrio, ma piuttosto seguendo la sua natura, la quale a sua volta (non essendo una sostanza autonoma) dipende da Dio.

Adamo cioè non deve seguire l’invito divino in nome di un’etica basata sul principio di fiducia, perché seguire l’invito divino significa essere liberi e far spazio alla propria necessità interiore. Insomma Spinoza ci dice che dobbiamo seguire i comandamenti divini, non perché in caso contrario subiremmo una punizione, ma perché essi ci aiutano ad evitare il veleno esistenziale, la dannazione.

Alla morale del volgo che ritiene giusto fare qualcosa per timore di una punizione o con la speranza di una ricompensa, contrappone l’etica del saggio che ritiene buona una cosa in quanto aumenta la propria saggezza.

L’etica di Spinoza diventa una lente ottica capace di correggere le distorsioni umorali dell’uomo, un metodo more geometrico di rettificazione del suo comportamento. Se l’uomo è in qualche senso distorto, sarà possibile rettificare questo effetto di distorsione ricollegandolo alle sue cause more geometrico. Il principio fondamentale è quello secondo cui «La letizia è il passaggio dell’uomo da una minore ad una maggiore perfezione, mentre la tristezza è il passaggio dell’uomo da una maggiore ad una minore perfezione». Altrettanto importante è la definizione di amore e di odio: «L’amore è la letizia accompagnata dall’idea di una causa esterna» come «l’odio è tristezza accompagnata dall’idea di una causa esterna» (Eth. III, affectuum def. 6 e 7).

Ed in questo senso si sviluppa anche la teoria sul conatus: nella tristezza la nostra potenza serve interamente ad attaccare la traccia dolorosa. Nella gioia invece la nostra potenza è in espansione, si compone con la potenza dell’altro e si unisce all’oggetto amato. La gioia aumenta la nostra potenza di agire, mentre la tristezza la diminuisce. Come dice bene Deleuze la direzione del conatus definisce il diritto del modo e fonda l’etica: il conatus non deve seguire un fine imposto dalla morale, ma al contrario l’etica non è altro che la direzione del conatus verso l’incremento esistenziale.3

3. Libertà come necessità

Il problema etico può essere inteso come il problema della libertà. Tradizionalmente il problema della libertà è stato connesso a quello della volontà, ma anche il rapporto fra libertà e volontà viene ripensato da Spinoza in termini inconsueti. Alla fine della Prefazione al V libro dell’Etica Spinoza tralascia di parlare di tutto quello che Descartes ha affermato a proposito della volontà e della libertà, ritenendo che sia falso e già ampiamente confutato: «denique omnia, quae [Descartes] de voluntate, ejusque libertate asserit, omitto». Per Spinoza infatti la libertà umana non è possibilità di scelta e non può esser ridotta al liberum arbitrium. L’uomo libero non è chi è libero di scegliere, ma colui che trova il modo di realizzarsi e di potenziare la propria esistenza, anche se questo significasse imboccare una strada obbligata priva di alternative o di scelte. La libertà di scelta può aiutare a trovare la maniera migliore per realizzarsi, ma non è sufficiente per essere liberi e non è neppure una condizione sempre necessaria. Ma sarebbe riduttivo interpretare questa posizione di Spinoza come un determinismo assoluto capace di annullare il concetto di libertà.

È esperienza comune che non sempre la libertà di scelta sia produttrice di libertà, mentre non è raro il caso di individui che affermano di esser diventati liberi seguendo una vocazione o un destino che non lasciava alternative. Che cosa significa poi libertà di scelta? Non siamo liberi perché scegliamo di fare qualcosa pur potendo non farla, ma perché facendo quella particolare cosa rendiamo migliore il nostro modo di esistere. Alla base dell’atto libero c’è qualcosa di più radicale della mera libertà di scelta e il concetto di libertà di scelta ha questo in sé di essenziale: la possibilità di ricercare in autonomia la propria strada.

In Descartes la libertà è la libertà del volere: libero è colui che ha una volontà libera di scegliere. La libertà viene a coincidere con il liberum arbitrium, e la virtù consiste nel rimanere attaccati senza incertezze alla decisione già presa: è la fermezza della volontà, la coerenza nei confronti della risoluzione liberamente presa con il consiglio della ragione, come nell’esempio del viaggiatore che si perde nel bosco a cui conviene scegliere una direzione e seguirla con determinazione. In Spinoza invece la libertà è espressione di una necessità superiore: la libertà si esprime nell’incremento del potenziamento esistenziale, ma questo non è dovuto ad una scelta arbitraria quanto ad una saggezza che nessuno può insegnare. La capacità di individuare e seguire questa necessità alla base del potenziamento esistenziale è ciò che Spinoza intende per virtù: «Per virtù e potenza intendo la stessa cosa» (Eth. IV def. 8). Ciò che vale per l’uomo vale anche per Dio: così il Dio cartesiano è essenzialmente un Dio della volontà, un Dio che se volesse potrebbe mutare anche le verità eterne, invece per Spinoza Dio è tale in quanto causa sui.

Ma che cos’è propriamente la necessità su cui Spinoza fonda la libertà? Tale necessità è ciò che rende un essente tale, è la ragione della sua esistenza, è ciò che lo salva dall’inesistenza: la libertà non si fonda sulla libertà di scelta quanto sull’atto con cui Dio permette all’essente di esistere e di rafforzare la propria esistenza:

si può così chiaramente comprendere in che consiste la nostra salvezza [salus], ossia beatitudine, ossia libertà: vale a dire […] nell’amore per Dio, ossia nell’amore di Dio per gli uomini (Eth. V prop. 36 schol.).

La libertà presuppone la virtù e questa l’atto dell’amore di Dio, atto sacro perché capace di salvare e di potenziare. È chiaro che in questa prospettiva il problema della teodicea diventa ancora più acuto perché o si nega la sostanzialità del male oppure Dio stesso ne viene coinvolto in prima persona. La soluzione di far dipendere il bene e il male dal liberum arbitrium è essenzialmente un tentativo di dare una risposta al problema lacerante della teodicea, ma se si accetta la stringente argomentazione di Spinoza (secondo cui il liberum arbitrium non basta a fondare la libertà, né risulta una sua condizione necessaria) è chiaro che il problema filosofico del male rimane aperto e rischia di riesplodere (come infatti accade puntualmente nello Scritto sulla libertà di Schelling).

4. Oltre l’autoconservazione

Schelling non nega un legame fra necessità e libertà, critica però il concetto di necessità di cui si serve Spinoza, ma questo sempre sulla base di una interpretazione generosa del pensiero di Spinoza stesso. Prima di affrontare allora il vero punto della discordia occorre evitare di ricadere in una interpretazione riduttiva del pensiero di Spinoza, e questo vale in particolare per il tema dell’autoconservazione e dell’utilitarismo.

Per Spinoza un uomo è libero quando segue e sviluppa la propria natura e le proprie attitudini. L’uomo libero è l’uomo virtuoso e l’uomo è virtuoso nella misura in cui risulta esistenzialmente potente. È attorno al concetto di «potenza» che si precisa ulteriormente il significato di necessità e di gran parte dell’etica spinoziana, perché qualcosa è bene se accresce tale potenza e male se la indebolisce. Ed è proprio il concetto di potenza che rimette però in campo il problema della volontà.

La potenza a cui qui si riferisce Spinoza è il conatus dell’essente ad esistere, è la vis perseverandi. E tale conatus, col quale ogni cosa tende a perseverare nel proprio essere, non è altro che l’essenza della cosa stessa (cfr. Eth. III, prop. 7).

Qui forse Nietzsche fraintende quando interpreta questa vis perseverandi nel senso di un volere per il volere, di una vita che vuole la conservazione. Perseverare nell’esistenza risulta per Spinoza possibile solo grazie all’amare di Dio: non è un conservare lo status quo, ma un preservare lo stato di grazia che fa esistere: come si è già visto la salvezza consiste infatti nell’amore di Dio. Etico risulta allora tutto quello che si muove nel senso di un rafforzamento di questo potenziamento esistenziale. È in questo senso che Spinoza afferma: «lo sforzo di conservare se stessi è il primo e unico fondamento della virtù» (Eth. IV, prop. 22, coroll.).

Se è il conatus alla base della distinzione fra buono e cattivo allora qualcosa risulta buono nella misura in cui viene desiderato, e non piuttosto desiderato perché è buono (come recita il famoso scolio della prop. 9 della III parte). Ebbene questo conatus porta l’uomo fino al terzo genere di conoscenza, fino alla beatitudine. Com’è possibile che il conatus si elevi a tanto? Innanzitutto occorre tener presente la distinzione fra volontà (conatus della mente) e appetito (conatus della mente e del corpo) (cfr. Eth. III, prop. 9, scholium).

Si è poi già visto che in Spinoza non si tratta di un potenziamento meramente fisico, quanto piuttosto di un potenziamento esistenziale. Il conatus poi diventa virtù solo se è inteso nel senso di «sforzo secondo ragione», ma «ciò di cui ci sforziamo secondo ragione non è nient’altro che intendere» (Eth. IV, prop. 26). Lo sforzo a conservare l’esistenza si attua attraverso l’intendere in modo chiaro e distinto la propria causa, cioè Dio.

Si assiste qui ad una convergenza fra piano esistenziale e conoscitivo: il potenziamento esistenziale avviene nella misura in cui si intende ciò che segue necessariamente dalla propria natura, ma l’intendere stesso prevede tre livelli distinti di cui il massimo è il terzo: quello in cui si hanno le idee adeguate (cfr. Eth. II, prop. 40 scholium 2). Altrettanto il potenziamento esistenziale avviene in base all’azione, ma l’azione è possibile solo in base ad una causa adeguata, in cui cioè l’uomo percepisce in modo chiaro e distinto l’effetto della causa stessa, ha cioè un’idea adeguata della causa. Quando invece l’uomo agisce senza avere un’idea adeguata della causa (in base ad una causa parziale o inadeguata) ecco che allora rimane prigioniero delle passioni e ottiene un indebolimento della propria potenza esistenziale.

Questo processo coinvolge sia il corpo che la mente, così il corpo che aumenta la propria potenza di agire fa questo attraverso un’affezione positiva che è azione, mentre se la diminuisce rimane in balia della passione. Altrettanto la mente agisce in quanto ha idee adeguate e patisce nella misura in cui non le ha (cfr. Eth. III, prop. 1).

La virtù si basa allora sullo «sforzo di intendere secondo ragione» e precisamente in base al terzo genere di conoscenza, e questo secondo il principio per cui maggiore è l’adeguatezza della conoscenza, maggiore sarà la potenza dell’azione: «la quale virtù è tanto maggiore, quanto più la mente conosce le cose con [il terzo] genere di conoscenza» (Eth. V, prop. 27, demonstratio).

Il terzo genere di conoscenza è infatti una conoscenza adeguata dell’essenza delle cose e «quanto più intendiamo le cose in questo modo, tanto più intendiamo Dio» (Eth. V, prop. 25, demonstratio). Supremo sforzo della mente è allora intendere le cose col terzo genere di conoscenza, perché questo corrisponde alla suprema virtù della mente, e alla suprema potenza esistenziale. In tale supremo sforzo l’appetitus humanus si appaga attraverso la conceptio dell’essenza (produttrice di azione) tanto che dal terzo genere di conoscenza scaturisce il più alto appagamento della mente [Mentis acquiescentia] che possa darsi (cfr. Eth. V, prop. 27).

Che in Spinoza non si tratti allora solo di mera autoconservazione (come invece suppone Nietzsche) è testimoniato proprio dalla teoria dell’affectus: questo esprime uno stato di transizione dell’essente verso un incremento o una diminuzione della propria potenza esistenziale. Il passaggio ad una maggiore potenza è detto laetitia, mentre quello ad una minore potenza tristezza. La summa laetitia, quindi il massimo incremento della propria potenza, è la beatitudine in cui si raggiunge un appagamento completo dello sforzo e quindi non la sua conservazione, ma casomai il suo superamento. Si tratta di un momento di liberazione da tutti gli affetti attraverso l’affetto massimo, in cui la tensione, appagandosi, rilascia la propria forza e si lascia soggiogare dalla mente.

Propriamente non si tratta di eliminare tutti gli affetti, ma di una conversione degli affetti in quello massimamente positivo, tanto che il risultato finale non è una conoscenza asettica e puramente intellettuale di Dio, ma piuttosto un amor Dei intellectualis. Dio qui non è colto come res cogitans, e neppure come legge o volontà, ma innanzitutto come atto di amore: Dio in quanto ama se stesso, ama gli uomini (cfr. Eth. V, prop. 36, coroll.), e tale amare è ciò che permette l’esistenza dell’uomo, anzi la sua salvezza, in quanto Dio è causa dell’esistenza. Ed è in questo senso che Spinoza può affermare: «la morte è tanto meno dannosa, […] quanto più la mente ama Dio» (Eth. V, prop. 38, scholium). Nell’amare Dio e nell’essere amati da Dio (salvezza) la mente umana diviene eterna.

5. Virtù e potenza

Nietzsche non è riuscito a leggere Spinoza oltre il principio di piacere, anche se poi l’impostazione complessiva di Nietzsche risulta muoversi in una direzione per alcuni versi simile a quella di Spinoza. Se Descartes — nota Nietzsche in un aforisma del 1885 — inizia a fare filosofia dicendo di aver ritenuto per vere molte cose che ora vede errate, altrettanto Spinoza inizia a fare filosofia constatando di aver ritenuto per buone molte cose che in realtà erano cattive e prive di valore. E così come Descartes sembra dire: datemi una unica verità indubitabile e io vi costruirò sopra un sistema di sapere universale, Spinoza afferma di riflesso: datemi un bene indubitabile, e io vi costruirò sopra un’etica inconfutabile.

Nietzsche individua anche con sicurezza il principio dell’etica spinoziana: è buono ciò che rafforza il potenziamento esistenziale, il conatus; è male ciò che lo indebolisce. Qui — nota sempre Nietzsche — Spinoza compie una svolta decisiva fondando l’etica non più su di un giudizio teorico, ma sulle affezioni, o meglio sul grado di potenza del conatus.

Risulta evidente che questa tesi trovi poi un’eco profonda nella dottrina della volontà di potenza. Anzi Nietzsche interpreta senza mezzi termini il conatus spinoziano nel senso della volontà stessa. Così nel 1875 Nietzsche afferma:

Per dirla con Spinoza: nulla è di per sé riprovevole; solo la volontà dell’uomo stabilisce questo come buono e quello come cattivo. […] È quindi allo sforzo che si commisura il valore delle cose […] e a me pare che il valore sulle cose della vita dipenda dall’altezza e dalla forza dello sforzo.4

Tuttavia è proprio Nietzsche che finisce con l’interpretare in senso riduttivo il concetto di conatus: Spinoza parlerebbe di una semplice conservazione o autoconservazione, là dove bisognerebbe invece pensare ad una spinta al cambiamento e all’incremento della propria potenza. Ma in Nietzsche troviamo anche una riduzione delle posizioni di Spinoza all’interno dell’utilitarismo.

E Spinoza sembra offrire varie giustificazioni a tale interpretazione, ad es. quando afferma che «il primo e unico fondamento della virtù, ossia della retta maniera di vivere, è di cercare il proprio utile» (Eth. V, prop. 41, demonstratio). E la virtù non è altro che la potenza su cui si fonda tutta l’etica: «per virtù e potenza intendo la stessa cosa» (Eth. IV, def. 8).5

Che queste affermazioni non possano essere intese nel senso di un’etica utilitaristica emerge non appena però si indaghi sul significato che Spinoza intende dare al termine «utile»: utile è solo ciò che «conduce l’uomo a maggior perfezione» (Eth. IV, prop. 18 scholium). E non è poi da dimenticare che per Spinoza «gli uomini che ricercano il proprio utile sotto la guida della ragione non appetiscono per sé niente che non desiderino gli altri uomini, e perciò essi sono giusti, fedeli, onesti» (Eth. IV, prop. 18, scholium).

Quello che guida l’etica di Spinoza non è dunque un principio edonistico o utilitaristico nell’accezione usuale: il vero utile non segue il principio di piacere, quanto piuttosto ciò che aumenta la nostra potenza di agire, cioè ciò che ci fa diventare «giusti, fedeli, onesti»; inoltre il vero utile è solo quello guidato dalla ragione. Bisogna poi sempre tener presente il contesto generale, che nonostante le affinità mantiene ben distinta la posizione di Spinoza da quella di Nietzsche, quello per cui il potenziamento esistenziale in Spinoza non è limitato ad una autoconservazione egocentrica ma implica piuttosto una crescita spirituale fino ad arrivare a cogliere il proprio radicamento nella sostanza e quindi a tradursi in beatitudine.

6. Spinoza e le ambiguità dell’amor mortis

Non si può quindi eliminare sbrigativamente l’etica spinoziana appiattendola sull’utilitarismo o sull’edonismo. Essa rappresenta una sfida molto seria ad una filosofia come quella che Platone abbozza nel Fedone, dove l’etica viene connessa al problema dell’imparare a morire. Nulla sembra più lontano dalla «triste etica platonica» della «gioiosa etica spinoziana»: da un lato la filosofia della tristezza, dall’altro l’esaltazione della vitalità, la rivendicazione dell’individuo a ricercare la propria felicità, l’emancipazione dalla psicologia dell’amor mortis con cui la superstizione e il tiranno hanno mantenuto l’uomo in schiavitù. Questa contrapposizione risulta tuttavia profondamente ingiusta nei confronti di Platone.

Qui non si tratta di confondere Platone con Spinoza ma di mettere a confronto due filosofie che rimangono profondamente diverse, individuando limiti e pregi di ciascuna impostazione. È vero che il platonismo è degenerato nella svalutazione del corpo, nel messaggio che si potrà essere veri filosofi solo dopo la morte. Come se Socrate avesse aspettato la morte per comportarsi eticamente, vivendo, fino a quel momento, in completa balia di ogni possibile vizio, libidine e pulsione. Come se la teoria dell’eros potesse basarsi su di una concezione completamente negativa del corpo e l’erotismo platonico non sia già l’espressione di una logica nuova capace di illuminare anche il corpo, sottraendolo a reazioni puramente automatiche di tipo istintivo.

Rispetto a questa degenerazione del platonismo ben venga allora Spinoza, come pure la condanna di Nietzsche al Socrate decadente. Ma questo platonismo è appunto una degenerazione e una caricatura dell’insegnamento di Platone: è la lettura che di Platone ha fatto proprio l’uomo criticato da Spinoza e da Nietzsche: lo schiavo, l’uomo risentito, l’uomo che odia la vita, l’uomo che è incapace di essere libero, l’uomo che per comportarsi bene ha bisogno di essere assoggettato al timore e alla speranza in un premio ultraterreno.

È per questo che Spinoza risulta salutare: con il suo rigore geometrico sconfigge finalmente il falso platonismo e ci costringe a ripensare Platone in modo nuovo. Ma una volta che si libera Platone da queste incrostazioni millenarie erompe qualcosa che rischia di prendersi una rivincita sullo stesso Spinoza, ed è quello che avviene, a mio avviso, con le interpretazioni di Platone proposte da Hölderlin e da Schelling. Uno Hölderlin che di fronte alla storia millenaria di questi fraintendimenti pronuncia una frase terribile: «Heiliger Plato, vergib! Man hat schwer an dir gesündigt».

Veramente Platone è il filosofo della tristezza? Nella prima parte del Fedone si distingue il falso filosofo dal vero filosofo: la plebe pensa che il vero filosofo, rinunciando a ciò che dai più viene ritenuto importante, conduca una vita prossima alla morte, e in tal modo lo scambia con il falso filosofo, quello che predica la morte, cioè il vivere senza vivere. In realtà la plebe non si è ancora resa conto che l’unico che sta vivendo è il vero filosofo, e che invece è proprio essa a condurre una vita molto prossima alla morte, al vivere dormendo. Per questo la plebe non ha compreso in che senso il vero filosofo è degno di morte: la morte di cui è degno il vero filosofo è la catarsi, cioè l’uscita dallo stato di sonnolenza in cui vive l’uomo della caverna, non la morte fisica a cui è stato ingiustamente condannato Socrate. La condanna alla morte fisica è quella che casomai meriterebbero i falsi filosofi, i sofisti come Evèno di Paro, che insegnano la morte, cioè un modo di vivere sbagliato.6

La morte a cui si deve preparare il vero filosofo è prima di tutto la morte della quotidianità, della vita inautentica, solo in questo modo l’uomo è in grado di rinascere; solo in questo modo è in grado di raggiungere lo sguardo della phronesis, e quindi di vivere in modo etico. Socrate aveva potuto imparare a vivere ed era riuscito a vivere solo perché aveva imparato a liberarsi dall’angoscia per la morte, solo perché aveva imparato a morire.

Ma allora attraverso l’atto catartico il filosofo non indebolisce la propria potenza esistenziale quanto, al contrario, la rafforza: l’uomo che esce dalla caverna vive in modo molto più intenso dei suoi compagni, e lo stesso Socrate sentendo questa sproporzione fra la propria potenza esistenziale e quella dei suoi concittadini si paragona ad un insetto fastidioso che ha la missione di pungolare e ridestare una città che non sa vivere. In ogni caso però la posizione di Platone rimane problematica: tale messaggio risulta così forte e brusco, risulta espresso in termini così ingenui ed elitari da aver indotto in molti il sospetto di un «imperialismo filosofico» strisciante: qui non solo si descrive il modo più intenso di vivere, ma si corre addirittura il rischio di considerarlo come l’unico veramente autentico. Come dobbiamo sentirci allora noi «mortali» nei confronti di Platone?

Ma la giusta comprensione del problema platonico della morte fa emergere la vera natura del contrasto fra Platone e Spinoza. La questione decisiva per tutta l’etica di Spinoza diviene: è possibile accrescere questo potenziamento esistenziale all’infinito senza rotture? È possibile passare in modo rettilineo e graduale per tutti i livelli richiesti fino a raggiungere la beatitudine senza fare l’esperienza della «morte» platonica?

Non mi sembra che il limite di Spinoza consista nel concepire un Dio che ama solo se stesso e che risulta incapace di amare l’uomo, in quanto è chiaro che, proprio in una prospettiva panteistica, amando se stesso Dio ama anche l’uomo, e l’uomo amando Dio prende parte all’amore divino. Spinoza non propone certo un Dio che non ama l’uomo, o un uomo chiuso nel proprio egoismo, o una condanna delle passioni. Tuttavia proprio questa comunanza panteistica fra Dio e uomo spiega anche perché per Spinoza la morte platonica ha un significato etico negativo: essa segnerebbe una rottura là dove Spinoza vede solo una linea. Qualora tuttavia fosse possibile coniugare la morte platonica con il potenziamento esistenziale nascerebbe subito un serio interrogativo sull’effettivo piano raggiunto dalla beatitudine spinoziana.

Non soltanto concetti fondamentali del platonismo, ma anche del cristianesimo assumono in Spinoza un senso negativo: morte, umiltà, pentimento: «L’umiltà non è virtù, ossia non sorge dalla ragione» (Eth. IV prop. 53), oppure: «Il pentimento non è virtù, ossia non sorge dalla ragione; ma chi si pente di un fatto, è due volte misero, ossia impotente» (Eth. IV prop. 54).

L’umiltà e il pentimento per Spinoza non sono virtù, in quanto «lo sforzo di conservare se stessi è il primo e unico fondamento della virtù» (Eth. IV, prop. 22, coroll.). Il pentimento e l’umiltà sono allora condannati in quanto non conservano, ma addirittura diminuiscono la nostra potenza esistenziale. A proposito della morte Spinoza osserva che «la morte è tanto meno dannosa, quanto maggiore è la conoscenza chiara e distinta della mente, e di conseguenza quanto più la mente ama Dio» (Eth. V, prop. 38, scholium). La morte per Spinoza significa il rimanere prigionieri delle affezioni del corpo: invece tanto più incrementiamo la nostra potenza passando ai gradi successivi della conoscenza (e in particolare alla beatitudine) tanto meno moriamo. La salvezza poi consiste nella beatitudine (cfr. Eth. V, prop. 36, coroll.).

In Spinoza vi è cioè una contrapposizione fra morte e beatitudine, mentre in Platone la phronesis si può raggiungere solo attraverso la «morte catartica» e qualcosa di simile avviene nel cristianesimo per la beatitudine. Il pentimento, l’umiltà, l’imparare a morire sono tutti concetti che vengono condannati da Spinoza in quanto implicano un decremento della potenza esistenziale. Spinoza risulta qui perfettamente coerente, ma proprio in questa coerenza si espone ad una obiezione importante.

Mettiamo da parte le varie interpretazioni che intendono Platone e il cristianesimo nel senso di una avvilente filosofia della tristezza: qual è il messaggio ultimo implicito nel termine platonico di katharsis, o in quello cristiano di pentimento? Si tratta essenzialmente di una funzione positiva del negativo: l’imparare a morire di Platone è un atto negativo, catartico, attraverso il quale il filosofo fa morire la quotidianità del prigioniero nella caverna ma per uscirne rafforzato alla luce del sole, l’imparare a morire diventa il rinascere a vita nuova, l’imparare a considerare la realtà sotto una nuova luce. E questo modo di vivere etico, reso possibile dalla rinuncia ai piaceri a cui si dedicano invece i più, è l’occasione per vivere in modo più intenso e per conquistare piaceri più alti.

E che dire poi dell’autentico concetto cristiano del pentimento? Veramente consiste in una mera umiliazione fine a se stessa? In una punizione atta a decrementare la potenzialità esistenziale? Nel suo senso più autentico non consiste piuttosto nel prendere coscienza e rispettare ciò che si pone oltre i confini del nostro ego in modo da raggiungere una identità personale più alta e compiuta? Nel raggiungimento di una presa di coscienza di sé a volte così violenta da trasformare profondamente un individuo? Non si traduce infine anche esso in un aumento della nostra potenza esistenziale?

Dove è dunque la differenza con Spinoza se anche in Platone e nel cristianesimo si cerca un incremento esistenziale? La differenza ruota attorno all’interpretazione del concetto di morte. Detto in termini più precisi: nell’etica di Spinoza si assiste ad un incremento esistenziale che sembra lineare e l’individuo che inizia il percorso è lo stesso che arriva alla beatitudine. Invece in Platone l’individuo che arriva alla phronesis (come nel cristianesimo la persona che arriva alla beatitudine) è profondamente diverso da quello che ha iniziato il percorso: l’individuo che ha iniziato il percorso è morto e ha dovuto rinascere parecchie volte, è caduto e si è rialzato. Il negativo assume qui una funzione positiva, là dove Spinoza negava una qualsiasi funzione positiva al negativo.

Questo del resto è un discorso già sentito e ripetuto anche troppo, ricorda quello secondo cui il negativo è il motore della dialettica: è in sostanza il discorso di Hegel. Ma c’è anche un altro punto di vista: in Schelling in qualche modo il negativo viene posto al servizio del positivo, ma al di fuori di un disegno finalistico o di un processo di Aufhebung o di redenzione completa del male. Ed è Schelling che riesce ad acutizzare ulteriormente il problema etico spinoziano.

7. La dinamica del potenziamento esistenziale: linearità o rottura?

Schelling lo ripete spesso: il limite di Spinoza non è relativo al concetto di libertà, il problema di Spinoza è quello di volere arrivare alla beatitudine attraverso l’ego, cioè senza aver compiuto l’atto catartico platonico, in tal modo raggiunge solo un Dio non vivente, una sostanza rigida, una necessità impersonale. Nega la rottura perché si ferma ai suoi bordi.

Nelle Conferenze di Erlangen Schelling nota che pochi filosofi hanno compreso il senso della nota tesi platonica secondo cui occorre abbandonare tutto per guadagnare tutto. Fra questi filosofi certamente non vi è Spinoza (cfr. Schelling SW IX, 218).7 Per fare filosofia il soggetto deve rinunciare ad essere tale (il che significa: a voler ridurre il non-Io a mero oggetto), deve quindi abbandonare se stesso e uscire al di fuori di sé come soggetto. Solo mettendo fra parentesi l’atteggiamento oggettivante, solo annullando il proprio egocentrismo, l’uomo riesce ad avvicinarsi al divino. Ma questo significa fare l’esperienza dell’annullamento della propria volontà egologica, significa arrivare fino al fondo di se stessi per abbandonare tutto ed essere abbandonato da tutto. Un passo memorabile che Schelling concepisce come il «vero inizio della filosofia» e che «Platone paragonò alla morte» (Schelling SW IX, 218). Un passo che Schelling stesso connette alla nescienza di Socrate: anche qui la filosofia viene vista come conseguenza del riconoscimento dei propri limiti e della relativizzazione dell’Io. Chi vuole veramente filosofare deve rinunciare ad ogni speranza e ad ogni volontà: non deve «voler nulla», deve «sentirsi del tutto povero e nudo».

Qui ci si trova di fronte ad un’interpretazione molto suggestiva dell’imparare a morire platonico: la catarsi platonica ci invita a spogliarci non tanto, o non solo, delle pulsioni istintive, ma soprattutto del proiettivismo egologico, della volontà di potenza su cui si costruisce anche la scienza moderna. Ci invita a raggiungere una «ragion pura», che può esser tale solo se purificata anche dall’intelletto strumentale e dalla conoscenza oggettivante.8 Nell’atto dell’imparare a morire platonico — che propriamente è la purificazione, la catarsi — non si celebrano allora i riti della filosofia della tristezza o di un vuoto amor mortis, ma ci si spoglia da una zavorra che impedisce lo slancio verso un nuovo e più intenso potenziamento esistenziale. Qui l’imparare a morire diventa la cifra dell’estasi schellinghiana. Si tratta, prosegue Schelling, di un passo difficile, eppure in questo «abbandonare tutto si guadagna tutto». Pochissimi ne sono stati capaci e Spinoza, come già detto, non è fra questi.

Senza compiere questo passo Spinoza raggiunge solo una falsa unità con il divino. E la mancata tematizzazione di questo passaggio si riflette inevitabilmente sul Dio spinoziano: il Dio raggiunto da Spinoza è un divino privo di vita, puramente logico. Così già nelle Ricerche sulla libertà Schelling sottolinea che

Dio non è il Dio dei morti, ma il Dio dei viventi […] Comunque si possa pensare la maniera in cui l’essere segue da Dio, questa non sarà mai una maniera meccanica, non sarà mai un semplice causare o collocare, in cui il causato non sia niente per se stesso; così pure un’emanazione in cui quello che emana rimane uguale a quello da cui è emanato, e quindi nuovamente nulla di proprio, di per se stante. Il seguire delle cose da Dio è piuttosto una rivelazione che Dio fa di se stesso. Ma Dio può rivelarsi soltanto in ciò che è simile a lui (Schelling SW, VII, 346-47).

È il tema della rottura, della consapevolezza di uno scarto che non può più essere colmato — come invece avveniva ancora nella Filosofia dell’identità — attraverso l’intuizione intellettuale. Ma questa rottura non riguarda più solo l’uomo che si avvicina al divino: è presente addirittura nel divino stesso, in quanto Dio contiene in se stesso un principio opposto, «la natura in Dio». La rottura etica si connette così nell’ultimo Schelling al problema del male in Dio e alla famosa «dottrina delle potenze». Dio diviene Dio come persona proprio sottomettendo per sempre il male, proprio emergendo dall’abisso della natura, proprio superando la prima potenza. Ed in questo passaggio si determina una rottura che svela Dio come Dio trascendente.9

Ora l’uomo, se vuole rapportarsi al divino vivente, deve compiere un salto mortale perché deve superare quella rottura con cui Dio si è fatto esso stesso trascendente nei confronti della sua natura naturans. Deve compiere l’esperienza dell’imparare a morire platonico, cioè l’estasi dall’ego. Senza questa esperienza della rottura Spinoza arriva solo alla prima potenza: al Dio che si identifica con la natura.

8. Il Dio di Spinoza e la preistoria del divino

È noto che Schelling nelle Ricerche sulla libertà affermò che «tutta la filosofia, proprio tutta, purché sia strettamente conforme alla ragione, è, o diventerà, spinozismo». Altrettanto noto è che in una lettera a Hegel del 1795 si dichiarò «spinoziano». Proprio nello stesso anno uscì lo scritto L’Io come principio della filosofia, in cui l’influsso di Spinoza si manifesta rilevante ed esplicito: Spinoza — si legge nell’introduzione — nonostante sia uno dei filosofi più criticati rimane uno dei più istruttivi (Schelling SW I, 151). È a lui che Schelling pensa quando pone il problema della fondazione del sapere umano e di ogni essente nell’assoluto, un principio che diventa la luce capace di illuminare se stesso e le tenebre.

Egli ha inoltre il merito di aver pensato il concetto originario della sostanzialità nella sua completa purezza (Schelling SW I, 194). Molto interesse suscita anche l’idea spinoziana secondo cui l’essenza di Dio consiste nella sua potenza (Schelling SW I, 196). Eppure — nota Schelling — tanto Spinoza risulta convincente quando ci invita a separarci dalle cose finite per elevarci a Dio, tanto scade quando poi fa di questo Dio qualcosa di morto, di taciturno, di immoto (cfr. Schelling SW IX, 218).

Si tratta allora di mettere in moto la morta sostanza spinoziana, tuttavia tale vivificazione assume in Schelling una connotazione specifica, distinta dal tentativo di Fichte, come anche da quello di Hegel.

Spinoza definisce Dio come causa sui, ma una volta causatosi si irrigidisce in una sostanza immota, metterla in moto significa intenderla come un processo di causa sui continua, di creatio continua infinita, nel senso di un incessante ri-crearsi (cfr. Schelling SW XII, 38). Ma il Dio di Spinoza ha anche un ulteriore limite: la sostanza spinoziana è una sostanza impersonale e priva di volontà: in essa non vi è alcuna traccia della sapienza (cfr. Schelling SW I, 196).

Il problema che contrappone Schelling a Spinoza non è tanto quello di un Dio inteso come assoluta necessità, in quanto Schelling esprime anzi più volte apprezzamento per la tesi di Spinoza secondo cui l’assoluta necessità coincide con l’assoluta libertà. Anche per Schelling, infatti, il problema della libertà è in ogni caso precedente e indipendente da quello della libera scelta. Il limite di Spinoza consiste piuttosto nel considerare in termini impersonali questa necessità, nello slegare tale necessità dal tema della responsabilità.

Tutte queste critiche convergono verso un’idea precisa: la necessità che caratterizza il Dio di Spinoza, la coincidenza fra Dio e natura naturans, non è Dio, tuttavia è «il prius della divinità» (Schelling SW XIII, 159). Che cosa sia questo prius era già stato indagato da Schelling a partire dallo Scritto sulla libertà: è il primo momento della divinità, è il fondamento della divinità, è la natura in Dio.

Poiché nulla è prima o fuori di Dio, egli deve avere in se stesso il fondamento della sua esistenza. Questo dicono tutte le filosofie, ma esse parlano di questo fondamento come di un semplice concetto, senza farne qualcosa di effettivo e di reale. Questo fondamento della sua esistenza che Dio ha in sé non è Dio assolutamente considerato, vale a dire in quanto esiste; poiché anzi egli è solo il fondamento della sua esistenza. Esso è la natura in Dio un essere certo inseparabile da lui, e tuttavia distinto (Schelling SW VII, 359).

Dio ha in sé «un fondamento intimo della sua esistenza che in quanto tale, lo precede come esistente, ma Dio è a sua volta il prius del fondamento in quanto il fondamento, anche come tale, non potrebbe essere, se Dio non esistesse actu» (Schelling SW VII, 358). Le entità mondane per essere separate da Dio

devono divenire in un fondamento diverso da Lui. Ma poiché nulla può essere fuori di Dio questa contraddizione si può risolvere solo così che le cose hanno il loro fondamento in ciò che in Dio non è Lui stesso, vale a dire in ciò che è il fondamento della sua esistenza (Schelling SW VII, 359).

L’immanentismo di Spinoza si regge allora sull’identificazione del fondamento delle cose con Dio stesso, mentre per Schelling questo fondamento non è ancora Dio, ma un Dio estraniato a se stesso.

Mettere in moto la sostanza panteistica di Spinoza non significa ancora raggiungere il Dio vivente e personale, ma concepire questo primo momento del divino come Sehnsucht. Tale fondamento infatti non è altro che il desiderio di generare se stesso che prova l’eterno Uno. Esso non è lo stesso Uno ma è coeterno con lui.

I donneschi lamenti secondo cui in questo modo l’irrazionale è fatto radice dell’intelletto, e la notte principio della luce, si fondano in parte su di un fraintendimento […] Ogni nascita è nascita dall’oscurità alla luce: il seme deve essere nascosto nella terra e morire nelle tenebre affinché una più bella e luminosa fora s’innalzi e si dispieghi ai raggi del sole (Schelling SW VII, 360).

Spinoza non solo ha irrigidito in una sostanza logica questo primo momento che è a fondamento delle cose, ma lo ha confuso con Dio, mentre per Schelling fra tale fondamento e Dio stesso vi è una seconda creazione.

Negli scritti successivi e in particolare in quello Sulle divinità di Samotracia Schelling, confrontandosi con la mitologia antica, comincia a concepire un processo teogonico scandito da varie potenze. L’intento è quello di dimostrare che l’interpretazione del principio primordiale in termini di Hunger o di Sucht, e la visione del primo momento della divinità come Sehnsucht ha origini molto lontane, tali da perdersi nella mitologia antica.

Qui occorre innanzitutto distinguere fra Sucht e Sehnsucht: mentre la Sucht è un Drang precedente qualsiasi realtà in quanto è «fame di realtà» (qualcosa di simile alla materia platonica), la Sehnsucht è già un momento reale, è la prima potenza del divino che però scopre in se stessa una mancanza e un’eccedenza e aspira ad innalzarsi ulteriormente in una potenza superiore. In termini mitologici Schelling identifica la Sucht primordiale con Ceres: Ceres è la madre dell’azione, la madre dell’inizio. Ceres è la Sucht pre-cosmica, pre-reale.

Non è l’inizio, ma una sorta di presupposto dell’inizio stesso. Essa rappresenta la necessità in Dio. Sotto di essa non c’è nulla.

La prima vera potenza è invece rappresentata mitologicamente da Persefone, la materializzazione della magia, l’istanza realista. La magia non è meccanicismo, ma neppure pura creazione, essa è analogia, legame, armonia, copula, funzione che si esercita mitigando il fuoco e la fame. L’armonia consiste proprio in questo temperare la distruttività del fuoco. La seconda potenza è rappresentata da Dioniso che rappresenta la realtà spirituale, l’amore. Infine abbiamo Kadmilos, il giovane Dio che mette in contatto realtà e spirito. L’intermediario che nei Weltalter viene descritto come una eterna copula che crea il cosmo.

Ponendo il problema della natura in Dio, e il problema dell’inizio come Sehnsucht Schelling propone una nuova idea del divino. La vera novità è quella di concepire la divinità come risultato di un potenziamento e non il mondo come frutto di emanazione o di una creatio ex nihilo.

In tal modo la tesi della caduta e del peccato originale — tesi ancora centrale in scritti come Filosofia e religione (1804) — viene messa da parte in quanto il mondo non è una caduta, ma al contrario è Dio che si distingue dal fondamento del mondo elevandosi al di sopra dell’abisso, risorgendo. In tal modo Schelling interpreta la mitologia antica in un senso ben diverso da quello proposto da Creuzer: non vi è teoria dell’emanazione ma innalzamento di Dio al di sopra del mondo. L’inizio non può essere la completezza, ma solo l’eccedenza nei confronti della mancanza, eccedenza che evidenzia il vuoto, appunto la Sehnsucht.

9. La rottura etica e il nuovo concetto di libertà

Questo breve excursus a proposito dello scritto Sulle divinità di Samatracia mette in luce il problema che separa Schelling da Spinoza: «il mero concetto dell’essere necessario conduce solo al Dio morto, non al Dio vivente» (Schelling SW X, 22). Il Dio vivente è un Dio che si è innalzato e separato dal fondamento del mondo, cioè un Dio che ha prodotto una rottura, e che può essere compreso solo ripercorrendo quel passo memorabile che Platone aveva paragonato alla morte.

Ed è qui che Schelling introduce una trasformazione essenziale relativamente al rapporto fra libertà e necessità: quando Dio s’innalza dall’abisso apre un’alternativa e non segue più la necessità che regge il mondo. Qui si parla di una libertà che non è più quella di Spinoza né tanto meno quella di Nietzsche, non c’è più una libertà e un’etica come puro amor fati: Dio in questo atto di rottura ha sovvertito il destino del mondo e prospetta all’uomo un’alternativa che impone un’assunzione di responsabilità.

Non si tratta di ritornare ad una concezione della libertà come liberum arbitrium, o alla tesi che l’uomo progetta in piena autonomia la propria libertà attraverso una decisione sovrana. Per Schelling la libertà dell’uomo rimane una necessità, ma implica una assunzione di responsabilità: infatti l’uomo deve scegliere fra due necessità, fra due destini.

Se Dio non si fosse innalzato al di sopra dell’abisso, all’uomo si sarebbe presentata solo la necessità di Spinoza, ma dal momento in cui apre una alternativa l’uomo diventa responsabile di quello che fa. L’uomo si realizza quando riflette quell’atto di libertà con cui Dio si eleva al di sopra della natura naturans.

L’uomo per rapportarsi al divino che si è innalzato dalla necessità spinoziana deve imparare la Gelassenheit, deve per Schelling compiere l’atto dell’umiltà cristiana, deve porsi in ascolto e rinunciare alla volontà di oggettivazione. In altri termini: l’ego dev’essere sottomesso per far emergere in questa sottomissione una persona che rinuncia ad essere soggetto e che nell’estasi si pone al di fuori di sé:

Solo in questa autosospensione [Selbstaufgegebenheit], autosospensione che troviamo anche nella meraviglia, il soggetto assoluto può sorgere [aufgehen] in lui (Schelling SW IX, 229).

Sia chiaro: qui Schelling non sta inseguendo l’ipotesi teosofica di un contatto facile o di una immedesimazione con il divino: nei confronti di questa ipotesi teosofica Schelling obietta decisamente:

Se loro fossero realmente nel Centro, allora i teosofi dovrebbero tacere, e invece in pari tempo vogliono parlare, esternarsi e pronunciarsi per quelli che sono fuori dal Centro. In questo consiste la contraddizione del teosofismo (Schelling SW X, 187).

Schelling cerca di coniugare il potenziamento esistenziale con l’imparare a morire, Spinoza invece contrappone l’uno all’altro. E i risultati sono profondamente diversi. Molto coerentemente Spinoza condanna l’imparare a morire, il pentimento e l’umiltà perché mira a raggiungere il Dio che è necessità impersonale, il Dio che si pone al di qua della rottura e non si eleva al di sopra della natura. Per Schelling invece il potenziamento esistenziale giunto ai bordi di questa rottura può proseguire solo grazie all’imparare a morire, e in caso contrario finisce con l’arrestarsi e l’irrigidirsi.

È un atto drammatico che rimane certamente estraneo alla geometria delle passioni di Spinoza, dove si cerca di giungere a Dio ancora attraverso la razionalità dell’ego. Il Dio di Spinoza è il Dio colto al culmine dell’incremento esistenziale dell’ego, il Dio colto da un ego che non ha ancora compiuto l’esperienza dell’estasi della ragione, il Dio che rimane inscritto nel concetto, il Dio statico, perfetto, beatificante, immoto. Ma questo ottimismo dell’intelletto che pensa di rapportarsi al divino senza rotture non c’è più nello stupore della ragione di Schelling. Per questo Schelling è costretto a spezzare l’identità, la linearità tutta panteista che in Spinoza lega Dio e l’uomo.

Questo testo è la rielaborazione di un saggio apparso nel volume collettaneo Etica, volontà, desiderio, Padova 2001, pp. 53-77. Per una più ampia trattazione di queste tematiche rinvio anche ai seguenti lavori: G. Cusinato, Katharsis, ESI, Napoli 1999; Id., Scheler: il Dio in divenire, EMP, Padova 2002.


  1. «Un affetto non può essere impedito né tolto, se non mediante un affetto contrario e più forte dell’affetto da impedire» (Eth. IV, prop. 7). Nel caso di Spinoza cito dalla traduzione italiana di Sossio Giametta: Spinoza, Etica, Boringhieri, Torino 1959. ↩︎

  2. Su questa tematica cfr. R. Bodei, Geometria delle passioni, Feltrinelli, Milano 1991. ↩︎

  3. Cfr. G. Deleuze: Spinoza et le probléme de l’expression, Paris 1968; Id., Spinoza. Philosophie pratique, Paris 1981. ↩︎

  4. F. Nietzsche, Kritische Studienausgabe, hrsg. von G. Colli und Montinari, Berlin/ New York 1988 (2. Auf.), Bd. VIII, S. 131. ↩︎

  5. Nella stessa direzione sembra muoversi l’identificazione fra virtù, utilità, potenza e beatitudine: «la beatitudine non è premio alla virtù, ma è la virtù stessa; e noi non godiamo di essa perché reprimiamo le libidini, ma al contrario, proprio perché godiamo di essa possiamo fermare le libidini» (Eth. V, prop. 42). ↩︎

  6. Su tutta questa tematica mi permetto di rinviare a: «Evèno di Paro e il gallo di Asclepio» in: G. Cusinato, Katharsis, op. cit., p. 11 e seg. ↩︎

  7. SW = F.W. J. Schelling, Sämmtliche Werke, hrsg. von K.F. A. Schelling, Stuttgart 1856-61. ↩︎

  8. Per una trattazione più esauriente di questo aspetto rinvio a: G. Cusinato, Oltre l’intuizione intellettuale. Estasi e critica della ragion pura in Schelling, in: «Filosofia e Teologia», 3/2000, pp. 555-571. ↩︎

  9. Una differenza importante emerge anche in riferimento al problema del male: Spinoza non si sottrae per Schelling alla tesi del male come imperfezione, ma questa conclusione è resa possibile proprio dall’idea del Dio impersonale, in quanto tale imperfezione o mancanza è tale solo per l’uomo: «quello che […] noi chiamiamo male è soltanto un grado minore di perfezione, il quale però appare una manchevolezza solo per il nostro confronto, ma non è tale in natura. Non si può negare che questa sia la vera opinione di Spinoza» (Schelling SW VII, 154). ↩︎