La società contemporanea e la perdita del senso della vita

La morte, nella società di oggi, in sé non è un problema perché non è modificabile; è il processo del morire che è una parte molto importante della vita.1 Nella gran parte della storia dell’uomo, la morte è stata considerata la componente di un processo naturale della vita.

Il primo atteggiamento dinanzi alla morte è quello della negazione. Si esprime essenzialmente nei vari modi di negare l’evidenza della morte. «Da questo scaturiscono varie censure verbali: non sono più i bambini a nascere sotto i cavoli ma i nonni a partire per un lungo viaggio o a passeggiare in un grande giardino. Della morte non si parla, non si tratta, non si discute; il suo stesso nome viene eufemisticamente mascherato ed evitato: la persona cara ‘non c’è più’, ‘se ne è andata’, è stata ‘persa’».2 Il tentativo di nascondere la morte si rende ancora più visibile nei comportamenti che si realizzano di fatto laddove si utilizza il trucco dei cadaveri per cui il morto non deve sembrare morto, ma un vivente che dorma.

Con il recente progresso tecnologico, che si prefigge di ritardare il momento della fine, la morte è stata ‘medicalizzata’.3 Questo è uno degli aspetti più tristi della morte contemporanea. L’aumentato benessere individuale e sociale, l’allungamento della vita media, ha fatto sì che sempre più raramente si muoia in casa e sempre più frequentemente in ospedale, essendo la morte non più l’evento conclusivo di una lunga vita, ma l’evento terminale della malattia. La morte non è più ritenuta un evento personale e spirituale, connaturato nella condizione umana, ora dalla scienza medica è vissuta come un insuccesso. La medicalizzazione della morte ha fatto sì che nasca un senso di colpa quando non si sia stati in grado di evitarla. La crescente medicalizzazione della morte nella nostra cultura ha alterato l’interesse, portandola nel campo della Medicina, pur non essendo una malattia. L’intervento del medico nella nascita e nella morte ha l’unico scopo di permettere il compiersi di un evento senza complicazioni né ritardi, operando una vera e propria prevenzione.

Sia la società sia la classe medica sono complici nel negare la morte, la quale è vista come un nemico da combattere anziché conclusione inevitabile del vivere. Il luogo, il suono, l’odore della morte sono stati allontanati dalle nostre case, dalle nostre coscienze. Nell’evoluzione naturale di diverse malattie esiste un momento in cui, nonostante le terapie effettuate, si ha una progressione della malattia che crea sofferenze fisiche e psicologiche al malato, ed una breve aspettativa di vita. La persona un po’ alla volta viene considerata inguaribile, un malato terminale, con un’aspettativa di morte a breve scadenza come diretta conseguenza della malattia. In questo stadio, se non si può più guarire, si può curare.

La cura è l’ultima fase della medicina, tanto importante quanto la terapia per guarire. Spesso la cura usa gli stessi strumenti, ma con obiettivi diversi che hanno al centro del loro interesse la dignità di morte e la qualità di vita dei malati. Curare vuol dire prendersi cura del malato e della sua famiglia dal punto di vista fisico, psichico, sociale e spirituale. La storia clinica della malattia terminale, infatti, interferisce con la quotidianità della vita a causa della durata e delle manifestazioni (psicofisiche, sociali e spirituali) del processo patologico.4

L’elemento caratteristico del decorso dei malati terminali è rappresentato da un passaggio rapido, in poco tempo, dalla perdita di autonomia alla morte, attraverso fasi variabili di sintomi psico-fisici, come il dolore, e da soggettiva ed intensa sofferenza. Lo svilupparsi e l’aggravarsi della particolare e complessa sofferenza definita dolore «totale» distingue il malato terminale da ogni altro paziente. La vicinanza della morte ed il precipitare delle condizioni fisiche inducono un progressivo deteriorarsi di ogni connotazione personale — l’identità corporea, il ruolo sociale, lo status socio-economico, l’equilibrio psico-fisico, la sfera spirituale, il soddisfacimento dei bisogni primari — causa di un’inaccettabile scadimento della qualità della vita.

Una volta si «sapeva» morire perché si «imparava» guardando gli altri, così come si apprendeva qualsiasi altro comportamento. La morte di un tempo era una morte estremamente partecipata. Il vicinato esprimeva sensibilmente la sua solidarietà. A meno che non si trattasse di una morte improvvisa o violenta, si moriva nel proprio letto circondati da familiari, vicini, amici. Anche i bambini erano presenti. Allora si viveva per morire e si moriva per la vita eterna. La morte ha sempre fatto paura, ma la ragione dell’angoscia, allora, era diversa. Si temevano il giudizio di Dio e della sorte eterna. Oggi si teme di più il dolore dell’agonia. Tutto questo va progressivamente scomparendo. Il dolore, ma anche la morte come evento ‘sociale’, si va interiorizzando sempre più al punto che l’‘altro’ un tempo ricercato per il suo conforto e il suo aiuto adesso disturba: ‘si dispensa dalle visite’. L’uomo del XX secolo vuole essere lasciato solo col suo dolore ma soprattutto solo con la sua morte. La paura maggiore di morire, infatti, è connesso con malattie come il cancro, tabù principale del nostro tempo e simbolo della malattia mortale per eccellenza, attorno al quale si è formata una specie di mitologia popolare fatta di immagini raccapriccianti, di sensi di colpa, di paura del contagio.

La morte scompare dalle case essendo diventata qualcosa di sporco, da sottrarre anche agli sguardi dei congiunti.5 Dalla metà del ventesimo secolo, il luogo comunemente accettato per morire diventò l’ospedale, concepito come istituzione totalitaria, che ebbe lo scopo di risparmiare ai familiari e ai morenti la consapevolezza della morte e le azioni che avrebbero potuto essere troppo dolorose e sconfortanti. La natura della morte aveva rovesciato se stessa: né il morente, né i familiari, né gli amici dirigevano la sequenza degli eventi. Tutti fingevano che la malattia non fosse terminale e, negando il morire, si aveva una morte in solitudine.6 «La morte è divenuta tabù, una cosa innominabile […] Una volta si raccontava ai bambini che nascevano sotto un cavolo, però essi assistevano alla grande scena degli addii, nella camera e al capezzale del morente […] oggi i bambini vengono iniziati, fin dalla più tenera età, alla fisiologia dell’amore e della nascita, ma, quando non vedono più il nonno e chiedono il perché, in Francia si risponde loro che è partito per un paese molto lontano, e in Inghilterra che riposa in un bel giardino dove cresce il caprifoglio. Non sono più i bambini a nascere sotto un cavolo, ma i morti a scomparire tra i fiori».7

1. Significato, definizione e forme di eutanasia

Nel suo significato etimologico il termine “eutanasia” non presenta difficoltà. Sostanzialmente, il lemma risulta composto dall’avverbio «eu», che significa bene e dal sostantivo «Thanatos», che significa morte: dall’unione dei due termini viene fuori l’idea che per eutanasia si intende “buona morte”.8 Ma chi oggi parla di eutanasia, intende la stessa cosa? Paradossalmente, non c’è una definizione di eutanasia tanto soddisfacente e autorevole da imporsi come condivisa e valida. Secondo alcuni «eutanasia» significa garantire sé e gli altri dal rischio di finire vittima di un accanimento terapeutico,9 capace solo di prolungare l’agonia con le sue angosciose sofferenze; altri, invece, intendono evitare una morte tecnologizzata, tra apparecchiature sofisticate e con intorno solo persone estranee, e per giunta più attente ai dati gradualmente forniti dagli strumenti che alla persona del morente e alle sue profonde esigenze umane; una morte perciò in desolante solitudine; altri ancora intendono una morte indolore, volutamente procurata, su sua richiesta o no, ad una persona, altrimenti destinata ad incontrare la morte dopo un periodo più o meno lungo di sofferenze particolarmente pesanti. Infine, vi è la definizione del Comitato consultivo francese di Bioetica che definisce l’eutanasia come un «atto praticato da un terzo che pone intenzionalmente termine alla vita di una persona su richiesta della medesima»10

Soffermando l’attenzione solo a questi significati, è facile cogliere profonde differenze tra di loro. I problemi dell’accanimento terapeutico e dei limiti nel ricorso a tecnologie di rianimazione, o di terapia intensiva, si pongono all’interno di una situazione di lotta contro la morte, con tentativi che si sperano efficaci nello strappare a morte prematura il paziente. In tale contesto, il vero problema è quello dei limiti, cioè: fin dove è lecito insistere in tali tentativi, e dove comincia il dovere di sospenderli perché davanti alla morte, ormai inevitabile, il paziente sia aiutato ad accettarla, confortato dalla vicinanza affettuosa di persone care e alleviato nelle sue sofferenze. Si tratta dunque di evitare una lotta ad oltranza contro la morte, lotta disperata e assurda che finisce per rendere ancora più opprimente e angosciata la morte stessa.

Totalmente diversa, anzi opposta, è la situazione in cui si colloca il terzo significato di eutanasia, cioè quello non di una lotta contro la morte, ma di una morte voluta e procurata. Usare lo stesso termine per indicare cose tra loro opposte non può che generare confusioni ed equivoci. Si creano cosi grovigli di problemi tali da renderli quasi insolubili.

La confusione si è ulteriormente aggravata quando è stata messa in con la formula “diritto a morire con dignità”.11 Con questa formula, la tragica realtà dell’eutanasia viene come avvolta da una cortina fumogena e insieme luminosa, con la capacità di mettere in imbarazzo chi dichiara di rifiutarla. Certamente, infatti, fa parte del diritto a vivere con dignità anche il morire con dignità, cioè in modo rispondente alla dignità dell’uomo. Il pericolo dell’equivoco viene fuori quando si dichiara non degna dell’uomo una morte che sia preceduta e accompagnata da sofferenze, da un progressivo decadimento fisico e psichico come si ha spesso nel vecchio ammalato e in tutti i casi di malattia irreversibile.

Il Comitato Nazionale di Bioetica (CNB) nel 1995, con il parere «Questioni bioetiche relative alla fine della vita umana», ha esaminato tema dell’eutanasia. Il CNB ha posto in evidenza una distinzione tra eutanasia propria ed eutanasia impropria. La prima viene definita come l’uccisione diretta e volontaria di un paziente terminale in condizioni di grave sofferenza e su sua richiesta e coincide con la tradizionale figura dell’eutanasia volontaria attiva, l’uccisione mirata allo scopo di abbreviare le sofferenze di un’altra persona. La seconda, comprende tutte le altre ipotesi riconducibili all’eutanasia è si quando al fine di alleviare le sofferenze vengono impiegati mezzi (p. es. farmaci antidolorifici) i quali come effetto collaterale possono ridurre la durata di vita. Per l’eutanasia indiretta è determinante l’intenzione che sta alla base della decisione. Lo scopo dell’azione è l’alleviamento delle sofferenze e non l’abbreviamento della vita, anche se in tal modo il processo del morire può subire un’accelerazione.12

Altra considerazione deve essere fatta per l’accanimento terapeutico e per l e cure palliative. Il progresso scientifico e tecnologico oggi è in grado di allungare le aspettative di vita e di offrire cure palliative anche ai malati terminali. Casi complessi, carichi di implicazioni etiche, giuridiche, scientifiche e religiose, proposti negli ultimi mesi dai media, riaprono il dibattito sul prolungamento forzato della sopravvivenza, sul confine tra accanimento terapeutico, suicidio assistito ed eutanasia. Nell’eutanasia passiva si rinuncia a misure atte a conservare la vita. Importante in questo caso è il pensiero di fondo che l’eutanasia passiva vuole influenzare in modo dignitoso il processo del morire, lasciando indeterminato il momento della morte, mentre l’eutanasia attiva mira a provocare la morte entro minuti. Si tratta di suicidio assistito quando una persona sostiene un’altra nella realizzazione della sua decisione precedentemente assunta di suicidarsi.

La medicina, nei confronti di una malattia incurabile, offre le sue competenze e le sue imitazioni non si configurano come sconfitte, ma riconoscimento dei suoi limiti costitutivi. Il concetto di accanimento terapeutico è particolarmente complesso, poichè richiama all’attenzione problemi etici e deontologici propri della fase terminale della vita. Il termine «accanimento» assume una connotazione negativa, poichè richiama una perseveranza tenace e intensa nel curare un soggetto malato, attraverso tentativi terapeutici, destinati ad un sicuro insuccesso. È estremamente importante non confondere l’accanimento terapeutico con la continuità terapeutica propria dell’assistenza al malato terminale anche attraverso la continuità delle funzioni vitali sostenute artificialmente. Il Codice Italiano di Deontologia Medica nell’art. 14 definisce l’accanimento terapeutico come: «l’ostinazione in trattamenti da cui non si possa fondamentalmente attendere un beneficio per il paziente, o un miglioramento della qualità della vita».13

Ultimamente però, alcuni studiosi hanno definito tre tipologie di accanimento terapeutico. La prima tipologia di accanimento terapeutico riguarda quella che gli inglesi chiamano appropriatamente ‘futility’ cioè i trattamenti, che di fatto si rivelano futili. Si tratta sostanzialmente dell’insistenza nel ricorso a procedure medico-chirurgiche non incidenti in modo significativo sul naturale decorso della patologia né su una migliore qualità della vita del paziente. La seconda possibilità di accanimento terapeutico è costituita dal ricorso a quelli che una volta venivano chiamati mezzi straordinari, e oggi più opportunamente sproporzionati. Da un punto di vista generale possiamo dire, che un mezzo terapeutico è straordinario, quando eccede le ordinarie capacità che ha il paziente di usufruirne. Sul piano etico, il paziente è tenuto a ricorrere solo a mezzi ordinari e proporzionati. Il terzo significato assunto dal termine accanimento terapeutico indica il prolungamento intensivo di funzioni vitali in via di cessazione.14 Alla luce di queste considerazioni, si desume che l’accanimento terapeutico sia un concetto ben diverso da quello di continuità terapeutica: se l’uno infatti vuole indicare l’utilizzo di trattamenti, che procurerebbero un prolungamento precario e penoso della vita con inutili sofferenze del paziente, l’altro specifica che sia illecito interrompere le cure normali, dovute all’ammalato in determinate situazioni.15

La disponibilità di mezzi come la ventilazione meccanica, la nutrizione parentale totale, l’emodialisi, l’assistenza meccanica del circolo, permettono di mantenere in vita per mesi, pazienti prima destinati a morte sicura. Questa possibilità di controllare il divenire della morte, di ritardarla e di anticiparla, di decidere e programmare, il momento in cui termina la vita, pone seri interrogativi con l’obiettivo di difendere la vita dell’uomo, senza assoggettarlo ad un vero tecnicismo. Ma se da un lato, oggi l’atteggiamento medico può cadere nell’accanimento terapeutico, è necessario non rischiare di sconfinare nell’astensionismo terapeutico16.

Ma quali sono le motivazioni dell’accanimento terapeutico? Per rispondere a tale interrogativo seguiremo quanto riportato d S. Leone. Una prima motivazione è la paura di comportamenti eutanasici. I familiari e i malati temono che l’atto di rifiutare o sospendere un dato trattamento possa costituire una forma larvata di eutanasia: la vita deve essere conservata in qualsiasi condizione senza fare nulla che possa abbreviarla anche di un solo istante. La persona malata, fino a che non interviene la morte, viene estenuata con trattamenti non solo futili ma a volte anche dolorosi. Altre volte l’accanimento è frutto di una particolare necessità dei familiari che così acquietano la propria coscienza, ritenendo di aver fatto tutto il possibile fino alla fine; vogliono rispettare ipotetici accenni di coscienza nel malato comatoso, che potrebbe sentirsi ‘abbandonato’. La spinta affettiva, il senso del dovere e la coscienza di dover curare comunque il proprio familiare li porta a non considerare il disagio che può provocargli un inutile sovraccarico assistenziale. L’appagamento della propria coscienza è superiore al reale bene del paziente. Sfugge loro che per il proprio congiunto a volte è preferibile non far nulla o sospendere quei presidi che si rivelano inutili o dannosi: la richiesta dei familiari è la prima e più importante causa di accanimento terapeutico. La pressione che possono esercitare sul malato i familiari, considerato il suo stato di debilitazione e stanchezza, può impedire al malato stesso di contrastare la loro volontà d’accanimento. Altre volte la paura di cadere nell’eutanasia può rivelarsi da parte dei pazienti o dei familiari una vera e propria ‘ignoranza etica’ che li porta ad assumere la decisione dell’accanimento. Viene ignorato quale sia l’atteggiamento più giusto sotto il profilo etico, che non li renda responsabili di un atto d’eutanasia o di un gesto d’abbandono nei confronti del proprio caro. Erronee concezioni religiose contribuiscono anche a tale ignoranza.

Di rado, a determinare tutto questo è proprio il medico. Il medico, non essendo coinvolto affettivamente, dovrebbe essere nelle condizioni ideali per evitare inutili sofferenze al paziente. Proprio lui, che dovrebbe essere consapevole dei limiti di una data terapia e quindi della sua ‘inutilità’, diventa talvolta artefice di accanimento. Un trattamento inutile viene eseguito per evitare possibili conflitti con i familiari che potrebbero non comprenderne la futilità, o per il timore di contenziosi medico-legali. Un’ultima giustificazione è costituita da una sbagliata concezione della volontà di Dio. Dio, padrone della vita e della morte, deve decidere in ultima istanza non solo quando un essere umano viene al mondo, ma anche l’esatto momento in cui debba abbandonarlo. In certa misura questo atteggiamento è consono alla fede cristiana. In tale visione si perde il ruolo delle decisioni umane nelle quali la stessa volontà di Dio s’inserisce.17

La morte è erroneamente giudicata una patologia da combattere con ogni mezzo. Il medico la vive come una sconfitta, e nel tentativo di ritardarla, anche solo per qualche ora, pone in atto terapie inutili e gravose. I parenti convinti, che la medicina moderna sia in grado di curare qualsiasi patologia, chiedono ai medici tutto il possibile e oltre il possibile, per mantenere in vita i loro cari. Appare evidente che questa opposizione alla morte, con qualsiasi mezzo ed a qualsiasi costo, induce alla adozione di trattamenti complessi e sproporzionati che, in alcuni casi, possono configurare atteggiamenti di vero e proprio accanimento terapeutico.18 Ma non accanirsi, non significa, come è stato detto più volte, abbandonare il paziente a se stesso, considerandolo già morto, prima del tempo. È necessario infatti, offrire sempre cure palliative, e mettere a disposizione comunque i cosiddetti «mezzi ordinari» (obbligatori): idratazione, alimentazione, cure igieniche.

È chiaro che, con il progredire della scienza, oggi più che in passato risulta difficile fermarsi ai «mezzi ordinari», perché si ha sempre il dubbio se quei «mezzi straordinari» (interventi chirurgici, chemioradioterapici, che contribuiscono a determinare dolore, rischi e costi eccessivi), possono in realtà essere efficaci per aiutare il moribondo. La chiave di volta del problema è che alcuni mezzi oggi frequentemente usati per malati gravi, allo stadio terminale, vengono considerati mezzi normali dovuti al paziente. Inoltre non bisogna forzare oltre misura la distinzione fra cure ordinarie e terapie in senso stretto, perché ci possono essere situazioni nelle quali persino le cure ordinarie, inclusa l’idratazione e l’alimentazione artificiale, risultano inutili, gravose e penose per il paziente e pertanto devono essere sospese, come una qualunque terapia sproporzionata.

2. Il fenomeno dell’eutanasia nella storia e nella tradizione morale

Il concetto di eutanasia nel corso dei secoli ha subito diverse interpretazioni. La ‘buona morte’ nell’Antica Grecia veniva riferita alla conclusione dell’esperienza terrena che per colui che combatteva coincideva con la morte in battaglia, cosi come la morte serena per l’artigiano. Con il Cristianesimo il concetto di «buona morte» si appropria di un significato ‘esistenziale’: è buona la morte di colui che vive in ‘maniera santa’. L’eutanasia era la ‘morte Santa’: cioè la morte, in grazia di Dio, di colui che si apprestava a vivere serenamente il trapasso, dopo una vita condotta cristianamente.

Nell’antichità, il tema dell’eutanasia intesa come sistematica eliminazione del malato non era del tutto assente; l’uccisione dei sofferenti fu spesso mascherata sotto la definizione di ‘Eutanasia sociale’: i governanti di alcuni stati antichi sopprimevano o abbandonavano alla propria sorte le persone non autosufficienti. Sparta, il mondo romano e anche alcune culture ancor più arcaiche utilizzarono tale pratica. . Il più celebre esempio è costituito da Platone che nella Repubblica ideale e utopica, da lui descritta, vuole che non siano curati e allevati (quindi siano lasciati morire) bambini che nascano privi delle qualità da lui indicate come ottimali;19 come pure che i malati inguaribili non vengano più curati dal medico il quale così non farebbe altro che “rendere lunga e penosa la vita dell’uomo”.20 C’è però da chiedersi come si possa chiamare eutanasia il lasciar morire per fame e sete i neonati; e quanto ai malati inguaribili, più che di eutanasia sembra doversi parlare di rinuncia a quello che noi oggi chiamiamo “accanimento terapeutico”.

Nell’antichità, salvo qualche eccezione riferibile a costumi primitivi o a pratiche empiriche nelle fasi evolutive incipienti o immature delle civiltà, non fu legalizzato alcun diritto al suicidio o alla soppressione più o meno ‘pietosa’ dei vecchi, degl’inetti, degl’incurabili, dei malformati, e simili.

Ma l’uccisione di un uomo sofferente è un atto di infamia inaudita e apre vari problemi etici. L’eutanasia non coinvolge solo il malato, ma principalmente il medico: i sanitari svolgono un ruolo di importanza capitale nella decisione finale legata alla scelta della ‘dolce morte’. Storicamente, quanto al ruolo del medico, la prassi comunemente accettata escludeva categoricamente tale pratica: ne è un esempio il Giuramento di Ippocrate. In epoca medievale la virtù etica del medico ereditava la preziosa dote lasciata da Ippocrate e Galeno arricchendosi inoltre degli ammonimenti della cultura cristiana riguardo alla dignità dei malati. Il medico «della tradizione ippocratica è obbligato moralmente a ‘essere la coscienza’ del malato. La sua professione gli attribuisce un carisma morale particolare, simile a quello dei sacerdoti e dei re, obbligandolo a essere contemporaneamente tutore, padre e madre dei suoi malati. Il medico della tradizione ippocratico-galenica esercita un’autorità non solo fisica ma anche morale, e questa autorità a legittimata dal possesso di un carisma. Così è avvenuto durante tutto il corso del medioevo. »21 II medico si occupava della cura e della salvezza dei suoi pazienti e delle loro anime. «Un decreto del Concilio Laterano IV imponeva ai medici di compiere un’azione di persuasione nei confronti dei loro pazienti, affinché chiamassero il confessore, prima di intraprendere qualunque tipo di attività terapeutica».22 In un tale contesto, si avvertiva una sorta di concezione religiosa del la malattia era vista sotto una concezione religiosa: Dio mandava nel mondo la malattia al fine di purificare l’anima del peccatore. Il male fisico rimanda a un male spirituale, la sofferenza provocata dalla malattia diventa un mezzo di espiazione per raggiungere la salvezza. Il suicidio, nel medioevo era condannato; l’assoluta inconciliabilità dell’atto suicida con la morale cristiana viene evidenziato da molti Padri della Chiesa: «l’uomo non era, cosi come non e tutt’oggi, il padrone della propria vita e non può disporne, in alcun modo, da arbitro assoluto».23 In un’epoca di evidenza di fede, quale fu l’età medievale, la morte era universalmente considerata un evento naturale, inscritto nella volontà e nei disegni divini. In quel contesto culturale, la condanna morale dell’eutanasia era un fatto scontato: appariva del tutto chiaro che uccidere un malato terminale per non farlo soffrire, significava andare contro le leggi intangibili di Dio, contro la dignità stessa dell’uomo e, in più, significava arrogarsi impropriamente un diritto: cioè quello di decidere sulla vita e sulla morte dell’uomo. Con la messa in crisi dell’ovvietà cristiana, l’età moderna apre il varco all’attacco della vita da parte del pensiero. Difatti, la legittimazione dell’eutanasia si fece strada allorquando il progresso scientifico iniziò a muovere i primi passi verso la manipolazione della natura; da qui sorsero i nuovi interrogativi morali: fino a che punto si può e si deve resistere alla morte? Perche non scegliere quando morire? Perche l’eutanasia dovrebbe essere un affronto alla natura e a Dio? Infatti, se Dio stesso ha affidato all’uomo il compito di amministrare la natura e la sua stessa vita, perche egli non può disporne liberamente in modo che la morte avvenga in circostanze meno umilianti e più conformi alla dignità della persona?24

In epoca moderna, agli inizi del secolo XVII, Moro e Bacone tornano a giustificare l’interruzione attiva della vita dopo che questa era stata condannata nel Medioevo e la collegano con l’espressione di eutanasia. Nella sua opera del 1623 De dignitate et augmentis scientiarum, Bacone riprende per la prima volta nella storia la denominazione di eutanasia dell’antichità, che non troviamo nel Medioevo, differenziandone due tipologie: l’‘eutanasia esteriore’ intesa come interruzione diretta della vita ed ‘eutanasia interiore’ intesa come preparazione psicologica al morire. Secondo Bacone è determinante il carattere volontario (autonomia); l’eutanasia attiva non può avvenire contro la volontà del malato (eteronomia). Secondo Moro, ne L’utopia, chi non vuole lasciare la vita deve continuare ad essere curato senza riserve.25

I medici dei secoli successivi non hanno seguito le idee di Moro e Bacone. L’eutanasia dall’esterno viene rifiutata mentre si giustifica l’eutanasia passiva e si promuove l’eutanasia interiore. Da allora l’eutanasia viene adoperata nell’ambito di questa molteplicità di significati tra gli estremi di una interruzione della vita e di un’assistenza al morire. Agli inizi del secolo XX sorge un forte movimento che promuove la legalizzazione dell’eutanasia. Si costituiscono proprio per questo obiettivo le prime Associazioni, e compaiono i primi progetti di legge. Ed è significativo che tale fenomeno abbia avuto i suoi inizi proprio nei Paesi che, avendo cominciato per primi il cammino culturale connesso con la cosiddetta rivoluzione industriale, erano già ad una fase avanzata di industrializzazione: Inghilterra, Stati Uniti d’America e Germania.

Gli sviluppi successivi non ebbero una continuità lineare, ma procedettero quasi a ondate distanziate. Il primo tentativo di legalizzazione si ebbe in Inghilterra, nel 1936, con la presentazione di una proposta di legge. Nessuno di tali progetti, né in Germania, né in America, né in Inghilterra, ebbe l’approvazione nei rispettivi parlamenti, come pure quelli presentati negli anni immediatamente antecedenti e susseguenti alla Seconda Guerra mondiale. A questo punto, non è raro veder inserire nella storia dell’eutanasia alcuni degli orrori commessi dal nazismo in Germania, cioè, l’eliminazione sistematica di vecchi, malati di mente, bambini handicappati: un’eutanasia eugenetica. Ma considerare eutanasia, cioè morte indolore e dolce, quella atroce procurata nelle camere a gas, o con altri sistemi miranti solo ad uccidere, senza la benché minima preoccupazione di risparmiare sofferenza alle vittime risulta decisamente riduttivo.

Il cammino verso l’eutanasia legalizzata nel mondo occidentale riprende perciò dopo la Seconda Guerra mondiale, a partire ancora una volta da Inghilterra e Stati Uniti. Attualmente sono diffuse opinioni contrastanti sull’eutanasia; altrettanto variegata è la realtà nei diversi paesi del mondo. Spesso si avviano iniziative a favore della legalizzazione dell’eutanasia attiva. In Olanda e in Belgio, in situazioni particolari, è ammessa l’uccisione da parte del medico o si rinuncia all’azione penale: libero desiderio del paziente informato dal medico curante, dolore insopportabile per il malato, condizione di inguaribilità ed irreversibilità della patologia, consultazione di un secondo medico non coinvolto nella terapia, attuazione da parte del medico curante con la massima precisione, rapporto scritto, comunicazione al medico legale e pubblico ministero.26


  1. Cfr. S. Leone, L’accanimento terapeutico, Cittadella 2009, pp. 102-104; G. Russo, Bioetica, manuale per teologi, LAS 2005, pp. 235-236. ↩︎

  2. S. Leone, Manuale di Bioetica, ISB, Acireale 2003, p. 146. ↩︎

  3. Cfr. S. Spinsanti — F. Petrelli, Scelte etiche ed Eutanasia, Paoline 2003, pp. 17-21. ↩︎

  4. Cfr. G. Russo, Bioetica, manuale per teologi, op. cit., pp. 239-240; S. Leone, Manuale di Bioetica, op. cit., pp. 146-148. ↩︎

  5. Cfr. http://www.ospedaleudine.it/stc/info/allegati/Convegno%20DIGNITA%20del%20morente.pdf 1/4/2012; G. Russo, Bioetica, manuale per teologi, op. cit., pp. 235-236; A. Pertosa, Scelgo di morire? Eutanasia, accanimento terapeutico, eubiosia, Edizioni Studio Domenicano 2006, pp. 101-107; S. Leone, op.cit., pp. 147. ↩︎

  6. Cfr. S. Leone, Manuale di Bioetica, ISB, Acireale 2003, pp. 146-147. ↩︎

  7. P. Aries, Storia della morte in Occidente dal Medioevo ai giorni nostri, Rizzoli 1985, pp. 213-214. ↩︎

  8. Cfr. Eutanasia, in AA.VV., Enciclopedia di Bioetica e di Sessuologia, Elledici 2004, p. 854; cfr. A. Aramini, Eutanasia, Ancora 2006, pp. 13-14; cfr. A. Pertosa, Scelgo di morire?, op. cit., p. 62; cfr. A. Aramini, I confini della vita, Piemme 2009, p. 64. ↩︎

  9. Cfr. S. Leone, L’accanimento terapeutico, Cittadella 2009, pp. 10-11. ↩︎

  10. A. Aramini, Eutanasia, op. cit., p. 14. ↩︎

  11. Ibidem, pp. 17-20; G. Russo, Bioetica, manuale per teologi, op. cit., pp. 235-237. ↩︎

  12. Cfr. Comitato Nazionale di Bioetica, Questioni bioetiche relative alla fine della vita umana, Roma, 14 luglio 1995, p. 60; anche in http://www.governo.it/bioetica 12/11/2011; E. de Septis, Eutanasia, Messaggero 2008, pp. 22ss. ↩︎

  13. http://www.privacy.it/codeome.html 1/4/2012 ↩︎

  14. Cfr. S. Leone, Manuale, op. cit., p. 168-170. ↩︎

  15. Cfr. DiE in EV 7/371.7/371. ↩︎

  16. Cfr. S. Leone, L’accanimento terapeutico, op.cit., pp. 6-8. ↩︎

  17. Cfr. S.Leone, L’accanimento terapeutico, op.cit. pp. 10-14. ↩︎

  18. Cfr. G. Russo, Bioetica, op.cit., pp. 235-236. ↩︎

  19. Cfr. Platone, Repubblica, Libro V e IX, in Platone, Opere, vol. II, Laterza, Bari 1974, pp. 238s., nn. 460s.; A. Pertosa, Scelgo di morire?, p. 73. ↩︎

  20. Ibidem↩︎

  21. A. Pertosa, Scelgo di morire?, op.cit., pp. 64-65. ↩︎

  22. Ibidem, p. 64. ↩︎

  23. Ibidem↩︎

  24. Cfr. Ibidem, p. 66. ↩︎

  25. Cfr. Ibidem, p. 78; T. Moro, Utopia, Laterza 1982, pp. 112s. ↩︎

  26. Cfr. http://www.portaledibioetica.it/documenti/001072/001072.htm 1/4/2012 ↩︎