Tout est sur le même pied: la grandeur de Rome et tes crises d’arthritisme.
— Caligula, I, 7
1. Il Caligula
Una sorte alquanto controversa è toccata al Caligula, pièce di Albert Camus scritta nel ’38 ma pubblicata dopo vari rimaneggiamenti per la prima volta solo nel ’44, lo stesso anno della sartriana Huis clos. Sebbene infatti in essa appaia probabilmente per la prima volta un «esemplare» ben delineato di homme révolté con una ricchezza di tratti psicologici e sfumature che pochi altri personaggi camusiani possono vantare in modo così marcato, quest’opera forse non ha mai goduto di un’attenzione critica rilevante, finendo spesso con l’essere trascurata o derubricata come testo secondario, di transizione, in ogni caso messo in ombra dalla presenza del saggio più corposo della seconda fase del pensiero di Camus, L’homme révolté.
Eppure, in seno alla produzione del filosofo franco-algerino, il Caligula sempre più splende con un fulgore sinistramente affascinante: la fredda crudeltà immotivata dell’imperatore, seppure — o, forse, proprio perché — dedotta dalla ferma ottemperanza a postulati logici che non ammettono deroghe in quanto elevati assurdamente a norme assolute, appare all’interno dell’iter speculativo di Camus coi tratti di ciò che qualche decennio prima Nietzsche aveva definito forma di esistenza catilinaria, ovvero appartenente al novero di quelle
nature alle quali, per un qualche motivo, manchi il comune consenso, le quali sappiano di non essere ritenute benefiche, utili,quel sentimento-ciandala di non essere considerate come uguali, ma come reiette, indegne, contaminatrici. Tutte le nature di questo genere hanno nei loro pensieri e nelle loro azioni il colore del sottosuolo. [Esse stesse] sentono il tremendo abisso che [le] separa da tutto ciò che è sancito dall’uso e che viene onorato.1
Ma, alla luce delle tesi esposte in seguito dall’autore del Sisyphe nel saggio del ’51, il Caligula può apparire anche come il risultato maturo di quel cruciale processo di ibridazione attuatosi in quegli stessi anni tra l’homme absurde e l’homme révolté.
È per questa serie di motivi che il Caligula viene considerato quale testo imprescindibile: in esso abbiamo infatti il feroce ritratto di un uomo assurdo costretto a mimare la parte del regnante assoluto, del sovrano onnipotente, dell’imperatore (semi) divino proprio nel momento in cui ogni spessore di senso si è ritratto perversamente e oscuramente dal mondo, in un vacillamento di immagini brutali e brucianti, la cui soffusa e radicale illusorietà rimanda ad una fantasmagoria di raffigurazioni sfocate, di pantomime tanto grottesche quanto apparentemente necessarie e ineliminabili. Non v’è origine identificabile per questa deriva. Vi sono però dei fenomeni, degli eventi che ne costellano lo sviluppo, ne accelerano l’evoluzione, ne facilitano oscenamente l’avanzate: dapprima l’amore torbido ma sincero per Drusilla, oggetto di una passione incestuosa, vorace, malata, dinanzi a una corte accondiscendente ma solerte nel mascherare l’insano sentimento; in seguito, la morte violenta e inaspettata di Drusilla stessa, l’uscita di scena dalla vita del sovrano dell’unica cosa che sembrava ai suoi occhi concreta, reale, consistente, veritiera. È a questo punto che Caligola diventa un nome intriso di follia e spettralità; il solo nominarlo significa evocare la forma assoluta, il distillato puro di una sventura capillare e tortuosa, che dal cuore stesso del potere filtra e si ramifica in tutto l’impero, infetta Roma riverberandosi in essa come una inavvertita ma flagrante epidemia. Il dramma allora si spalanca su di una sorta di allucinato cerchio vuoto: quello delle parole dei dignitari che si interrogano senza costrutto intorno alla fuga di Caligola, e quello delle varie presenze umbratili che affollano vanamente il palcoscenico, figuranti inconsistenti, sagome schiacciate dalla assenza stessa del sovrano, voci affioranti da una palude metafisica, nella quale esse si consumano in attesa del protagonista.
L’assurdo qui è avvertibile sotto forma di una livida Stimmung che intride ogni gesto, ogni parola, ogni sguardo; sebbene esso sia incarnato e rappresentato in senso pieno da Caligola, l’escamotage di aprire la pièce sulla lacuna fisica di quest’ultimo, sul suo ostinato sottrarsi alla vista, fa sì che la sua vischiosa presenza coincida in realtà esattamente col senso di vana attesa, di spasmodica inconcludenza, di attonita vacuità in cui tutti i comprimari vengono risucchiati e dalla quale emergono come legnosi manichini mossi e tenuti in vita da una mano tanto più invisibile quanto più potente e consistente.
Seppur fuori scena, la presenza di Caligola è perentoria e irrefutabile, circonda tutto e tutto compenetra, proprio come l’assurdo di cui egli è compiuta espressione, strisciante e letale, irreperibile tabe. Da qui una prima e decisiva conseguenza: Caligola non è Mersault. L’assurdità in quest’ultimo cresce dall’interno, ma egli non la vive, non la affronta, non la incarna direttamente; piuttosto scivola sulla sua vita lasciandovi le dure tracce di una devastazione sottile che terzi devono riscontrare e ratificare, in una completa e astratta impersonalità.
Caligola di contro rappresenta una tipologia di assurdo che rispecchia i protocolli emersi con Le mythe de Sisyphe: in esso lo splendore e la crudeltà di un mondo refrattario agli assalti della ragione onniesplicativa — chiuso pertanto in quella irragionevolezza certosina e pertinace che deve essere mantenuta sempre vigile per opporsi simultaneamente ad una metafisica della consolazione ultraterrena e alla recisa deliberazione della morte volontaria — si acuiscono sempre più in un crescendo di orrore disumano e raggelato stupore omicida, i quali però riescono ad eludere ogni esito tragico proprio perché l’assurdo camusiano non prevede lo scontro diretto e fatale con un principio trascendente — se vogliamo rifarci al noto assunto goethiano riportato da Jaspers nel suo magistrale lavoro sul tragico2 — ma piuttosto si radica in un difficile compromesso che non deve essere mai spezzato o messo in dubbio. Dice in proposito Camus ne Le mythe de Sisyphe:
Le premier de ses caractères à cet égard est qu’elle [la nozione di assurdo] ne peut se diviser. Détruire un de ses termes, c’est la détruire tout entière. Il ne peut y avoir d’absurde hors d’un esprit humain. Ainsi l’absurde finit comme toutes choses avec la mort. Mais il ne peut non plus y avoir d’absurde hors de ce monde. Et c’est à ce critérium élémentaire que je juge que la notion d’absurde est essentielle et qu’elle peut figurer la première des […] vérités.3
2. L’assurdo
In tale situazione le controparti che danno vita all’assurdo non devono mai venire meno, le polarità in tensione devono in ogni istante conservarsi in uno strenuo antagonismo, tenuto desto grazie a una dialettica che assicuri un vitale e morboso attrarsi delle forze antagoniste, segnando in tal modo davvero il perimetro di quel campo del possibile che Camus evoca in esergo al saggio del ’42, citando la III Pitica di Pindaro.
L’assurdo allora si delinea qui con i caratteri di un equilibrio precario ma infrangibile, perché esso non scade in illusioni e infingimenti trascendenti (o esistenziali): il confronto, la lotta, la sproporzione tra l’uomo e il silenzio irragionevole del mondo — sproporzione che tuttavia indica l’unica misura comune tra i due termini in gioco — devono essere elevati a metodo assoluto; l’assurdità qui non è la rinuncia a comprendere, ma lo sforzo a sfidare sempre da capo i limiti di ogni comprensione, è cioè l’accanimento sulla soglia di baratri che si rivelano essere immense muraglie prive di spiragli. L’evidenza spinosa a cui l’assurdo conduce, a cui esso dà luogo e in cui esso al tempo stesso si radica — in un movimento dolorosamente circolare del pensiero che finisce con lo strangolarsi nel tentativo disperato di liberarsi d’ogni contraddizione — non è un dato assumibile o desumibile una volta per sempre; recepirlo e leggerlo in questo senso vorrebbe dire trasformare l’assurdo in una presupposizione che permea il quotidiano senza tuttavia metterlo in scacco, accogliere una sorta di palmare certezza che però non ha la forza di modificare la vita dell’uomo sradicandola dalle fondamenta.
La perversa fecondità dell’assurdo nasce invece da quell’informe ragnatela di rapporti e reazioni, iniziative e contrasti che il soggetto è chiamato a mettere in campo e ad affrontare sempre oscillando tra l’accettazione la rivolta. Afferma Camus, sempre nel Sisyphe:
conscience et révolte, ces refus sont le contraire du renoncement. Tout ce qu’il y a d’irréductible et de passionné dans un cœur humain les anime au contraire de sa vie. Il s’agit de mourir irreconcilié et non pas de plein gré. Le suicide est une méconnaissance. L’homme absurde ne peut que tout épuiser, et s’épuiser. L’absurde est sa tension la plus extrême, celle qu’il maintient constamment d’un effort solitaire, car il sait que dans cette conscience et dans cette révolte au jour le jour, il témoigne de sa seule vérité qui est le défi.4
Dalla sua prima apparizione pertanto Caligola brilla come una creatura solitaria avvolta da una luce selvaggiamente cruda, affine nelle fattezze al monologante titanismo del Tamerlano di Marlowe e, nella sua scultorea imponenza, possente come un personaggio eschileo, così che da oscure latebre mentali la sua voce è una straziata isola di dolore umano — troppo umano — che trafigge e scheggia i gessosi profili dei dignitari di corte: Drusilla è il nome che improvvisamente vibra nel silenzio della reggia, simile a una protesta barbaricamente metafisica, bestemmia rivolta contro ogni assoluto, condanna inesprimibile comminata ad un divino assente, confessione di una colpa terrena per cui non è prevista sanzione o espiazione, ma solo la dura macerazione nell’affermare la propria compiaciuta e inutile innocenza. Proprio per questa serie di motivi Caligola appare da subito sdoppiato: nella sala che accoglie il suo inopinato ma atteso — e forse anche temuto — ritorno campeggia uno specchio in cui con un aspetto di selvaggia spossatezza l’imperatore non solo si contempla, ma si presenta ai nostri occhi. Ecco come la didascalia introduce la sua prima entrata in scena:
La scène reste vide quelques secondes. Caligula entre furtivement par la gauche. Il a l’air égaré, il est sale, il a les cheveux pleins d’eau et les jambes souillées. Il porte plusieurs fois la main à sa bouche. Il avance vers le miroir et s’arrête dès qu’il aperçoit sa propre image. [Atto I, Scena 3]5
Ed in effetti è proprio in questo riflesso fedele e alienato — è emblematico il passo indietro compiuto da Caligola nello scorgersi riflesso — che a noi è dato vedere la vera scena dello spettacolo, dal momento che la superficie riflettente non raddoppia ma piuttosto inghiotte le figure che vi si pongono davanti, essa rappresenta il varco entro cui Caligola penetra con tutta la sua figura, la sua corte e il suo impero nell’attimo estremo e fatale in cui egli delibera di regnare applicando una logica inversa ad ogni ratio propria del comando. Egli si impone per lo squarcio logico che porta con sé: non più regnante, ma deforme penombra di un potere che sapendosi illimitato aspira all’impossibile sovvertendo le leggi stesse in base alle quali Roma si regge. Il suo è un dominio cannibalico, divora cioè brani del proprio corpo, perseguendo con minuta perizia una sorta di lucido smembramento delle forze che regolano, consolidano e salvaguardano il potere.
Agli occhi di Caligola tutto converge e collassa in un astratto furore di anomalo spettacolo epurato d’ogni finzione, in cui il grido dell’uomo assassinato per sbaglio o per gioco — come ben illustra l’episodio dell’uccisione di Mereia6 — è tanto vero quanto la lama del coltello che gli lacera le carni, in una forma d’accumulazione barocca di dolore gratuito e sibillina crudeltà in seno a cui ogni atto ha un causa tanto chiara e lampante, lucidamente deducibile, quanto misteriosa e inspiegabile, perché sradicata da ogni movente effettivamente esplicabile. Caligola non è solo l’uomo assurdo, ma è in primis colui che opta per una logica assoluta, ferrea, indefettibile, lugubremente perseguita nei suoi effetti spietati e inesorabili. Ma la logica qui non funziona come mezzo di chiarificazione, non ammette dimostrazioni; essa qui opera come un macabro sortilegio che prescrive una condotta di allucinata ed estrema consequenzialità: incorrere in essa significa rimanere invischiati a morte in quella inumana palus putredinis, la quale non rappresenta altro che il decomposto residuo della vera ragione umana. Non è allora un caso che, appena rientrato a palazzo, Caligola ad Hélicon che gli consiglia di non portare il suo ragionamento fino al punto estremo risponda con gelida secchezza: «Il suffit peut-être de rester logique jusqu’à la fin».7
Ciò che mette in scena — e al tempo stesso in scacco — Camus attraverso Caligola è una creazione senza domani, un dramma anchilosante dell’intelligenza che riflette perfettamente quella ascesa assurda in cui lentamente e in modo efferato tutti diventano consapevoli della gratuità di ogni atto, di ogni atteggiamento, di ogni scelta, di ogni condotta. Il divorzio dal mondo e la rivolta contro questo non devono in alcun modo condurre però a nuovi fantasmi metafisici, non devono suscitare nuove illusioni di trascendenza, non devono più invitare alla speranza in un domani. Idoli di fango e immagini slegate sono ciò che il pensiero e la realtà si comunicano, gesti bruciati nell’istante stesso in cui vengono compiuti, parole che trovano riscontro immediato solo nelle carni martoriate degli uomini, e una ironica distanza verso ogni forma di progetto, compresa la congiura che i patriciens ordiscono ai danni di Caligola e di cui egli è perfettamente consapevole.
In tal senso Camus mette a punto una sorta di figura grottescamente tragica che però non riesce a reggere i toni propri della tragedia. Imbevendolo di assurdo, Camus non può non (tra) sfigurare — forse sarebbe corretto anche (tra) svalutare — la tragedia del suo personaggio in una farsesca pantomima di un sovrano assoluto, detentore di un potere totale e, proprio per questo, autofagocitantesi, ipertrofico, dunque goffamente scomposto, il quale arriva a sovvertire le regole stesse su cui quel potere si regge allestendo quale culmine comico di questa immonda farsa uno spettacolo teatrale (poderosissima qui risulta l’evocazione dell’Amleto attraverso il ricorso ad un meta-teatro che travalica addirittura la soglia dell’umano,in cui è Venere stessa ad essere recitata e impersonata da Caligola).8 Camus nel saggio del ’51 così affronta questa forma d trascendenza negativa perseguita e ottenuta tramite un esercizio illimitato del crimine:
ici […] le maximum de la jouissance coincide avec le maximum de la destruction. Posséder ce qu’on tue, s’accoupler avec la souffrance, voilà l’instant de la liberté totale vers lequel s’oriente toute l’organisation. Mais dès l’instant où le crime […] supprime l’objet de volupté, il supprime la volupté, qui n’existe qu’au moment précis de la suppression. Il faut alors se soumettre un autre objet et le tuer à nouveau, un autre encore, et après lui l’infinité de tous les objets possibles.9
Caligola allora incarna perfettamente questa consapevolezza: egli è un tragico commediante, un fanciullo malato diventato adulto prima del tempo e forse senza volerlo, il quale ha già rinunciato con torva sicurezza ad ogni futuro, in nome di un amore perduto elevato però a cifra metafisica di un dolore ineluttabile, esito di uno scacco casuale assimilato, assorbito da Caligola e amplificato su dimensioni cosmiche. Per lui oramai l’istante e l’eterno collimano in un tempo immobile, senza durata o progressione, in uno spazio perfettamente totalizzato dagli ambienti ciechi del palazzo10: non vi è esterno, da essi non si esce — se non cadaveri —, non vi è un altrove rispetto a quei luoghi, quasi a suggerire che non vi è alibi per la sua vita — je suis sans alibi11 — dice a chiare lettere Caligola prima di uccidere Caesonia, vissuta come una colpa involontaria ma irredimibile nel momento in cui si è trovato a dover sopravvivere a Drusilla, intrappolato così in un gioco delle parti solitario ed amaro, in cui l’esistenza è l’ardente ferita attraverso cui insinuarsi nel mondo pur con l’arida certezza d’avervi già rinunciato:
Je vis, je tue, j’exerce le pouvoir délirant du destructeur, auprès de quoi celui du créateur parait une singerie. C’est cela, étre heureux. C’est cela le bonheur, cette insupportable délivrance, cet universel mépris, le sang, la haine autour de moi, cet isolement non pareil de l’homme qui tient toute sa vie sous son regard, la joie démesurée de l’assassin impuni, cet-te logique implacable qui broie des vies humaines [il rit], qui te broie, Caesonia, pour parfaire enfin la solitude éternelle que je désire. [Atto V, scena 13]12
Un universo stagnante e senza sviluppo, inebetito e asciuttamente ripetitivo nella propria vacua smania di capillare e consapevole autodistruzione è quello in cui Caligola coltiva e lascia che si dischiuda il vitreo e venefico fiore dell’assurdo, un universo in cui, come già visto, il tragico e il quotidiano emettono ininterrottamente risonanze affini, assurgendo entrambi a simboli di uno stesso squadrato significato inoppugnabile che appiattisce ogni inquietudine soprannaturale su di un lessico angusto, frammentario, circoscritto ad un hic et nunc in cui lo scacco di ogni speranza è l’unica certezza in cui riporre fiducia: ecco allora che Caligola non può non essere sedotto da un vuoto che coincide esattamente con la pietrificata pienezza di un mondo ove tutto è significato da segni certi ma nulla ha senso.
Alla luce di ciò vi è pertanto una considerazione da fare: lo spazio scenico in cui prende corpo il dramma non coincide mai fattualmente col perimetro fisico del palco che calca l’attore, ma piuttosto si dilata, si espande e si moltiplica fratturandosi in un convulso non-luogo verbale tanto immateriale quanto concreto, dal seno del quale si dipana una stremata e disorientante concatenazione di argomenti incongrui che finiscono col cingere d’assedio il pensiero e la persona stessa di Caligola, tenendo in scacco tutta la corte. Se l’assurdo pertanto consiste nello svelare la turpe e sorda fatuità di tutte le illusioni forgiate dagli uomini per schermare la vivace brutalità del mondo, obbedire senza capire e senza porsi domande è ciò che rimane alle — e forse anche delle — loro vite, temprate alla dura fiamma di un raziocinio che conduce direttamente tra le fauci della notte, una notte in cui la veglia dello spirito — torturante ma inevitabile — non ha altro scopo che quello di consumarsi e disperdersi in un chiaroscuro più penetrante della luce del giorno.
Spazio polifonico e al tempo stesso angusto è quello del proscenio, inghiottito dal riflesso densamente irrealizzante dello specchio, ma anche amplificato da una parola che, come visto, pur eludendo ogni coralità, ha senza dubbio uno statuto plurale, monomaniacalmente plurale, avvitata cioè senza requie attorno allo strisciante frastuono dei silenzi, degli a parte, dei monologhi di Caligola. Per quanto infatti i personaggi, i deuteragonisti del dramma si oppongano e cerchino di resistere al vorace cupio dissolvi incarnato dell’imperatore, essi in realtà cadono pienamente nel suo gioco, animato da una dialettica distruttiva, finalizzato allo smembramento e non alla ricomposizione superiore degli opposti. In tal senso il programma di illimitata violenza, di lirismo inumano attuato da Caligola sembra puntare deliberatamente al raggiungimento di quel caos primordiale e originario, in cui le forze antagoniste vengono portate ad unità, in una magmatica fusione dei contrari sfociante in quella divina equivalenza grazie alla quale l’imperatore riesce a «mêler le ciel àla mer, confondre laideur et beauté, faire jaillir le rire de la souffrance?».13
Ambivalente, sdoppiato, bifronte, egli impersona simultaneamente il boia universale e la vittima ideale, l’esecutore materiale di un rito sacrificale assoluto e il capro espiatorio di un esercizio estremo dell’assurdo, al quale è necessario aderire integralmente — e, per forza di cose, volontariamente — scegliendo di dissolversi in esso. Già nel Sisyphe Camus aveva esposto questo stato di cose:
Partie d’une conscience angoissé e de l’inhumain, la méditation sur l’absurde revient à la fin de son itinéraire au sein mème des flammes passionnè es de la rèvolte humaine.14
Da qui deriva senza dubbio il sorriso luciferino e al tempo stesso angelico — quasi di liberazione — con cui egli si prepara all’irruzione finale nel palazzo dei congiurati venuti a trucidarlo. È in questo perfetto frangente di pienezza e purezza razionale che Caligola arriva a compiere in modo impeccabile il suo suicidio superiore15 e senza misura alcuna con la dimensione umana. Proclamata così l’esistenza di un assoluto in cui creazione e distruzione sono le frammentarie manifestazioni di una metafisica della finitudine e dello scacco, qui declino e trionfo, catastrofe e salvezza ostentano oscenamente gli stessi tratti nel ghigno grottesco di chi, amaramente ironico e dolorosamente compiaciuto, sa di aver portato fino al culmine del possibile la propria sfida a tutto ciò che è umano, soccombendo e dunque attestandone l’ineffabile riuscita.
Sulla scorta di quanto fin qui detto non risultano allora improprie le analisi che Fernande Bartfeld16 ha dedicato all’opera di Camus, mettendo in risalto la stretta correlazione tematica e concettuale tra tre nuclei di riflessione che nel Caligula si strutturano secondo una verticalità di coerenza isotopica particolarmente netta. L’eccesso, l’assurdo, il tragico non solo si incardinano in una traiettoria di collimazione piena, ma reciprocamente quelle tre nozioni si influenzano, si contaminano e si sfocano, facendo del tragico una sorta di metafisica terrena ove la parossistica furia deliberativa di Caligola tiene il posto del destino imperscrutabile imposto agli uomini senza possibilità di replica, l’eccesso diviene una sorta di raffinatissimo congegno drammatico sfruttato fino allo sfinimento per esibire la mostruosa inanità di ogni sforzo umano per uscire dal cerchio dell’assurdo e l’assurdo stesso viene riletto a postulato fondativo della sanguinaria ambizione pedagogica — la stessa che l’imperatore aveva esposto all’inizio del dramma17 — che spinge Caligola ad insegnare agli uomini la bruciante necessità di optare per una vita interamente votata alla dispersione. Forse proprio per questo motivo verso la fine della pièce Caligola, di nuovo davanti ad uno specchio è lo stesso specchio che lo aveva accolto al suo ritorno dopo la fuga improvvisa seguita alla morte di Drusilla e nel quale era comparso ai nostri occhi per la prima volta, pronuncia con la recisa fermezza di epigramma funebre queste parole: «La logique, Caligula, il faut poursuivre la logique. Le pouvoir jusqu’au bout, l’abandon jusqu’au bout. Non, on ne revient pas en arrire et il faut aller jusqu’à la consommation!» [Atto III, scena 5].18
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F. W. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, ed. it F. Masini e R. Calasso, Adelphi, Milano, 1970, p. 431. ↩︎
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K. Jaspers, Del tragico, trad di I.A. Chiusano, SE, Milano, 1987, p. 67. ↩︎
-
A. Camus, Le mythe de Sisyphe, Gallimard, Paris, 1942, p. 43. ↩︎
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Ibidem, p. 62. ↩︎
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A. Camus, Caligula, Gallimard, Paris, 1944, p. 25. Molto interessante è lo studio di Nancey de Gromard sulle didascalie nel Caligula. Cfr AA.VV., La passion du théâtre, Rodopi, Amsterdam-New York, 1994, pp 49-63. ↩︎
-
Ibidem, atto II, scena 10, p. 97. ↩︎
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Ibidem, p. 30. ↩︎
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Ibidem, atto III, scena 1, p. 118-122. ↩︎
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A. Camus, L’homme révolté, Gallimard, Paris, 1965, p. 63: la sezione, non a caso, è quella de La révolte métaphysique. Cfr «Je viens de comprendre enfin l’utilité du pouvoir. Il donne ses chances à l’impossible. Aujourd’hui, et pour tout le temps qui va venir, ma liberté n’a plus de frontières» [Atto I, scena 9]. ↩︎
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A questo proposito sono illuminanti le pagine de L’homme révolté dedicate a ciò che Camus chiama casemates de la débauche, nella sezione dedicata a Sade e, in particolare, ai «lieux clos, […] dont il est impossible de s’évader», p. 61. ↩︎
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Caligula, atto IV, scena 13, p. 203. ↩︎
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Ibidem, p. 204. ↩︎
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Ibidem, atto I, scena 11, p. 53. ↩︎
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Sisyphe, p. 60. ↩︎
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Ibidem, p. 97. ↩︎
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F. Bartfeld, L’effet tragique, Champion-Slatkine, Paris-Génève, 1988, pp. 46-60. ↩︎
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Caligula,«Alors, c’est que tout, autour de moi, est mensonge, et moi, je veux qu’on vive dans la vérité. Et justement, j’ai les moyens de les faire vivre dans la vérité. Car je sais ce qui leur manque, Hèlicon. Ils sont privés de la connaissance et il leur manque un professeur qui sache ce dont il parle» [Atto I, scena 4]. ↩︎
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Ibidem, p. 145. ↩︎