1. Il Chassidismo
Il carattere fortemente simbolico dell’opera kafkiana rende difficoltoso il compito di colui che si accinge a commentarla, in particolare — come mi propongo — in merito al tema della dimensione religiosa che la percorre. L’errore più frequente tra gli interpreti consiste a mio giudizio nell’inserire Kafka in una corrente di pensiero preconfezionata senza nessuna analisi specifica dell’opera, della vita e del contesto storico-culturale in cui egli si è mosso. Una delle conseguenze più evidenti di questa astrattezza ermeneutica è il non tener in debita considerazione che Franz Kafka era ebreo. Muovere invece da questo dato di fatto apre la strada ad un approccio all’opera di Kafka più libero dalle categorie ermeneutiche della tradizione «occidentale»; mi riferisco all’interpretazione «esistenzialista» che fa di Kafka il testimone dell’impossibilità di vivere, a quella «marxista» che vede in Kafka il portavoce della crisi della società borghese e della protesta contro l’onnipotenza della burocrazia, e a quella «cristiana» che individua in Kafka l’interprete della crisi dell’ebreo privato del messaggio salvifico del Cristo.
Per cercare di rimediare a queste ristrettezze interpretative è necessario partire dalla constatazione dell’origine ebraica di Kafka per poi cercare di analizzare il rapporto intercorrente tra Kafka, la religione ebraica e la sua religiosità. A tale scopo ritengo sia necessario prendere in considerazione quell’opera di Kafka il cui contenuto è immediatamente percepibile come religioso: i Quaderni in ottavo. Questo è l’argomento della presente ricerca: scoprire, attraverso l’indagine degli avvenimenti storico-culturali e della loro trasfigurazione nei diari e nelle opere, quale sia stata l’evoluzione dell’ebraismo in Kafka, per poi ricostruirne gli elementi sulla base di quell’opera di chiarificazione estrema che sono i Quaderni in ottavo. In questo senso approfondire la dimensione religiosa nel pensiero di Kafka significa portare alla luce i caratteri fondamentali del suo ebraismo.
Prima di affrontare direttamente i Quaderni in ottavo è necessario chiarire i termini «Chassidismo» e l’espressione equivalente, in questo contesto, di «mistica ebraica». Il Chassidismo (o Hasidismo) moderno — da chesed, amore, pietà — nasce nella Volinia e nella Podolia nel XVIII secolo ad opera di Isra’el ben Eli’ezer di Miedzyboz, noto con il nome mistico di Ba’al Shem Tov, «il possessore del buon nome», cioè il taumaturgo che opera miracoli grazie al segreto nome di Dio. Ciò che differenziava il culto di Ba’al Shem da quello della sinagoga era il modo di pregare: usava le medesime formule ma le pronunciava con estremo fervore elevando la voce e agitando il corpo con movimenti disordinati attraverso i quali si voleva stabilire un rapporto personale con la divinità. Per Baal Shem è giusto dedicarsi allo studio della Torah, applicare i suoi precetti e pregare, ma ciò non è sufficiente: è solo attraverso l’esecuzione gioiosa, lo slancio fervido — l’hitlahabut — che l’uomo comune può effettivamente riuscire a stabilire un contatto col mondo divino.
Questa non è certo una rivoluzione, nel senso di una modificazione della dottrina originaria con nuove idee, ma solo un nuovo modo di concepire il servizio divino, Abodà: «Questo è il senso del servizio: soltanto la preghiera che viene fatta per amore della Shekhinah vive veramente»;1 per questo il Baal Shem si opponeva decisamente a qualsiasi pratica ascetica ponendosi a favore della gioia del servizio. Alla morte di Ba’al Shem la setta, composta allora da più di mille Chassidim, venne diretta da Dow Bär di Mesritsch, detto «il grande Maggid» (il grande predicatore errante), che, grazie alla sua cultura talmuldica e cabalistica e alla forza della sua predicazione, in cui erano presenti elementi eterogenei della Torah, del Talmud, della Qabbala e del Sefer ha-Zohar, riuscì a guadagnare fedeli in numero sempre crescente. Con Dow Bär si entra nella fase detta Tzaddiqismo (o Saddiqismo), in cui la figura principale è quella del Tzaddiq (il Santo), capo carismatico in cui Dio si sarebbe incarnato rendendolo immune da ogni tipo di imperfezione e che rappresenterebbe il legame tra la Comunità e Dio.
Il Chassidismo si diffuse enormemente in Europa Orientale, tanto da incappare nella reazione dei capi delle Jeshivot, le accademie rabbiniche — i cosiddetti mitnagghedim, oppositori — che però non riuscirono ad eliminare il movimento. Esso si sviluppò sempre più verso la forma dello Tzaddiqismo, accentrando la vita e la salvezza della Comunità intorno alla figura dello Tzaddiq, cui, in pratica, veniva affidata la salvezza di tutta la comunità, da ottenere attraverso i suoi poteri magici e teurgici. È in questa forma che il Chassidismo è sopravvissuto giungendo ad influenzare Kafka attraverso i canali che prenderemo in considerazione. In particolare, è importante notare ora che, vista la varietà e l’eterogeneità delle fonti religiose dello Tzaddiq (Torah, Talmud, Qabbala luriana, Sefer ha-Zohar), bisognerà prendere in considerazione fonti anche in apparenza discordanti, che tuttavia fanno tutte parte del patrimonio culturale e religioso del Chassidismo e, in generale, della mistica ebraica.
2. La contrapposizione tra arte ed ebraismo
Il 4 ottobre 1911 Max Brod trascina Kafka alla prima recita della compagnia di attori Jiddisch di Lemberg. Kafka ne esce sconvolto, non certo per la qualità della recitazione o della messa in scena, che furono pessimi, ma perché per la prima volta si accorse che l’ebraismo poteva essere vissuto in maniera naturale, senza complessi di colpa, senza intellettualismi e senza il bisogno del confronto col mondo cristiano. Quello degli attori di Lemberg era un ebraismo vissuto «dal di dentro», giocoso, infantile, familiare, indipendente, vero. Tra l’ottobre del 1911 e il febbraio del 1912 Kafka assiste ad almeno venti recite, fa amicizia con uno degli attori, Jizchak Löwy, dal quale impara lo Jiddisch e apprende un’enorme quantità di racconti chassidici, si reca a conferenze sioniste, legge riviste sioniste, si abbona alla rivista Palästina, studia testi di storia e cultura ebraica. Sembra proprio che l’ebreo della memoria voglia risolversi e fondersi nella comunità ebraica. Proprio questo desiderio però sarà contrastato con altrettanta forza dalla volontà di difendere contro tutto e tutti la sua identità di scrittore: l’ebreo vorrà sposarsi in osservanza della legge mosaica che impone il matrimonio, mentre lo scrittore, scapolo, tenterà di difendere in tutti i modi la propria individualità e la propria esistenza, intimamente legata alla scrittura.
Il dramma non è nella presenza di questi «due» Kafka, ma nella loro profonda inconciliabilità: l’ebreo sionista non può coesistere con lo scrittore, come invece era accaduto a Max Brod che si era sposato, perché la letteratura è per lui un’attività suicida; la scrittura è soprattutto il piacere di farsi dilaniare dagli ingranaggi della macchina dalla quale si farà uccidere agli occhi del mondo proprio quando dovrebbe obbedire al comandamento della vita:
Da un punto di vista letterario, la mia sorte è molto semplice. La capacità di descrivere la mia sognante vita interiore ha respinto tutto il resto fra le cose secondarie e lo ha orrendamente atrofizzato né cessa di atrofizzarlo. Nessun’altra cosa può mai soddisfarmi. Sennonché la mia forza di descrivere è del tutto incalcolabile, forse è già scomparsa per sempre, forse mi può investire un’altra volta, ma certo le circostanze della mia vita non le sono favorevoli […] Io invece vacillo lassù e non è purtroppo la morte, bensì l’eterna tortura del morire.2
Questa posizione, lontanissima dalla concezione sionista, avallata da Brod, di una letteratura posta al servizio della comunità, come non impedì l’amicizia tra Kafka e Brod, che durò fino alla morte, così non impedì a Kafka stesso, staccatosi per questo dal sionismo, di continuare ad interessarsi alla cultura e alla religione ebraica; interesse che aumentò grazie alla presenza a Praga nel 1915 di profughi ebrei provenienti dalle zone galiziane a causa della guerra. Fu proprio la presenza di questi ebrei orientali che diede l’occasione alla Selbstwehr e a Max Brod di dar vita ad una serie di iniziative non solo umanitarie ma anche di conciliazione dei due ebraismi — occidentale e orientale — fondata sul presupposto dell’origine germanica dello Jiddisch.
Ben presto però gli ebrei assimilati della Selbstwehr dovettero affrontare il disprezzo degli ebrei galiziani, che li accusavano di essersi fatti invischiare troppo nella cultura occidentale: proprio quegli strumenti ideologici che, secondo Buber, avrebbero dovuto rivoluzionare l’arte ebraica, collocavano gli ebrei assimilati al di fuori dell’ebraismo vero, quotidiano, semplice; fuori dall’ebraismo della presenza; fuori dall’essere, nella zona della ricerca eterna. In fondo questa è l’essenza della condanna che Kafka sente per sé: essere scrittore, nel senso in cui Kafka è stato scrittore, significava essere fuori da tutto, dal rapporto col padre, dall’ebraismo, dal matrimonio, dal lavoro, dalla Legge, dalla vita. Ciò spiega come Kafka, durante una conferenza di Max Brod sul tema Religione e nazione del 25 marzo del 1915, sia rimasto colpito dalla presenza di un ebreo occidentale assimilato agli orientali, quello stesso che sarà per lui amico e preziosa fonte di informazioni sul Chassidismo: Georg Mordechai Langer.
Se Max Brod intendeva conciliare i due ebraismi, Langer aveva dismesso i panni dell’assimilato e aveva indossato il caffettano, rinunciando a tutte le conquiste ideologico-culturali dell’occidente per vivere realmente e quotidianamente il suo ebraismo. Ben presto Kafka e Langer divennero amici, tanto da recarsi, insieme anche a Max Brod il 14 settembre 1915, dal rabbi di Grodek. A questa visita ne farà seguito un’altra nel 1916 al rabbi di Belz. Possiamo intuire lo scopo di queste visite da una lettera di Kafka a Max Brod di fine settembre del 1917: «I racconti chassidici dello Jüdische Echo non sono forse i migliori, ma tutti questi racconti sono, non capisco, gli unici scritti ebraici nei quali indipendentemente dalle mie condizioni di spirito mi ritrovo subito e sempre».3
In tutte le culture, da quella greca a quella celtica, da quella degli indiani d’America a quella irlandese, i racconti hanno avuto sempre il compito fondamentale di trasmettere tutto il patrimonio culturale di un popolo da una generazione all’altra. Anche nell’ebraismo il racconto ha avuto ed ha tuttora un ruolo decisivo, secondo solo all’importanza della Bibbia, nella conservazione dell’identità del popolo ebraico. Infatti accanto a ciò che gli ebrei chiamano Halakhah, cioè l’insieme di leggi che regolano la vita di ogni ebreo, è stata sviluppata l’Haggadah, «la leggenda», il racconto come via attraverso la quale tutti potevano penetrare il fulcro, l’essenza della vera religione.
Nella mistica ebraica il racconto, il mito, l’Haggadà, non perde il suo valore e la sua funzione pedagogica, anzi, solo attraverso questo le difficili e «astruse» dottrine dei mistici sono rese comprensibili al popolo, alla gente semplice e illetterata che difficilmente avrebbe potuto comprenderle nella forma da quelli espressa. Nel caso particolare del Chassidismo ciò è molto più evidente perché gli Tzaddiqim, i «santi», predicavano attraverso il racconto. Dunque non è difficile comprendere come anche al tempo di Kafka il racconto fosse un mezzo di trasmissione dei principi del pensiero e dei fondamenti spirituali dell’ebraismo chassidico anche per chi, o perché assimilato, o per qualsiasi altro motivo, non aveva conoscenza approfondita e particolareggiata della tradizione.
Non deve stupire che Kafka si sentisse così vicino a questo tipo di spiritualità al punto di inglobarne i principi, cercando poi di farli coesistere con la sua maledizione. Tuttavia l’amalgama non ci fu e lo spirito di Kafka si scisse in due parti contrapposte: il mondo terribile nella sua testa e il Chassidismo; la disperazione dell’incapacità di scrivere e la corte dello Tzaddiq in cui non c’è spazio per la maledizione della letteratura; il mondo della letteratura che lo divide dal padre, dagli ebrei, dagli uomini e il mondo nel quale sogna di ritrovare l’amore e il perdono paterno; il mondo diabolico della scrittura e quello sporco ma vero e santo del rabbi; il Kafka scrittore e il Kafka ebreo.
Dalle pagine dei diari emergono non pochi spunti e annotazioni derivanti da discussioni con Langer, o dalla lettura della Bibbia o del Talmud o da racconti chassidici; per questo si può affermare con certezza che Kafka conosceva, certo non in maniera sistematica, i fondamenti della mistica chassidica, quegli stessi principi a cui si appiglierà a Zürau nel tentativo estremo di chiarire a se stesso i capisaldi morali e religiosi della sua esistenza e della sua arte, proprio in seguito al presentarsi della tubercolosi che, lungi dal considerare una maledizione, salutò come una liberazione alla quale doveva seguire la chiarificazione del suo nuovo modo di porsi nel mondo.
3. La tubercolosi e i Quaderni in ottavo
Erano circa le cinque della notte tra il 12 e 13 agosto del 1917 quando Kafka ebbe il primo sbocco di sangue. Su insistenza dell’amico Max Brod si fece visitare da uno specialista: la diagnosi fu tubercolosi ai due apici. Nonostante la gravità della malattia egli non si sentiva male; anzi, così scriveva alla fidanzata Felice Bauer il 9 settembre nella lettera in cui la informava della malattia:
Per completare, affinché tu non creda che in questo momento stia particolarmente male. Niente affatto, al contrario. Tossisco bensì dopo quella notte, ma non forte, ho qualche volta un po’ di febbre, qualche volta sudo un po’ di notte, sento che ho un po’ il respiro corto, ma sto molto meglio che in media negli ultimi anni. Le emicranie sono passate e dopo quella notte alle quattro dormo quasi meglio di prima. Il mal di testa e l’insonnia sono, almeno per ora, quanto di peggio abbia conosciuto.4
Quella che sarebbe dovuta essere una tragedia di immani proporzioni fu vista da Kafka come un simbolo della possibilità di ricominciare:
Tu hai la possibilità, seppure questa esiste, di incominciare. Non sprecarla. Non potrai evitare la sozzura che affiora da te, se intendi di entrare. Ma non avvoltolarti in essa. Se la ferita ai polmoni è soltanto un simbolo, come tu affermi, il simbolo della ferita, la cui infiammazione si chiama Felice e la profondità giustificazione, anche i consigli del medico (luce, aria, sole, tranquillità) sono simboli. Afferra questo simbolo.5
La dura lotta con il mondo sembrava essere finita; poteva cominciare una nuova vita libero da obblighi e restrizioni. Il 12 settembre parte per Zürau, dove viveva la sorella Ottla. Isolarsi dal mondo, da tutti, fu la prescrizione; anche da Felice che lo andrà a visitare il 21 di quello stesso mese. Ormai per Kafka era tutto finito:
Felice è stata qui, ha viaggiato trenta ore per vedermi, avrei dovuto impedirlo. Come la vedo io, porta sulle spalle essenzialmente per colpa mia il colmo dell’infelicità […] Io ho commesso il male per cui viene torturata e oltre a ciò faccio il servente allo strumento di tortura.6
La relazione durerà ancora pochi mesi; a dicembre lascia Felice; dopo averla accompagnata alla stazione si recherà da Max Brod che così descriverà quella visita:
Nell’ufficio non ero solo. […] Kafka invece era venuto direttamente nel mio studio mentre ferveva il lavoro e si era messo a sedere accanto alla mia scrivania sul seggiolino preparato per postulanti, pensionati o imputati. E lì piangeva dicendo fra i singhiozzi: «Non è orribile che questo debba succedere?» Le lacrime gli colavano sulle guance: non l’avevo mai visto così sconcertato, così privo di sostegno.7
La sera, distrutto, Kafka annoterà sui Quaderni: «25, 26, 27 dicembre. Partenza di F. — pianto. Tutto difficile, sbagliato eppure giusto».8 Ormai senza legami, era libero e pronto per il compito più difficile di tutti: «Ciò che devo fare posso farlo soltanto da me. Vederci chiaro nelle cose estreme. L’ebreo occidentale non ne ha contezza e non ha quindi alcun diritto di sposarsi. Qui non esistono matrimoni».9 La tubercolosi, dunque, rappresenta il simbolo della sua rinascita, della sua vera vita: ciò che non era riuscito alla volontà, la malattia lo aveva reso necessario.
Quello che è indubbiamente un enorme dramma esistenziale non può non essere anche interpretato come il simbolo del giudizio divino che, come abbiamo già visto, attraverso la malattia indica la via a colui che la sta smarrendo. È solo una coincidenza che il primo sbocco di sangue sia avvenuto contemporaneamente all’inizio del mese di Elul, che segna l’inizio del periodo della vita umana che secondo gli ebrei è sottoposto al giudizio divino?10 Dai frammenti di diario riportati sopra è evidente che Kafka avrebbe risposto negativamente, come di fatto ha risposto dando valenza simbolica alla sua malattia.
A Zürau, nel rustico mondo di campagna, riesce a trovare la pace e la serenità di cui necessitava. Il frutto di questo felice isolamento sono i cosiddetti Quaderni in ottavo; otto fascicoli del tipo usato dagli studenti del ginnasio dell’Impero Austro-Ungarico, che servivano a registrare i vocaboli di una lingua che si intendeva imparare e la relativa traduzione. Degli otto quaderni il terzo e il quarto sono composti da un insieme di aforismi di carattere teologico e filosofico — dei quali mi occuperò tra poco — con alcune note diaristiche. L’ottavo quaderno, oltre a contenere un abbozzo dell’autobiografia dell’attore Jiddisch Isak Löwy ed altre annotazioni, è composto, per circa l’ottanta per cento, da studi sulla lingua ebraica. Il resto dei quaderni contiene note diaristiche e abbozzi di racconti per lo più incompleti. Da notare che nel manoscritto del terzo quaderno sono presenti tre racconti brevi che sono stati espunti. Questi tre racconti sono: La verità intorno a Sancho Panza, Il silenzio delle sirene e Prometeo. Infine, allegate, ci sono le Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via: aforismi da Kafka ricopiati e ordinati provenienti dai Quaderni in ottavo; la loro importanza non si limita al dato di fatto di essere stati raccolti e numerati dallo stesso Kafka, ma deriva dal loro carattere sicuramente religioso. È stato scritto che questo aspetto dei Quaderni in ottavo non rappresenterebbe altro che «una specie di mitologia privata e fiabesca»11 che sarebbe arbitrario riferire ad una «religiosità positiva, come se Kafka si preoccupasse di rientrare in una ortodossia».12 Questa interpretazione «laica e morale» è innegabilmente priva di ogni fondamento, come vedremo.
4. La figura femminile e la sessualità
Il primo tema di cui mi occuperò, nonostante sia presente solo in due aforismi, è quello della vita sessuale e della donna, che in Kafka rimanda immediatamente al problema del matrimonio, considerato dall’ebraismo uno degli ingressi fondamentali attraverso i quali si può entrare nella Legge, poiché la sua funzione procreatrice assicura e permette la continuazione sia del sangue e della genìa ebraica sia l’eternità della Legge stessa. Già nel 1911, ne L’infelicità dello scapolo, Kafka metteva in risalto la solitudine e la grettezza della condizione di scapolo. Ben presto però, nonostante i tentativi di sposare Felice, dovette prendere coscienza dell’inconciliabilità tra la sua concezione di letteratura, la sua situazione di scrittore e il matrimonio. In un frammento che presumibilmente è stato scritto nel 191913 egli così descrive l’impossibilità e la fine di quel rapporto:
Amavo una ragazza, che mi riamava, ma dovetti lasciarla. Perché? Non so. Pareva che fosse circondata da una cerchia di armati, che tenessero le lance rivolte in fuori. Appena mi avvicinavo a lei, urtavo nelle loro cuspidi, restavo ferito e dovevo indietreggiare. Ho sofferto molto. Non ne aveva nessuna colpa, la ragazza? Credo di no, o meglio, so che non l’aveva. La similitudine precedente è incompleta, in quanto anch’io ero circondato da una cerchia di armati, che tenevano le lance rivolte in dentro, cioè contro di me. Appena mi spingevo verso la ragazza, urtavo subito contro le lance dei miei armati ed eccomi già subito fermo […] È rimasta sola, quella ragazza? No, un altro è giunto fino a lei, con facilità e senza ostacoli. E io, esausto dai miei sforzi, sono stato a guardare con assoluta indifferenza, come se fossi l’aria attraverso la quale loro volti si univano nel primo bacio.14
Nonostante questo fallimento Kafka è stato sempre consapevole del profondo valore spirituale e religioso del matrimonio. Nei Quaderni in ottavo scrive infatti: «La donna, anzi in termini forse ancor più netti, il matrimonio è il rappresentante della vita col quale devi fare i conti».15 Legato a questo aforisma è anche quello del 13 gennaio 1918: «L’amore sensuale riesce a farci dimenticare quello celeste. Da solo non potrebbe farlo, me poiché ha inconsciamente in sé l’elemento dell’amor celeste, ci riesce».16 Questi aforismi rimandano alla vera e propria teologia dell’amore elaborata dalla mistica ebraica, nella quale l’unione sessuale tra uomo e donna, quando è finalizzata alla procreazione, è un atto sacro attraverso il quale il popolo di Israele potrà continuare ad esistere e a portare la testimonianza del Dio unico. Dunque, se Kafka scrive che l’amore celeste è elemento dell’amore sensuale, il problema è ricercare in che cosa consiste l’amore celeste e che cosa significhi che è presente in quello sensuale.
La risposta è nel mistero della sessualità divina secondo la mistica ebraica. Nell’Albero Sephirotico lo Jesod, il Fondamento, corrisponde al sesso maschile dell’uomo sephirotico, alla mascolinità di Dio e ai genitali dell’uomo circonciso; ha essenzialmente una funzione riproduttiva e generativa cosmica ed è sede delle acque, simbolo di fecondità e radice seminale della natura. Omologando, attraverso la circoncisione, il sesso maschile allo Jesod divino, si trasforma l’atto sessuale in sacramento per mezzo del quale avviene la moltiplicazione della specie. Il secondo organo della sessualità divina, la donna divina con la quale lo Jesod si unisce, è chiamata Shekhinah. Tra lo Jesod e la Shekhinah si consuma un coito cosmico sephirotico che ha conseguenze a due livelli: nel primo avviene l’atto iniziale che ha dato inizio alla creazione del mondo e che, ripetendosi, ne garantisce la continuità; il secondo, nella forma Shekhinah-Israele e Dio, designa l’assistenza e la presenza divina nella storia del popolo eletto. In base alla corrispondenza esistente tra il mondo umano e il mondo celeste, l’unione matrimoniale è sacralizzata, dunque, quando ripete l’unione divina. Tutto ciò è sottolineato da questo interessantissimo brano tratto dal Sefer ha-Zohar, il Libro dello splendore:
È necessario per un uomo essere «maschio-femmina», sempre, cosicché la sua fede possa rimanere salda, e affinché la Presenza non lo lasci mai. […] Egli prima di partire e mentre è ancora «maschio-femmina» deve pregare Dio per attirare a sé la Presenza del suo Signore. Dopo che avrà pregato e offerto ringraziamenti e quando la Presenza sarà su di lui, allora potrà partire, poiché in virtù della sua unione con la Presenza egli ora sarà maschio e femmina in campagna, così come lo era in città, poiché sta scritto: «La giustizia (tzedeq, femminile di tzaddiq) camminerà a lui dinanzi e farà strada ai suoi passi» (Sal 85, 14). […] Inoltre, è suo dovere, una volta ritornato a casa, procurare piacere alla sua sposa, dal momento che fu lei ad ottenergli l’unione celeste. […] C’è una duplice ragione per questo […] Prima cosa, questo è un piacere religioso, poiché dà gioia anche alla Presenza divina, ed è uno strumento di pace per il mondo, come sta scritto, «e tu saprai che la pace è nella tua tenda; e tu visiterai la tua abitazione e non peccherai» (Gb 5, 24). È peccato se egli viene meno dall’accostarsi alla sua sposa? È peccato, poiché […] diminuisce l’onore della compagna celeste che gli fu data per merito della sua sposa. Secondariamente, se la sua sposa concepisse, la compagna celeste concederebbe al bambino un’anima santa; […] È così che coloro che studiano la Torah, lontani dalle loro spose i sei giorni della settimana […] sono in questo periodo uniti alla compagna celeste, affinché non cessino di essere «maschio-femmina». E con l’arrivo del Sabato, è loro dovere fare gioire le loro mogli, in onore dell’unione celeste, cercando di fare la volontà del Signore, come è stato detto.17
La donna, l’uomo e Dio, inteso nella sua manifestazione sephirotica di Shekhinah (presenza divina), non possono e non devono essere separati, anzi, come si è letto nel brano riportato, quando l’uomo è privato della controparte femminile subentra «la presenza di Dio» sopperendone la mancanza. Questo rapporto quasi fisico, certamente sessuale nel caso della donna umana — non uso il termine reale perché entrambe sono reali: una in senso fisico, l’altra in senso metafisico —, tra l’uomo e la Shekhinah, è necessario per la conservazione dell’ordine cosmico e della giustizia divina, dato che, in virtù del legame che unisce la sfera umana e quella divina, stare al di fuori di quest’ordine significa essere fuori da Israele, lontano da Dio. Kafka era per parte sua anche profondamente consapevole del ruolo della donna e della sessualità nell’ambito del giudizio.
Va tuttavia sottolineato anche il ruolo comunque positivo della seduzione e dell’atto sessuale non destinati alla riproduzione. Nell’ebraismo orientale vi era una credenza in virtù della quale la donna tentatrice — il peccato sessuale — rappresentava il mezzo il quale si giungeva ad un livello superiore di santità. Ciò era possibile sulla scorta del detto talmuldico «I giusti non possono stare nel luogo dei penitenti», che in definitiva significa che il penitente si trova ad uno stadio superiore di santità perché, a differenza del santo, conosce il peccato e i suoi pericoli. Il peccato quindi, nella fattispecie giacere con una donna, permette di avanzare nella gerarchia della salvezza, a patto che ci si penta, ben più del fatto di non avere mai peccato.
Il problema del peccato, del male, si pone a questo punto come un dilemma da risolvere: che cosa è il male? qual è il suo ruolo in Kafka? Si tratta di quesiti che troveranno risposta più tardi. Per ora importa sottolineare come il tema del peccato sessuale, che si identifica in definitiva con quello della figura della donna che aiuta l’uomo nella sua ricerca della salvezza, è presente sia ne Il Castello sia ne Il Processo. Ne Il Processo, una settimana dopo il suo primo interrogatorio, Josef K. ritorna alla sala delle udienze, incontrandovi la moglie dell’usciere del tribunale che gli offre il proprio sostegno. Josef K. in un primo momento rifiuta, ma poi accetta appena viene a conoscenza dell’intimità del rapporto che questa ha col giudice istruttore:
Tutto questo solo per dirle — spiega la donna — che il giudice istruttore […] mi fa la corte, deve essere poco tempo che mi ha messo l’occhio addosso, e così io posso avere molta influenza su di lui, in specie adesso che siamo agli inizi. Ho altre prove che io conto molto per lui: ieri, per mano dello studente, che gode della sua fiducia ed è suo collaboratore, mi ha mandato in regalo un paio di calze di seta.18
Subito dopo però, a causa di un litigio con lo studente, Josef K. perde l’aiuto e si ritrova di nuovo solo contro le potenze del tribunale. Lo sconforto però dura poco, perché Josef K. trova in Leni, l’infermiera dell’avvocato Huld, un aiuto insperato:
Leni disse: «Non è questo il suo errore [pensare troppo al processo]: lei non è abbastanza arrendevole, a quanto mi hanno detto». «Chi glielo ha detto?» chiese K., guardando giù ai suoi capelli folti, scuri, intrecciati stretti. «Se glielo dicessi, rileverei troppe cose. Non mi chieda nomi, per favore, e corregga piuttosto il suo errore […], faccia la sua confessione […] E neppure allora, se qualcuno non l’aiuta [se la potrà cavare]; ma per questo aiuto, non tema, provvederò io stessa.»19
È da notare come tutte le donne incontrate dal procuratore Josef K. e dall’agrimensore K. e che si offrono di aiutarli, sono sempre e comunque o legate alla gerarchia del tribunale, come la moglie dell’usciere e Leni, o legate alla burocrazia del castello.
Anche ne Il Castello, come già anticipato, si ricorre all’aiuto femminile, nel caso specifico di Frieda ex amante di Klamm, un alto funzionario. Il ricorso a Fieda, a differenza de Il Processo in cui gli aiuti femminili erano offerti dalle donne stesse, ha un motivo e una giustificazione ben precisi: attraverso il suo possesso K. spera di ottenere un contatto più concreto e diretto col castello; sembra quasi che attraverso il possesso di Frieda possa essere partecipe in maniera riflessa della comunità del castello.
Alla luce delle sconfitte a cui vanno incontro i due eroi kafkiani, come non si può essere concordi con il rimprovero fatto dal sacerdote a Josef K. nella cattedrale? «Fai troppo conto dell’aiuto altrui, — disse il sacerdote senza indulgenza, — in specie di quello delle donne. Non ti rendi conto che non è quello il vero soccorso?»20 Però le sconfitte non debbono imputarsi all’incapacità presunta dei soccorritori, ma devono vedersi nell’impossibilità assoluta e definitiva di una possibile redenzione. Se ne Il Processo Kafka ammette a chiare lettere l’incompatibilità tra arte e vita, la sua arte e la sua vita, l’avvento della tubercolosi, simbolo dell’intervento diretto del tribunale, sembra dargli l’opportunità di ricominciare, di ricostruirsi come ebreo e come uomo. Per questo motivo Kafka non evita la «sozzura». ma l’affronta a viso scoperto: nei mesi a Zürau si analizza, passando se stesso e l’umanità a setaccio, cercando le cause remote della condizione umana. Ora ne illustreremo i risultati.
5. L’uomo e l’Eden
Nell’analizzare il rapporto intercorrente tra l’uomo e l’Eden, Kafka, narrando della caduta dell’uomo, si dedica ad una vera e propria esegesi del secondo e del terzo capitolo della Genesi, dalla quale devo riportare alcuni passi, per mostrare poi la chiarezza dell’analisi kafkiana.
Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente e vi collocò l’uomo che aveva plasmato (Gen 2, 7-8).
Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti» (Gen 2, 15-17).
Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?» Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete». Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che, quando voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male». Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò (Gen 3, 1-7).
Il Signore Dio [dopo averli scoperti] disse allora: «Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male. Ora egli non stenda più la mano e non prenda anche dall’albero della vita, ne mangi e viva sempre!» (Gen 3, 22).
In questi passi abbiamo tutti gli elementi essenziali: creazione dell’uomo, dell’Eden, i due alberi, il serpente, la tentazione di Eva, il peccato di Adamo e la cacciata. La cacciata ha relegato l’uomo lontano da Dio. Il peccato originale per Kafka non consiste solo nell’aver assaggiato i frutti dell’Albero della scienza, acquistando così la conoscenza del bene e del male, ma consiste anche nel non aver ancora «assaggiato l’Albero della vita».21 Dunque per il nostro autore non c’è una sola colpa originaria ma due: una collegata all’Albero della scienza e l’altra all’Albero della vita; ed è appunto quest’ultima, simbolo della volontà e della pretesa delle creature di esistere al di fuori e in contrapposizione al loro creatore, che rende l’uomo più colpevole e lontano da Dio, ma che contemporaneamente ha fatto sì che il mondo potesse esistere. È ciò che scrive l’autore del Sefer ha-Zohar:
Notate ciò: Dio, quando fece l’uomo e lo rivestì in grande onore, gli impose di attaccarsi a lui al fine di essere uno e di cuore unico, unito all’Uno dal vincolo di una fede unica che lega tutto insieme. Ma in seguito, gli uomini abbandonarono la strada della fede e lasciarono dietro di sé l’albero eccezionale che si erge al di sopra di tutti gli alberi, e si attaccarono al posto che passa continuamente da un colore all’altro, dal bene al male e dal male al bene, ed essi discesero dall’alto e si attaccarono giù a ciò che è incerto, abbandonando il supremo e immutabile Uno. Fu così che i loro cuori, passando dal bene al male, fecero loro meritare talvolta la misericordia, talvolta la punizione, in base a ciò a cui essi si erano attaccati. Il Santo, sia benedetto, disse: «Uomo, hai abbandonato la vita e ti attacchi alla morte; in verità, la morte ti aspetta». E così la sentenza fu la morte, per lui e per tutto il mondo.22
La scissione dell’unità divina nel molteplice del mondo e degli individui fu la condizione della creazione e dell’allontanamento dell’uomo dalla sua radice. È a proposito di questa situazione che Kafka scrive: «Peccaminosa è la condizione in cui ci troviamo, e ciò indipendentemente da ogni colpa».23 A questo punto è lecito chiedersi: qual è la sorte dell’uomo e dell’Eden? Kafka insiste molto sia sull’esistenza dell’Eden sia sul fatto che questo sia ancora riservato all’uomo: «Noi fummo cacciati dal paradiso, che però non venne distrutto. La cacciata dal paradiso terrestre fu, in un certo senso, una fortuna, perché, se non ne fossimo stati cacciati, lo si sarebbe dovuto distruggere. Con la nostra cacciata il paradiso fu salvato dalla distruzione».24 E ancora: «Noi fummo creati per vivere nel paradiso, il paradiso era destinato a servirci. Il nostro fine è stato mutato; ma nessuno ha mai detto che sia mutato anche il fine del paradiso.»25
Per ribadire questi concetti Kafka sembra voler mettere alla prova la stessa religione: il paradiso terrestre è indistruttibile, in caso contrario tutte le certezze dateci dalla religione sono un immenso imbroglio.26 L’Eden, il luogo della ricostruzione (questo concetto sarà chiarito quando parleremo della trasmigrazione dell’anima o Gilgul) esiste, anzi, non solo esiste, ma «l’eternità del fatto [della cacciata] ci rende possibile non solo il poter restare perennemente in paradiso, ma il restarci in effetti, e sempre, che noi lo si sappia o non lo si sappia quaggiù».27 A conforto di questi aforismi è utile riportare quello che si narra nel Sefer ha-Zohar circa l’entrata di Giacobbe nell’Eden:
Così fu quando Isacco disse a Giacobbe: «Ecco l’odore del mio figlio, è come l’odore di un campo che il Signore ha benedetto» (Gen 27, 27). Ci è stato insegnato che fu così perché quando Giacobbe entrò, entrò con lui il Giardino dell’Eden. […] Come poté il Giardino dell’Eden entrare con lui […]? In realtà Dio possiede un altro giardino santo. […] Lo cura personalmente e lo incarica di accompagnare il giusto. Fu questo il giardino che entrò con Giacobbe.28
Riassumendo: Dio, allo scopo di veder testimoniato l’amore nei suoi confronti da parte delle sue creature crea il mondo. La creazione è resa possibile solo grazie ad un autolimitarsi di Dio. Questa limitazione (Tzimtzum) e la successiva frantumazione di Dio sono il fondamento della creazione. Dal canto loro gli uomini hanno dovuto commettere il peccato originale: dimenticare Dio per garantirsi l’esistenza. Il peccato diviene ora causa e fondamento dell’esistenza umana, indipendentemente da ogni colpa!
Ma come intendere la presenza e l’esistenza dell’uomo nell’Eden nonostante la caduta? Kafka non nutre il minimo dubbio nell’esistenza di Dio — difatti questa è la prima certezza assoluta del monoteismo ebraico — come pure non dubita affatto dell’esistenza dell’anima eterna partecipe del mondo dello spirito. Questa certezza nei Quaderni in ottavo è espressa in vari aforismi: «Esiste soltanto un mondo spirituale, quello che chiamiamo il mondo dei sensi non è che il male nel mondo dello spirito e ciò che chiamiamo cattivo non è che la necessità di un breve istante nel corso della nostra eterna evoluzione».29 Il 9 dicembre 1917 ribadisce questo concetto in maniera ancora più chiara: «Il fatto che esista soltanto il mondo dello spirito ci toglie la speranza e ci dà la certezza».30 Il mondo dello spirito, dell’anima, è l’unico ad esistere, mentre la realtà corporea è solo un’illusione, il frutto dell’indebolirsi della luce divina.
Ciò che ora bisogna sottolineare è il modo di Kafka di intendere l’unione tra anima e corpo, tra spirito e materia, tra eternità e temporalità. «Ad ogni istante corrisponde anche qualcosa di extratemporale. Alla vita terrena non può far seguito un Aldilà, perché l’Aldilà è eterno, e perciò non può stare in contatto temporale con la vita terrena».31 Kafka è molto chiaro: l’eternità non può entrare in contatto col tempo, non può esistere qualcosa che appartenga al tempo e poi, attraverso un salto impossibile, divenga parte dell’eternità. L’anima in quanto partecipe di Dio è eterna, il corpo è temporale e, come si evince dalla dottrina del Gilgul — di cui ci occuperemo oltre —, il corpo perisce e muore, mentre l’anima è eterna, e per giungere alla purezza necessaria per il Tiqqun (ricostruzione) definitivo vaga attraverso molti corpi o umani, o animali, o vegetali, o minerali. Il tempo esiste solo e soltanto per il corpo e per l’inerte materia, mentre per l’anima, partecipe della gloria e della potenza divina c’è solo l’eternità. Kafka nell’esprimere questi concetti è certamente a conoscenza, ovviamente indiretta — si riporti alla memoria quanto scritto prima riguardo al suo interesse per il Chassidismo —, della dottrina zoharica della triplice composizione dell’anima: «Ci sono tre elementi dello spirito […]: Neshamah — la super anima — esce e va tra i valichi di montagna e là le si unisce Ruah — lo spirito. Poi scende giù, e qui Nefesh — l’anima vitale — si unisce a Ruah, e i tre sono collegati in un’unità».32
È necessario fare attenzione alla gerarchia esistente tra queste tre parti: «L’anima, Nefesh, è intimamente legata al corpo, lo nutre e lo sostiene; […] acquisito il dovuto valore, diviene il trono su cui posa lo spirito, Ruah […]; quando questi due, anima e spirito, si sono preparati a dovere, sono degni di ricevere la super anima, Neshamah, che siede a sua volta sul trono dello spirito, Ruah.»33 Infine, per far notare come gli aforismi kafkiani che trattano dell’anima siano quasi un commento a questa dottrina, riporto il seguente brano tratto sempre dal Sefer ha-Zohar, in cui è chiaro che cosa intenda Kafka quando si riferisce alla presenza dell’anima nell’Eden nonostante la caduta:
Ruah si reca nel Giardino dell’Eden terrestre. Là, questo spirito, desiderando godere dei piaceri del meraviglioso Giardino, si riveste di una specie d’abito, che ha l’aspetto, la somiglianza, del corpo in cui dimorava in questo mondo. Al Sabato, al novilunio, e nei giorni di festa, ascende alla sfera celeste, rallegrandosi con le sue delizie, quindi ritorna nel Giardino: Come sta scritto: «E lo spirito, Ruah, torni a Dio che l’ha dato» (Qo 12, 7). […] In Neshamah si realizza l’Uno che abbraccia tutti i lati, il superiore e l’inferiore.34
6. La trasmigrazione delle anime o Gilgul
Il problema dell’eternità dell’anima ci riporta all’aforisma del 20 ottobre, in cui Kafka così si esprime: «Molte ombre di defunti non fanno altro che lambire le onde del fiume dei morti, perché esso viene dal nostro mondo ed ha ancora il gusto salmastro dei nostri mari. Il fiume, allora, arrestato dallo schifo, si mette a scorrere a ritroso e risospinge i morti nella vita. Ma essi sono felici, cantano inni di ringraziamento e accarezzano le acque sconvolte».35 Il tema presente è la trasmigrazione delle anime o Gilgul, al quale vengono condannate le anime che non possono scontare la loro pena nella Geenna (una sorta di purgatorio ma in cui, a differenza del purgatorio cristiano — sarebbe meglio dire dantesco —, il periodo di detenzione è di dodici mesi) o che non hanno raggiunto la perfezione spirituale:
«Se [l’anima] dispiace agli occhi del suo Signore», vale a dire, se è guastata dal peccato e dalla colpa, egli rifiuta di assegnarle lo stesso corpo di prima, e così ne è privata per sempre, a meno che il suo Signore le conceda la grazia e la riconduca al corpo [per trasmigrazione], perché «la farà riscattare», così come è scritto: «Ha liberato la sua anima dal discendere nella fossa» (Gb 33, 28). Ciò significa che all’uomo è consigliato di riscattare la sua anima tramite il pentimento. In verità, […] la redenzione dell’anima […] avviene per mezzo del pentimento, e poi, della liberazione dalla Geenna, da parte del Santo, egli sia benedetto.36
L’origine di questa dottrina, non presente nell’ebraismo ufficiale ma sfondo religioso di numerosi racconti, è la Qabbala di Yitzchak Luria. Riassumerò, allo scopo di facilitare una più profonda intelligenza dei nessi esistenti tra essa e gli aforismi kafkiani che la richiamano, la complicata dottrina di Luria secondo alcune idee fondamentali: lo Tzimtzum, la Rottura dei vasi e il Tiqqun.
Lo Tzimtzum è essenzialmente il ritrarsi di Dio in se stesso, nelle sue profondità, per rendere possibile la creazione e la sua manifestazione. Dio, rifugiandosi in se stesso, si limita, crea in vuoto nella sua infinità per permettere l’esistenza del mondo. Ecco che il primo atto della creazione non è positivo, ma negativo: il ritrarsi, il nascondersi di Dio simbolizza l’esilio di Israele dalla propria terra e il suo vagare per il mondo, costretto a soffrire e a chiudersi in se stesso per conservare la propria identità.
Durante il processo di contrazione, nello spazio primordiale prodotto, rimasero delle scorie — Reshimu — che si legarono ai frammenti di luce emanata da Dio, dando vita al caos primordiale. Da Dio allora partì un secondo raggio di luce che determinò la separazione e la determinazione nel caos. La prima configurazione, risultato del processo di individuazione di Dio, fu Adàm Qadmon. Dalla faccia di questi uscirono, prima senza distinzione, poi in forma isolata, le dieci Sephirot, formando quello che Luria chiama Olàm ha-tohu, Mondo della confusione. È a questo punto che furono usati i vasi creati per contenere e preservare le Sephirot.
Le scorie dell’En-sof, Reshimu, sono ancora mescolate alle luci delle Sephirot; ciò è importante perché proprio a causa di questa presenza si sono determinate quelle imperfezioni nei vasi che ne causarono la rottura e la conseguente formazione delle Qelippòt, gusci, frammenti dei vasi, costituenti il mondo del male. A causa di tale rottura, i frammenti di luce delle Sephirot si diressero da tutte le parti: alcune verso Dio, altre verso il basso, verso il mondo del male. La conseguenza fu l’unione di frammenti di luce, di bene, a frammenti di male.
Dal punto di vista cosmico il problema era riportare tutto al punto originario, alla condizione beata a cui mirava Dio; insomma era necessario realizzare il Tiqqun, il mondo della ricostruzione. A questo scopo dall’Adàm Qadmòn si originò un nuovo raggio che formò cinque configurazioni o partzufim, in cui le Sephirot si organizzarono in maniera del tutto nuova: dalle Sephirot della grazia e dell’amore sorse, in forma antropomorfizzata, l’Arikh Anpìn, il Longanime Dio misericordioso; dalle Sephirot della sapienza e dell’intelligenza, Abba, il Padre, e Imma, la Madre; le altre sei Sephirot si concentrarono in un’unica configurazione: Zeìr Anpin, l’Impaziente, ovvero il Dio che interviene nella creazione in quanto creatore; la Shekhinah, che alla Rottura dei vasi precipitò nel mondo delle scorie, si manifesta nelle configurazioni di Rachele e Lia, le mogli primarie di Giacobbe dalle quali ebbe quei figli che diedero vita alle dodici tribù di Israele. Completare il Tiqqun, liberare dall’esilio la Sekhinah e unificare il cosmo, fu il compito alla realizzazione del quale fu delegata l’ultima configurazione dell’Adàm Qadmòn: Adamo.
Adamo doveva raccogliere le innumerevoli scintille di luce riportando tutto nell’ordine e nell’unità originaria. A questo scopo doveva unirsi alla Shekhinah-Rachele il primo Sabato della creazione. Purtroppo Adamo fallì, unendosi prima del tempo:37 la Shekhinah non fu redenta ma si staccò definitivamente da Zeìr Anpìn, iniziando così il definitivo esilio; il mondo sprofondò al grado inferiore, nel dominio delle Qelippòt, dei gusci, del male. L’anima del primo uomo non poteva uscire indenne da questo cataclisma cosmico, ed infatti si disgregò disperdendo le sue 613 radici in innumerevoli scintille psichiche alle quali spetterà il compito di completare il Tiqqun fallito da Adamo, vagando attraverso molteplici trasmigrazioni (Gilgul) in uomini, animali, piante o minerali, fino a ricongiungersi alla grande anima adamitica. Solo alla ricomposizione di questa, Adamo potrà eseguire il compito di ricostruzione cosmica affidatogli agli inizi del tempo, e sarà in quel preciso momento che il Messia verrà a beneficiare del mondo.
Quale è, a questo punto, il compito dell’uomo? Tra il mondo divino e quello umano esiste una profonda frattura ma contemporaneamente un altrettanto profondo legame. Può sembrare paradossale ma ciò si spiega in questo modo: l’osservanza della Legge da parte dell’ebreo anticipa il Tiqqun. Grazie alle buone azioni, l’uomo accelera il processo di purificazione di tutte le cose: la redenzione del mondo dipende dalla purezza di Israele — questa è in fondo l’essenza del concetto di elezione ebraica. Certo non è solo attraverso l’osservanza della Legge che ciò può avvenire; difatti l’altro valore fondamentale è quello della preghiera, intesa come «azione mistica che ha influenza ordinatrice su tutte le sfere che l’orante attraversa nella sua Kawwanah — intenzione mistica. In tal modo la preghiera è una parte essenziale del grande processo messianico del Tiqqun».38
Poco dopo la morte di Luria, avvenuta nel 1572, l’anima popolare ebraica si impadronì di questa dottrina creando le prime storie, rapidamente diffusesi in tutto il mondo giudaico, sulla trasmigrazione delle anime e sul Tiqqun. Alcuni aspetti fondamentali sono presenti in Kafka. Queste storie, come se fossero una teodicea popolare, offrono la giustificazione dell’esistenza presente, coi suoi dolori, le sue sofferenze e le sue mancanze, attraverso il ricorso a quella precedente, in base al presupposto che le sofferenze di questa vita rappresentino la pena per le colpe commesse nella vita precedente. Non è certamente sufficiente un solo passaggio attraverso la morte per ottenere la redenzione. Lo sapeva benissimo Kafka quando scriveva: «La nostra salvezza è la morte, ma non questa»;39 non è raro infatti che qualcuno arrivi a ricomporre la storia delle proprie trasmigrazioni. Ne è la prova ad esempio il caso di Ba’al Shem Tov, fondatore del Chassidismo, che sostenne essere il Gilgul di Rav Sa’adya Ga’on, il primo filosofo ebreo del Medioevo, vissuto nel IX secolo, oppure di Yitzchak Luria, del quale si narra:
C’erano una volta due vicini del Rav (Rebbe: capo delle comunità chassidiche), che litigavano sempre con lui. Un giorno egli disse loro: «Non la smettete ancora? Se io volessi, potrei far sì che la terra spalancasse la bocca e vi inghiottisse». Allora gli chiesero cosa significassero le sue parole. Egli spiegò che essi erano i Gilgul di Datan e Abiram e che erano sempre in rivolta e in lite contro di lui che era una scintilla di Mosè. Di qui le sue parole.40
Una particolarità del Gilgul è che la vita precedente, animale o umana, lascia in quella presente tracce evidenti: la gestualità animale rimane, nonostante il cambio di esistenza, nell’uomo che precedentemente è stato animale, come accade nel racconto Il nuovo avvocato, nel quale Kafka narra di Bucefalo, il cavallo di Alessandro il Macedone, che vive ora sotto forma di uomo ed è avvocato, ma che ad uno sguardo allenato rivela ancora le sue caratteristiche equine.
Un altro accento singolare della dottrina del Gilgul è la corresponsabilità: secondo Luria le persone che vivono con animali o cose che sono il Gilgul di un essere umano e che debbono in quel modo espiare una colpa, sono obbligati, in virtù della comune radice dell’anima, ad aiutarli a raggiungere la propria espiazione. Ciò significa che tra il mondo animale e quello umano la differenza è solo formale e non sostanziale: dietro forme diverse si cela sempre l’anima umana, che tende naturalmente verso la redenzione e la purificazione. In Kafka questo concetto di solidarietà è presente nella prosa Un incrocio (1917), nella quale l’animale, per il quale «il coltello del macellaio potrebbe essere una redenzione»,41 invita il proprietario ad agire «con intelligenza»,42 a rispettare, cioè, l’obbligo imposto dalla solidarietà.
Nel pensiero kafkiano però non sembra esserci redenzione. Se, infatti, la morte è salutata come mezzo di redenzione sia dell’uomo condannato ad un Gilgul umano che di quello condannato al Gilgul animale, in Kafka è solo un rinvio ad altre sofferenze, ad altri Gilgul, ad altre vite, in un eterno circolo vizioso al di fuori della Legge. Questa situazione è illustrata ne Il cacciatore Gracco (1917) che, né vivo né morto, è costretto a vagare per l’eternità:
La mia barca funebre ha sbagliato rotta, un falso colpo di timone, un istante di disattenzione da parte del barcaiolo, una deviazione attraverso la mia splendida Patria, non so che cosa sia stato; so soltanto che sono rimasto sulla terra e che da allora la mia barca solca le acque terrene. Così io che volevo sempre vivere sulle mie montagne viaggio dopo morto per tutti i paesi della terra. «E non partecipa all’aldilà?» domandò il sindaco corrugando la fronte. «Sto sempre» rispose il cacciatore «sulla scala che vi sale. Mi aggiro su questo scalone infinitamente ampio, ora in alto, ora in basso, ora a destra, ora a sinistra, sempre in moto. Ma quando prendo il massimo slancio e già vedo brillare il portone lassù, mi sveglio nella mia vecchia barca incagliatasi desolata in qualche acqua terrena.»43
Questo destino non è diverso da quello descritto nel Libro sulla trasmigrazione delle anime da Chayyim Vital:
Sappi che gli empi, dopo la morte, vanno nella Geenna, dove ricevono la loro punizione e lì espiano per dodici mesi. Ci sono però anche gli empi dei quali la Scrittura dice: «L’anima del tuo nemico, Egli la scaglierà come dal cavo di una fionda, questi non sono neppure degni di cadere dopo la morte nella Geenna per cancellare la loro colpa». Invece la loro anima, di ripudio in ripudio, va a finire nei più singolari Gilgul […], e per loro non è stato fissato il termine preciso. Talvolta migrano nel Gilgul per vent’anni o per cento o per mille, tutto dipende dalla quantità di peccati che hanno commesso in questo mondo.44
L’eterno vagare senza meta e senza scopo riduce il mondo ad un’immensa prigione, nella quale la più grande concessione è l’odio per le celle in cui si è sbattuti continuamente; ma non tutto è perduto: «C’entra anche un briciolo di fede che, durante il trasferimento, il Signore passi per caso nel corridoio, guardi in faccia il prigioniero e dica: “Costui non rinchiudetelo più. Ora viene da me”».45 La morte dunque è solo il passaggio da una cella all’altra, da una sofferenza all’altra. C’è una speranza, non legata alla morte ma ad una attesa, ad un non agire che delega a Dio l’azione espiante: è Dio che col suo intervento deve portare a sé l’anima umana. Il ricongiungimento non è, per Kafka, dipendente dall’agire dell’uomo ma dal giudizio divino. Ecco che il tema fondamentale del giudizio, incontrato nelle opere precedenti, ritorna con insistenza nei Quaderni in ottavo: che cos’è il Gilgul se non la conseguenza del giudizio divino, visto che è questo che determina l’entità, la gravità della colpa e la conseguente pena?
7. Il messia, l’uomo, l’estasi
Ho già accennato che l’avvento del messia non sarà l’evento determinante per la salvezza dell’umanità, bensì è vero il contrario: solo quando Israele sarà puro e l’anima di Adàm Qadmon ricostituita, il messia verrà a beneficiare del mondo. Risulta palese la differenza tra la concezione cristiana e quella ebraica, in particolare quella qabbalistica: per il cristianesimo il messia è già giunto, gli ebrei non lo hanno riconosciuto e per questo, realizzando le profezie veterotestamentarie (Is. 53, 8ss) lo hanno ucciso; per i cristiani insomma il messia, nella persona del Cristo, ha già beneficiato il mondo con la sua venuta. Il messianesimo ebraico, invece, vedrà realizzate le sue speranze solo quando, attraverso l’intensa attività dell’uomo, il mondo sarà pronto, puro. La redenzione di conseguenza è vista come un processo successivo alla purificazione. Kafka non si discosta minimamente da questa linea:
30 novembre. Il messia verrà appena sarà possibile lo sfrenato individualismo della fede, appena nessuno penserà a distruggere tale possibilità; nessuno tollererà tale distruzione, di modo che i sepolcri, insomma si possano scoperchiare. Questa, forse, è anche la dottrina cristiana, tanto nel singolo modello concreto che i fedeli devono imitare, un modello individualistico, quanto nell’indicazione simbolica della resurrezione del mediatore in ogni singolo uomo.46
La condizione della venuta del Messia è quella che Kafka chiama «lo sfrenato individualismo della fede» ovvero la presenza in ogni uomo di una fede così salda, «una fede lieve e pesante come una mannaia di una ghigliottina»,47 una tale fede, quindi, da sollevare l’umanità ad un livello superiore di santità. Nella stesso aforisma Kafka tende una mano al cristianesimo: per lui l’imitazione di Cristo, concreto modello di vita santa, e la sua mediazione nella resurrezione della carne, hanno lo stesso scopo di quello che prima ha definito come «lo sfrenato individualismo della fede»: creare un mondo in cui gli ideali cristiani ed ebraici possano ricondurre, ognuno mediante il proprio credo, ad unità la frattura originaria. Un’altro aforisma conferma che «Il Messia verrà soltanto quando non ci sarà più bisogno di lui, arriverà un giorno dopo il proprio arrivo, non arriverà all’ultimo giorno, ma all’ultimissimo».48 Dunque questo deve essere chiaro: l’avvento del Messia non sarà altro che il punto finale, il sigillo del processo del Tiqqun, simbolo dell’avvenuta redenzione.
Abbiamo già accennato al ruolo dell’uomo nel Tiqqun e alle conseguenze delle sue azioni sul mondo celeste. È necessario approfondire ora questo tema, dato che anche l’avvento del Messia è preparato, anzi è il coronamento, dell’opera umana. A questo proposito è bene introdurre un’altra idea fondamentale per la Qabbala, in generale, e per il Chassidismo in particolare: il concetto di Kawwanah, intenzione. Martin Buber ce lo presenta in questo modo: «L’uomo non deve soltanto aspettare, non soltanto deve guardare nella strada: l’uomo può operare per la redenzione del mondo. Questo è appunto la kawwanah: il mistero dell’anima tesa alla redenzione del mondo».49 La Kawwanah è l’intenzione mistica che accompagna le preghiere e domina le azioni degli uomini; è un agire in santità per la redenzione non solo della propria anima ma di quella di tutti gli uomini; è insomma il mistero della teurgia, della possibilità, cioè, che l’uomo ha di esercitare influenza sul mondo divino.
Ogni azione, ogni preghiera sono, per la mistica ebraica, mezzi di redenzione; hanno quindi la capacità anticipare il Tiqqun e la venuta del Messia. Queste azioni però debbono superare molti ostacoli nel loro cammino verso Dio: debbono attraversare porte, affrontare guardiani, angeli, demoni, superare stanze in cui sono sottoposte al giudizio di entità superiori. Per questo debbono essere forti di quella forza che viene dalla fede e dalla santità dell’intenzione: «Non è decisiva la materia dell’intenzione ma la sua santità».50 La kawwanah porta il mistico allo stadio chiamato dell’hitlahabut, del fervore dell’estasi, l’unione dell’anima con l’infinito. Quest’esperienza metafisica è ricercata da tutti i mistici e si può descrivere come lo stato in cui l’anima è inglobata nell’infinità dell’essere nel quale si abbandona nella più completa felicità.
Sono sicuro che Kafka conoscesse anche queste dottrine — quella della kawwanah e quella dell’hitlahabut — dato che così le descrive in un aforisma del 18 febbraio (correggo, seguendo M. Brod, un lapsus calami di Kafka: «intenzione» in luogo di «intuizione»): «Intenzione ed esperienza. Se l’“esperienza” è un riposare nell’Assoluto, l’“intenzione” non può essere che la via indiretta verso l’Assoluto, passando per il mondo. Ogni cosa, in fondo, tende al punto d’arrivo, e questo è uno solo. Una tesi conciliante, però, è possibile, se si afferma che tale divisione ha luogo soltanto nel tempo, che essa avviene, perciò, in ogni istante, ma in realtà non si verifica affatto»51 dato che noi viviamo «perennemente in paradiso — cioè in unione con Dio — […] che noi lo si sappia o meno quaggiù».52
A questo punto è indispensabile far notare quella che forse non è una semplice coincidenza. Nella sua introduzione a La leggenda del Baal Shem, Martin Buber descrive il cammino dell’hitlahabut; in questo cammino verso «l’Albero della vita», il mistico deve affrontare, ad un certo punto, una «spada di fuoco» che sbarra la strada ma che si liquefà a contatto col fervore del mistico: «Una spada di fuoco custodisce la via che conduce all’albero della vita. La spada si liquefà al contatto dell’hitlahabut. La strada è aperta dinanzi all’hitlahabut, […] il mondo non è più il suo luogo».53 Il mistico animato dalla kawwanah e in preda al furore dell’hitlahabut prima di trovarsi al cospetto di Dio deve superare una spada di fuoco — metafora che indica il punto di distacco dal mondo sensibile — che gli sbarra il cammino.
Si noti ora l’impressionante analogia tra questa descrizione e i due aforismi composti la sera del 7 novembre: «Quando una spada ti trafigge l’anima importa conservare l’occhio calmo, non perdere sangue, accogliere la freddezza della spada con la freddezza della pietra. Attraverso quella trafittura, dopo quella trafittura diventare invulnerabili. Qui non ci sono mai stato: si respira diverso, più fulgida del sole splende vicino ad esso una stella».54 Notevoli sono sia il riferimento alla «spada che trafigge l’anima», sia la descrizione di un «luogo», in cui non era mai stato, tutt’altro che spiacevole. Tutto ciò sembra indicare che quella sera Kafka debba aver sperimentato qualcosa di nuovo e di sbalorditivo. D’altra parte nelle annotazioni successive non accennerà più a tale esperienza, anche se riterrà importante trascrivere parte delle sue impressioni — esattamente il secondo degli aforismi sopra riportati — nelle Considerazioni. Non so se sia giusto ipotizzare che quella sera del 17 novembre Kafka abbia in qualche modo sperimentato un’esperienza estatica o si sia semplicemente dedicato a descriverne — perché poi? — gli effetti; quel che però mi sembra abbastanza evidente è che la sua ricerca diventa negli aforismi successivi più profonda, quasi febbrile, come se nella sua mente tutto fosse diventato improvvisamente più chiaro; forse, per usare un’espressione dei Quaderni in ottavo, «Questo si chiama andare troppo oltre».55
8. Il giudizio umano e il giudizio divino
La contrapposizione tra la sfera umana e la sfera divina, tra il giudizio umano e quello divino, la profonda differenza tra Dio con le sue schiere e l’uomo, si concretizza negli aforismi in cui Kafka si occupa del giudizio umano:
Il giudizio umano sulle azioni umane è esatto e insieme errato, cioè prima è esatto, poi errato. Attraverso la porta di destra gli uomini entrano in una stanza in cui si tiene consiglio di famiglia, ascoltano l’ultima parola dell’ultimo oratore, entrano, con quella, nel mondo attraverso la porta di sinistra e gridano il loro giudizio. Giudizio che è esatto circa la parola, ma errato per se stesso. Se avessero voluto giudicare con definitiva esattezza, si sarebbero dovuti fermare per sempre nella stanza, sarebbero divenuti componenti del consiglio di famiglia e così, certo, avrebbero finito col perdere la facoltà di giudicare.56
Aggiungendo subito dopo: «L’unica capace di giudicare è la parte in causa, ma essa, come tale, non può giudicare. Perciò nel mondo non esiste una vera possibilità di giudizio, ma solo il suo riflesso».57 Il giudizio umano è dunque esatto e poi errato, possibile e impossibile e infine, esiste solo in quanto riflesso. Aldo Gargani giustamente distingue due momenti nel giudizio: la formulazione e la verifica. Nel momento della formulazione i giudizi «sarebbero rimasti in uno stato di esattezza, arrestandosi al livello della concretezza formale del giudizio. Ma portato fuori della stanza nel mondo risulta incommensurabile rispetto alla realtà»;58 però «rimanendo nel chiuso della stanza, si perde la facoltà di giudicare, cioè di stabilire come stanno le cose, di commisurare i giudizi coi fatti».59 L’uomo, relegato nell’angusto spazio dell’io, non può giudicare la realtà esterna perché il suo giudizio si scontrerebbe con «la forza inarrestabile e irrefrenabile della vita che si autogiustifica e si impone come necessità».60
Credo però che Kafka non dia una valutazione negativa di quest’impossibilità di giudizio, anzi tra l’andare nel mondo a gridare il proprio giudizio e il fermarsi per sempre nella stanza, tra l’azione e la stasi, tra l’avere, il ricercare, il tendere e l’essere, Kafka è più propenso a credere che «non esiste l’avere, esiste solo l’essere: quell’essere che anela all’ultimo respiro, alla soffocazione».61 La facoltà di giudizio dell’uomo non può e non deve esistere che sotto forma di un pallido riflesso, di una vaga possibilità che non deve tradursi in atto, poiché da una parte si scontrerebbe contro la necessità del mondo, dall’altra si arrogherebbe compiti che spettano solo a Dio, dato che «il mondo può essere considerato buono (giudicato) soltanto dal punto da dove è stato creato, perché soltanto là fu detto: Ed esso era buono […] e solo di là può essere condannato e distrutto».62 Se il mondo non può essere giudicato dall’uomo, tanto meno questa facoltà deve avere come oggetto un altro uomo, perché questo significherebbe venir meno ad uno dei punti cardini dell’ebraismo e della sua mistica: l’umiltà, Shiflut. Umiltà significa essere consapevoli del legame profondo che lega l’uomo al suo prossimo, dato che in ogni uomo è presente una scintilla della luce divina e per questo è un essere speciale che possiede virtù uniche e irripetibili:
L’umiltà dona a ciascuno, anche al disperato solitario, uno strettissimo contatto con gli altri uomini, e lo dà subito, a patto, s’intende, che l’umiltà sia assoluta e continua. essa può farlo perché è la vera lingua della preghiera, insieme adorazione e fortissimo legame. I nostri rapporti col prossimo sono quelli della preghiera, i nostri rapporti con noi stessi quelli dell’azione; alla preghiera attingiamo le energie necessarie per l’azione.63
Umiltà significa anche giustizia: nessun uomo può condannarne un altro o esprimere un giudizio su di lui perché «chi pronuncia un giudizio intorno a una persona, lo pronuncia su se stesso»;64 umiltà è anche amore, vicinanza e comunione con il prossimo, anche e soprattutto laddove c’è odio o lontananza da Dio, perché il proprio amore deve compensarne la mancanza. All’impossibilità del giudizio umano sul mondo e sull’uomo si oppone la necessità del giudizio divino sull’uomo:
Quanto più opprimente della più inesorabile certezza della nostra attuale condizione di peccatori è la certezza anche più blanda del rendiconto che un giorno ci toccherà dare della nostra esistenza terrena. […] Taluni suppongono che, accanto al gran trucco generale, ci sia in ogni caso, fatto apposta per loro, un piccolo trucco particolare. […] Questo si chiama andar troppo oltre.65
È interessante notare come, nella seconda parte dell’aforisma ora riportato, Kafka parli della possibilità di un trucco generale attraverso il quale sottrarsi alla condanna. Questo mezzo illegale può consistere nel suono dello shofar, un corno d’ariete suonato nel periodo delle festività, cioè a metà agosto, a Capodanno e a Yom Kippur, che confondendo Satana lo distoglie dal suo compito di accusatore. Un altro inganno è quello perpetrato da Dio stesso che, attraverso di esso, mostra all’uomo come, attraverso il raggiro, possa salvarsi dal severo tribunale celeste:
Tu pensa: a Yom Kippur viene Satana per accusare Israele e contare i suoi peccati. Egli grida: «Signore del mondo, tra i popoli ci sono adulteri e così anche in Israele!» E il Santo, Egli sia benedetto, presenta i meriti di Israele. Prende la bilancia, compensa i peccati con i meriti e risultano pari. Satana corre per procurare ancora più peccati, affinché il piatto delle colpe dia il colpo decisivo. Cosa fa il Santo, Egli sia benedetto? Mentre Satana corre di qua e di là per raccogliere i peccati, Egli prende i peccati e li nasconde sotto la Sua veste. E quando Satana torna non trova più i peccati!66
Questi trucchi però non hanno la capacità di redimere definitivamente l’uomo sottraendolo per sempre dalle spire del tribunale; infatti rimandano il giudizio dando il tempo all’uomo di aumentare i propri meriti da far valere nella bilancia del giudizio. Di ciò Kafka fu consapevole se scrisse: «Qui la questione non verrà decisa, ma la forza per deciderla si può saggiare solo qui».67
9. La libertà dell’uomo
Il dato di fatto della necessità del mondo fa nascere la questione relativa alla libertà umana: l’uomo è libero? se è libero, come questa libertà si concilia con la necessità del mondo?
La volontà libera significa: era libera quando volle il deserto, è libera potendo scegliere la via con la quale attraversarlo, è libera potendo scegliere il passo che terrà, ma non è libera perché deve necessariamente attraversare il deserto, non è libera perché ogni via, nel suo intricato labirinto, passa per ogni palmo del deserto.68
La volontà è libera e non è libera; prima è libera poi non lo è più. La volontà libera esiste e non esiste: non esiste se la si confonde con l’arbitrio, destinato inevitabilmente ad una continua frustrazione; esiste se la si ricopre della consapevolezza della necessità del reale. Kafka comprende infatti che la volontà libera non è quella legata agli istinti e alle inclinazioni, cioè l’arbitrio, ma quella che comprende l’intima necessità del reale assecondandone i movimenti e le increspature. In definitiva, sia la possibilità del giudizio umano che la libertà del volere si scontrano contro la barriera invalicabile della necessità delle cose e del mondo.
Questo ci conduce ad indagare sulla posizione dell’uomo in questo contesto. Come un osservatore al di fuori dell’universo, del tempo e della creazione, così Kafka descrive la caduta da una postazione diversa da quella occupata fino ad ora mostrando come l’incomunicabilità domini la sfera dell’umano:
Furono invitati a scegliere tra l’essere re o corrieri dei re. Da veri bambini, tutti vollero essere corrieri. Perciò esistono soltanto corrieri, i quali galoppano attraverso il mondo e, non essendoci re di sorta, si gridano l’un l’altro i loro messaggi divenuti privi di senso. Ben volentieri la farebbero finita con la loro misera esistenza, ma non possono farlo per via del giuramento da loro prestato.69
L’uomo è condannato a vivere nel mondo, tra gli uomini, nella più completa incomprensione. Questo stesso senso lo ritroviamo nella prosa Il messaggio dell’imperatore, in cui, nonostante tutti gli sforzi compiuti, l’uomo non riesce a comunicare al di fuori dell’angusta stanza dell’io. Alcuni anni dopo scriverà nel diario: «Ogni parola rigirata nella mano degli spiriti — questo slancio della mano è il loro movimento caratteristico — diventa una lancia rivolta contro chi parla».70 Chi o cosa sono questi spiriti? Quale è la loro funzione? Nello scrivere, come nel comunicare in genere, ci sono: colui che manda il messaggio, colui che lo riceve e il messaggio stesso. Gli spiriti si posizionano tra l’emittente, la fonte del messaggio e il ricevente e, come le interferenze distorcono un segnale; così gli spiriti rendono il messaggio ambiguo, diverso, trasformandone il contenuto. Quegli stessi enti negano anche il contatto con il cielo: questo è l’altro significato della prosa Il messaggio dell’imperatore. Tra l’uomo e Dio, come ormai sappiamo, sono posizionate le immense schiere della burocrazia del tribunale che si oppongono ad ogni tipo di comunicazione e di contatto. Ogni messaggio, ogni preghiera, debbono avere la forza di attraversare questa muraglia di accaniti e ostili burocrati. In questo senso si esprime anche Gershom Scholem:
Ci siamo completamente allontanati da te? In questa notte non ci è, oh Dio, destinato un alito della tua pace, del tuo messaggio? …………………………………. Può essere che la tua parola si sia così perduta nel vuoto di Sion — o che non sia affatto penetrata in questo regno fatato d’apparenze?71
L’uomo è relegato in una solitudine non solo esistenziale ma anche ontologica, in un mondo che è solo apparenza e inganno, apparentemente privo della luce divina, in balìa di distorsori ed enti malvagi che sviano l’uomo e i suoi messaggi.
10. Il problema del male
Kafka affronta con molta decisione il tema del male e della sua contrapposizione al bene:
Esiste soltanto un mondo spirituale; quello che chiamiamo mondo dei sensi non è che il male nel mondo dello spirito e ciò che definiamo cattivo non è che la necessità di un breve istante nel corso della nostra eterna evoluzione.72
Il male non è un’entità spirituale esistente e contrapposta ad un Dio buono che tenta di salvare le sue creature dal lato oscuro; non c’è nella mistica ebraica un’esistenza separata in modo assoluto di bene e male: entrambe fanno parte della sfera divina; è esemplare, per illustrare questo concetto, una citazione dal Bahir, opera apparsa nella Francia meridionale verso il 1180:
Ciò insegna che presso Dio c’è un principio che si chiama male, e sta nella parte settentrionale di Dio, poiché si dice (Ger 1, 14): «Dal nord si espande il male», e cioè: tutto il male che viene a colpire gli abitanti della terra giunge da nord.73
Per Kafka il male è ciò che svia, è il mezzo attraverso il quale l’uomo è sempre messo alla prova mediante il dialogo, la conoscenza; anzi, per meglio dire, il male è la stessa conoscenza. Il bene, Dio, è muto, aspetta che l’anima si purifichi e nell’attesa, è evidente, non aiuta l’uomo nella sua evoluzione: «Il bene in un certo senso è sconfortante».74 Il compito dell’uomo dunque è la purificazione della sua anima attraverso i vari cicli del Gilgul. Il conato, connaturato all’anima, verso la riunificazione è ostacolato dal male, dal peccato — materializzatosi nella carne — che, in definitiva, è il non obbedire alla Legge mosaica, alla Torah. Il male è inteso come mancanza, ma anche come autocoscienza: «Il male è un’irradiazione della coscienza umana in determinati punti di transizione. Apparenza non è propriamente il mondo sensibile, ma il male in esso contenuto, che però ai nostri occhi, costituisce il mondo sensibile»,75 oppure con più chiarezza: «Ossèrvati è la parola del serpente»76 Il male è quindi dovuto alla nostra condizione di uomini che hanno voluto dimenticare la propria radice per vivere separatamente da Dio, per ribadire la propria esistenza, il proprio io, qui e ora. In questa condizione di alterità da Dio non riusciamo a vedere il mondo spirituale, il mondo della verità, oltre l’apparenza del mondo dei sensi, del mondo della menzogna:
Con una luce fortissima si può dissolvere il mondo. Dinanzi ad occhi deboli esso diviene inconsistente, dinanzi ad occhi ancor più deboli acquista solidi pugni, dinanzi ad occhi debolissimi si fa pudibondo e annienta chi osa guardarlo.77
«Vedere» il male, ovvero l’io e il mondo spirituale separati in due sfere diverse, o il bene, ovvero l’unità dell’io col mondo spirituale, è il segnale della separazione o meno dal divino. Colui che veramente brama e abbraccia Dio, vede in tutte le cose del mondo soltanto la potenza e la maestà del creatore del primo principio, che vive nelle cose. Ma chi non è giunto a questo gradino, costui vede le cose separate da Dio E questa è l’essenza della rottura: che ognuno affermi di se stesso «io sono indipendente» (cioè non dipendo che da me stesso).78 È esplicativo, a questo proposito, questo breve midrash di Aldo Sonnino intitolato «Il ritorno»:
«Rabbi — chiese Daniel — , da 2000 anni, tre volte al giorno, noi rivolti al Signore invochiamo: “E vedranno i nostri occhi la tua venuta a Gerusalemme”. Da decine di anni, una gran parte del popolo è risalita verso quella terra: Molti però sostengono che nessun segno rivela che il Grande Ritorno sia avvenuto.»
«Essi sono in errore — rispose il Rabbi —. Il Grande Ritorno è avvenuto, ma i nostri occhi non riescono a scorgerlo.» Poi aggiunse: «È cosa molto grave per il popolo di Israele non accorgersi della presenza di Dio, nel proprio spazio e nel proprio tempo.»79
Quale è il modo di liberarsi dal male ed entrare nel bene? La risposta di Kafka è uguale a quella che diede già Giobbe:
Dopo che questa mia pelle sarà distrutta senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, e i miei occhi lo contempleranno non da straniero. Le mie viscere si consumano dentro di me.80
Lo si confronti con Kafka:
Prima di entrare nel Sancta Sanctorum devi toglierti le scarpe, ma non le scarpe soltanto, bensì tutto, abiti da viaggio e bagagli, e, sotto, la nudità e tutto quanto c’è sotto la nudità, e tutto quanto si nasconde sotto di questo, eppoi il rimanente e poi il resto e poi ancora il riflesso del fuoco eterno. Solo il fuoco stesso verrà risucchiato dal Santissimo e si lascia da lui risucchiare, nessuno dei due vi può resistere.81
Per giungere alla verità è necessaria la distruzione dell’io, della propria individualità, non però, secondo Kafka, alla maniera dei mistici attraverso l’autodisciplina, o dei martiri, che lasciando innalzare il proprio corpo sulla croce, ma passivamente, lasciando «liberare in se stessi l’indistruttibile, o meglio: liberarsi, o meglio ancora: essere indistruttibili, o meglio ancora: essere»;82 giunti a questo punto «c’è una santità altissima; quando vi si giunge, si perde ogni sostanza e non si può più ardere. Così il fervore dell’estasi si conclude col proprio annullamento».83 La ricerca della verità, di Dio, non può essere un fare, un’azione, ma un lasciare distruggere, passivamente tutto ciò che nell’uomo è distruttibile, dall’autocoscienza alla carne. Ciò non comporta la distruzione anche del mondo o la rinuncia agli uomini:
La distruzione di questo mondo sarebbe il nostro compito solo se: primo, questo mondo fosse cattivo, cioè in contrasto col nostro spirito; secondo, se noi fossimo in grado di distruggerlo. […] Noi non possiamo distruggere questo mondo perché non lo abbiamo costruito come qualcosa di a sé stante, ma vi ci siamo perduti dentro, più ancora: questo nostro mondo è il nostro stesso smarrimento, ma come tale è, esso medesimo, un’entità indistruttibile, o meglio: qualcosa che può essere distrutta solo col portarla fino in fondo, non col rinunciarvi, dove occorre osservare, per altro, che anche il portarla sino in fondo non può essere altro che un seguito di distruzione, sempre però nell’ambito del mondo stesso.84
L’autodissoluzione comporta il «portare in fondo» il mondo, il vivere costantemente entro il mondo e per il mondo, distruggendovi ciò che è distruttibile, cioè la scorza delle illusioni e dell’inganno per scorgervi la sua vera essenza di prodotto divino facente parte dell’unità divina. Questo dissolvimento aprirà la strada all’amore per tutti gli uomini nei quali non si potrà non scorgere, attraverso lo sguardo puro, la vera natura di creature divine, aventi entro di sé una scintilla dell’Indistruttibile (la sfera divina); per questo motivo i rapporti con gli altri, secondo Kafka, devono essere quelli della preghiera dalla quale attingere le energie necessarie per il supremo compito dell’autodissoluzione. La «vera via» dunque non passa per il cielo, non è necessario, come per i mistici, isolarsi cercando un rapporto solitario con Dio (anche se lo Tzaddiq si sente come David: «Straniero sono io sulla terra»). La «vera via» passa per la terra, per l’accettazione del mondo, degli uomini e della vita.
Memore della consapevolezza che la verità non è un possesso ma è uno stato — «Non tutti possono vedere la verità, ma possono esserla»85 —, Kafka svela la sua angosciosa condizione di difficoltà a fare il passo definitivo, a passare da ebreo assimilato a ebreo, ebreo vero, come invece fece l’amico Langer: «Esiste un punto d’arrivo, ma nessuna via; ciò che chiamiamo via non è che la nostra esitazione».86 È dunque l’esitazione, dovuta esclusivamente alla sua arte, alla sua letteratura, che ha caratterizzato tutto il rapporto con le sue donne, con l’ebraismo vero e con la vita: da tutto ciò si era sempre sentito escluso.
Abbiamo più volte citato aforismi che facevano riferimento ad un concetto molto particolare: il concetto di indistruttibile. A che cosa si riferisce il nostro autore quando vi fa riferimento? In Kafka indistruttibile significa non-distruttibile. Questa definizione non è solo una mera tautologia, ma dice l’essenza stessa del concetto di Indistruttibile, di ciò che non è distruttibile né può essere distrutto, di ciò che è eterno e che quindi non fa parte del mondo dei sensi, della materia e del tempo. Eternità, indistruttibilità, spiritualità sono attributi di quell’unico «ente» dal quale tutto discende, che tutto ha creato e che tutto crea: Dio.
Non solo. Per Kafka Indistruttibile è anche la nostra anima che non è altro che la scintilla divina nell’uomo e quindi di una parte di Dio che ci ha dato vita e che unisce tutti gli uomini: «L’Indistruttibile è unico. Ogni singolo uomo lo è nel medesimo tempo esso è comune a tutti. Ecco l’origine dell’incomparabile, inscindibile unione che lega gli uomini».87 Kafka identifica l’Indistruttibile anche con la verità; la verità dell’Albero della vita; la verità del popolo ebraico che obbedisce alla Torah; la verità della Torah, Legge di Dio, eterna e indistruttibile quanto Dio stesso. L’indistruttibilità è anche nel mondo ma non del mondo: come abbiamo già visto sopra, il mondo è un’opera divina ma solo se vista con occhi puri lo si può riconoscere come manifestazione dell’infinita potenza divina. Anche il bene è Indistruttibile perché identificato con l’Albero della vita simbolo della verità che appartiene all’eternità,88 quell’eternità che lo rende partecipe della divinità. Dunque, Dio, anima, verità, mondo, bene: indistruttibili manifestazioni dell’Indistruttibile.
11. Dora Diamant
Kafka, nonostante le immani difficoltà, vide però un barlume di speranza: «Teoricamente esiste una possibilità di essere felici in modo assoluto: credere nell’indistruttibilità in sé e non cercare di aspirarvi».89 La speranza di salvezza doveva scontrarsi con la sua arte alienante e distruttiva: era dunque necessario cercare un compromesso tra vita, ebraismo, matrimonio e gioia sadica e solipsistica della letteratura e l’isolamento necessario alla sua arte; in pratica si trattava di costruire la Torre di Babele senza scalarla. Sarà questa la concessione che la vita, negli ultimi anni, gli farà attraverso Dora Diamant.
Nel luglio 1923 Kafka conoscerà, nella Jüdisches Volksheim (casa popolare ebraica) di Berlino, Dora, allora diciannovenne ragazza proveniente da una famiglia ebraica chassidica della Galizia. Dora, a differenza delle altre sue donne — Felice Bauer, Julie Woryzek e Milena Jesenska — sembra essere fatta apposta per lui; convivono per un breve e felice periodo, dopo di che l’aggravarsi della malattia costringe Kafka in sanatorio, dove si spegnerà il 3 giugno del 1924, assistito e curato da Dora e dall’amico Robert Klopstock. Sembra un paradosso che proprio quando Kafka trovò il modo di essere felice, accanto ad una donna che gli stava vicino come mai aveva fatto nessuno in passato, proprio nel momento in cui faceva parte della vita alle sue condizioni, senza rinunciare né all’arte né alla presenza femminile, la morte lo afferrò con le sue scheletriche mani. Più impressionante ancora è che a questo suo stesso destino sia stato condannato anche l’agrimensore K. ne Il Castello, come testimonia Max Brod:
Kafka non scrisse un capitolo finale. Ma una volta, a mia richiesta, mi disse come il romanzo doveva terminare. Il sedicente agrimensore ottenne soddisfazione, almeno in parte. Continua a lottare, ma muore di sfinimento. Mentre gli abitanti del villaggio sono radunati intorno al suo letto di morte, dal castello scende la decisione che non concede a K., è vero, alcun diritto di abitare nel villaggio, […] ma in considerazione di alcune circostanze gli permette di viverci e di lavorare.90
12. Conclusione
L’indagine che abbiamo condotto ci ha permesso di appurare la decisiva affinità spirituale ed artistica intercorrente tra Kafka e alcuni testi cabalistici: il problema del giudizio, quello della donna, della vita matrimoniale e del suo significato; il tema della caduta dell’uomo, del peccato originale e della sua attuale condizione; i problemi inerenti alla libertà e al giudizio umano contrapposti all’onnipotenza divina; il fascino dell’eterno problema dell’anima e del suo destino nel Gilgul; la complessa problematica del male, del bene, della menzogna e della verità; il concetto di Indistruttibile; il compito dell’uomo e la speranza di redenzione; il destino dell’Eden e il mondo della ricostruzione: tutti questi argomenti, ed altri, sono stati individuati ed analizzati alla luce della mistica cabalistico-chassidica.
Il risultato ultimo è il seguente: Kafka visse profondamente il rapporto con il Chassidismo tanto da assorbirne gli elementi fondamentali e lo spirito; egli aveva scoperto una forte affinità spirituale tra sé stesso e questa propaggine della mistica ebraica, tanto da eleggerla, nei Quaderni in ottavo, a sua guida nell’affrontare il mondo; un mondo però popolato da masse di informi burocrati malvagi, messaggeri portatori di sventure, testimoni che in verità si rivelano spie ed innumerevoli giudici corrotti che devono giudicare ogni atto umano; questo, che per noi sarebbe un vero e proprio inferno in cui mai vorremmo incappare, è il mondo nel quale Kafka ha vissuto e sofferto la propria vita. Ma questo descritto da Kafka è in verità il mondo in cui l’uomo ha perso la speranza di avere un’influenza sul mondo divino (teurgia): l’uomo è relegato nella condizione terrestre in cui non riesce a trovare il senso del suo agire.
Se Kafka ha perso la fiducia nella teurgia e nella redenzione di gruppo, nel cabalista invece non vi è dubbio alcuno nella possibilità personale, o attraverso il Rebbe — capo della Comunità chassidica — di poter agire su Dio, sul mondo divino e, in definitiva, sul tribunale celeste per la salvezza di sé, della comunità e del mondo. Proprio questo aspetto tuttavia avvicina Kafka alla sensibilità dell’uomo moderno; un uomo che da una parte vorrebbe stabilire un contatto col mondo divino, ma che dall’altra è tormentato dalla consapevolezza della lontananza di Dio; un uomo che ha ormai perso la fiducia in Dio: un Dio lontano, irraggiungibile, nascosto e sconfitto, ma che nonostante questo fa ancora parlare di sé. Ha ragione Martin Buber quando sostiene che Hitler ha costretto credenti e non credenti a parlare di Dio, ma, aggiungo, il problema dell’uomo è quello di parlare a Dio.
A mio avviso è innegabile che tutte le promesse fatte da Dio e contenute nella Bibbia non siano state mantenute e che proprio questo abbia fatto smarrire all’uomo fiducia e fede. Sono lontanissimi, non solo cronologicamente, i tempi in cui la certezza dell’esistenza divina era il fondamento dell’agire morale dell’uomo: ora non si fonda più la morale su Dio o su postulati metafisici, «ma uomo giusto è chi sa questo: che egli deve “annullare” Dio quotidianamente affinché la misura dell’eterna giustizia quotidianamente si compia».91 L’etica contemporanea si fonda sul principio della «terrestrità»: l’uomo può darsi autonomamente delle regole etiche senza ricorrere all’ormai ingombrante necessità divina. Questa relativizzazione dell’agire — un agire che ha perso oggi anche i suoi grandi fondamenti laici — ha invaso tutte le sfere dell’umano proponendo una vera e propria «etica anarchica», futura padrona dei destini umani.
Non è il caso di approfondire qui questo tema. Mi preme piuttosto sottolineare ciò: la perdita, da parte dell’uomo, delle certezze metafisiche non gli ha consentito di aprire le porte alla libertà dell’agire e alla responsabilità etica ma lo ha costretto — evidentemente non siamo ancora pronti ad accettare il peso che la libertà comporta — alla ricerca della propria radice, del proprio fondamento, insomma lo ha costretto alla ricerca di Dio. Questa ricerca però si scontra con l’enorme distanza creatasi tra l’umanità e un Dio morente, sconfitto; un Dio che paradossalmente «aspetta da noi la salvezza, è un Dio che dovremmo perfettamente amare, ma ci ha reso troppo stanchi, delusi, infelici per poterlo fare».92 Dunque: da una parte la distanza di Dio, l’impossibilità di raggiungerlo, dall’altra la volontà dell’uomo di ritrovare quell’originario contatto col divino. Niente di diverso ha espresso Kafka nelle sue opere dense di angoscia, volontà di ricerca e consapevolezza di non essere parte del «popolo di Dio».
Pur non essendo, dal punto di vista puramente tecnico, un pensatore sistematico, Kafka può dunque essere annoverato, insieme a Hermann Cohen, Walter Benjamin, Gershom Scholem e Franz Rosenzweig, come uno dei maggiori esponenti del pensiero ebraico contemporaneo, dal novero dei quali è stato sempre escluso. Attraverso questa ricerca sul tema del religioso nelle opere kafkiane ed in particolare nei Quaderni in ottavo, credo di aver evidenziato un aspetto ingiustamente tralasciato dalla critica, utile ad una più profonda intelligenza dell’opera kafkiana e ad una rivalutazione del «Kafka pensatore».
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M. Buber, La leggenda del Baal-Shem, Gribaudi, Milano 1995, p. 22. ↩︎
-
F. Kafka, Confessioni e Diari, a cura di E. Pocar, Mondadori, Milano 1972, p. 485. ↩︎
-
K.E. Grözinger, Kafka e la Qabbala, La Giuntina, Firenze 1993, p. 91. ↩︎
-
F. Kafka, Lettere a Felice, a cura di E. Pocar, Mondadori, Milano 1972, pp. 803-804. ↩︎
-
F. Kafka, Confessioni e diari, op. cit., pp. 583-584. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 586. ↩︎
-
M. Brod, Kafka, una biografia, Mondadori, Milano 1988, pp. 150-151. ↩︎
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F. Kafka, Confessioni e diari, a cura di E. Pocar, Mondadori, Milano 1972, p. 729. ↩︎
-
M. Brod, op. cit. p. 151. ↩︎
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Difatti è in questo mese che inizia il periodo di Selikòt, nei cui giorni si debbono recitare le preghiere del perdono, che precede Rosh hashanà ovvero il capodanno ebraico — 1º di Tishrì, nel mese di settembre. In questo giorno, che secondo gli ebrei Dio giudica il mondo, vengono elencate tutte le colpe commesse; per questa ragione capodanno è anche chiamato Yom ha-zikkaron, giorno del ricordo, o anche Yom ha-dìn, giorno del giudizio. ↩︎
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R. Cantoni, Che cosa ha veramente detto Kafka, Ubaldini, Roma 1970, p. 128. ↩︎
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Ivi. ↩︎
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Credo che sia stato composto nel 1919, perché da quanto risulta nella premessa di E. Pocar alle Lettere a Felice (op. cit., p. XIII), Felice Bauer, dopo la rottura con Kafka, si sposerà nel 1919 e nel frammento c’è appunto un’allusione a quel matrimonio. ↩︎
-
F. Kafka, Confessioni e diari, op. cit., p. 849. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 748. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 730. ↩︎
-
G. Scholem (a cura di), Lo splendore della Qabbalà, ed. Red, Como 1995, pp. 37-38. ↩︎
-
F. Kafka, Il Processo, trad. di P. Levi, Einaudi, Torino 1983, pp. 61-62. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 119. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 231. ↩︎
-
F. Kafka, Confessioni e diari, op. cit., p. 732. ↩︎
-
G. Scholem, op. cit., p. 104. ↩︎
-
F. Kafka, Confessioni e diari, op. cit., p. 732. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 732. ↩︎
-
Ivi. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 729. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 726. ↩︎
-
G. Scholem, op. cit., p. 103. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 724. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 726. ↩︎
-
Ivi. ↩︎
-
G.Scholem, op. cit., p. 43. ↩︎
-
G. Scholem, op. cit., p. 44. ↩︎
-
G. Scholem, op. cit., p. 86. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 710. ↩︎
-
G. Scholem, op. cit., pp. 82-83. ↩︎
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Secondo me è questo il senso dell’aforisma: «ma forse non esiste che un unico peccato capitale: l’impazienza. È a causa dell’impazienza che sono stati cacciati, a causa dell’impazienza che non ci tornano» (F. Kafka, op. cit., p. 709). ↩︎
-
G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi, Torino 1993, p. 284. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 752. ↩︎
-
M. Benayahu, Sefer toledot ha-ari, Jerusalem 1967, p. 188, cit. in K.E. Grözinger, op. cit., p. 106. ↩︎
-
F. Kafka, Un incrocio, in Racconti, a cura di E. Pocar, Mondadori, Milano 1980, p. 424. ↩︎
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Ivi. ↩︎
-
F. Kafka, Il cacciatore Gracco, in Racconti, op. cit., p. 386. ↩︎
-
Ch. Vital, Sha’ar ha-Gilgulim, Jerusalem 1962-3, c. 22, p. 58af, cit. in K.E. Grözinger, op. cit., p. 107. ↩︎
-
F. Kafka, Confessioni e diari, op. cit., p. 714. ↩︎
-
F. Kafka, Confessioni e diari, op. cit., p. 721. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 735. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 722. ↩︎
-
M. Buber, op. cit., p. 29. ↩︎
-
M. Buber, op. cit., p. 30. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 746. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 726. ↩︎
-
M. Buber, op. cit., p. 15. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 715. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 642. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 719. ↩︎
-
Ivi. ↩︎
-
A. Gargani — M. Freschi, Kafka oggi (1883-1983), Guida, Napoli 1984, p. 48. ↩︎
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Ivi. ↩︎
-
A. Gargani — M. Freschi, op. cit., p. 49. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 719. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 745. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 749. ↩︎
-
M. Buber, op. cit., p. 36. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 743. ↩︎
-
Pesikta Rabbati, Friedmann, Wien 1880, c. 45, p. 185b, cit. in K.E. Grözinger, op. cit., pp. 46-47. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 727. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 747. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 722. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 635. ↩︎
-
W. Benjamin, Lettere 1913-1940, op. cit., p. 253. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 724. ↩︎
-
G. Scholem, La Qabbala e il suo simbolismo, Einaudi, Torino 1980, p. 117. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 717. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 733. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 713. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 724. ↩︎
-
Maggid Devaraw le-Ya’akov, R. Schaltz-Offenheimer, Jerusalem 1976, c. 73, p. 126, cit. in K.E. Grözinger, op. cit., p. 174. ↩︎
-
A. Sonnino, Racconti chassidici dei nostri tempi, La Giuntina, Firenze 1995, p. 124. ↩︎
-
Giobbe 19, 26-27. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 735. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 721. ↩︎
-
M. Buber, op. cit., p. 17. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 739. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 726. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 795. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 728. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 740. ↩︎
-
F. Kafka, op. cit., p. 728. ↩︎
-
E. Pocar, Premessa, in F. Kafka, Romanzi, op. cit., p. XVIII. ↩︎
-
Manlio Sgalambro, Dialogo teologico, Adelphi, Milano 1993, p. 90. ↩︎
-
S. Quinzio, La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano 1992, p. 104. ↩︎