Recensione a Grégori Jean, Force et temps. Essai sur le «vitalisme phénoménologique» de Michel Henry

Grégori Jean, Force et temps. Essai sur le «vitalisme phénoménologique» de Michel Henry, Hermann, Paris 2015

Il volume si aggiunge alla ormai vasta bibliografia sul pensiero di Michel Henry con una fisionomia del tutto propria, data dall’essere un saggio eminentemente «interpretativo», teso a far emergere la nota più profonda e originale del pensiero del filosofo francese. E questo nella convinzione espressa da Grégori Jean che Michel Henry sia «un autore maggiore con e contro il quale è possibile pensare liberamente e in molti modi» (p. 9). Non si tratta quindi semplicemente di rileggere e commentare le opere henryane disposte nell’arco del mezzo secolo della loro apparizione, bensì di mettere in luce, più di quanto sia stato fatto, il nucleo germinale di tale pensiero, nonché la forza e coerenza con cui è stato sviluppato; e questo anche per ribattere ai fraintendimenti e obiezioni cui esso ha talora dato luogo.

Va sottolineato che Jean si presenta a questo appuntamento in modo particolarmente attrezzato, avendo potuto usufruire della conoscenza dei preziosi e numerosi inediti henryani che egli stesso ha, molto meritoriamente, contribuito a organizzare e pubblicare nei quattro anni di permanenza al Centro Michel Henry di Louvain-la-Neuve. La prima novità del volume è costituita infatti proprio dall’ampio utilizzo degli appunti e annotazioni, non meramente accessori, capaci di gettare nuova luce sui nodi cruciali del tale pensiero. Tutto questo posto al servizio di una forte idea interpretativa così sintetizzabile: la filosofia di Michel Henry si qualifica non semplicemente come una «fenomenologia della vita», secondo la formula ricorrente avallata dallo stesso filosofo ma, in modo più pregnante e impegnativo, come un «vitalismo fenomenologico», che ha i suoi assi portanti nei concetti di «forza» e di «tempo», ripensati e riformulati dal filosofo francese. Vitalismo fenomenologico dunque, tale da renderlo assolutamente inconfondibile con i vitalismi che hanno variamente punteggiato la filosofia del XX secolo.

Ma, ci si domanda: si tratta di una questione nominalistica, di una definizione piuttosto che un’altra, oppure di una lettura capace di dar conto più profondamente della prospettiva teorica di Michel Henry? Per Jean di questo in realtà si tratta, e tutto lo sforzo del suo denso saggio è lì a dimostrarlo. Ad animarlo è una certa qual intenzione iconoclastica, tesa a capovolgere le coordinate della lettura canonica di Henry, al punto che il filosofo dell’immanenza e della passività come patire originario, diventa il filosofo della forza e della vitalità; ma in realtà non è questo l’intento dell’autore, che è troppo fine lettore per accreditare una tale antinomia. Ciò che egli intende propriamente mostrare è come una vera comprensione di Henry non possa che essere «radicale» che, quindi, per cogliere i fenomeni occorra andare alla radice, per cui è possibile che la forza sia la manifestazione della passività o — come è più consueto per i lettori di Henry — che l’immanenza sia fondamento della trascendenza. In sostanza, per Jean non si tratta tanto di capovolgere una serie di affermazioni henryane, quanto piuttosto di coglierne la precisa valenza, distinguendole accuratamente anche dalle prospettive che gli sono affini o che il filosofo considerava in certo senso quali fonti del proprio pensiero. È il caso di Maine de Biran o di Marx, che Henry con il suo gusto del paradosso — quanto meno rispetto alla tradizione interpretativa consolidata — non si perita di accostare e di considerare riferimenti primari della propria riflessione.

Veniamo così ai nuclei fondamentali dell’interpretazione di Jean. Ora se è vero che non c’è opera di Henry che non venga più o meno estesamente considerata, nell’ottica di una sostanziale continuità della sua riflessione, nondimeno i luoghi privilegiati dell’analisi sono tratti dalle prime tre grandi opere, nelle quali si delinea nella sua consistenza e novità il pensiero henryano: L’essence de la manifestation (1963), Philosophie et phénoménologie du corps (1965), Marx I e II (1976). Anzi, si può senz’altro affermare, che molte delle analisi di Jean si concentrano sul confronto di Henry da un lato con il pensiero di Maine de Biran, dall’altro con quello di Marx, strettamente funzionali alla tesi del «vitalismo fenomenologico». Si consideri intanto il primato accordato a Maine de Biran in Philosophie et phénoménologie du corps. Com’è noto, questo è il vero primo libro di Henry, che solo per ragioni editoriali è stato pubblicato per secondo. Quest’opera, com’è noto, si compendia nell’affermazione del «corpo soggettivo» quale fondamento e concretizzazione dell’«io posso», che per Henry rappresenta la vera conquista del pensiero di Biran e, nei tempi recenti, della fenomenologia di Husserl; «io posso», dunque, in luogo dell’«io penso» che, da Descartes giunge fino a Kant. Ora all’io posso si collegano strettamente le questioni della libertà e dell’agire a cui, in particolare, si lega strettamente il tema del «vitalismo fenomenologico». Un testo inedito di Henry è al riguardo estremamente significativo:

Il vero problema dell’uomo sarà sempre di sapere che cos’è egli stesso quando non ha più niente da fare. […] Nell’azione infatti si tratta sempre di qualcosa d’altro rispetto all’azione stessa (p. 11).

Appunto, è il qualcos’altro che rende possibile l’azione il vero tema dell’analisi, già oggetto della ricerca di Biran, non per nulla definito da Henry «il principe del pensiero». L’azione dunque si dà in quanto è resa possibile. Donde la duplice questione: Come si dà l’azione? Che cosa la rende possibile? L’azione, sappiamo da Biran, è essenzialmente effort, più precisamente sentimento dello sforzo, e lo sforzo è tale perché esso incontra sempre un ostacolo. Senza l’ostacolo, il limite, non ci sarebbe sforzo, quindi azione. L’azione è pensata dunque nella correlazione sforzo/ostacolo, interno/esterno. È su questo punto che autorevoli interpreti accusano Henry di distorcere il pensiero biraniano nella misura in cui si concentra unicamente sullo sforzo, a parte subjecti dunque, a scapito della dimensione trascendente dell’agire stesso, da cui discende un’incapacità a sviluppare una vera filosofia dell’agire.

Grégori Jean mostra molto bene come tali questioni siano affrontate specificamente nel Marx, ma che già in Philosophie et phénoménologie du corps vi sono tutti i presupposti per una teoria dell’agire che non scada in una metafisica dell’azione, che risolve cioè l’essere nell’agire stesso. Infatti che l’io sia un «io posso», non significa che il suo essere consista nella possibilità, bensì — anche — in ciò che rende possibile la possibilità e, in ultima istanza, l’azione. Far quindi dipendere lo sforzo dall’ostacolo, in una sorta di circolarità viziosa, significa ignorare il fondo da cui lo sforzo stesso trae ragione e forza. Per questo, osserva giustamente Jean, per Henry non si tratta semplicemente di sostituire all’«io penso» l’«io posso», come fa la tradizione fenomenologica, se la possibilità continua a essere pensata come proprietà di una realtà già costituita. Al contrario, si tratta d’interrogare la possibilità «per se stessa»:

Introducendo uno iato tra la condizione di possibilità e ciò che rende possibile, e facendo della possibilità l’essere stesso del corpo concepito come unità dei vari «poteri», sostituendo infine una fenomenologia della forza a un’analitica trascendentale (p. 79).

Pertanto che lo sforzo abbia come correlato il limite, l’ostacolo, non significa che l’essere dello sforzo si trovi nell’ostacolo ma piuttosto nel potere dell’io, che è l’io come potere di potere. In realtà se di resistenza si vuol parlare, questa, prima ancora che dal mondo esterno, proviene dall’interno stesso dell’io, dal peso della sua passività, peso quindi propriamente ontologico. Osserva in proposito Jean:

Se l’agire henryano rimane uno sforzo, e lo è perché certo consiste nel sollevare un peso, questo peso non è quello della «mondità», né quello degli enti intramondani che resistono puntualmente a questo o a quello sforzo singolo effettivo, ma un peso propriamente ontologico che precede la sua «levata» e che, come forza di resistenza originariamente passiva, costituisce la «profondità» della vita e la sua stessa essenza (p. 121).

Lo sforzo si dà quindi a partire da una passività originaria che costituisce il fondo stesso della vita, la sua autoaffezione come soffrire originario. L’agire dunque, prima ancora di scontrarsi con i suoi correlati, deve strapparsi da questa passività ontologica.

Ora la natura della vita e dell’agire come arrachement impone un confronto diretto con il pensiero di Bergson su cui, non a caso, Jean si sofferma alquanto, sebbene Bergson non compaia tra i riferimenti diretti di Henry. Il confronto con il pensiero bergsoniano diventa tuttavia obbligato più che per la teoria dell’élan vital — Jean è da questo punto di vista efficace nel caratterizzare la diversità delle due prospettive con la formula arrachement (henryano) vs déclanchement (bergsoniano) — per la concezione della temporalità propria della vita, la cui sostanza stessa è «memoria», «abitudine», dunque passato, passato immemoriale. Scrive infatti:

Henry e Bergson si uniscono nella stessa concezione della temporalizzazione come «venuta in presenza a partire dal passato» animata da uno «sforzo», il solo capace di far nascere un agire libero e creatore (p. 148).

Appare dunque come diversa sia, intanto, tale concezione della temporalità, che si apre a partire dal passato e non dal futuro, da quella di Heidegger, oggetto di ripetute prese di posizione da parte di Henry. Ma c’è un altro punto di contatto profondo di Henry con Bergson, che Jean opportunamente sottolinea, ossia il fatto che l’azione non è pensata da Henry unicamente come arrachement ma, insieme, come détente, «rilascio spontaneo della sua tensione o scarico della sua spinta» (p. 150). Ciò chiama in causa il significato autentico della passività che costituisce l’essenza stessa della vita. La passività infatti non è indice unicamente di stasi, di permanenza e conservazione ma, altresì, di «accrescimento»: la vita si accresce, in virtù delle proprie pulsioni, in una parola, del suo vitalismo. È questo a spiegare, sottolinea Jean:

Il mistero della soggettività […] nell’oscillazione tra un polo e l’altro dell’eccesso e della sovrabbondanza, del conservare e del creare, del persistere e dell’accrescersi: questo il segreto del vitalismo fenomenologico henryano, il cuore della sua «intuizione filosofica» di ciò che è l’immanenza e, da ultimo, di ciò che è la vita […] ma, anche, di ciò che è il mondo (p. 153).

Il tempo dunque rivela un legame intrinseco con la forza, non tanto perché lo sforzo avviene nel tempo, ma perché è, intrinsecamente tempo, durata, direbbe Bergson, tempo vissuto.

Ebbene il problema del rapporto tra forza e tempo, tra agire e temporalità, diventa inevitabile anche nell’analisi del Marx, cui non a caso Jean dedica un’ampia parte del suo saggio. La connessione risulta già evidente anche da una lettura immediata di Marx, stante il fatto che il valore della merce è dato dal tempo necessario a produrla da parte della forza-lavoro. È questo, come sappiamo, il fondamento stesso della sfera economica che costituisce per Marx il risultato di un processo di astrazione, con la trasformazione del lavoro vivo in lavoro astratto, che ha il suo corrispettivo nella merce-astrazione in definitiva dalla vita. Da qui nasce lo scambio, il mercato. Come scrive Henry:

L’alienazione, in quanto identica all’astrazione, è l’atto proto-fondatore dell’economia e, precisamente, la sua genesi trascendentale (p. 183).

Tuttavia questo rappresenta per Henry solo il primo significato di astrazione, il più generale, che ha appunto nell’alienazione la sua formulazione più corrente. C’è un altro significato, che interessa maggiormente al filosofo francese, che rimane implicito, se non ignorato, nello stesso Marx e che invece dev’essere pienamente esplicitato, ossia quello per cui il lavoro è considerato in generale, appunto come forza-lavoro, a prescindere dunque dalla particolarità del singolo lavoratore, astraendo quindi l’effort dalla passività che lo fonda. Come giustamente sottolinea Jean, sulla scia di Henry, la prassi, considerata da Marx una «pura attività»:

Si manifesta in primo luogo come separazione dell’attività da se stessa [… ma] più fondamentalmente è una separazione dell’attività in generale dal proprio fondamento, dalla passività che la rende possibile [c.d.a] (p. 189).

In sostanza per Henry anche Marx opera un processo d’astrazione, dal momento che, parlando del lavoro vivo, lo fa unicamente nel primo significato di astrazione, non nel secondo, mancando in lui una teoria della passività originaria, che è tutt’uno con l’individualità, giacché, come scrive il filosofo francese, «la forza del lavoro vivente si rivela soltanto nel pathos del suo sforzo» (p. 215 n. 70). Il lavoro vivo non può quindi essere misurato né quantificato; per giungere quindi alla teoria del valore-lavoro, si è compiuta una duplice astrazione, delle quali una soltanto è chiaramente individuata da Marx. Di qui per Henry la necessità di rileggere le acquisizioni più importanti del pensiero di Marx, come quelle di Biran, alla luce di una radicale concezione della passività, giacché è in essa che trae origine la forza, l’«iper-potenza» che si esplica nell’effort. Le sottolineature che a questo proposito fa Jean, sono della massima importanza:

Se l’azione implica uno sforzo come suo primo inizio, è perché […] è un arrachement a quanto la rende possibile» (p. 218).

Ciò significa che quanto rende possibile è altrettanto reale di ciò che è reso possibile. Si tratta dunque di un «rapporto di realtà». È dunque l’arrachement, l’intensità dello sforzo, più che la sua durata a costituire il vero e proprio differenziale tra l’attività e la passività, sì che risulta pressoché incommensurabile. Ebbene quest’analisi permette, secondo Jean, d’intendere meglio il senso del «vitalismo fenomenologico», di cui un tratto peculiare è costituito proprio:

Dall’affrontare il fenomeno dello «sforzo» non come uno sforzo «contro», bensì come sforzo «a partire da», sicché è il peso ontologico di questo «a partire da cui», non la resistenza di «ciò con cui» viene in seguito a urtarsi spontaneamente, a definire anzitutto lo sforzo come sforzo (p. 220).

Alla luce di queste considerazioni si comprende meglio anche il significato della stessa passività nel pensiero di Henry e, più in generale, del leit-motiv de L’essence de la manifestation, secondo cui «l’immanenza è il fondamento della trascendenza», poiché, osserva giustamente Jean:

La passività henryana non è affatto un residuo calcificato […] ma proprio ciò che, dando «sempre già» l’individuo a se stesso, fonda ogni possibile attività» (p. 247).

Ebbene è proprio la riformulazione del problema della passività a distinguere, in ultima istanza, il vitalismo fenomenologico dalla fenomenologia storica. E tutto questo non è senza legame con la singolare dialettica del soffrire/gioire svolta nell’ultima parte de L’essence, ossia con la dialettica interna all’immanenza caratterizzata dalla «non-libertà» e dalla «passività», «da intendersi pure, e sotto lo stesso rapporto, come «libertà» e «attività» (p. 267).

Queste analisi ci permettono indubbiamente di penetrare più a fondo nel pensiero di Henry, sia nel suo confronto con il pensiero di Marx, sia per quanto riguarda l’assetto complessivo del suo pensiero che, come si diceva all’inizio, per Jean non conosce modifiche sostanziali in tutto l’arco del suo sviluppo. Con riferimento diretto a Marx, la tesi di Henry è che l’origine della ricchezza, del plus-valore, non si deve unicamente a delle condizioni storiche, in particolare alla formazione del capitalismo. Certo le condizioni storiche hanno il loro peso ma appaiono più un effetto che una causa, poiché affondano nelle possibilità stesse della vita, nella sua radicata capacità di accrescersi, oltre che di mantenersi, cioè:

Di potere «più» di quanto non agisca effettivamente e, correlativamente, quella di agire effettivamente «più» di quanto renda possibile la sua possibilità di agire e il suo potere di potere (p. 262).

In questo risiede propriamente il potere di accrescimento della vita verso di sé. Quindi il fatto che gli individui lavorino più di quanto sia necessario, non è soltanto conseguenza dello sfruttamento cui vengono sottoposti; in termini ontologico-metafisici:

Produrre di più di ciò di cui si ha bisogno» significa per l’individuo strapparsi a tale fenomenicità nell’immanenza stessa della sua coesione, agire quindi trascendendo la passività ontologica originaria che rende possibile ogni azione (pp. 263-4).

Ma, come si diceva, il confronto con il pensiero di Marx, «fuori dal marxismo», come Henry non si stanca di ripetere, non è altro che un’ulteriore messa a prova della sua fenomenologia della vita, meglio ancora — secondo la proposta interpretativa di Jean — del suo vitalismo fenomenologico, che l’autore così riassume:

Vitalista la fenomenologia henryana lo è per il fatto che si fonda, innanzitutto, su una figura inedita del trascendentale come forza che […], sola, permette d’identificare, al di fuori di ogni «metaforizzazione», il trascendentale con la vita; fenomenologico, il suo vitalismo lo è in quanto tale forza, completamente eterogenea a ogni «rappresentazione», si trova ricondotta e ontologicamente ridotta al suo apparire immanente per un soggetto che sorge attraverso la sua stessa struttura (p. 289).