Danilo Di Matteo, L’esilio della parola. Il tema del silenzio nel pensiero di André Neher, Mimesis, Milano-Udine 2020, pp. 154.
L’opera di André Neher (1914-1988) ci sorprende per la sua capacità di interrogare il nostro tempo. È questo che ci insegna il volume di Danilo Di Matteo. Teologo e filosofo israeliano, Neher è stato uno dei più grandi esegeti di lingua francese dell’Antico Testamento, ma anche uno studioso attento del confronto tra le prospettive metafisiche aperte dai testi sacri e il pensiero filosofico attuale. La vita di Neher è attraversata e quasi scolpita dalla tragedia dell’olocausto, che vi segna un punto di svolta: sospeso dall’insegnamento di lingua e letteratura tedesca nel 1940, Neher si immerge completamente negli studi religiosi, alla ricerca di una risposta riguardo al senso dell’esistenza umana e alla possibilità di pensare per essa un futuro. «Vi è stato Auschwitz, vi è stata Hiroshima. E tuttavia vi è un futuro», scrive Neher in Regards sur une tradition. Questa fiducia attraversa tutta la sua opera, soprattutto L’exil de la parole, scritto dopo il trasferimento a Gerusalemme nel 1967. Si tratta, come osserva Di Matteo, di un testo nel quale Neher vede condensarsi il significato di una ricerca che porta avanti da più di quarant’anni. In quanto sopravvissuto alla tragedia dell’olocausto, Neher si sente investito della missione di portavoce di coloro ai quali la voce è stata tolta, «testimone con la parola e il silenzio di sei milioni di uomini». Questa missione assume i tratti, ne l’Esilio della parola, di un’interrogazione radicale, che nasce da un confronto serrato con il testo biblico. Dov’è Dio quando Giobbe è nella prova? Perché tace quando Israele è sopraffatto dai nemici? C’è il silenzio degli uomini di fronte a Dio, osserva Neher, e c’è il silenzio di Dio di fronte agli uomini. Giona ed Ezechiele tacciono davanti al pericolo, e così si rendono impenetrabili a Dio; Mosè e Geremia invece parlano, e Dio li vede. Li conosce nel profondo. Il silenzio degli uomini è una maschera con cui interrompono il dialogo con Lui, rendendosi irriconoscibili. Diverso è il caso del silenzio dell’uomo con l’uomo, di Davide con Gionata ad esempio, che è talvolta un atto ricco di affetto fraterno perché trattiene la parola che può ferire. Il silenzio di Dio è più misterioso da decifrare, e può portare ad interpretazioni errate. È il caso di Saul, che di fronte alla mancata risposta dell’oracolo si sente riprovato da Dio e finisce per non incontrarlo mai pur essendo un eletto, ma è anche il caso del «silenzio orizzonte» che accompagna la salita di Abramo al monte Moria, dove non sa che cosa lo aspetta. Questo silenzio è il punto di contatto tra il relativo e l’assoluto, per cui ciò che attende Abramo sulla cima è la «Parola abbagliante» dell’esperienza di un Dio che si lascia afferrare e che lo interpella.
Il silenzio di Dio a volte può spingere gli uomini a prendere la parola per fornire spiegazioni del suo comportamento. È ciò che accade a Giobbe, a proposito del quale Di Matteo propone un interessante confronto tra la prospettiva di Neher e quella di Philippe Nemo. In Job et l’excès du mal, Nemo evidenzia la ribellione di Giobbe alla parola che si fa «tecnica»: quando egli tace, prostrato nel dolore, gli amici tentano di interpretare la sua sofferenza, proponendo la soluzione del Dio-Legge. La parola vera, quella del silenzio di chi ascolta e partecipa al dolore dell’altro, soccombe alla tentazione di un’interpretazione competente: Giobbe dev’essere colpevole, per questo il male si è riversato su di lui. Ma Giobbe si ribella e mostra la sconcertante eccedenza del male, che non può che smentire la tecnica dei suoi accusatori. Il Dio che invoca non è la legge, ma il Tu, un «essere radicalmente differente», come sottolinea Nemo. E Giobbe conosce finalmente Dio, comprende che è al di sopra della legge e percepisce un profondo accordo con lui proprio nell’odio verso il male. Per Neher, come per Nemo, Giobbe impara da ciò che ha patito ad impegnarsi perché il male non trionfi; ha udito la voce di Dio, che non è quella di un idolo. Gli idoli, afferma Neher, proferiscono parole fittizie, che equivalgono al silenzio; i loro discorsi sono automatismi che non producono effetti. Sul monte Carmelo Dio risponde all’appello di Elia, mentre Baal tace; anche quando non risponde, il suo silenzio è loquace. La «voce del tenue mormorio» con la quale Dio si fa presente ad Elia in fuga esprime la Sua presenza «come e meglio della parola».
L’immagine di Giobbe torna ancora nel volume di Di Matteo, quando è affrontato il tema della speranza in Neher. Giobbe dice sì a Dio, lo cerca anche quando tace, «spera e insieme dispera». Accetta la possibilità del fallimento, dice sì al silenzio di Dio. La sua, così come quella di Geremia, è una speranza contro ogni speranza, un’apertura al non-ancora profondamente radicata nella storia del popolo ebraico. A questo non-ancora appartiene, secondo Neher, anche il «forse» del Messia, un forse che sembra fragile ma solo a chi non ne coglie che il senso ipotetico. Proprio il forse porta con sé l’annuncio di un nuovo inizio, la possibilità dell’essere che, come sottolinea ancora Di Matteo, nell’Esilio della parola «si insinua come un tarlo» nell’argomentare, e benché «appena sussurrato, quasi taciuto», si rivela «così potente da riaprire un discorso che, dopo Auschwitz, sembrava concluso». Non si tratta qui di un forse «minore», quello racchiuso nel pessimismo e nello scetticismo, ma di un vero e proprio «sì» a favore della giustizia e della pace, l’assenso operoso al bene che spera e si prodiga per il suo realizzarsi nel mondo e nella storia. Questo «forse» è dunque «il Sì del Silenzio – scrive Neher –, il suo ottimismo, il suo potenziale, la sua forza», e dunque un’«incommensurabile riserva di Essere». Si apre dunque uno spazio infinito di possibilità per l’uomo, anche dopo Auschwitz; nella Postfazione al volume, Salvatore Veca interpreta questo spazio come risorsa etica, spostando l’asse del discorso dal piano verticale del dialogo tra l’uomo e Dio a quello orizzontale delle relazioni umane. Ma del primo, avverte, è importante che si conservi l’eco nel secondo.