Il prologo della modernità. Filosofia della storia e scienze sociali in Ibn Khaldun

La vita di Ibn Khaldun è tanto ricca di vicissitudini da aver assunto toni epici. Un’aurea leggendaria di impassibilità e coraggio di fronte alle asprezze della vita accompagna da sempre la figura di questo finissimo studioso dell’uomo e del suo ambiente. Capace di una sintetica e lungimirante comprensione degli eventi in un periodo che vedeva sovente l’ascesa e il declino di sovrani e regni, non ebbe alcun timore a cambiare protezioni e parte in un’incessante saga di intrighi e tradimenti. Alcuni hanno visto in lui un approfittatore pronto a tutto, altri un libero pensatore con le tipiche caratteristiche che sarebbero state dipinte più tardi nel machiavellismo rinascimentale. La legge della sopravvivenza, in una terra d’asperrimi contrasti sociali e di sanguinose rivolte, giustifica storicamente le sue decisioni camaleontiche maturate, comunque, grazie ad una sagacia inusuale e ad un acume degno di ammirazione.

Scoperto dalla storiografia occidentale, ad essa si lega quel velo di genialità incompresa che ha caratterizzato, almeno sino a tempi recenti, tutti i lavori di studio sulle sue opere e sul loro intrinseco valore. Il metodo di indagine di Ibn Khaldun, profondamente analitico e rigoroso, si è mostrato agli occhi dei lettori occidentali come un antesignano delle teorie positiviste della storia tanto da farne, esagerando nei contenuti e negli argomenti, un idolo ante litteram del materialismo storico. Alcune tendenze contemporanee lo considerano, addirittura, come precursore del liberalismo classico per le sue critiche all’onnipotenza del sovrano e dello stato, per la denuncia contro l’alto prelievo fiscale e per l’esaltazione della libertà.

Tale celebrazione accademica, a volte affannosa e politicamente faziosa, si è trasferita — in special modo nel periodo della decolonizzazione dei territori dell’Africa settentrionale — nei circoli culturali arabi che ne hanno visto, non a torto, uno studioso scrupoloso e metodico delle origini antiche delle avversità e peripezie attuali. L’occidentalizzazione forzata nello studio strutturale e filologico del suo pensiero è frutto di evidenti tentativi di manipolazione e di un lavoro di ermeneutica scientifica non affatto chiaro tanto da essere stato dipinto, fin troppo spesso, come un uomo fuori dagli schemi canonici della cultura islamica. Accettare questo sarebbe un torto eccessivo sia alla sua persona, sia alla storia della cultura e della filosofia arabo-islamica, sia ad un’intera civiltà.

Non si può affatto essere d’accordo con un’interpretazione posteriore che vuole, con la forza della secolarizzazione e dell’ideologia, ridurre tutta la filosofia a pura «scienza umana» privata di qualsiasi retaggio spirituale e per questo inaridita e abbandonata nelle paludi di un immobilismo cieco che non vuole riconoscere, per un’illegittima scelta senza appello, la tradizione filosofica precedente e la cultura religiosa.1

Ibn Khaldun non è una meteora apparsa improvvisamente nella storia: egli è figlio del suo tempo, della sua terra, della cultura arabo-islamica intesa nella sua interezza.

Nacque, infatti, a Tunisi nel 1332 da un’influente famiglia arabo-andalusa proveniente da Siviglia — oramai in mano alla forze della Reconquista cristiana — che vantava le sue origini nell’Hadramawt. Gli anni della pubertà e della prima adolescenza sono caratterizzati da una solida educazione generale secondo i canoni della cultura islamica tradizionale. L’invasione dei Marinidi (1347/1349) aveva aperto le porte della città a eminenti studiosi e letterati. Sfortunatamente una gravissima pestilenza, comunemente conosciuta negli annali della storia mondiale con il nome di Morte Nera, decimò la popolazione, tra cui i suoi genitori e la maggior parte dei suoi maestri e compagni, tanto da ridurre Tunisi ad una città-fantasma. Quando «la terribile peste si mostrò […] — racconta Ibn Khaldun con il pathos e la tragicità di chi ha vissuto in prima persona quegli eventi nefasti — già gli imperi erano in un’epoca di decadenza […]. Essa indebolì la loro potenza al punto che erano minacciati di distruzione completa […]. La coltura della terra si fermò […], le città si spopolarono… e tutto il paesaggio coltivato cambiò d’aspetto.»2

Lo splendore del passato era perduto lasciando un «vuoto intellettuale»3 che spinse Ibn Khaldun a trovare un rifugio al suo malessere e alla sua solitudine nella città di Fez, centro nevralgico della vita culturale e importante snodo commerciale, dove tutti erano impegnati a «costruire palazzi in pietra e marmo e ad ornarli di preziose maioliche e di arabeschi.»4 Lì accettò un incarico nell’amministrazione del sultano Abu Ishak (1350) approfittando della presenza nella città di eminenti maestri per i suoi studi e beneficiando grandemente del loro insegnamento.5 L’esperienza in tale ufficio non durò molto poiché l’invasione dell’Ifrikiya da parte del amiro Abu Yazid (1352) fu causa di disordini in tutta la regione.

Inizia qui un periodo di repentini ed avventurosi cambiamenti che caratterizzeranno tutta la sua esistenza. Si trasferisce in diverse località dell’Africa settentrionale svolgendo il suo servizio alla corte dei diversi regnanti e despoti con differenti incarichi tra cui poeta cortigiano del sultano Abu Salim. L’ambiente del sultano non è a lui gradito e si crea molte inimicizie, fino a quando ottiene il permesso di raggiungere Granada nella quale viene ricevuto con onore e apprezzamento. Durante quel periodo ha l’occasione di visitare Siviglia, città in cui ancora è vivo il ricordo della sua famiglia e dei suoi avi, dove viene ricevuto da Pietro il Crudele che lo prega insistentemente di restare, avendo ben compreso le sue innate qualità di statista e promettendo in cambio la restituzione di tutti i beni e le proprietà della famiglia.

Effettua, invece, il viaggio a ritroso verso le coste africane fin quando non lo si incontra nella città di Bugia alla corte di Abu ‘Abd Allah Muhammad, vecchio compagno di cospirazioni durante la sua permanenza a Fez (1365). Anche quest’esperienza fu molto breve a causa dell’invasione dell’emiro di Costantina nella primavera del 1366. Dopo alcune peregrinazioni trova rifugio a Biskra dai Banu Muzni. In questo periodo, nonostante le serie intenzioni di dedicarsi alle lettere e alla riflessioni, non si tira indietro, come per un viscerale desiderio di partecipare attivamente agli eventi della storia, di fronte alle congiure e ai complotti dei vari regnanti dell’area (Marinidi, Hafsidi e altri despoti locali).

In quel contesto storico-geografico è tanto facile salire all’onore dei troni quanto cadere nella polvere e nel sangue. Questa sua insistente partecipazione alle «attività politiche» è causa di legittimi sospetti di segrete macchinazioni e tradimenti. Si ritira, quindi, nella dimora dei Banu Salama in una località — a pochi chilometri dall’attuale Frenda — adatta alla concentrazione e allo studio, dove trova ispirazione per scrivere la sua opera universalmente ammirata: i Muqaddima.6

Al termine del soggiorno nel castello dei Banu Salama sente il desiderio di tornare a Tunisi dove i suoi «avi vissero e dove ci sono ancora le loro case, i loro resti e le loro tombe.»7 Ottenuto il permesso dalla corte hafside, si dedica alla redazione del suo ’Ibar di cui consegnerà la prima copia al sultano Abu ‘l-’Abbas. Tanto successo e tanta gloria sono causa di invidia e gelosie. Con il pretesto del pellegrinaggio rituale alla Mecca, coglie l’occasione per abbandonare la sua città natale, avida di cattiveria e perfidia nei suoi confronti (1382), nella quale non tornerà mai più.

Arriva al Cairo, capitale mamelucca, di cui ha, a prima vista, una meravigliosa impressione di magnificenza. La sua notoria fama lo porta ad insegnare ad Al-Azhar, il più prestigioso centro di studio della città, dove i suoi corsi di fikh malikita sono seguiti da una grande folla di studenti tanto da guadagnarsi la nomina di kadi (1384).

Una grande tragedia lo aspetta di lì a poco. La sua famiglia, che finalmente aveva ottenuto il permesso di raggiungerlo grazie all’intercessione del sultano Al-Zahir Barkuk, non raggiungerà mai il porto di Alessandria a causa del naufragio della nave in cui viaggiavano nei pressi di Bengasi.

A questa sofferenza personale si aggiunge lo sciovinismo dell’élite culturale locale che vedeva un eccesso di potere nelle mani di uno «straniero». Per questo motivo fu costretto a consegnare le sue dimissioni (1385) dedicandosi prevalentemente all’insegnamento in diverse scuole della città. Questo impegno lo avrebbe assorbito interamente per circa quattordici anni.

Nel 1399 è richiamato di nuovo alla carica di kadi dalla quale si dimetterà qualche mese più tardi ma fu obbligato a seguire Al-Nasir nella sua spedizione verso Damasco dove Tamerlano aveva già imposto il suo potere. E` ricevuto alla corte del temibile condottiero con il quale si intrattiene cordialmente. Tale evento si tinge di impavido coraggio e indiscutibile mistero. Si narra, infatti, che Tamerlano sia stato profondamente impressionato dalla saggezza e dalla cultura di Ibn Khaldun tanto da invitarlo a restare alla sua corte. Essendo a conoscenza del carattere burbero e vendicativo del condottiero mongolo, non esitò ad accettare a patto che sarebbe tornato a prendere i suoi libri al Cairo, senza i quali non avrebbe potuto vivere e continuare i suoi studi. Con questo stratagemma, testimonianza di elevatissime doti di scaltrezza e furbizia, riusce a tornare vivo al Cairo dove muore nel 1406.

Come si è ben visto, la sua vita è stata un susseguirsi di tragiche fatalità e improvvisi mutamenti, dovuti anche alla sua brama di potere e alla sua ambizione personale.8 Si deve comunque alla sua penna di pensatore geniale e storico puntiglioso la maggiore fonte di informazioni sull’Africa settentrionale in quei tempi travagliati. La sua fama imperitura sopravvive ai nostri giorni in particolar modo per i Muqaddima, prefazione ad un’opera ambiziosa di storia universale di ben più ampio rilievo ma mai portata a termine: l’’Ibar. Quest’ultima mostra alcune lacune storiche, in special modo sulla dinastia degli Almohadi,9 e non realizza i presupposti e le promesse della Prefazione.

Meritano, inoltre, menzione il Ta’rif, un’autobiografia ricca di particolari minuziosi e un trattato di mistica, scritto presumibilmente al termine della sua vita di cui ancora si discute sull’autenticità: il Shifa’al-sa’il.

La prima stesura dei Muqaddima appartiene al periodo del volontario ritiro nella residenza di Ibn Salama e della sua famiglia (1375/1379): in essa appare tutta la ricchezza del suo pensiero in cui le discipline tradizionali della pedagogia islamica si uniscono ad un’impassibile capacità di analisi, frutto delle sue turbinose vicende politiche e di una nitida indagine psicologica non tanto degli individui al potere ma dei gruppi sociali. L’intenzione dell’autore è, senza dubbio alcuno, lodevole e innovativa: si tratta di «una sintesi enciclopedica di ogni necessaria conoscenza metodologica e culturale che permetta allo storico di produrre un veritiero lavoro scientifico.»10 Criticando il metodo dei suoi predecessori, troppo pedissequi, a suo giudizio, nel trascrivere le gesta di quel o quell’altro condottiero ma privi di una sana sete di analisi critica degli eventi, si avvale di una nuova definizione della storia: in essa egli pone come punti fondamentali per la comprensione del passato gli aspetti sociali, culturali ed economici.

Il criterio che muove la sua indagine parte dall’assunto della conformità alla realtà (kanun al-mutabaka) come pietra di paragone di qualsiasi evento. In questa prospettiva appare evidente il suo sforzo di comprendere il motivo dell’evoluzione della storia in un’incessante ricerca eziologica delle «leggi sociali» che determinano i casi presi in questione. Al fine di una realizzazione scientificamente corretta è necessario che questa scienza sia indipendente (’ilm mustakill bi-nafsih) e abbia come oggetto primo di indagine la civilizzazione umana (al-’umran al-bashari) , intesa come l’insieme della caratteristiche di una civiltà, e i fatti sociali nella loro integrità.

Senza attardarci nella descrizione dei sei capitoli dei Muqaddima a noi preme presentare il loro valore intrinseco. Si parte da uno studio socio-antropologico sull’influenza dell’ambiente sulla natura umana arrivando alla descrizione, in un secondo luogo, delle prime civilizzazioni «nomadi» (’umran badawi). Il concetto di ’umran racchiude in sé una pluralità di significati: da luogo geografico abitato a società stricto et lato sensu.11 Da qui l’interesse si spinge verso le prime forme istituzionali e le loro caratteristiche evolutive fino ad arrivare alle più sviluppate e sofisticate forme di aggregazione sociale in un contesto urbano e sedentario (’umran hadari). In questo modo si giunge ad analizzare le modalità di commercio e lo sviluppo delle attività manifatturiere e il loro indissolubile apporto alla fioritura di una società rigogliosa, dove fioriscono liberamente e senza impedimenti filosofia, cultura e arte.

Il complesso organon metodologico mostra un concreto studio delle dinamiche storiche in cui appaiono in nuce gli Idealtypen del Verstehende Mathode con l’analisi delle dicotomie strutturali come città/campagna, società nomade/sedentaria, solidarietà tribale/egoismo individualista.12

Questa visione globale della storia permette ad Ibn Khaldun di formulare una teoria economica caratterizzata dalla ciclicità in cui lo stato, originariamente, ha un potere limitato e la tassazione è ad un livello relativamente basso tanto da permettere una costante crescita della produzione e dei consumi. Dopo questa fase (prima e seconda generazione) lo stato concentra su di sé tutto il potere aumentando il prelievo fiscale e riducendo la libertà di iniziativa, a cui segue un’evidente diminuzione dei consumi e della produzione. La fase finale (quarta generazione) è una forte stagnazione economica il cui effetto principale è la paralisi dello stato nel suo insieme.13

In questa teoria dell’evoluzione e del declino — in cui sono analizzati tutti i sintomi e i mali per cui una società nasce, si sviluppa e muore- gioca un ruolo principale la ’asabiyya. Essa è — secondo le diverse ma puntuali definizioni degli storici di Ibn Khaldun- «spirito pubblico», «solidarietà sociale», «coesione del gruppo», «volontà comune», «spirito di corpo», «Lebenskraft».14 Questo senso di comune appartenenza e «reciproca solidarietà, ispirato alla lotta per la vita,»15 lega ogni membro della comunità in un solidario sforzo verso una meta comune.

A questo Volksstreben è legato il destino della società poiché la ’asabiyya è «die motorische Kraft im staatlichen Geschehen.»16 Nella parabola storica di ogni civiltà è possibile leggere «lo sviluppo, l’acme e il logoramento»17 di questi vincoli solidaristici che ne sono la forza intrinseca. A fortificare gli spiriti e il potere politico è necessaria una comune convinzione religiosa che fa da collante non solo «spirituale». «Una dinastia — afferma a tale proposito Ibn Khaldun- che comincia la sua storia appoggiandosi sulla religione raddoppia la forza della ’asabiyya che l’aiuta nella sua formazione.»18

A proposito della sua concezione dello sviluppo sociale, Ibn Khaldun afferma ripetutamente che non è l’ammontare delle riserve di moneta o metallo prezioso la misura della prosperità di un paese ma la maggiore specializzazione o divisione del lavoro tra gli abitanti. Ciò, infatti, genera un «circolo virtuoso» che aumenta la produttività in una giusta distribuzione dei ruoli e dei rischi: l’artigiano riceve una ricompensa secondo il lavoro impiegato per produrre il bene, il mercante merita il suo profitto in virtù dei rischi corsi, le autorità hanno diritto ad un compenso per i servizi svolti per la protezione dei beni pubblici e privati non interferendo nelle altre attività.19 Secondo Ibn Khaldun, anticipando addirittura le teorie sociologiche dell’urbanizzazione, le città sono il caleidoscopio della vitalità di una società: maggiore è la presenza di persone, maggiore sarà la specializzazione in una mutua cooperazione sociale poiché nessuno è autosufficiente a se stesso.

Alla prosperità e alla ricchezza della popolazione segue un cospicuo aumento demografico che genera ulteriori processi di produzione e consumo. Ma nella città stessa alberga il germe velenoso della mollezza e dell’abbandono alla lascivia. Il lusso e i vizi ad esso legati sono la causa prima dell’indebolimento di quei vincoli di solidarietà e rispetto su cui la società ha posto le sue basi e a cui si deve la sua sopravvivenza.

L’opera di Ibn Khaldun, da qualunque punto di vista venga letta, è degna di stupore e ammirazione: il suo metodo empirico va oltre la trascrizione fredda degli eventi tanto da rivendicare, giustamente, il titolo di «scienza storica».20 Y. Lacoste giunge persino ad affermare che se «Tucidide è l’inventore della storia, Ibn Khaldun segna la nascita della storia come scienza.»21

Sebbene, non senza un pizzico di reticenza e sarcasmo, alcuni abbiano visto la filosofia di Ibn Khaldun come ancilla sociologiae,22 sarebbe inclemente e scorretto non concedere ad essa i giusti meriti in una prospettiva che resta schiettamente filosofica. Il suo pensiero, appunto, è frutto di una sintesi storico-filosofica in cui la sociologia e la psicologia sociale, la scienza politica e l’economia appaiono come «scienze ausiliari alla storia»23 in «un’unità complessa che è difficile da sbrogliare.»24

Ci piace terminare questo breve saggio con le parole di A. J. Toynbee, eminente storico delle civiltà, secondo cui «Ibn Khaldun ha concepito e formulato una filosofia della storia che è senza dubbio il più grande lavoro che sia mai stato realizzato in nessun luogo e in nessun tempo.»25

Bibliografia Generale

  • AA. VV., The Encyclopaedia of Islam, E. J. Brill, Leiden 1991, voce Ibn Khaldun (di M. Talbi)
  • AA. VV., Filosofia, vol. I, L’Universale-Garzanti, Milano 2003
  • AA. VV., Pensée et valeurs de l’Islam, Cultures, vol. IV, n. 1, Unesco-Baconnière, Paris 1977
  • AA. VV., Storia della filosofia nell’Islam medievale, vol. II, a cura di C. D’Ancona, Einaudi, Torino 2005
  • AA. VV., Studies in Islamic Economics, The Islamic Foundation, Leicester-U. K. 1980
  • I. A. Ahmad, The Political Economy of the Classical Islamic Society, University of Chicago Press, 1971
  • A. Badawi, Histoire de la philosophie en Islam, Librairie Philosophique J. Vrin, Paris 1972
  • L. Baeck, The Mediterranean Tradition in Economic Thought, Routledge, London 1994
  • H. Corbin, Storia della filosofia islamica, Adelphi, Milano 1991
  • M. Cruz Hernández, Historia del pensamiento en el mundo islámico, vol. II, Desde el Islam andalusí hasta el socialismo árabe, Alianza Universidad, Madrid 1981
  • A. Hourani, Storia dei popoli arabi. Da Maometto ai nostri giorni, Arnoldo Mondatori Editore, Milano 1998
  • Y. Lacoste, Ibn Khaldoun, F. Maspero, Paris 1966
  • M. Mahdi, Ibn Khaldun’s Philospohy of History, University of Chicago Press, Chicago 1971
  • S. Noja, Breve storia dei popoli dell’Islam, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1997
  • S. Noja, Storia dei popoli dell’Islam, vol. 3, L’Islam dell’immobilismo, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1993
  • E. Tyan, Institutions du droit publique musulman, Sirey, Paris 1954

  1. A tale proposito H. Corbin scrive ponendosi alcune domande sulla figura di Ibn Khaldun nella storia del pensiero islamico: «In breve, dopo la scomparsa di Averroè, fu Ibn ‘Arabi o Ibn Khaldun a indicare all’Islam spirituale la sua finalità autentica? La crisi radicale dei nostri giorni ha per causa remota il fatto che Ibn Khaldun non è stato seguito? Oppure, al contrario, dipende dal fatto che la secolarizzazione moderna, completando il programma di Ibn Khaldun, va a braccetto con la cancellazione di ciò che ha rappresentato e rappresenta ancora un Ibn ‘Arabi? Nell’un caso come nell’altro, al filosofo si pone il problema di sapere se la riduzione delle «scienze divine» alle «scienze umane» risponde al destino dell’uomo. Non è in gioco soltanto la sorte della filosofia islamica, ma la vocazione stessa dell’Islam in questo mondo, la validità della testimonianza che l’Islam porta in questo mondo da quattordici secoli. La grandezza, senza dubbio tragica, dell’opera di Ibn Khaldun ci appare nel fatto che essa induce la coscienza a porsi questi interrogativi.» (H. Corbin, Storia della filosofia islamica, Adelphi, Milano 1991, p. 290) Le parole di H. Corbin hanno un sapore amaro ma dimostrano quanto l’autore abbia sofferto degli eccessi occidentalizzanti nell’interpretazione di Ibn Khaldun. ↩︎

  2. Ibn Khaldoun, Muqaddima, I, p. 66, traduzione di De Slane in Y. Lacoste, Ibn Khaldoun, F. Maspero, Paris 1966, p. 119. ↩︎

  3. M. Talbi, Ibn Khaldun, in E.I., p. 825. ↩︎

  4. Ibn Khaldoun, Histoire des Berbères, IV, p. 180, traduzione di De Slane, in Y. Lacoste, Ibn Khaldoun, F. Maspero, Paris 1966, p. 59. ↩︎

  5. Ibn Khaldoun, Ta’rif, 59, citato in M. Talbi, Ibn Khaldun, in E.I., p. 826. ↩︎

  6. Ibn Khaldoun, Ta’rif, 229, citato in M. Talbi, Ibn Khaldun, in E.I., p. 827. ↩︎

  7. Ibn Khaldoun, Ta’rif, 230, citato in M. Talbi, Ibn Khaldun, in E.I., p. 827. ↩︎

  8. M. Talbi, Ibn Khaldun, in E.I., p. 828. ↩︎

  9. M. Talbi, Ibn Khaldun, in E.I., p. 829. Secondo R. Brunschvig, citato nel suo articolo da M. Talbi, «date precise sono raramente presenti, i dettagli cronologici nell’intera opera sono troppo spesso contraddittori.» (Hafsides, II, 392). ↩︎

  10. Ibid. ↩︎

  11. Y. Lacoste, Ibn Khaldoun, F. Maspero, Paris 1966, p. 124. ↩︎

  12. L. Baeck, The Mediterranean Tradition in Economic Thought, Routledge, London 1994, p. 115. ↩︎

  13. Ibid, p. 117. A rendere chiara questa teoria economica sono le seguenti parole di Ibn Khaldun: «Le differenze che sono evidenti tra le generazioni (adjyal) nei loro comportamenti sono soltanto l’espressione delle differenze che le separano nella loro vita economica.» (Citazione dai Muqaddima, in M. Talbi, Ibn Khaldun, in E.I., p. 830). Questa frase, contestualizzata in ambito marxista, è stata più volte interpretata come il prologo del materialismo dialettico. A noi non appartiene, nel citarla, alcuna rivendicazione di parte, ma solo ci spinge un’esigenza di veridicità storiografica. ↩︎

  14. Y. Lacoste, Ibn Khaldoun, F. Maspero, Paris 1966, pp. 134- 135. ↩︎

  15. S. Noja, Breve storia dei popoli dell’Islam, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1997, p. 154. ↩︎

  16. Citazione di E. Rosenthal tratta dal saggio «Ibn Khalduns Gedanken über den Staat», in Y. Lacoste, Ibn Khaldoun, F. Maspero, Paris 1966, p. 134. ↩︎

  17. S. Noja, Breve storia dei popoli dell’Islam, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1997, p. 155. ↩︎

  18. Ibn Khaldoun, Muqaddima, I, p. 325, traduzione di De Slane, in Y. Lacoste, Ibn Khaldoun, F. Maspero, Paris 1966, p. 120 ↩︎

  19. L. Baeck, The Mediterranean Tradition in Economic Thought, Routledge, London 1994, p. 116. A queste tesi si deve l’interessamento di alcune moderne correnti liberiste al pensiero di Ibn Khaldun. Si legge, infatti, nei Muqaddima: «Un governo oppressivo porta alla rovina della prosperità pubblica. Prendersela con gli uomini impossessandosi dei loro beni, toglie loro la volontà di lavorare per acquisirne altri, poiché essi vedono che alla fine non gli resta più nulla.» (Ibn Khaldoun, Muqaddima, II, p. 106, traduzione di De Slane, in Y. Lacoste, Ibn Khaldoun, F. Maspero, Paris 1966, p. 113) C’è chi ha visto in queste asserzioni una rivendicazione delle tesi della borghesia come motore dello sviluppo economico. ↩︎

  20. «Io ho seguito — scrive Ibn Khaldun — un piano originale, avendo immaginato un metodo nuovo di scrivere la storia… Trattando di ciò che è relativo alla civilizzazione e alla formazione delle città, io ho sviluppato tutto ciò che offre la società umana in fatto di circostanze caratteristiche. In questo modo, io faccio comprendere le cause degli eventi.» (Ibn Khaldoun, Muqaddima, I, p. 10, traduzione di De Slane, in Y. Lacoste, Ibn Khaldoun, F. Maspero, Paris 1966, p. 197). ↩︎

  21. Y. Lacoste, Ibn Khaldoun, F. Maspero, Paris 1966, p. 187. ↩︎

  22. H. Corbin, Storia della filosofia islamica, Adelphi, Milano 1991, p. 288. ↩︎

  23. M. Talbi, Ibn Khaldun, in E.I., p. 830. ↩︎

  24. Citazione di N. Nasser tratta dal saggio La pensée réaliste d’Ibn Khaldun, in M. Talbi, Ibn Khaldun, in E.I., p. 830. È d’uopo, a questo punto, citare un breve tratto di Ibn Khaldun in cui egli spiega brevemente il lavoro dello storico: «È necessario che lo storico conosca i principi fondamentali dell’arte di governo, il vero carattere degli eventi, le differenze fra le nazioni, i paesi e i tempi nei quali osserva i costumi, gli usi, la condotta, le opinioni e i sentimenti religiosi e tutte le circostanze che influiscono sulla società.» (Ibn Khaldoun, Muqaddima, I, p. 57, traduzione di De Slane, in Y. Lacoste, Ibn Khaldoun, F. Maspero, Paris 1966, p. 196). ↩︎

  25. Citazione di A.J. Toynbee tratta dalla sua opera monumentale A study of History, in Y. Lacoste, Ibn Khaldoun, F. Maspero, Paris 1966, pp. 7-8. ↩︎