Intuizioni e sentimenti morali: il carattere emico della conoscenza etica

1. Introduzione

In tempi relativamente recenti, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, numerosi pensatori della tradizione angloamericana (analitica) di filosofia hanno rivolto la loro attenzione alla questione della relazione tra soggetto e fatti morali; il taglio del dibattito è profondamente epistemologico e gli strumenti concettuali impiegati sono principalmente quelli sviluppati contestualmente alla filosofia del linguaggio (come tipicamente avviene nell’ambiente analitico): ciò che si discute è la natura di alcuni concetti morali articolati in linguaggi caratterizzati da specifici strumenti lessicali, i termini etici. È possibile notare un progressivo discostamento dalle posizioni di stampo utilitarista tradizionalmente associate alla filosofia morale del mondo anglofono, specialmente in una loro riformulazione moderna e raffinata che fa capo a pensatori quali Richard Hare e Peter Singer; in particolare, si vede il ripensamento e la problematizzazione di alcuni elementi teorici dell’epistemologia morale analitica sviluppati sotto l’influenza del linguaggio e dei metodi della tecnoscienza moderna. In questo lavoro si discuterà del carattere qualitativo della conoscenza morale (in opposizione alla pretesa di quantificabilità insita nelle riflessioni utilitariste) e di come questo sia alla base dell’emergere dei fenomeni etici dalla relazione epistemica che sussiste tra il soggetto umano e il mondo fattuale. Nella prima sezione si elaborerà un modello interpretativo per i processi conoscitivi e si definirà strutturalmente il concetto di nozione (una conoscenza o credenza posseduta dal soggetto), si proporrà a questo scopo la teoria tagmemica elaborata da Kenneth Pike. Nella seconda sezione, facendo riferimento alle riflessioni di Richard Taylor, si argomenterà che sussiste una stretta correlazione tra la capacità dei soggetti di tracciare distinzioni qualitative nel mondo fattuale e l’emergere di un’identità morale che definisce la loro collocazione nello spazio dei valori. Infine, attraverso l’analisi di alcuni passaggi chiave degli scritti di Iris Murdoch, si introdurrà il concetto di sensibilità morale e si discuterà del carattere intuitivo ed emotivo dei concetti etici.

2. Le distinzioni qualitative e l’individuazione di unità epistemiche: la teoria tagmemica di Kenneth Pike

In Talk, thought, and thing, il libello pubblicato nel 1993, sul finire della sua carriera accademica, l’antropologo e linguista statunitense Kenneth Pike fa uso degli strumenti teorici sviluppati nel corso della sua ricerca nell’ambito delle scienze linguistiche e glottologiche per discutere tematiche di più ampio respiro collocate nel dominio delle discipline filosofiche; nello specifico il sottotitolo del saggio, the emic road towards conscious knowledge, suggerisce immediatamente che le riflessioni ivi proposte si riferiscono ai temi della natura della conoscenza e della sua acquisizione, mentre nella premessa dell’opera è reso esplicito che uno degli scopi principali dell’autore è di fornire una solida base per l’analisi del comportamento dei soggetti all’interno delle società umane partendo da un’indagine sulla «natura del linguaggio».1 Se l’analisi di Pike dovesse risultare convincente, questo comporterebbe un rafforzamento della relazione che sembra sussistere tra filosofia del linguaggio ed epistemologia; la tradizione analitica di filosofia otterrebbe inoltre un potente strumento tecnico per indagare sulla natura della conoscenza e del comportamento degli individui umani, un resoconto rigoroso e completo (o quantomeno caratterizzato da una forte pretesa di completezza)2 delle nozioni possedute dai soggetti, della loro struttura interna e delle loro reciproche relazioni.

Il punto di partenza delle riflessioni di Pike è espresso in una serie di affermazioni preliminari di carattere intuitivo; il linguista statunitense muove dalla propria esperienza personale e accademica, così come dalle riflessioni di altri pensatori che si sono occupati di simili tematiche,3 per formulare un gruppo di intuizioni rispetto alla natura e all’uso del linguaggio umano in contesti naturali. In particolare, si individua l’assegnazione di nomi agli oggetti e alle proprietà del mondo dei fatti come il momento essenziale dell’interlocuzione e quindi dell’interazione tra esseri umani (che nel testo si assume essere di natura essenzialmente linguistica):4 «Normal human nature requires the naming and discussion of things, events, ideas, and persons».5 Di tutte le premesse intuitive poste da Pike questa è probabilmente la più significativa, in quanto gran parte delle riflessioni che costituiscono il corpo del saggio possono essere interpretate come parte di un percorso di sistematizzazione in termini rigorosi e analitici di questo primo passaggio euristico. Occorre tuttavia specificare che lo scopo dell’autore non è di fornire un resoconto riduttivo del linguaggio presentando l’attività di interlocuzione come un rigido scambio di informazioni concernenti il mondo dei fatti tra parlanti competenti; l’attenzione di Pike è rivolta al fenomeno del linguaggio naturale, il cui corretto resoconto non deve escludere ambiguità e vaghezza, elementi che possono essere impiegati intenzionalmente dal soggetto competente per comunicare significati complessi.6 La sezione analitica della riflessione di Pike si apre fornendo una definizione per il concetto di unità emica (emic unit), un elemento puntuale del linguaggio che permette al parlante di estrapolare parzialmente delle unità di significato da un contesto relativamente ampio e complesso del mondo dei fatti:

Our categorization of elements of our universe allows us to have a partial understanding of the universe. As we categorize it we turn it into things as if they are isolable or recurrent, even though they can never occur outside of some kind of physical or mental context. Units resulting from such categorization I call emic units.7

L’individuazione di unità emiche è dunque un passaggio fondamentale nel processo di apprendimento e costituisce per il soggetto un progresso sia linguistico sia epistemico: linguistico perché l’acquisizione di padronanza rispetto a nuove unità emiche coincide con un incremento delle competenze lessicali del parlante, vi è cioè un arricchimento del repertorio di termini con cui esso individua o descrive gli oggetti e le proprietà dell’universo fattuale; epistemico perché la classificazione emica del reale coincide con l’individuazione di unità concettuali all’interno di un contesto di osservazione (il mondo dei fatti) altrimenti incomprensibile come disomogeneo.8 Si può notare una certa affinità tra le riflessioni di Pike e alcuni dei princìpi fondanti della teoria della Gestalt: le unità emiche di significato sono individuate in riferimento alle disomogeneità e alle somiglianze percepite dai soggetti nella loro esperienza individuale, ed è in questo senso che la classificazione emica permette una «parziale comprensione dell’universo».9

In ambito specificamente linguistico, Pike definisce le unità emiche in opposizione alle unità etiche (etic units);10 queste ultime raggruppano gli elementi del linguaggio in base alle loro caratteristiche fisiche (essenzialmente fonetiche), in modo che due produzioni fonetiche si dicono eticamente distinte se sussistono differenze tra le loro caratteristiche non semantiche (in generale, questo avviene se sono parole diverse, ma anche se sono due modi diversi di pronunciare la stessa parola).11 Le distinzioni etiche sono dunque rilevanti esclusivamente per le analisi strettamente linguistiche delle proposizioni proferite dai parlanti competenti. Per contro, le distinzioni emiche individuano unità di significato nei resoconti linguistici formulati dal soggetto rispetto alla sua esperienza, e sono quindi rilevanti nella descrizione del loro contenuto epistemico (semantico); questo comporta che possono esservi elementi linguistici eticamente distinti ma appartenenti a una medesima unità emica se i loro significati non presentano sufficienti differenze (relativamente ai loro rispettivi contesti di proferimento).12 Prima di procedere occorre inoltre precisare che le unità emiche sono individuate da distinzioni qualitative sempre relative alla prospettiva soggettiva del parlante o dei parlanti, in modo che esse non possono essere districate dagli spazi socioculturali in cui si costituiscono senza modificare in modo significativo il loro contenuto: «Both the physical form of an item or action and its social meaning or impact comprise parts of an emic unit».13

Descrivere in questo modo le unità di conoscenza significa innanzitutto fornire un resoconto dell’attività del soggetto: basandosi sui dati fenomenologici derivanti dalla sua esperienza del mondo, l’individuo compie una classificazione dell’universo fattuale operando delle distinzioni qualitative che permettono di individuare e isolare singole unità di significato14 (sono queste unità a essere comprese dal soggetto come oggetti del mondo);15 queste unità hanno un carattere irriducibilmente soggettivo, in quanto le distinzioni che le individuano possono essere comprese soltanto all’interno dello specifico spazio linguistico e culturale abitato dal soggetto. Lo strumento concettuale delle unità emiche permette quindi di fornire un resoconto della relazione che si instaura tra individuo e oggetto di conoscenza durante i processi di apprendimento, ma non informa circa la struttura interna delle nozioni acquisite contestualmente a questi processi. Per sviluppare la problematica appena emersa, Pike muove nuovamente da una constatazione iniziale circa la natura del linguaggio; in questo caso, tuttavia, il carattere della premessa è squisitamente tecnico: «In language, there are three different kinds of interlocking, part-whole hierarchies: grammatical, phonological, and referential».16 Secondo il linguista statunitense, ogni proposizione (incluse quindi le proposizioni di conoscenza) può essere analizzata in riferimento a tre strutture gerarchiche collocando i suoi elementi in molteplici classi di oggetti linguistici di tre tipi differenti (sintattico, fonologico e concettuale);17 le classificazioni riferite a queste tre gerarchie, che non sono necessariamente tra loro isomorfiche,,18 permettono di individuare e isolare quelle che Pike chiama unità tagmemiche (tagmemic units), gli elementi strutturali minimi della conoscenza (da intendersi qui come l’insieme delle nozioni possedute dal soggetto competente).

Per unità tagmemica si intende un elemento di una proposizione compreso come unitario rispetto al significato che esprime, indipendentemente dalla complessità e dall’ampiezza della corrispondente costruzione morfosintattica; essa è definita in base a quattro elementi caratterizzanti: (1) sono parte di una classe (class), cioè possono essere collocate in un insieme di oggetti linguistici che svolgono la medesima funzione sintattica all’interno della proposizione; (2) e sono dunque caratterizzate dalla posizione (slot) sintattica che occupano nella specifica proposizione in cui compaiono;19 (3) da un punto di vista semantico (e non sintattico), i significati che esprimono hanno un ruolo (role) determinato rispetto al contenuto informazionale della proposizione;20 (4) infine, ogni unità tagmemica è parzialmente definita in funzione alla sua coesione (cohesion) con la cornice di senso linguistica, sociale e culturale in cui si colloca il parlante21 (si noti che questo è in linea con quanto affermato sopra circa le unità emiche).22 Da un punto di vista epistemologico, le unità tagmemiche che compongono una proposizione di conoscenza ne determinano i contenuti in relazione a una o più classificazioni emiche che è possibile operare per quella specifica frase, e cioè in relazione ai diversi modi in cui è possibile descriverne il contenuto tracciando distinzioni qualitative per isolare singoli oggetti e proprietà nel mondo fattuale. In quanto elementi costitutivi di una proposizione, le unità tagmemiche possono essere quindi intese come qualitativamente atomiche: singole unità tagmemiche possono essere espresse da strutture linguistiche complesse che è possibile analizzare ulteriormente in riferimento ai loro elementi costitutivi, ma le analisi di queste unità (morfosintatticamente) più semplici non è in grado di fornire un resoconto completo dell’unità tagmemica più complessa; in altre parole, le unità tagmemiche sono tra loro almeno parzialmente irriducibili. È in questo senso che esse costituiscono gli elementi strutturali minimi della conoscenza: «Knowledge, from this emic point of view, is known in relation to the three hierarchies of phonology, grammar, and reference, and in relation to the features of the tagmemic units at each level, via contects of slot, class, role, and cohesion».23

Esiste una stretta relazione tra le unità tagmemiche, gli elementi strutturali che costituiscono il contenuto delle proposizioni di conoscenza, e le unità emiche, le porzioni del mondo fattuale che gli individui comprendono come oggetti o proprietà singoli; come si è visto sopra, il contenuto delle unità tagmemiche dipende dal tipo di distinzioni emiche tracciate dal soggetto durante un processo di classificazione della sua esperienza. Perché il resoconto epistemologico proposto da Pike possa dirsi completo24 occorre tuttavia determinare che tipo di relazione sussiste tra l’individuo e le unità emiche in cui è suddivisa la sua esperienza; il linguista statunitense ne individua tre: è possibile rivolgere la propria attenzione a quella che si individua come un’unità emica «come se»25 fosse (1) un elemento nitidamente circoscritto e ben determinato del reale (static particle), (2) un oggetto vago, cioè una sequenza di dati esperienziali «dai confini indeterminati»26 accomunati da una medesima proprietà (dynamic waves), o (3) un elemento puntuale definito dalle sue relazioni con altri elementi puntuali (altre unità emiche) e dalla sua posizione all’interno di un framework contestuale più o meno ampio (relational field).27 Quest’ultima interpretazione è di particolare interesse, in quanto individua il carattere olistico della conoscenza. In particolare, Pike ritiene che tutte le nozioni (credenze e conoscenze) di un soggetto sono caratterizzate da una specifica collocazione all’interno di un sistema di relazioni tra unità tagmemiche; questo include le nozioni morali:

In other words, there is no culture apart from an emic structure; no rule apart from an emic structure; no meaning apart from an emic structure; no game apart from an emic structure; no rational behavior apart from emic human beings; no physical form known by us, in itself, apart from our categorizing it emically.28

3. Il carattere intuitivo dei concetti etici e l’emergere dell’identità morale

Un’interessante conclusione che Pike trae dalle riflessioni riportate nella sezione precedente riguarda la natura dei processi esplicativi, i meccanismi con cui i soggetti spiegano e giustificano le loro credenze: secondo questo autore la spiegazione di un fatto coincide con la sua collocazione in un framework contestuale (una rete di relazioni tra fenomeni), che permette di comprenderlo come un singolo elemento strutturale di un complesso fenomenico più ampio, individuandone la posizione all’interno di una gerarchia parte-intero;29 un simile resoconto dell’esplicazione sarebbe da considerare preferibile all’impiego del concetto di ragione, che Pike definisce, citando Angus Sinclair, una «conveniente metafora».30 Nell’ambito più circoscritto dell’epistemologia morale, un simile resoconto viene esplorato nel dettaglio da Charles Taylor in Sources of the Self (1989), dove suggerisce che il complesso di spiegazione e giustificazione di un comportamento (o di un giudizio) morale è costituito dall’individuazione di una cornice (framework) in cui esso acquisisce significato: «Frameworks provide the background, explicit or implicit, for our moral judgements, intuitions, or reactions […]. To articulate a framework is to explicate what makes sense of our moral responses».31 La formulazione di proposizioni etiche da parte dei parlanti competenti di un linguaggio morale avviene sempre in riferimento a un ben determinato (almeno in linea di principio) contesto nozionale, in modo che l’esplicitazione parziale o completa di questo contesto coincide con la spiegazione dei contenuti in esse espressi. Si può notare qui un’altra affinità con le riflessioni di Pike, secondo cui l’acquisizione di conoscenza coincide con un’operazione di conferimento di senso.32 Obbiettivo esplicito del lavoro di Taylor è di fornire un resoconto analitico del modo in cui i linguaggi morali fanno da sfondo (background) ai complessi di nozioni (credenze e conoscenze) morali sottoscritte dai soggetti competenti;33 le riflessioni del pensatore canadese muovono dall’osservazione preliminare che le «questioni morali», le domande a cui le nozioni etiche rispondono, sono poste in riferimento a delle valutazioni forti:

[…] they all [le questioni morali] involve what I have called elsewhere 'strong evaluation', that is, they involve discriminations of right and wrong, better or worse, higher or lower, which are not rendered valid by our own desires, inclinations, or choices, but rather stand independent of these and offer standards by which they can be judged.34

Queste valutazioni forti sono dunque definite in base alla loro relazione con il comportamento umano (le «scelte») e le proprietà epistemiche che ne definiscono la direzione («desideri» e «inclinazioni»): nel loro modo di darsi al soggetto, esse sono caratterizzate da una pretesa di universalità e assolutezza, cioè dalla pretesa di essere indipendenti dalle particolari inclinazioni (credenze e intuizioni morali) che costituiscono la specifica prospettiva in prima persona dell’individuo singolo; contemporaneamente, esse forniscono gli strumenti terminologici e concettuali che permettono di formulare giudizi valutativi rispetto a quelle inclinazioni e alle scelte, e quindi alle azioni, da esse motivate. Attraverso processi di valutazione forte, i membri competenti di una determinata comunità linguistica selezionano i contenuti intuitivi preliminari del framework di nozioni che fa da sfondo, da cornice di senso, alle proposizioni etiche che formulano.

Vi è tuttavia una differenza significative tra le modalità con cui i soggetti comprendono le loro intuizioni morali e i modi di acquisizione degli altri tipi di contenuti intuitivi, che Taylor indica con l’espressione «'gut' reaction»:35 i contenuti delle intuizioni etiche sono articolati per mezzo di «resoconti ontologici» che li razionalizzano in relazione agli specifici contesti socioculturali abitati dai parlanti e vi conferiscono in questo modo un elemento di universalità e una pretesa di oggettività, districandoli apparentemente dalla dimensione strettamente soggettiva in cui si danno.36 È dunque possibile tracciare in modo più preciso il parallelismo tra questi primi passaggi della riflessione di Taylor e la teoria tagmemica proposta da Pike ed esaminata nella sezione precedente. In entrambi i resoconti le attività di comprensione, acquisizione e utilizzo dei concetti etici sono possibili solo all’intero di determinati «spazi pubblici», luoghi di azione e interlocuzione condivisi con altri soggetti e caratterizzati da specifici elementi sociali, culturali e linguistici;37 inoltre, la cornice socioculturale in cui le nozioni morali acquisiscono senso è costituita a partire da delle valutazioni forti, distinzioni qualitative (emiche) che permettono una classificazione valutativa delle intuizioni etiche: «What I have been calling a framework incorporates a crucial set of qualitative distinctions».38 Più nello specifico, sono queste distinzioni qualitative forti a costituire il tessuto metalinguistico dei linguaggi etici e a collocare e orientare i soggetti all’interno degli spazi morali: «To think, feel, judge within such a framework is to function with the sense that some action, or mode of life, or mode of feeling, is incomparably higher than the others which are more readily available to us».39

Secondo Taylor le distinzioni qualitative permettono dunque una classificazione valutativa, una ridescrizione in termini morali, del mondo; parti integranti di questa descrizione sono tuttavia i resoconti delle specifiche relazioni tra il soggetto e i fatti mondani qualificati moralmente, in modo che la posizione di un oggetto o di un evento all’interno di una cornice di senso (posizione che, si ricordi, ne definisce le caratteristiche epistemiche – etiche e non – sia nel resoconto teorico su cui riflette il pensatore canadese, sia nella teoria tagmemica di Pike) è sempre da intendersi come una posizione relativa rispetto al parlante. Taylor conclude che una descrizione morale e impersonale del mondo è impossibile in linea di principio; o in altre parole, che il resoconto di un fatto compreso come moralmente compromesso (morally loaded) non può essere astratto dalla prospettiva soggettiva del parlante senza che i suoi significati morali diventino inintelligibili, e che quindi i linguaggi morali non sono compatibili con una prospettiva assoluta: «My perspective is defined by the moral intuitions I have, by what I am morally moved by. If I abstract from this, I become incapable of understanding any moral argument at all».40 Articolare una proposizione morale, descrivere e qualificare moralmente un fatto del mondo, significa per il parlante rispondere alla domanda circa la sua identità morale («who?» – «Chi [sono]?41»), che coincide parzialmente con ciò che poco sopra si era indicato con l’espressione 'orientamento' nello spazio etico. Può essere interessante constatare come questa riflessione di Taylor presenta un’evidente affinità con una delle osservazioni analiticamente meno rigorose proposte da Pike, secondo cui i processi cognitivi necessari all’attività umana (o a una buona parte di essa) sono resi possibili dall’esistenza di un sé individuale che ne determina la direzione generale: «To serve numerous human purposes, a person needs a self, beyond muscle and physical brain, to choose the direction of his or her internal rudder».42

Come si è visto, le distinzioni qualitative che definiscono il framework in cui i concetti morali acquisiscono significato sono possibili soltanto in riferimento a un più ampio contesto linguistico, vale a dire all’interno di uno spazio pubblico di interlocuzione che il soggetto condivide con altri parlanti competenti;43 allo stesso modo, l’identità individuale che emerge in relazione a queste cronici di senso può costituirsi soltanto in riferimento a una certa comunità di parlanti caratterizzata da specifici elementi sociali e culturali: «A language only exists and is maintained within a language community. And this indicates another crucial feature of the self. One is a self only among other selves. A self can never be described without reference to those who surround it».44 Contemporaneamente, il possesso di un’identità morale, di un orientamento all’interno dello spazio etico qualitativamente definito, permette al soggetto di articolare un resoconto esplicativo per il proprio agire, cioè di partecipare al processo di interlocuzione in cui viene interrogato circa le sue ragioni.45 Le distinzioni qualitative forti sono dunque necessarie perché si possa conferire senso morale ai comportamenti degli agenti umani, perché li si possa comprendere come moralmente orientati (cioè come eticamente qualificati – nobili o abietti, giusti o sbagliati).46 L’importante traguardo argomentativo raggiunto da Taylor è che non è possibile fornire un resoconto epistemologico analiticamente completo delle conoscenze etiche astraendo dalla prospettiva in prima persona che caratterizza il soggetto singolo, in quanto è solo all’interno di essa che i fatti mondani possono acquisire significati morali venendo collocati in classi di distinzione tra loro parzialmente incommensurabili (tracciando cioè distinzioni qualitative): «[…] our visions of the good are tied up with our understandings of the self. […] We have a sense of who we are through our sense of where we stand to the good».47

4. I sentimenti morali come modalità di conoscenza

Un elemento ricorrente nel testo di Taylor esaminato sopra è l’immediatezza esperienziale dei contenuti morali più elementari, vale a dire di quelle nozioni valutative che permettono l’individuazione di distinzioni qualitative forti,,48 e la cui acquisizione da parte del soggetto antecede la formulazione dei resoconti ontologici che ne articolano i contenuti in una forma più raffinata, in riferimento a ben determinati framework linguistici e socioculturali.49 Come si è visto, secondo Taylor queste esperienze istintive dei fatti morali, in molti sensi paragonabili alle «'gut' reactions», alle risposte istintive relative agli altri più concreti elementi dell’esperienza fattuale,50 costituiscono il primo passo della riflessione morale (il complesso processo riflessivo che culmina con l’emergere dell’identità morale dell’individuo), ed è in questo senso che permettono l’accesso del soggetto allo spazio linguistico dell’etica come interlocutore competente: «[…] we should treat our deepest moral instincts, our ineradicable sense that human life is to be respected, as our mode of access to the world in which ontological claims are discernible and can be rationally argued about and sifted».51 Ad un primo sguardo, questo passaggio potrebbe sembrare il ribaltamento di una simile affermazione proposta da Wittgenstein nei Quaderni, secondo cui i concetti morali «entrano nel mondo soltanto attraverso il soggetto»;52 il contrasto è tuttavia solo apparente, in quanto entrambi gli autori alludono al fatto che le proprietà morali compaiono all’interno della prospettiva soggettiva rispetto a cui il singolo individuo esperisce il mondo dei fatti e da cui, secondo Taylor, non è mai possibile astrarre del tutto.53

I concetti etici non sono dunque corrispondenti a dei particolari oggetti 'morali' del mondo fattuale; i resoconti ontologici delle intuizioni morali sono narrazioni, riformulazioni articolate dai membri di una certa comunità linguistica per raccontare il proprio agire, per esprimere nel linguaggio le motivazioni e gli scopi delle loro scelte, il loro orientamento morale. Riprendendo il lessico tecnico utilizzato da Pike, i concetti etici risultano (emergono) dalla classificazione emica dell’esperienza fattuale; le proprietà morali possono caratterizzare epistemicamente un’unità tagmemica (un’unità di significato) definendo il suo carattere di coesione, vale a dire la sua posizione all’interno dell’ambiente socioculturale abitato dal parlante.54 Una simile intuizione rispetto al carattere essenzialmente epistemico delle proprietà morali emerge anche nell’excursus storico-filosofico compiuto da Iris Murdoch nel suo Metaphysics as a Guide to Morals, in cui si afferma che il soggetto cosciente è sempre calato all’interno di una prospettiva moralmente compromessa e la sua esperienza del mondo, nel suo darsi, presenta già gradi variabili di densità valutativa: «[…] there are also ways and states in which value inheres in consciousness, morality colours an outlook, light penetrates a darkness».55 Contemporaneamente, le valutazioni che caratterizzano le unità di significato con cui il parlante instaura queste relazioni epistemiche sono tra loro coerenti, nel senso che fanno riferimento a un singolo orizzonte valutativo corrispondente a una specifica prospettiva soggettiva; se questa è parzialmente definita dall’ambiente socioculturale che il soggetto condivide con altri soggetti, essa costituisce in ultima istanza una singola identità individuale caratterizzata da un elemento di continuità, da un costante orientamento nello spazio dei valori: «We have a continuous sense of orientation. […] Our speech is moral speech, a constant use of the innumerable subtle normative words whereby (for better or worse) we texture the detail of our moral surround and steer our life of action».56

Si noti come il lessico con cui Murdoch descrive il sé morale continuativo nel passo appena citato è il medesimo utilizzato da Taylor; la ridescrizione di oggetti ed eventi in termini etici permette la sovrapposizione di un «tessuto» morale su un mondo fattuale, e l’orientamento morale del soggetto diventa possibile in funzione dell’introduzione di rilievi (di differenze) in un contesto esperienziale eticamente piatto, privo di contenuti valutativi. Questo è in linea con la constatazione di Wittgenstein riportata poco sopra secondo cui è il soggetto a introdurre nel mondo le nozioni morali, tuttavia sia Taylor che Murdoch sembrano riconoscere ad esse un carattere di immediatezza intuitiva; si veda ad esempio il seguente passo in cui l’autrice riflette sul pensiero di Decartes: «Decartes did not have to introduce value as an external element into a world (mind) primarily or fundamentally devoid of it, or to scramble a few value-conscious items into a 'factual' account of our knowledge of material objects. […] all awareness includes value as the (versatile) agility to distinguish true from false».57 Nel testo in analisi, l’autrice distingue frequentemente tra attività intenzionale e inintenzionale del soggetto, spesso facendo riferimento al lessico della psicanalisi e a un «inconscio morale»58 da cui emergono le unità di significato elementari utilizzate dai parlanti per formulare i resoconti (moralmente) esplicativi del proprio agire; l’emergere di questi dati valutativi intuitivi è una caratteristica costitutiva della relazione complessa che si instaura quando un soggetto si interfaccia al mondo fattuale: «[…] outside the laboratory, or untroubled by philosophy, our perceptions, which so largely constitute our experienced-being, are intensely individual and polymorphous. Seeing, thinking and 'interpreting' are mixed. And, for instance, instinctive value judgements and intuitions are involved».59

I processi con cui i contenuti morali intuitivi si danno ai soggetti sono dunque caratterizzati almeno parzialmente da un elemento di opacità, in modo che non è sempre possibile articolare nitidamente nel linguaggio le nozioni etiche intuitive; in particolare, secondo Murdoch le intuizioni morali possono essere associate, nel loro darsi, a degli oggetti di conoscenza «vaghi» e dunque inaccessibili all’intenzionalità del soggetto se non per il loro contenuto strettamente valutativo: «Happenings in the consciousness so vague as to be almost non-existant can have moral 'colour'. All sorts of momentary sensibilities to other people, too shadowy to come under the heading of manners of communication, are still part of moral activity».60 L’interazione tra individuo e sfera morale non si esaurisce dunque in un’attività semplicemente interlocutoria, ma coinvolge anche quella che l’autrice indica con il termine «sensibilità»,61 definibile in termini più rigorosi come la capacità di interfacciarsi (interagire epistemicamente) con i significati morali di queste unità concettuali altrimenti amorfe e indefinibili;62 di nuovo, questo passo teorico è compatibile con le osservazioni preliminari portate da Taylor, secondo cui l’esperienza morale ha inizio con il riconoscimento intuitivo (paragonabile a delle «'gut' reactions» istintive) delle valutazioni forti, le differenze qualitative (emiche) tra oggetti ed eventi del mondo fattuale.63 Poco più avanti, Murdoch può ribadire con maggiore decisione uno dei principali approdi teorici della sua riflessione, il fatto che in contesti «normali», e cioè in particolare al di fuori dell’analisi filosofica, gli individui interagiscono con i concetti morali come se essi fossero già da sempre parte del mondo e del loro bagaglio epistemico, senza bisogno di acquisirli dall’esterno: «People know about the difference between good and evil, it takes quite a lot of theorising to persuade them to say or imagine that they do not».64 L’autrice può allora concludere che la vita del soggetto è sempre una «vita morale»,65 in quanto la totalità della sua esperienza è vissuta e compresa in riferimento a una specifica prospettiva soggettiva, un’identità morale, caratterizzata da un elemento di integrità (continuità nel tempo) e dall’attitudine a captare intuizioni morali primitive (sensibilità). In altre parole, usando il lessico della teoria tagmemica di Pike, un’unità tagmemica è sempre comprensibile in riferimento alla sua coesione con un framework morale, e cioè in funzione della sua relazione con uno o più concetti la cui articolazione coinvolge il lessico valutativo dei linguaggi etici; ogni classificazione emica del mondo coinvolge dunque distinzioni qualitative di valore etico, ed è per questo irrimediabilmente compromessa ('colorata') moralmente.

5. Conclusioni

In un saggio del 1961 successivamente incluso nella raccolta Difficile Libertà (titolo originale Difficile Liberté), riflettendo sul ruolo del pensiero filosofico ebraico nel mondo contemporaneo, Emmanuel Lévinas osserva quanto segue in riferimento alla relazione tra il sacro, il mondo concreto, e l’essere umano: «[…] dire che il senso del reale si comprende in funzione dell’etica significa dire che l’universo è sacro: ma è in senso etico che è sacro. L’etica è un’ottica del divino».66 La relazione tra soggetto e trascendente si realizza in un processo di valutazione morale, che è contemporaneamente una modalità di comprensione del mondo fattuale; volendosi discostare dal lessico della filosofia della religione, si potrebbe dire che l’attribuzione di valore etico coincide con la costante attività di conferimento di senso che caratterizza la relazione epistemica tra individuo e fatti (oggetti ed eventi) del mondo concreto. Nelle riflessioni dei pensatori discussi in questo lavoro si è visto come il resoconto del contenuto e della struttura delle nozioni (credenze e conoscenze) morali richiede l’inclusione, pena l’incompletezza analitica, di un soggetto di conoscenza; questo può essere inteso sia come un sé individuale dotato di sensibilità morale, la capacità di ricevere passivamente dati valutativi, sia come il parlante di un linguaggio etico (relativo a una determinata comunità linguistica, sociale e culturale) caratterizzato da una certa identità morale, una particolare collocazione moralmente orientata all’interno di uno spazio valutativo che definisce in modo più o meno preciso le relazioni tra i fatti e gli eventi del mondo. La teoria tagmemica proposta da Pike fornisce un modello interpretativo di elevato rigore tecnico per i concetti morali, definiti in base a una classificazione qualitativa (emica) dell’esperienza mondana, che viene così suddivisa in unità di significato (tagmemiche) tra loro relazionate ma in ultima istanza incommensurabili (e cioè non confrontabili in termini quantitativi, pace Hare). Se queste argomentazioni hanno merito, le nozioni morali non possono essere considerate in isolamento rispetto al soggetto di conoscenza e al più ampio framework valutativo in cui esso si colloca; inoltre, anche se si dovessero considerare i contenuti valutativi (e quindi anche etici) come emergenti rispetto alla relazione epistemica tra un mondo concreto privo di carattere morale e un soggetto costantemente impegnato in un’attività di valutazione, i fatti mondani sono compresi da quest’ultimo come già da sempre collocati in una cornice di senso etico, già da sempre caratterizzati da una 'colorazione' morale da cui non è possibile astrarre completamente, in modo che, come sintetizzato elegantemente da Hilary Putnam, descrizioni fattuali e resoconti valutativi sono tra loro irriducibilmente «intrecciati».67


  1. Kenneth L. Pike, Talk, thought, and thing: the emic road towards conscious knowledge, Summer Institute of Linguistics, Dallas 1993, pp. vii-viii. ↩︎

  2. Cfr. nt. 25. ↩︎

  3. In particolare, vi è un riferimento esplicito alle riflessioni di Quine rispetto alle frasi dimostrative (observation sentences). Ivi, pp. 5-7. ↩︎

  4. «Names and statements are used to link person to person in speech». Ivi, p. 9. ↩︎

  5. Ivi, p. 8. ↩︎

  6. «[…] ambiguity is utilized by the speaker as part of his presentation. Puns, for example, cannot normally be translated by puns in the target language. They can be explained, but the explanation of a pun does not carry the same impact as the pun itself – an impact which in tagmemic theory is part of the meaning». Ivi, p. 14. ↩︎

  7. Ivi, p. 17. ↩︎

  8. È in questi due sensi che la definizione delle unità emiche costituisce una prima riformulazione analitica dell’intuizione evidenziata sopra (cfr. nt. 5) circa il ruolo dell’assegnazione di nomi nei processi di interlocuzione e apprendimento. ↩︎

  9. Cfr. nt. 7 – enfasi aggiunta. ↩︎

  10. Occorre qui mettere in guardia sulla possibile confusione generata dalla traduzione italiana: in questo contesto il termine 'etico' traduce l’inglese etic, un termine tecnico coniato da Pike, e non ha alcuna relazione con il significato usuale della parola italiana, che individua il dominio della filosofia morale (e che traduce il termine inglese ethic). ↩︎

  11. Kenneth L. Pike, Talk, thought and thing, cit., p. 20. ↩︎

  12. Ibid↩︎

  13. Ivi, p. 21. ↩︎

  14. Cfr. Supra, nt. 7. ↩︎

  15. Si noti, di nuovo, che le riflessioni di Pike risultano in un resoconto essenzialmente epistemologico del rapporto tra soggetto e oggetti del mondo; la questione, di carattere ontologico, circa la natura di questi oggetti è trasversale e irrilevante alle riflessioni del linguista statunitense. ↩︎

  16. Ivi, p. 28. ↩︎

  17. Si noti che di queste tre gerarchie, soltanto quella referenziale (referential) informa sui contenuti epistemici delle proposizioni di conoscenza; le altre due gerarchie concorrono soltanto a descrivere le modalità in cui questi contenuti sono espressi nel linguaggio. ↩︎

  18. Il non-isomorfismo delle strutture gerarchiche grammaticali, fonologiche e referenziali, necessario perché la distinzione tra di esse sia teoreticamente rilevante, è illustrato da Pike in alcuni esempi; si propone il seguente: «In I’m going, for example, I’m is a single syllable but includes part of two grammatical units, the pronoun I, and the verb phrase am going». Ivi, p. 30. ↩︎

  19. Si noti, con Pike, che le caratteristiche di classe e posizione possono essere definite l’una in funzione dell’altra e viceversa: «Tagmemic units […] have features of class (set membership) and slot (position in the structure) which in part are reciprocally definable». Ibid↩︎

  20. Ivi, p. 31. ↩︎

  21. Ivi, pp. 34-35. ↩︎

  22. Cfr. Supra, in questa sezione, nt. 14. ↩︎

  23. Ivi, p. 41. ↩︎

  24. La teoria tagmemica offre un resoconto descrittivo rigoroso della relazione tra soggetto ed esperienza, della relazione tra soggetto e conoscenza, e della natura strutturale delle proposizioni di conoscenza; da un punto di vista epistemologico e in riferimento alla metodologia analitica, il modello proposto da Pike è dunque caratterizzato da una forte pretesa di completezza descrittiva per il fenomeno dell’apprendimento e dalla manipolazione di concetti da parte del soggetto (da intendersi come parlante competente di un linguaggio). Si noti tuttavia che l’assenza di un resoconto analitico circa la natura di questo soggetto può essere considerato motivo di incompletezza formale. ↩︎

  25. Ivi, p. 47. ↩︎

  26. Ivi, p. 48. ↩︎

  27. Ivi, pp. 47-51. ↩︎

  28. Ivi, pp. 60-61 – enfasi aggiunta. ↩︎

  29. Ivi, pp. 56-57. ↩︎

  30. Ibid. Il riferimento è ad Angus Sinclair, An introduction to philosophy, Oxford University Press, Londra 1944, p. 129. ↩︎

  31. Charles Taylor, Sources of the Self: the making of the modern identity, 10ª ed., Harvard University Press, Cambridge 2001 (1ª ed. 1989), p. 27. ↩︎

  32. Cfr. nt. 7. ↩︎

  33. Ivi, p. 3. ↩︎

  34. Ivi, p. 4. ↩︎

  35. Ivi, p. 6. ↩︎

  36. Ivi, pp. 5-6. ↩︎

  37. «The very way we, move, gesture, speak is shaped from the earliest moments by our awareness that we appear before others, that we stand in public space, and that this space is potentially one of respect or contempt, of pride or shame». Ivi, p. 15. ↩︎

  38. Ivi, p. 19. ↩︎

  39. Ibid↩︎

  40. Ivi, p. 73. ↩︎

  41. Ivi, p. 29. ↩︎

  42. Kenneth L. Pike, Talk, thought and thing, cit., p. 43 – enfasi aggiunta. ↩︎

  43. Cfr. nt. 37. ↩︎

  44. Charles Taylor, Sources of the Self, cit., p. 35. ↩︎

  45. Ivi, p. 29. ↩︎

  46. «Our qualitative distinctions, as definitions of the good, […] offer reasons in this sense, that articulating them is articulating what underlies our ethical choices, leanings, intuitions. It is setting out just what I have a dim grasp of when I see that A is right, or X is wrong, or Y is valuable and worth preserving, and the like. It is to articulate the moral point of our actions». Ivi, p. 77. ↩︎

  47. Ivi, p. 105. ↩︎

  48. Cfr. nt. 34. ↩︎

  49. Cfr. nt. 36. ↩︎

  50. Cfr. nt. 35. ↩︎

  51. Ivi, p. 8. ↩︎

  52. «Good and evil only enter the world through the subject». Ludwig Wittgenstein, Notebooks: 1914-1916, Harper, New York 1961, p. 79c. ↩︎

  53. Cfr. nt. 40. ↩︎

  54. Cfr. nt. 21. ↩︎

  55. Iris Murdoch, Metaphysics as a Guide to Morals, Penguin Random House, Londra 1992, p. 238. ↩︎

  56. Ivi, p. 260. ↩︎

  57. Ivi, p. 221. ↩︎

  58. Ivi, p. 301. ↩︎

  59. Ivi, p. 278. ↩︎

  60. Ivi, p. 495. ↩︎

  61. Ibid↩︎

  62. Si noti come altrove nello stesso testo Murdoch suggerisce che l’elemento di vaghezza che caratterizza il linguaggio privato dei singoli parlanti non deve essere compreso come semplice difetto linguistico, ma può assumere il ruolo di veicolo di significato per determinate nozioni intuitive possedute dai soggetti: «Of course, in a general sense, language must have rules. But it is also the property of individuals whose inner private consciousness, seething with arcane imagery and shadowy intuitions, occupies the greater part of their being». Ivi, p. 275. ↩︎

  63. Cfr. nt. 34. ↩︎

  64. Ivi, p. 497. ↩︎

  65. Ivi, p. 495. ↩︎

  66. Emmanuel Lévinas, Difficile Libertà, 2ª ed. italiana a cura di Silvano Facioni, Jaca Book SpA, Milano 2017 (1ª ed. 2004 – ed. originale francese: Albin Michel, Parigi 1963), p. 199. ↩︎

  67. «[…] factual description and valuation can and must be entangled». Hilary Putnam, The collapse of the fact/value dichotomy and other esseys, Harvard University Press, Cambridge 2002, p. 27. ↩︎