Reginaldo Pizzorni, Diritto etica e religione. Il fondamento metafisico del diritto secondo Tommaso d’Aquino, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2006, 630 pp.
Reginaldo Pizzorni, romano, è nato nel 1920. Domenicano, sacerdote dal 1944, è laureato in teologia e filosofia. Già ordinario di filosofia del diritto alla Pontificia Università Lateranense (1960-1992), in quest’ultima è stato anche Decano della Facoltà di Diritto Canonico, per due mandati, e Preside dell’“Institutum Utriusque Iuris”. Inoltre ha svolto la sua docenza presso le università pontificie san Tommaso d’Aquino (Angelicum) dal 1954 al 1996, Urbaniana, dal 1970 al 1991, e nella Libera Università di Studi Sociali “Pro Deo”, ora Luiss, dal 1954 al 1970. Attualmente è professore emerito della Facoltà di Diritto Canonico della Pontificia Università Lateranense.
Le sue pubblicazioni riguardanti la filosofia del diritto sono numerose. Tra i molteplici titoli che compongono la sua produzione scientifica, ricordiamo qui solo quelli a carattere monografico: Attualità del Diritto naturale (1971); Giustizia e Carità (1995); Diritto naturale e Diritto positivo in S. Tommaso d’Aquino (2000); Il diritto naturale dalle origini a S. Tommaso d’Aquino, (2000); La filosofia del diritto secondo S. Tommaso d’Aquino, (2003).
Nel testo che presentiamo P. Pizzorni studia il tema del fondamento teologico del diritto e della morale. Tale studio, svolto con il consueto rigore analitico, evidenzia il pensiero di Tommaso confrontandolo con molti autori dell’epoca moderna e contemporanea. Nell’introduzione infatti afferma:
ora, lo scopo del nostro lavoro è di dare una risposta a questo ateismo contemporaneo, che sotto la forma del positivismo giuridico-morale ha portato alla irragionevolezza legalizzata, in cui nacque prima la sfiducia nelle forze della ragione, poi l’anarchia del pensiero che preparò la dittatura del volontarismo, delle passioni, e la verità fu misconosciuta, la giustizia divenne oscillante e arbitraria, ed il disordine prese aspetto costituzionale. In questo ambiente non c’è dunque che un rimedio: il ritorno alla ragionevolezza, che significa ritorno a quella filosofia dell’essere e dell’oggettività delle cose, che S. Tommaso ha personificato in se stesso, e che dal Duecento ad oggi ha mostrato una vitalità, una modernità incomparabili anche se taluno potrà credere che questa dottrina sia ormai ampiamente superata da tali e tanti progressi delle moderne scienze, come pure dal fiorire di così numerose e variate filosofie e teologie che si dicono “nuove”. […] se S. Tommaso fu moderno al tempo suo, è moderno anche oggi col suo realismo perenne e trasparente, in forza della sua profondità e della sua genialità anche nella dottrina del diritto naturale che ha un carattere spiccatamente sociale ed anche, almeno fondamentalmente, storico-esistenziale, e lo riduce a certi principi fondanti e direttori, a certe norme-pilota o schemi dinamici, che non saranno mai in grado di sostituirsi alla complessa trama di un ordinamento giuridico-positivo (pp. 8-9).
L’autore è convinto, e lo prova citando alcuni giuristi come von Jhering e Duguit, che una maggiore conoscenza del pensiero dell’Aquinate avrebbe evitato tante deviazioni nel campo del diritto. Quest’ultimo, infatti, pur non essendo un giurista, si occupò da filosofo e teologo del diritto, con il solo intento
di salvare il carattere morale del diritto e dell’ordine giuridico, problema questo tra i più importanti della filosofia del diritto, e fine al quale dovrebbero tendere tutti i nostri sforzi per la salvezza dell’individuo e della società. […] Ora sappiamo che oggi proprio il problema del fondamento è il problema che travaglia ogni scienza, non escluse la filosofia del diritto e l’etica razionale, perché si è dimenticato che giustificazione e fondamento possono essere dati solo da una sana metafisica. […] Così il diritto naturale, legge naturale e verità sono una identica cosa; e senza verità anche il diritto diventa privo di giustizia e di moralità: anche la verità è infatti legge di giustizia. […] È quindi impossibile dare una risposta soddisfacente al problema della fondazione dei valori giuridici se non si fondano sui valori morali e se entrambi i valori giuridici ed i valori morali, non hanno il loro fondamento ultimo in Dio, la cui Legge divina (la legge eterna) che emana dalla sua sapienza e dal suo amore, non si presenta come una costruzione esterna e dispotica, distruggitrice della nostra libertà, ma come “naturalis conceptio” e “naturalis inclinatio” (legge o diritto naturale) verso il bene che ci è conveniente (pp. 12-13).
Dato il carattere manualistico del testo, l’introduzione si conclude con una opportuna nota esplicativa riguardo il significato proprio di legge e diritto naturale.
La lex naturalis è l’espressione dell’ordine essenziale delle cose, dell’ordine di giustizia secondo il quale ogni essere ha le sue esigenze naturali, i suoi diritti di natura. Inversamente, le esigenze fondamentali della natura umana si esprimono davanti alla ragione naturale sotto forma di giudizi primitivi, che sono la legge di natura. Sappiamo, tuttavia, che in senso stretto il diritto è limitato agli esseri ragionevoli e liberi, nei loro mutui rapporti dovuti e imposti dal vivere sociale. Propriamente parlando tra legge naturale e diritto naturale c’è una differenza come dal genere alla specie. La legge naturale studia e comprende tutto l’agire umano, mentre il diritto naturale, nel senso primo e proprio della parola, non riguarda che le questioni che trattano le relazioni fra gli uomini e concernenti, per conseguenza, la giustizia, i valori sociali. Non si devono confondere da un lato il regno della libertà umana e delle storiche determinazioni. Non tutto ciò che è secondo la legge morale naturale può divenire giuridico (p. 15).
Quanto promesso, e schematicamente accennato nell’introduzione, è quindi puntualmente svolto nelle due parti che compongono il volume. Nella prima, intitolata Diritto e morale, composta di cinque capitoli, viene prima di tutto ripercorsa la storia delle relazioni tra queste due scienze, facendo soprattutto riferimento al pensiero di autori, solo per citare i più noti, quali Platone, Aristotele, Ulpiano, Thomasio, Kant, Fichte, Hegel, Kelsen, continuamente confrontati con il pensiero del Doctor communis. Arrivando alla fine ad affermare che:
se il diritto (ipsa res iusta), che impone il bene da farsi e da rispettarsi negli altri, è qualcosa a cui è unito un dovere, ed il dovere ha sempre un’impronta morale, emerge sempre dalla moralità. La giuridicità porta racchiusa in sé, quasi proprio atto di nascita, l’esigenza morale; implica sempre, per sua natura, razionalità e moralità o eticità, in quanto il giusto, che è l’oggetto del diritto è una parte del bonum, oggetto della morale. Questo nesso originario fra morale e diritto non permetterà mai scissioni oggettive fra l’una e l’altro. La linfa della moralità, assorbita dalle radici stesse dell’organismo giuridico, si diffonderà per legge interna in tutti gli ulteriori naturali sviluppi e nei tecnici rivestimenti della cosa giusta. La morale sarà il cibo di cui si nutre e l’atmosfera in cui respira il diritto, il quale o sarà morale, o non sarà affatto diritto. Tra diritto e morale vi è dunque una necessaria coerenza ed anche una integrazione reciproca, poiché né l’una né l’altra forma sono sufficienti per reggere compiutamente l’umano operare; vi è, cioè, distinzione, ma non separazione né tanto meno contrasto (p. 47).
Cosa che non può essere altrimenti, se prendiamo atto che nell’unità della persona si compongono varie attività autonome (morale, giuridica, politica, economica, religiosa, ecc.), che perseguono oggetti e valori propri che non possono opporsi tra loro.
Andando avanti, nel terzo capitolo, vengono quindi studiati i caratteri differenziali del diritto dalla morale, quali 1’alterità, l’esteriorità, la coattività, evidenziando come la presenza dei primi due è sempre richiesta. Infatti, ciò che è importante nell’agire giuridico è il modo con il quale l’azione dell’agente si accorda con l’altro e non con se stesso. Il diritto vuole “salvare” l’uomo che vive in società, cioè, in altri termini, che sua materia prossima e propria è l’azione umana sociale, per cui l’azione giuridica deve essere manifesta, palese, conoscibile. Allo stesso tempo, viene giustamente notato, sarebbe falso affermare che l’intenzione non ha rilevanza giuridica, cosa del resto pacificamente acquisita da tutti gli ordinamenti giuridici dal diritto civile (come la buona fede nel contratto), al diritto penale (si vedano i previsti gradi d’intenzionalità in caso di omicidio).
Un altro tema importante affrontato nel terzo capitolo, e che merita di essere almeno segnalato, riguarda la possibile prestazione amorale del diritto. Questa non va confusa con l’amoralità del diritto, inteso come mera tecnica, propugnato dalla scuola kantiana, ma rientra nei rapporti tra diritto e morale.
In altre parole, poco importa al diritto che noi adempiamo un obbligo per carità, per spirito di giustizia o per timore del castigo: il diritto non è la morale; si preoccupa soprattutto dell’ordine pubblico che vuole attuato ad ogni costo, e per questo ricorre anche alla forza, alla coazione quando il cittadino non sente il dovere di adempiere un obbligo. Così il diritto, che è legato alla moralità da un inscindibile nesso oggettivo, può avere, nel momento dell’esecuzione, da parte del soggetto, una possibile scissione dalla fonte dell’atto morale, che è l’animo dell’agente. Si può avere quindi una possibile prestazione amorale del diritto (pp. 110).
La prima parte è conclusa da due capitoli sui limiti del diritto positivo, dove si ricorda che la legge umana deve essere sempre onesta, giusta, possibile, anche se può arrivare, per evitare mali peggiori, a permettere mali minori, non perché li approvi, ma semplicemente perché è incapace a regolarli; e sul diritto come parte della morale, che amplia aspetti già precedentemente visti.
La seconda Parte tratta della Lex aeterna fondamento ultimo del diritto e della morale. Nei sei capitoli nella quale è strutturata, l’autore svolge quello che costituisce lo scopo principale del suo studio: provare la ragionevolezza, anzi, più propriamente, la necessità, di ammettere l’esistenza di un Dio creatore a giustificazione e fondamento dell’agire morale e giuridico dell’uomo, introducendo così ad una riflessione teologica. Certo, nell’attuale clima culturale, impregnato di pragmatismo, scientismo e positivismo giuridico, il solo ipotizzare la possibilità di un Essere trascendente responsabile ultimo, capace di far riflettere sulle domande di senso che toccano l’essere e l’agire dell’uomo, appare fuori da ogni umana logica, ed è considerato non politacally correct.
Questa seconda Parte inizia con un capitolo di natura storica che aiuta, prima di tutto, a non confondere il giusnaturalismo teistico da quello ateo. Per quest’ultimo, infatti, il fondamento ultimo del diritto naturale è da individuarsi esclusivamente in una retta ragione che prescinde da Dio. Viene quindi esaminato il pensiero soprattutto di Grozio, con le motivazioni politico-religiose che l’hanno giustificato, al quale è attribuito il “merito” di aver liberato il diritto dalla teologia. Successivamente, nel secondo e terzo capitolo, vengono illustrati i concetti, e le reciproche relazioni, di legge eterna e legge — diritto naturale. Riprendendo il pensiero di Tommaso, viene quindi diffusamente spiegato che la legge eterna non è altro che la somma ragione in Dio di tutte le cose, fondamento del bene e del male, e che la legge eterna è partecipata alla creatura ragionevole attraverso la legge naturale. Anche se quest’ultima necessita oggettivamente l’uomo, ne rimane sempre libera per questi l’attuazione. Vista l’ambiguità, nel contesto, del termine “natura-naturale” 1’autore si preoccupa di chiarirne il suo vero significato. Naturale deve essere inteso in senso etico, e non fisico, finalistico, e non causale, di legittimità, e non come pura spontaneità sociale. Ricordando anche, allo stesso tempo, il legame che deve esserci tra ragione, verità ed essere.
Di qui l’importanza della questione del fondamento, specialmente per la filosofia etico-giuridica, in quanto deve essere assicurata 1’assolutezza delle categorie assiologiche o normative. Perché un atto sia morale occorre che sia conforme ad un principio razionale oggettivo. La ragione non è norma di moralità se non riconosce che al di sopra di essa vi è la verità, cioè qualcosa che la renda vera, ossia tale da trascendere verso l’essere inteso in tutta la sua ampiezza oggettiva, in modo che ciò che è vero in se stesso sia tale anche nell’apprezzamento pratico della coscienza. Ma la verità che proviene dall’essere, e l’essere è “ciò che è”. Quindi i termini che qui usiamo, “intrinseco”, “morale”, “giuridico”, “oggettivo”, “norma” e “assoluto” sono tutti in strettissima dipendenza dall’essere. Di conseguenza, tolto il magistero supremo della verità, che si identifica con l’essere, la norma si relativizza, l’unità si dissolve, l’agire si scatena e diviene fare, la volontà si imbarbarisce e tende al male, la libertà scade nella licenza, la coscienza nasconde l’essere, la persona si riduce a mero individuo, la legge si fa arbitro del più forte, il bene viene asservito all’utile (pp. 310-11).
L’ordine morale-giuridico si realizza proprio grazie al rapporto interno e dinamico tra la verità sul bene della ragione (naturalis conceptio), che si attua nella coscienza, e la tendenza al bene della volontà (naturalis inclinatio), realizzato nell’atto concreto della persona umana. Quindi, le inclinazioni naturali, costitutive della nostra natura razionale, formano la legge naturale, che sarà di base ai diritti dell’uomo radicandoli nella sua natura personale, diritti che saranno perciò sempre universali ed inalienabili. Con la natura umana, esiste un ordine che la ragione umana può scoprire, e secondo la quale la volontà umana deve agire per essere in concordanza con i fini essenziali e necessari dell’essere umano.
Il terzo capitolo si conclude con le risposte alle classiche obiezioni riguardo la conoscenza della legge di diritto naturale e alla loro pretesa di universalità ed immutabilità.
Nel quarto capitolo, vengono presentate le varie dichiarazioni dei diritti dell’uomo nella storia e viene inoltre operato un confronto tra i diritti naturali ed il Decalogo.
Il quinto capitolo è titolato a partire da una frase tratta da I fratelli Karamazov di Dostoevskij: “Se Dio non esistesse, tutto è permesso”. Ai tre principi ideologici del laicismo (razionalismo assoluto; radicale immanentismo; libertà assoluta), viene opposta la visione cristiano-tomista: dato che l’uomo non è creatore di se stesso, il diritto naturale ha il suo fondamento prossimo nella natura umana, ed il fondamento ultimo, ontologico, nella mente di Dio.
Perciò questo diritto può essere chiamato trascendente, se si guarda la fonte ultima donde deriva; obiettivo, se si considera la sorgente prossima, l’ordine creato, la coordinazione e subordinazione degli esseri e dei loro fini; immanente, in quanto consta di principi intrinseci alla stessa natura dell’uomo e della vita sociale; razionale, perché la facoltà che lo detta e lo promulga è la ragione, o meglio la ragione retta, cioè non oscurata dall’ignoranza né turbata da quegli interessi e passioni che, come ben dice Pascal, sogliono cambiare anche la faccia della giustizia (p. 449).
L’attuale crisi nichilistica, che ha privato di senso l’etica ed il diritto, può essere validamente contrastata ricordando che non basta a spiegare l’imperativo della coscienza il solo riferimento psicologico, ma occorre andare alla metafisica. Solo lì l’uomo troverà il senso del proprio essere ed agire; senza il riferimento a Dio, causa prima e supremo legislatore, non sarà possibile una solida fondazione dell’etica e del diritto.
Nel sesto e conclusivo capitolo della seconda parte l’autore. l’affronta il tema della dignità della persona umana, che in quanto tale non può mai essere considerata un mezzo, uno strumento, una “parte”, ma è sempre fine di un “tutto”. Infatti, la persona non può mai essere considerata parte in relazione al tutto che è la società: la persona è sempre da considerarsi un tutto. Essa è parte dello Stato solo per alcune relazioni a carattere sociale, che interessano la vita comune e il bene comune della società stessa, ma non così per molte altre che sono, alla fine, le più distintive dell’essere umano, come per esempio l’amore, l’educazione della prole, la religione, ecc. Questo significa che solo alla luce del principio di finalità scopriremo la natura morale delle azioni umane. Ed è in forza di questa filosofia sociale, che porta il nome di diritto naturale, che è possibile indicare e stabilire i limiti del potere dello Stato.
La prima e fondamentale limitazione ai poteri dello Stato e ai poteri del diritto statuale è perciò la dignità della persona, in quanto l’uomo stesso è fine di tutto ed appartiene a se stesso: “est ens sibi”, è un “centro di valori”, che esigono riconoscimento. Ed ogni individuo umano è dunque persona, fin dal concepimento, perché reca in sé l’elemento divino. Di conseguenza la politica, oltre ad essere “scientifica”, secondo la tesi tutto “moralità”, perché lo stesso principio che costituisce la morale virtù, è altresì quello che costituisce in generale la società: "il fine ultimo e primario della società civile, […] è l’appagamento morale dell’animo umano (p. 542).
Tutto quanto visto è alla base del pensiero di Tommaso e da questo bisogna ripartire, secondo 1’autore, per arrivare a una morale e a un diritto per l’uomo, insopprimibile esigenza di ogni spirito onesto che desidera conseguire, usando in modo proprio tutte le sue potenzialità ed i mezzi che sono a sua disposizione, la verità.
Come emerge dalla presentazione fatta, lo studio di Pizzorni va “contro corrente”. Oltre a non allinearsi, in campo morale e giuridico, con la cultura dominante, al tempo stesso si pone come sfida verso una certa mentalità relativista.