Recensione ad Antonio Rinaldis, Paesaggi del sacro in Albert Camus

Antonio Rinaldis, Paesaggi del sacro in Albert Camus. Oltre l’immanenza tragica e la trascendenza muta, Aracne, Roma 2013.

La monografia di Antonio Rinaldis è un lavoro serio e di alto valore scientifico, che si differenzia dai precedenti per due aspetti principali: la completezza e il taglio interpretativo genuinamente filosofico-ermeneutico. Nelle 250 pagine del saggio vero e proprio, infatti, Rinaldis analizza e discute l’intera opera camusiana con grande attenzione alla letteratura secondaria, al contrario di altri lavori precedenti, francamente troppo sbrigativi e poco scientifici.1 Il lavoro di Rinaldis, dieci anni dopo la pubblicazione del lavoro di Aniello Montano Camus — Un mistico senza Dio, riprende la controversa questione del rapporto tra Camus e il Sacro — con la maiuscola, come scriverebbe l’autore. A dir la verità, per quanto i due lavori possano sembrare a prima vista analoghi, nei contenuti e nel metodo essi differiscono abbondantemente: mentre Montano con un’accurata e fedele opera di ricostruzione storico-filosofica rilegge e interpreta le varie opere camusiane rispettandone sia il contenuto che il lessico, Rinaldis sembra invece distorcere l’uno e l’altro nella misura in cui li sottomette entrambi alla sua propria interpretazione e alla sua forte volontà ermeneutica. Ciò che più colpisce il lettore è, in effetti, l’impostazione letteralmente «plotiniana» dello scrivere e dell’argomentare di Rinaldis — simile nella sostanza all’approccio di Armando Rigobello.2 Del resto, come l’autore stesso sottolinea nell’introduzione,

lo scopo iniziale del lavoro era quello di mostrare il legame che correva fra i principali momenti della riflessione camusiana, Assurdo, Rivolta e Amore e una matrice originaria, un orientamento di pensiero che traeva da Plotino e dal Neoplatonismo le sue fonti principali di ispirazione.

Addirittura l’ipotesi di lavoro iniziale era «l’applicazione di uno schema tipico del neoplatonismo, il nesso fra Caduta, prodòon e Ritorno, épistrophé, all’intero arco del pensiero di Camus».3 Ebbene, se è vero che l’autore stesso riconosce l’impossibilità di una simile rilettura plotiniana, poiché «la periodizzazione delle opere di Camus come dispiegamento del destino dell’anima non corrispondeva allo schema plotiniano», è altrettanto vero che nella sostanza la volontà dell’autore di perseguire l’ipotesi di lavoro iniziale permane ben visibile, quanto meno in filigrana. Non che ciò costituisca un difetto: semplicemente il lettore dovrà sempre aver ben presente che il lavoro in questione non è una ricostruzione storico-filosofico per così dire neutra ed oggettiva, bensì un lavoro propriamente ermeneutico in cui l’opera di Camus è fin dall’inizio interpretata alla luce del lessico e dei concetti di Plotino — e, in misura certamente minore, dell’esistenzialismo contemporaneo (Heidegger, Sarte). Non a caso il lessico utilizzato da Rinaldis non è camusiano, o almeno non fedelmente: termini come Soggettività, Io, Caduta e Ritorno, Chiamante e Chiamata, Parte e Intero, Mistero, Essere, Nulla, Divenire, Forma, Anamnesi, etc. (tutti con la maiuscola, peraltro) non appartengono certamente al registro camusiano.

Ad ogni modo, il lavoro è magistralmente strutturato in quattro capitoli, ai quali vanno aggiunti l’importante introduzione dell’autore, la prefazione del professor Gianluca Cuozzo e il fondamentale capitolo conclusivo, Immanenza tragica e/o trascendenza muta? , nel quale è riassunta e condensata la tesi interpretativa dell’autore. Da sottolineare come ogni capitolo rispetti una strutturazione interna ben definita: ad ogni paragrafo per così dire «interpretativo» ne corrispondono sempre due (I temi, I personaggi) in cui la medesima interpretazione è declinata nei vari testi camusiani. Tale volontà di rimanere fedele al testo è sicuramente un valore aggiunto del lavoro. Fatte queste premesse, possiamo ripercorrere brevemente il percorso argomentativo di Rinaldis.

Nel primo capitolo, La situazione, l’autore delinea appunto la situazione originaria dell’uomo camusiano: partendo da un’interessante espressione di Bonaventura da Bagnoregio (Secundum statum viae) e confrontandosi con il concetto sartiano di Etre en situation e la nota Geworfenheit heideggeriana (pp. 23-26), Rinaldis definisce l’uomo assurdo come colui il quale, rifiutata nettamente qualsiasi consolazione religiosa e fideistica, non ha purtuttavia perso una certa nostalgia tragica di Assoluto, il «ricordo struggente» di una «pro-venienza» che in Camus non è definita né spazialmente né temporalmente. Eppure il ricorso al concetto platonico-plotiniano di Anamnesi (pp. 43-49) per spiegare l’origine di questa nostalgia di Assoluto, oltre a confermare quanto detto in precedenza riguardo all’impostazione plotiniana del lavoro, sembra voler declinare l’assurdo in una dimensione temporale e metafisica che invece altri autori esplicitamente negavano, come Roger Quilliot ad esempio.4 Oltre ciò, da sottolineare nel capitolo in questione (pp. 29-31) il notevole confronto teoretico tra Kant e Camus, a mio parere tanto fondamentale quanto ancora troppo poco inesplorato dagli studiosi camusiani.

Il secondo capitolo, Epifanie e Teofanie del Sacro, come da titolo analizza le manifestazioni/rivelazioni del Sacro nell’opera di Camus. Si tratta effettivamente del capitolo più denso e difficile dell’intero lavoro — e per certi aspetti anche del più controverso. Secondo Rinaldis nell’opera di Camus il Sacro, inteso come «elemento eccedente e trascendente la realtà fenomenica», ha essenzialmente due volti complementari e dialettici: il Dionisiaco — «la potenza vitale della Physis» — e l’Apollineo — «la complessità plastica dell’arte». Da un punto di vista filologico è possibile formulare subito una piccola ma fondamentale obiezione: Dionisiaco e Apollineo sono e restano concetti propriamente nietzschiani che effettivamente affascinarono il diciannovenne Camus dell’Essai sur la musique, salvo poi finire nel dimenticatoio negli scritti successivi;5 quindi leggere in maniera strutturale l’opera camusiana alla luce di questi due concetti potrebbe risultare una forzatura. Si guardi, ad esempio, cosa accade nel momento in cui si interpreta la Peste come «irruzione del sacro devastatore» e come «Dionisiaco distruttore e pedagogico» (pp. 108-112) — interpretazione di cui riportiamo per esteso il seguente estratto:

La Peste è l’Evento, la manifestazione immanente che esplicita la Trascendenza; si potrebbe azzardare che sia il Linguaggio dell’Essere, la sua apertura al mondo, nella modalità del flagello che risveglia le coscienze dal loro torpore immanente. La Peste è Evento Sacro, perché illumina il mondo terreno con la luce accecante del mondo celeste, ed è dappertutto: si ritrova nell’aria, nel vento che la porta, nella calura dell’estate, nei cuori degli uomini e nei regolamenti che l’autorità ha emanato per fronteggiarla. Per il carattere Sacro dell’Evento la cronaca della Peste diventa Mito, discorso inesauribile sul senso della vita e dell’universo, che non comincia e non finisce mai.

Si tratta in effetti di una lettura originale, argomentata e sostenuta anche grazie all’apporto delle categorie del Sacro del teologo Rudolf Otto (pp.  110-113), in particolare della cosiddetta categoria del Numinoso. D’altra parte, Rinaldis è ben consapevole delle possibili interpretazioni allegoriche della Peste, interpretazioni che Camus stesso esplicitamente avallò.6 Nella sua ottica, però, queste interpretazioni peccano di eccessivo «realismo», non cogliendo la portata «trascendente» della Peste, la quale «sfugge alla rappresentazione che se ne dà e quindi non è suscettibile di essere allegorizzata». In ultima analisi, se nel primo capitolo l’autore aveva analizzato quella tensione (désir-appel) del «Soggetto che si apre alla Trascendenza», nel secondo capitolo, attraverso la tematizzazione del Dionisiaco, egli analizza invece il cammino opposto, quello della «Trascendenza che si fa immanente con la forza strepitosa di una vita insostenibile o di una morta pedagogica». In quest’ottica, l’Apollineo si definisce come quella forma d’arte che, di fronte alla tragica manifestazione di una simile trascendenza dionisiaca, è capace di «rendere manifesto il vuoto della realtà, senza poterlo colmare», «accettazione di un mondo che non si può fuggire».

Nel terzo capitolo, La città terrena — Declino del sacro, Rinaldis affronta la delicata transizione dall’assurdo alla rivolta, inteso come «passaggio dal désir al désiderable» nel quale «l’Immanenza prevale sulla Trascendenza». L’autore sottolinea più volte come nonostante tutto sia la medesima nostalgia di Assoluto propria dell’uomo assurdo a motivare l’apertura dell’uomo in rivolta. Il cambiamento è allora nella diversa configurazione della suddetta nostalgia, la quale non mira più a un senso onnicomprensivo e trascendente, bensì ad un progressivo e concreto cambiamento delle condizioni immanenti, alla costruzione della «città terrena». Il capitolo è sostanzialmente una fedele rilettura de L’uomo in rivolta: il paragrafo iniziale, L’assalto al cielo, analizza il capitolo su La rivolta metafisica, così come il paragrafo successivo, Il carcere della storia, analizza a sua volta il capitolo su La rivolta storica. Su tutti spicca il paragrafo finale, L’utopia ritrovata, nel quale Rinaldis discute e ricostruisce con precisione la proposta camusiana che va sotto il nome di Pensiero meridiano — in francese La Pensée de midi — definito dall’autore come

proposta di un nuovo modello antropologico, che ritrova la Bellezza del Mondo grazie al riconoscimento della propria appartenenza a una Physis che non è soltanto punto di partenza, ma anche punto di arrivo, Itaca è la patria perduta e ritrovata, ma anche il simbolo della frugalità del pensiero che ha ritrovato il calore degli affetti.

Il quarto e ultimo capitolo prima delle conclusioni, Il cielo del ritorno, analizza il rapporto di Camus con il Cristianesimo. Si tratta molto probabilmente del capitolo più interessante del lavoro, poiché riapre la questione sempre aperta dell’ateismo di Camus — un ateismo esplicitamente rifiutato in interviste e note dei Carnets, ma sul quale siamo ben lontani dal poter dire l’ultima parola, poiché, come ricorda l’autore, in certe zone grigie e indecifrabili «la fedeltà filologica si fa più problematica e il lavoro di ricostruzione può trasformarsi in attività interpretativa». A tal riguardo, alcune espressioni nel testo potrebbero risultare problematiche, o quanto meno ambigue: dire, ad esempio, che «Camus non si è mai convertito al Cristianesimo» o che, ancora, «Camus non riesce a dirsi cristiano» sembrerebbe lasciare intendere che Camus stesso sia stato tentato di convertirsi almeno una volta nella vita al Cristianesimo, cosa che invece non è mai accaduta, stando alla mastodontica biografia di Olivier Todd e agli stessi Carnets7. In ogni caso, se è vero che Camus rigetta in toto il Cristianesimo sul piano teoretico, è altrettanto vero che ricerca con esso un dialogo autentico a livello pratico, come testimonia la ben nota conferenza tenuta nel convento domenicano di La Tour-Maubourg.

Veniamo all’ultimo capitolo, Immanenza tragica e/o trascendenza muta? , nel quale l’autore ridefinisce la sua tesi alla luce dell’intero lavoro. Alla domanda «dove collocare il Sacro in Camus?» l’autore risponde come segue:

Azzardiamo l’ipotesi che il Sacro sia nella de — stituzione di ogni luogo, sia il punto mobile che si trova nella non coincidenza fra Immanenza e Trascendenza. Se Sacro vuol dire puro, incontaminato, la sua purezza consiste nella sua eccentricità, che lo rende straniero sia al dinamismo orizzontale dell’Immanenza, sia alla tensione orizzontale [sic! ] del Trascendente. In ogni caso il Sacro è eccessivo, estremo, ma, soprattutto, capace di dissolvere e polverizzare ogni forma determinata, sia individuale, sia sociale.

E ancora — riportiamo per completezza l’intero passo, così da rendere anche l’idea del procedere e dell’argomentare di Rinaldis:

Nel suo lato soggettivo il Sacro è il désir — appel, che pervade l’Io e lo getta nella condizione assurda. Désir di assoluto, oppure Begierde hegeliana, come desiderio di ritrovare quella co — appartenenza pre — sentita, pre — vista di soggetto e oggetto, Parte e Intero. Il désir introduce nell’Io un dinamismo lacerante, che mette in crisi la semplice situazionalità storica, l’essere situato inteso come configurazione spazio — temporale della Soggettività e la soppianta con la pro — venienza, che si manifesta come appel, domanda che ha simultaneamente valore di Richiesta di significato che viene indirizzata al mondo reale, nel quale l’Io si sente de — situato e risposta a una Chiamata che pro — viene da un mondo Altro e che esercita un fascino irresistibile. In questo modo, il désir — appel appare come la funzione destabilizzante che investe l’Io e lo dis — loca su un piano che non è quello della semplice presenza, dell’effettualità. Nell’appel, che è l’intreccio fra Chiamante e Chiamata, il désir si fa azione del ri — chiedere come risposta a un essere — chiamato, e però ri — torna continuamente sul chiedere, a causa della Chiamata. Il circolo del désir è vertiginoso, dal momento che unisce nello stesso movimento la traiettoria di un’uscita da sé che incontra un’Alterità indecifrabile che lo ha mosso, ma solo nella modalità della Chiamata. Il vero nodo problematico di Camus è che questa Chiamata, alla quale fa eco il Chiamare del désir, che è contemporaneità di chiamante e chiamato, è muta, ovvero, manca di un Logos redentivo e salvifico.

In ultima analisi il lavoro di Rinaldis eccelle per almeno tre motivi, come già preannunciato nell’introduzione: la completezza filologica (in effetti nessun lavoro di Camus viene lasciato a margine); il continuo confronto critico con la letteratura secondaria (da una parte le interpretazioni affini, dall’altra quelle avverse, riportate entrambe con grande precisione storiografica); l’interpretazione ardita e originale, elaborata con lodevole sistematicità e con un’interessante approccio ermeneutico. Riteniamo dunque che un simile lavoro possa essere un grande stimolo per l’introduzione dell’opera di Camus all’interno del dibattito filosofico italiano, specialmente in quello accademico-universitario, nel quale Camus non ha mai trovato lo spazio che invece meriterebbe.


  1. Ad esempio quello di Paolo Flores D’Arcais, Albert Camus filosofo del futuro, Codice, Torino, 2010, 60 p. (solo 35 sono di D’Arcais, le restanti 23 sono atti di una tavola rotonda del 2002 su Camus). ↩︎

  2. Cfr. Armando Rigobello, Albert Camus tra la misera e il sole, Il tripode, Napoli, 1976. ↩︎

  3. «L’Assurdo sarebbe stato l’equivalente della Caduta, e quindi sarebbe apparso come straniamento, spaesamento dell’anima prigioniera in un corpo—mondo, che si manifesta indifferente e ostile. Le fasi successive della Rivolta e dell’Amore avrebbero dovuto esplicitare il risveglio della Coscienza nel suo desiderio di ricongiungimento estatico con l’Uno». ↩︎

  4. Ivi, p. 45: «La domanda di Senso che l’Io rivolge al Mondo sarebbe del tutto impossibile se non provenisse da un’Anamnesi. Il tempo dell’assurdo non può essere semplicemente il presente». ↩︎

  5. Del resto, la stessa lettura che Rinaldis dà dell’interpretazione camusiana di Nietzsche è alquanto discutibile: affermare, ad esempio, che la figura di Sisifo sia espressione dell’Amor fati nietzschiano è semplicemente un errore. Come possiamo pensare che Sisifo «ami» il suo fato/destino quando ne Il mito di Sisifo si legge chiaramente che «se vi è un destino personale, non esiste un fato superiore o, almeno, ve n’è soltanto uno, che l’uomo giudica fatale e disprezzabile»? ↩︎

  6. Albert Camus, Lettre à Roland Barthes, in Œuvres complètes, Gallimard, 2008, II tomo, pp. 285-287.« La Peste, dont j’ai voulu qu’elle se lise sur plusieurs portées, a cependant comme contenu évident la lutte de la résistance européenne contre le nazisme. La preuve en est que cet ennemi qui n’est pas nommé, tout le monde l’a reconnu, et dans tous les pays d’Europe. […] La Peste, dans un sens, est plus qu’une chronique de la résistance. Mais assurément, elle n’est pas moins». ↩︎

  7. Ad onor del vero, esiste un libro di Howard Mumma (Albert Camus and the Minister, Paraclet Press, 2000) nel quale l’autore (pastore metodista della Chiesa Americana di Parigi) sostiene che Camus avrebbe invece espresso la volontà di battezzarsi, poco prima del tragico incidente del 4 gennaio 1960. Il libro è palesemente falso, come si può facilmente capire leggendo il tono e i contenuti delle risposte di Camus. Molto probabilmente è stato scritto sia per ragioni apologetiche che editoriali. È mia intenzione scrivere, in un futuro prossimo e in un’altra sede, un articolo critico su di esso. ↩︎