Luisa Avitabile, Fenomenologia della legge in Albert Camus, Aracne, Roma 2013.
Il volume di Luisa Avitabile, attualmente professoressa ordinaria di Filosofia del Diritto all’Università degli studi di Cassino e del Lazio meridionale, è un saggio denso e particolareggiato, il quale affronta un tema specialistico da una prospettiva inedita per gli studi camusiani, quella della filosofia del diritto. Lungo tutto il testo (93 pagine) l’autrice analizza nello specifico e con grande meticolosità le opere «che più di altre si caratterizzano per il loro rinvio ad una discussione sull’ingiustizia come forma di terrore legalizzato e di costrizione» (7). In particolare, grande attenzione è data a opere quali Lo Straniero, I Giusti, La morte felice, La peste, Lo stato d’assedio, Caligola e L’uomo in Rivolta — come si vede sono davvero poche le opere di Camus non trattate dall’autrice. Prima di addentrarci nello specifico del testo, riteniamo opportuno formulare in via preliminare due critiche formali e metodologiche.
Per prima cosa, è necessario constatare l’andamento a tratti rapsodico del volume: nell’insieme il percorso argomentativo dell’autrice risulta poco chiaro, sia per l’assenza di una benché minima paragrafazione alla quale fare riferimento, sia per l’assenza di una chiara ed esplicita formulazione della tesi interpretativa.
Secondariamente, il testo, oltre ad essere privo di una bibliografia finale, è altrettanto privo di un vero e proprio confronto con la letteratura secondaria camusiana: gli unici due testi citati — G. Stuby, Recht und Solidarität im Denken von Albert Camus e K. Kreiner, Exil und Reich als Grundpole im Denken Albert Camus und Ernst Blochs — non vengono minimamente discussi, così come del resto gli altri (rari) riferimenti bibliografici di filosofia del diritto.
Ciononostante il volume resta un importante contributo agli studi camusiani italiani, nella misura in cui analizza e approfondisce l’intricato rapporto tra diritto, legalità e terrore da un punto di vista teoretico di notevole spessore.
Il testo è diviso in tre capitoli: nelle Linee introduttive, dopo una breve contestualizzazione dell’opera di Camus, l’autrice pone le premesse per la successiva discussione dell’argomento. Per prima cosa viene analizzato la definizione camusiana di giustizia:
In un articolo sul giornale Combat [Camus] definisce la giustizia una «situazione sociale» in cui ad ogni individuo debba essere assicurata ab origine il massimo delle possibilità, di modo che la maggioranza di un paese non sia tenuta in condizioni indegne da una minoranza oligarchica privilegiata. La libertà è quell’atmosfera di rispetto per la persona umana nel suo essere e nelle sue espressioni. (20)
Subito dopo viene invece messo in risalto il rapporto tra diritto e legalità: mentre il primo «è connesso direttamente alla persona e all’esistenza umane», il secondo può invece svincolarsi da esso, divenendo pura formalità e, conseguentemente, «strumento di sopraffazione» (20). Non a caso l’autrice cita a tal riguardo sia Lo stato d’assedio, testo teatrale nel quale il suddetto rapporto tra diritto e legalità è rappresentato alla perfezione in tutta la sua complessità, sia Caligola, opera definita dall’autrice come «fenomenologia del totalitarismo tedesco» (28) e «metafora della Germania del 1933» (24). Interessante l’equivalenza tra assurdo e ingiustizia proprio in quest’ultima opera, poiché «una volta ammesso l’assurdo come verità, è evidente che qualunque delitto è possibile, anzi indifferente» (25). Difatti Caligola
dopo la scoperta dell’assurdo instaura […] un regime militare dove la legge non rinvia più al concetto di diritto; ma si confonde con il delitto; una legalità ingiusta che trasforma qualunque dimensione giuridica in una «intesa coercitiva». La scoperta dell’assurdo coincide con il «terrore irrazionale» capace di trasformare gli uomini, diretto alla distruzione della persona, delle sue possibilità universali, del pensiero, della solidarietà. (25)
Nel capitolo centrale del volume, Legalità e terrore, l’autrice analizza nello specifico il nesso «totalità-violenza dei regimi totalitari» (45), nonché la ben nota dicotomia camusiana rivolta-rivoluzione. In particolare viene messo in risalto il passaggio storico-politico da una violenza contingente, concepita come mezzo di difesa eccezionale, ad una di tipo sistematico e legalizzato, parte integrante dei sistemi totalitari. Punti di riferimento sono, a tal riguardo, il nazionalsocialismo tedesco e la rivoluzione russa — quest’ultima, ad esempio, «esige, per il suo mantenimento, la determinazione di uno stato terroristico determinato dalla violenza e progettato per legalizzarla» (47). Le opere di Camus trattate nel capitolo sono principalmente gli articoli di Actuelles e La peste, oltre naturalmente all’imprescindibile L’Uomo in rivolta. Attraverso la rilettura di queste opere l’autrice riesce a mettere in risalto due punti a nostro parere fondamentali: da una parte, la definizione della democrazia come unica forma di governo che, a differenza delle altre, sottende un «valore per l’uomo», in quanto «progetto dialogico di regolazione della vita in comune in cui la legalità è espressione dei termini giustizia e libertà» (49); dall’altra, la definizione camusiana di giustizia come realizzazione di una «legalità vincolata alla dignità della persona». Si legga a tal proposito il seguente passaggio:
Camus rifiuta qualunque impostazione dogmatica o divina della normatività, ritiene che la sua istituzione dipenda solo dalla possibil (ità) dell’uomo di esistere con gli altri in un moto di solidarietà; la norma non è legata alla politica del contingente e dunque la democrazia non può che essere l’affermazione qualitativa dell’ordinamento giuridico, con attenzione alla libertà espressa attraverso la giustizia. Rifiuto del totalitarismo significa traduzione di una linea di riconoscimento dell’uomo nella sua integrità, come portatore di diritti universali ed incondizionati. Il vero diritto è quello che ha una genesi nella base, perché essa suppone il giusto non in senso assoluto, ma vincolato alla formazione dell’uomo nell’espressione della sua dignità, senza ipotesi di indottrinamento borghese, libertario o capitalistico. (50)
Nell’ultimo capitolo, Conclusioni, l’autrice tira le somme del suo lavoro, continuando la sua serrata rilettura delle opere camusiane più significative: da La morte felice e Lo straniero1 fino a I giusti, l’autrice analizza uno dopo l’altro le varie polarità concettuali camusiane — ordine-giustizia, violenza-giustizia, ingiustizia-felicità, etc. Riguardo la prima riportiamo il seguente passaggio:
Non esiste ordine senza equilibrio e accordo. E l’accordo deve stabilirsi in nome di un principio superiore che è la giustizia: non esiste ordine senza giustizia, è questo il concetto, secondo Camus, per aprire il discorso su una tematica in cui l’oggetto rimane la giustizia universale. Si può pervenire ad una giustizia priva di accordo, essa nascerebbe sotto l’egida della violenza, ma non rientra nelle possibilità concrete, poiché urterebbe con l’infelicità: non c’è ordine senza giustizia, e l’ordine ideale dei popoli sta nella loro felicità: è questo tentativo a cui tutta l’opera dello scrittore francese tende. Di conseguenza, non si può invocare la necessità dell’ordine per compiere imposizioni violente di volontà, in effetti non si tratta di esigere l’ordine per ben governare, ma occorre governare bene per realizzare l’unico ordine che abbia senso. (77)
In sostanza, crediamo di poter ragionevolmente riassumere la tesi del lavoro come segue: il diritto, espressione delle «esigenze esistenziali dell’uomo», ha un carattere universale e a-storico, mentre la legalità, intesa come formulazione di leggi all’interno di un determinato stato e in un determinato momento storico, è tutt’al contrario particolare e contingente; in quest’ottica, realizzare la giustizia significherà allora costituire un sistema politico, sociale e giuridico nel quale la legalità resti saldamente ancorata al diritto; viceversa, l’ingiustizia (o terrore, secondo il lessico dell’autrice) sarà proprio l’attuazione formale e sistematica di leggi totalmente scollegate dal diritto attraverso mezzi coercitivi e violenti, ora in nome di un progetto politico-umanitario-utopico (la società senza classi, il terzo Reich, etc.), ora in nome di una qualsivoglia folle mania di potere (Caligola, Nada, etc.). Le parole dell’autrice sono chiarificatrici a riguardo:
l’applicazione formale della legge è fatta secondo giustizia nel momento in cui accetta l’uomo come soggetto esistente. Diritto e legge non sono legati da un rapporto di identità, fra loro vi è una profonda differenza, come abbiamo avuto modo di vedere; il diritto è visto come esistenza reale, la legge come impalcatura per l’attuazione di esistenza reale dell’individuo; tra i due è possibile un’unità che viene a rompersi quando da una parte il diritto formula il contenuto della legge nel divenire storico e dall’altra l’astrazione della legge in un contesto che trascende la storia. (98)
In definitiva il volume di Luisa Avitabile non può che essere considerato un importante ampliamento dell’orizzonte degli studi camusiani italiani verso una tematica finora praticamente inesplorata, ma che, come ha ben mostrato l’autrice, è degna della massima attenzione.
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L’autrice commette un piccolo errore filologico nel momento in cui, nel differenziare il protagonista de La morte felice da quello de Lo straniero, parla di «omonimia del personaggio delle vicende» (70): in effetti, il primo si chiama Mersault, mentre il secondo Meursault. Una semplice ma significativa aggiunta di una «u» che cambia di molto la pronuncia del nome: se il primo rimanda fonicamente al mare (la mer), il secondo rimanda invece all’omicidio (le meurtre). ↩︎