1. Introduzione: chi è il filosofo?
Colui il quale, come me, volesse trattare della cosiddetta «filosofia di Albert Camus» dovrebbe in prima istanza, a fini metodologici, sgomberare il campo d’argomentazione da alcuni equivoci non risolti e da pregiudizi non immediatamente eliminabili. Infatti, lo storico della filosofia più attento e scrupoloso, specialmente se italiano, tradurrebbe irriflessivamente l’espressione «la filosofia di Albert Camus» in «gli aspetti filosofici dell’opera letteraria di Albert Camus»,1 poiché egli considera implicitamente il suddetto un romanziere o, più generalmente, un artista, uno scrittore.2 In ogni caso, mai un filosofo. Lo scopo di questo lavoro sarà appunto proporre un cambiamento radicale di prospettiva sull’opera di Camus, mostrando come e perché sia più adeguato concepirla come una «filosofia espressa in immagini»3 piuttosto che un’«opera artistica dai risvolti filosofici».
Sottolineerei sin da ora come la posta in gioco di un simile eventuale riconoscimento non sia la mera vanagloriosa installazione della figura di Albert Camus all’interno di un più o meno immaginario Pantheon filosofico,4 né tanto meno l’ingenua equiparazione della suddetta figura a quella dei campioni della filosofia occidentale, tipo Aristotele o Kant,5 poiché se le figure di questi ultimi stabiliscono lo standard del «filosofo», allora Camus non lo è assolutamente.
La rilevanza del problema è, in filigrana, la seguente: comprendere oggi le ragioni per definire Camus un filosofo significa mettere apertamente in discussione la visione tradizionale della filosofia, in un’epoca in cui il filosofo stesso ha smarrito la coscienza del proprio ruolo.6
In effetti, una delle questioni più imbarazzanti per un filosofo è proprio la risposta all’apparentemente ingenua domanda: «chi è e che cosa fa il filosofo?».7 Non esistendo, per fortuna, un «albo dei filosofi», il quale forse renderebbe tutto più facile ma ucciderebbe una volta per tutte quel minimo di autenticità che il filosofo segretamente porta sempre con sé, la risposta ad un simile domanda resta complessa e ancora tutta da elaborare.
Proviamo a ragionare insieme. Ponendo ipoteticamente questa domanda ad un professore universitario di filosofia, la sua risposta sarebbe molto probabilmente la seguente: il filosofo è colui il quale conosce a fondo la storia della filosofia, le idee principali e il loro intersecarsi e dividersi lungo il corso dei millenni; è colui che conosce i testi dei suoi autori di riferimento così bene da poterli citare a memoria e in lingua originale, magari ricordando anche le note dell’autore e le variazioni tra le diverse edizioni del testo. Insomma, per il professore universitario il filosofo è l’erudito e lo specialista della storia della filosofia — nome al di sotto del quale si confondono à la fois filosofo, storico della filosofia e professore di filosofia.8
Il luogo comune sembra confermare e ampliare questa definizione: l’uomo medio vede infatti nel filosofo una persona non solo erudita e specializzata, ma anche distratta, inetta, persa nei meandri di problemi teoretico-metafisici senza alcuna implicazione pratica; il filosofo è, in quest’ottica, colui che «parla a vuoto»; la filosofia, «ciò con la quale o senza la quale nulla cambia». Come non ricordare l’aneddoto platonico del Teeteto nel quale Talete, intento ad osservare le stelle e a filosofare, non si accorse di dove stesse camminando, cadendo in un pozzo? Emblematico a tal proposito il rimprovero della serva tracia che aiutò lo stesso Talete ad uscire dal pozzo: «ti preoccupi tanto di conoscere le cose che stanno in cielo ma non vedi quelle che ti stanno davanti, tra i piedi».^[9]
Al contrario, per un ipotetico cultore della filosofia extra-universitaria e non erudita, magari giovane, solitario e ribelle, il filosofo è invece colui che romanticamente pensa da sé, ignorando o negando volontariamente la tradizione precedente e cercando idee forti ed originali che, se seguite alla lettera, rendano la sua vita una sorta di opera d’arte. Per un simile personaggio, non del tutto immaginario del resto, il «vero» filosofo è, in opposizione all’erudito, l’eccentrico della storia della filosofia.
Vi è poi, infine, un’improbabile ma pur sempre possibile definizione secondo la quale ogni uomo può essere considerato un filosofo. Di per sé tale definizione è pressoché inutile e irrilevante, poiché non stabilisce alcun reale criterio di distinzione. Gli stessi argomenti formulati a favore di questa prospettiva sono, in ogni caso, alquanto deboli: l’impossibilità di esimersi dal filosofare, anche qualora si volesse negare la filosofia stessa, descritta da Aristotele nel Protreptico;9 l’affermazione di Popper secondo la quale tutti possono considerarsi filosofi nella misura in cui ogni uomo, anche il più rude e illetterato fra essi, ha necessariamente una propria visione della vita e della morte, etc.10
Già soltanto confrontando queste tre prime ipotetiche definizioni si può constatare l’insuperabile complessità del problema: le tre visioni sono infatti inconciliabili, sicché o si considera valida la prima — e allora il filosofo è colui che fa ricerca in ambito accademico, scrivendo saggi, monografie, etc. — o la seconda — il filosofo è invece lo spirito libero e ribelle, spesso solitario e in ogni caso mai adattato ai canoni istituzionali del pensiero accademico — oppure addirittura la terza — tutti sono filosofi quindi nessuno è filosofo. Da questo semplice esempio è possibile ricavare un dato essenziale: esistendo molteplici concezioni del filosofo, si può definire tale una persona soltanto facendo prevalere una concezione sulle altre — lasciando, dunque, irrisolto il conflitto tra le diverse visioni che è alla base della polemica.
Ad ogni modo, per la problematica che ci riguarda è Camus stesso ad indicarci la via da percorrere, in maniera alquanto esplicita. Non occorrerà dunque perdersi nella tortuosità di un ragionamento meta-filosofico — a nostro parere irrealizzabile — volto a stabilire la reale identità del filosofo: basterà qui sistematizzare con metodo filologico quanto Camus ha detto riguardo tale figura nella sua opera, nelle sue interviste e nei suoi appunti auto-biografici.11
2. La critica della filosofia contemporanea
In questo capitolo verrà analizzata la critica camusiana alle filosofie e ai filosofi contemporanei, in maniera tale da intravedere, per via apofatica, una prima silhouette del filosofo che Camus si sforzava di essere. I punti di critica sono essenzialmente quattro, elencabili come segue:
- «Feticismo storico» e abuso del principio di autorità;
- Linguaggio criptico e auto-referenzialità;
- Irrilevanza dei problemi filosofici trattati;
- «Volontà di sistema» e «impazienza ontologica».
Da notare sin da ora come ognuno di questi punti di critica sia perlopiù formale: Camus critica prima di tutto il metodo dei filosofi contemporanei e solo successivamente i contenuti che da esso scaturiscono, proprio perché il più delle volte il primo costituisce un vero e proprio ostacolo alla comprensione e ricezione dei secondi. Procediamo dunque con ordine, analizzando nello specifico ogni singolo punto.
2.1. «Feticismo storico» e abuso del principio di autorità
Se il filosofo è colui che pone domande, cerca risposte e crea concetti, lo storico della filosofia è invece colui che analizza quelle stesse domande, risposte e concetti elaborati dal filosofo. Il lavoro dello storico della filosofia è, dunque, di raccogliere e chiarire sotto un unico sguardo storiografico ciò che i filosofi del passato hanno detto, aiutando il lettore di una certa opera filosofica a capire i passaggi più ostici, i significati nascosti, gli errori meno manifesti. In sostanza, il compito dello storico della filosofia è quello di fornire una sorta di introduzione alla filosofia e una propedeutica al filosofare. Di per sé, il suo è un lavoro preparatorio nobile e necessario. Eppure che cosa succede nel momento in cui la sua figura, per quanto fondamentale, sostituisce totalmente quella centrale del filosofo? Proprio in questa sostituzione di ruoli si consuma secondo Camus il cosiddetto feticismo storico della filosofia contemporanea.12 In una nota dei suoi Carnets datata marzo 1943 egli pone in questi termini il problema:
Gli antichi filosofi (necessariamente) riflettevano assai più di quanto leggessero. Per questo restavano così vicini al concreto. L’invenzione della stampa ha cambiato le cose. Si legge più di quanto non si rifletta. Non abbiamo più filosofie, soltanto commenti. Lo dice Gilson, sostenendo che all’età dei filosofi che si occupavano di filosofia è seguita l’età dei professori di filosofia che si occupano dei filosofi. C’è in questo atteggiamento modestia e impotenza insieme. Un pensatore che incominciasse un libro con le parole: “Prendiamo le cose dal principio” si esporrebbe al sorriso. Si è arrivati al punto che se uscisse oggi un libro di filosofia che non poggiasse su testi, citazioni, commenti, ecc., non lo si prenderebbe sul serio. Eppure. . .13
Il filosofo contemporaneo non si pone problemi nuovi, non vive nell’angoscia di una ricerca tutta da farsi, non sente sulle sue spalle la responsabilità del pensare e del portare testimonianza della propria filosofia: al contrario, egli si accontenta di sistematizzare il passato, come una sorta di collezionista di idee.14 Egli, a ben vedere, non pensa affatto: piuttosto cataloga, commenta, riporta, ripete, etc. La deriva storicista15 della filosofia contemporanea risiede dunque nel fare «della Storia della Filosofia l’unico tema serio di ogni filosofia».16 La famosa immagine di Bernardo di Chartres17 viene stravolta: siamo sì nani sulle spalle dei giganti, ma, lungi dal guardare lontano verso l’orizzonte sfruttando questa posizione sopraelevata, tutto ciò che facciamo è prestare attenzione alle parole dei giganti, alle loro idee, alle loro visioni. «C’è in questa attitudine allo stesso tempo modestia e impotenza»: modestia, perché si riconosce la propria piccolezza di fronte alla grandezza dei filosofi del passato; impotenza, perché in questa maniera ci si condanna alla sterilità della ripetizione e ad una sorta di restaurazione attenuata dell’ipse dixit. Conseguenza diretta di questa esasperazione del principio d’autorità è allora il proliferare dei «ritorni a… » e dei «neo… ismi»: dalla «Rückkehr zu Kant» del neokantismo al neotomismo cattolico, passando dal neopositivismo logico e dal neohegelismo, fino al «ritorno a Marx» di Althusser, etc., la scena filosofica contemporanea sembra essere pervasa dalla certezza che la verità sia già stata in qualche modo disvelata nei testi dei grandi filosofi del passato.18
Qualcuno potrebbe sostenere che una simile deriva epigonale della filosofia sia in realtà una dinamica fisiologica all’interno della storia del pensiero, nella quale dunque si alternerebbero periodi di grande produzione filosofico-concettuale a periodi di sterile ripetizione accademica. Se così fosse, tutto rientrerebbe nel normale «corso e ricorso storico» del pensiero: non resterebbe così che aspettare il sorgere di una nuova filosofia, capace di comprendere il tempo presente e anticipare quello futuro. Eppure la situazione non è, a mio avviso, così semplice: la filosofia contemporanea ha una cifra specifica che la differenzia nettamente da quelle precedenti, consistente nel suo essere e volersi ad ogni costo scientifica, istituzionalizzata ed accademica. Quando Merleau-Ponty nel suo Elogio della filosofia affermò che la nostra filosofia «ha perso il sorriso» e con esso «la sua tragicità» intendeva proprio sottolineare che, con il istituzionalizzarsi e divenire parte integrante di un meccanismo accademico, il filosofo contemporaneo ha perso quel disagio che per secoli lo aveva contraddistinto — quello stesso disagio che, insieme allo stupore, dava origine e motivava il suo più autentico filosofare. Nel farsi ripetizione erudita, «tautologia organizzata»19 e «storiografia iconica»20 la filosofia ha dunque smarrito sé stessa, come ben sottolinea nel passaggio seguente ancora Merleau-Ponty:
C’è motivo di temere che anche il nostro tempo rifiuti la filosofia e che anche in esso, ancora una volta, la filosofia non sia che nuvole. Filosofare, infatti, è cercare e ammettere che ci sono cose da vedere e da dire. Ora, al giorno d’oggi non si cerca più molto. Si «ritorna» a questa o a quella tradizione, la si «difende». Le nostre convinzioni si fondano non su dei valori o su delle verità percepite, quanto piuttosto sui vizi o sugli errori delle convinzioni che rifiutiamo. Amiamo poche cose se ne detestiamo molte. Il nostro pensiero è un pensiero in ritirata o in ripiegamento. […] Le idee cessano di proliferare e di vivere, scadono al rango di giustificazioni e di pretesti, sono reliquie, punti d’onore, e ciò che si chiama pomposamente il movimento delle idee si riduce alla somma delle nostre nostalgie, dei nostri rancori, delle nostre rimidezze, delle nostre fobie.21
I più grandi filosofi del passato, da Socrate in poi, erano disposti perfino a morire per le proprie filosofie. Il massimo dell’audacia per il filosofo odierno è invece tuttalpiù una critica serrata e maliziosa ad un tradizione a lui avversa o ad un collega poco gradito. Senza voler riabilitare i toni polemici e sarcastici di uno Schopenhauer, il quale nel suo saggio La filosofia delle università definisce chiaramente (e violentemente) la distinzione tra filosofo e professore di filosofia,22 non è esagerato affermare che il filosofo contemporaneo è ormai diventato tutt’uno con il professore universitario di filosofia e lo storico della filosofia. Per queste due ultime figure le idee si analizzano, si comprendono, si confrontano e si dibattono, senza che vi sia però il bisogno di viverle, di portarne testimonianza. Si sarebbe in questa sede tentati di concludere amaramente che la filosofia, nel suo divenire in tutto e per tutto accademica, si sia trasformata da ragione di vita a mera professione. Domandiamoci infatti, ancora una volta sulla scia di Schopenhauer: all’interno delle università si vive per la filosofia o di essa?23
2.2. Linguaggio criptico e auto-referenzialità
Come conseguenza diretta dell’accademizzazione della filosofia contemporanea, oltre all’appena discusso feticismo storico, troviamo l’utilizzo di un linguaggio specialistico volontariamente criptico, alle volte addirittura insensato. Certo, la filosofia non ha mai utilizzato un linguaggio semplice e comprensibile, né tanto meno ha mai tentato di farsi comprendere al di fuori della ristretta cerchia degli addetti ai lavori — e già qui si potrebbe aprire un dibattito sulla legittimità di questo atteggiamento. Tuttavia, il punto in questione è un altro: la maggior parte dei filosofi contemporanei più importanti sembrano rendersi volontariamente ostici ed incomprensibili anche agli stessi specialisti della materia. La triade esistenzialista Heidegger-Sartre-Jaspers, così come la folta scuola fenomenologica di derivazione husserliana, il decostruzionismo di Derrida, il post-strutturalismo, etc., sembrano aver fatto della pesantezza e cripticità del linguaggio quasi una necessità del discorso filosofico. In ambito accademico, la ricerca ostentata di neologismi, espressioni complesse e ipotassi inintelligibili sembra essere considerata un valore aggiunto di una riflessione filosofica.
Pensiamo ad Heidegger: lungi dal mettere in discussione la portata dei contenuti della sua filosofia, quello che sconvolge — o almeno dovrebbe sconvolgere — il lettore è la pesantezza, l’oscurità e la prolissità del suo stile filosofico.24 A mero titolo di esempio, senza dunque voler entrare troppo nel particolare, riportiamo un breve passaggio da Essere e Tempo, scelto in modo del tutto casuale:
L’Esserci non è soltanto un ente che si presenta fra altri enti. Onticamente, esso è piuttosto caratterizzato dal fatto che, per questo ente, nel suo essere, ne va di questo essere stesso. La costituzione d’essere dell’Esserci implica allora che l’Esserci, nel suo essere, abbia una relazione d’essere col proprio essere. Il che di nuovo significa: l’Esserci, in qualche modo e più o meno esplicitamente, si comprende nel suo essere. È peculiare di questo ente che, col suo essere e mediante il suo essere, questo essere è aperto ad esso. La comprensione dell’essere è anche una determinazione d’essere dell’Esserci. La peculiarità ontica dell’Esserci sta nel suo esser-ontologico.25
Allo stesso modo riportiamo, sempre a titolo esemplificativo, un passaggio da L’Essere e il Nulla di Jean-Paul Sartre:
L’essere della coscienza, in quanto coscienza, è tale da esistere a distanza da sé come presenza a sé; questa distanza nulla che l’essere porta nel suo essere, è il nulla. Ne viene che affinché esista un sé, occorre che l’unità di questo essere comporti il suo proprio nulla come nullificazione dell’identico. Il per-sé è l’essere che si determina esso stesso ad esistere come tale da non poter coincidere con sé stesso. Così il nulla è questo buco d’essere, questa caduta dell’in-sé in quel sé in virtù di cui si costituisce il per-sé. Il nulla è la messa in questione dell’essere da parte dell’essere, cioè proprio la coscienza o per-sé.26
Leggendo questo e altri passaggi heideggeriani e sartriani, spesso ancora più complessi di quelli appena citati, dovrebbero venire spontanee alcune domande: davvero è necessaria una simile costruzione della frase? Davvero non è possibile esprimere lo stesso concetto in un’altra maniera, più lineare, chiara e comprensibile? Davvero è questo l’unico linguaggio possibile per il discorso filosofico? Qualora questi dubbi non dovessero sorgere spontaneamente nella mente del lettore, molto probabilmente vi è che egli, in quanto studente o studioso di filosofia, è ormai abituato, se non addirittura assuefatto, ad un simile modo di filosofare: trovandosi continuamente di fronte ad opere filosofiche ostiche e a tratti incomprensibili, egli è pronto per l’esegesi e predisposto all’interpretazione. Nel momento in cui non dovesse riuscire da solo nell’intento, schiere di critici e interpreti specialistici sono a disposizione per svelare il significato nascosto dell’opera. In sostanza, in questa dinamica contemporanea di ricezione filosofica la comprensione del concetto è tutta a carico del lettore, mentre al filosofo viene lasciata piena libertà di argomentazione e di linguaggio: nel caso in cui gli argomenti non fossero chiari, la responsabilità si riversa sull’incapacità del lettore di comprendere, mai sull’autore che quegli stessi argomenti ha reso così criptici. Nessuno degli autori citati sembra essere a conoscenza dell’avvertenza di Popper, uno dei più espliciti critici dell’autoreferenzialità della filosofia contemporanea, il quale affermava:
chi ha da dire qualcosa di nuovo e di importante ci tiene a farsi capire. Farà perciò tutto il possibile per scrivere in modo semplice e comprensibile. Niente è più facile dello scrivere difficile.27
Camus espresse la medesima convinzione di Popper in vari punti secondari della sua opera — interviste, taccuini, etc. — ma soprattutto in un testo teatrale mai pubblicato ed incredibilmente sottovalutato dalla critica camusiana: L’impromptu des philosophes.^[29] Si tratta di un testo breve, sarcastico e a tratti volontariamente grottesco, scritto molto probabilmente nel 1947 sotto lo pseudonimo Antoine Bailly. Non venne mai pubblicato proprio perché Camus voleva evitare la feroce reazione dei filosofi che in quel testo metteva in ridicolo — primo fra tutti, Jean-Paul Sartre.
Un riassunto della trama è qui d’obbligo, vista la scarsa diffusione di questo testo, poco conosciuto anche tra gli stessi critici camusiani: Monsieur Néant, presunto filosofo parigino, irrompe senza preavviso a casa di Monsieur Vigne, farmacista e sindaco di un piccolo paese; Néant sostiene di non aver mai avuto un mestiere, «avendo dedicato la vita alle cose dello spirito», ma che finalmente ha trovato la professione che più gli si addice, il «piazzista di nuove dottrine»; Nèant vuole dunque portare Vigne «a conoscenza del meglio che si fa a Parigi in tema di filosofia», poiché, a suo dire, nei circoli intellettuali parigini le opere del farmacista Vigne sono estremamente note — anche se queste presunte opere in realtà non sono mai state pubblicate (sic!). Il dialogo che segue tra i due rasenta volutamente il grottesco: Néant sfodera un enorme libro — «il nuovo vangelo, di cui sono il buon apostolo» — nel quale si legge, per esempio, che «il mondo è assurdo perché senza spiegazione» e che «è senza spiegazione perché è assurdo». Sulla stessa scia di paradossalità, il motto principale del nuovo vangelo è: «Être en se faisant et faire que cela soit, c’est être à tout venant sans être quoi que ce soit»,28 un intraducibile capolavoro di insensatezza elevata a massima filosofica. Monsieur Vigne è entusiasta della nuova filosofia parigina e comincia a seguire alla lettera le strambe indicazioni di Néant,29 fino a quando non sopraggiunge sulla scena il direttore del manicomio locale, venuto a riprendere Monsieur Néant, il quale si scopre essere così un folle evaso dal manicomio qualche giorno prima e niente affatto un filosofo parigino. In particolare, il direttore del manicomio rivela che Monsieur Néant non aveva mai letto il tanto decantato libro che portava con sé poiché, prima di essere rinchiuso in manicomio, egli «era critico di professione e il suo metodo [era] quello di non leggere i libri di cui parla. È l’uso di questa nobile professione». La conclusione alla quale giunge il direttore è ironica e, allo stesso tempo, lapidaria:
reputo svantaggioso che la filosofia sia divulgata a troppa gente. I filosofi devono essere soli; un po’ come i lebbrosi, bisogna tenerli a una certa distanza. È così che la malattia giova a loro e non fa male a nessuno. È così che riescono a pensare con l’apparenza della ragione e finiscono per essere istruttivi per tutti.30
Proprio quest’ultima affermazione ci permette di passare alla terza critica di Camus alla filosofia contemporanea.
2.3. Irrilevanza dei problemi filosofici trattati
Abbiamo visto come il filosofo, in special modo quello contemporaneo, prediliga l’oscurità e la pesantezza del linguaggio alla chiarezza concettuale, in nome di una non ben motivata «volontà criptica». Dopotutto, proprio il già citato Jacques Derrida sosteneva, con fare esoterico, che «un testo è un testo solo se nasconde al primo sguardo, al primo venuto, la legge della sua composizione e la regola del suo gioco».31 Un modo implicito per stabilire lo scarso valore di un testo filosofico se di immediata lettura e comprensione.32
Sulla stessa scia, la filosofia contemporanea si rivela aristocratica anche nei contenuti, oltre che nella forma e nello stile: i problemi da essa scelti sono elitari tanto quanto il linguaggio usato per trattarli. Le riflessioni sulla vita reale quotidiana, con tutte le sue contraddizioni e zone d’ombra, lasciano così spazio a speculazioni idealizzanti e spesso inconcludenti su problematiche teoretiche dai risvolti pratici pressoché irrilevanti: il reale cede il passo al Trascendentale, l’uomo diventa Esserci o Essere-per-sé, la vita diventa Esistenza, e così via. Rifugiatosi nelle confortevoli mura della ripetizione erudita, il filosofo è incapace di parlare di problemi pratici reali: dall’alto della sua torre d’avorio discorre delle condizioni trascendentali della percezione, della «rossità» del rosso, della mondanità del mondo, dell’Essere dell’Esserci e dell’«influenza dell’elettricità sulla filosofia»,33 mentre più giù gli altri uomini continuano la loro vita, ignorando — e spesso disprezzando — quella solitaria figura che dall’alto li osserva con sufficienza e alterigia, incapace com’è di proferire anche solo una parola significativa per le loro vite. Vale la pena citare qui una nota dei Carnets nella quale Camus riporta un aneddoto storico tanto interessante quanto divertente: «Kierkegaard brandiva davanti ad Hegel una minaccia terribile: inviargli un giovane che gli avrebbe chiesto consigli».34
Intendiamoci: non si deve cadere nell’errore di pensare che la critica camusiana della filosofia contemporanea miri ad una sua semplificazione, ad un suo svilimento; essa non ha in alcun modo come fine ultimo il degradamento dei contenuti e delle forme della filosofia ad un livello mediocre e volgare,35 così come lasciò intendere Sartre nel momento in cui puerilmente definì Camus «un filosofo da liceo». Il fine ultimo di una simile critica è piuttosto la denuncia e lo smantellamento di un sistema intellettuale fondato sull’ipocrisia e sulla menzogna, nel quale il valore di un’opera risiede tutto nel grado di notorietà raggiunto, non nei suoi contenuti effettivi. Si legga a tal proposito il seguente passaggio tratto dal breve saggio L’enigma:
Uno scrittore scrive in gran parte per esser letto (ammiriamo chi dice il contrario, ma non crediamogli). Da noi tuttavia egli scrive sempre di più per ottenere quella consacrazione finale che consiste nel non essere letto. Infatti, a partire dal momento in cui può fornir materia per un articolo pittoresco sui giornali a grande tiratura, ha tutte le probabilità di esser noto a un numero abbastanza grande di persone che non lo leggeranno mai, perché basterà loro conoscerne il nome e legger quanto verrà scritto su di lui. Ormai sarà conosciuto (e dimenticato) non per quel che è, ma secondo l’immagine che un giornalista frettoloso ne avrà data. Quindi non è più indispensabile scrivere libri per farsi un nome nelle lettere. Basta aver fama d’averne scritto uno di cui abbiano parlato i giornali della sera e sul quale ormai si potrà dormire.36
La denuncia di Camus rimase evidentemente inascoltata. Oggi come allora, la sottaciuta alleanza tra sistema accademico, grande editoria e critica letteraria reitera imperturbata il seguente subdolo meccanismo: un intellettuale di spessore scrive un’opera perlopiù incomprensibile e/o banale; un editore la pubblica e la pubblicizza; un critico distratto la recensisce e ne stabilisce il valore, al di là dei suoi meriti effettivi. L’ultimo anello della catena — il fruitore dell’opera, il lettore — è a tal punto assoggettato a un simile sistema da non riuscire in alcun modo a rigettare come insensato o banale ciò che gli viene propinato invece come di fondamentale importanza. Per arrivare a comprendere la presunta elevatezza degli argomenti, il lettore deve piuttosto trasformarsi in interprete, commentatore, esegeta. Camus a tal riguardo fu tanto chiaro quanto ironico:
Quelli che scrivono in modo oscuro hanno una bella fortuna: avranno dei commentatori. Gli altri avranno soltanto dei lettori, il che, sembra, è spregevole.37
2.4. «Volontà di sistema» e «impazienza ontologica»
Passiamo ora all’ultimo punto di critica, il quale a ben vedere si rivolge più in generale ad un certo tipo di filosofia — quella sistematica — e dunque non soltanto a quella contemporanea, come nei tre casi precedenti. In effetti, analizzando la storia della filosofia dai presocratici ai giorni nostri è possibile formulare una sorta di macro-divisione tra filosofi sistematici e filosofi asistematici: una divisione metodologica, la quale tuttavia si riflette indubitabilmente anche nei contenuti, come avremo modo di vedere più avanti.
Definendo «sistema» una «totalità caratterizzata da una specifica organizzazione», e cioè «dalla disposizione e dalle relazioni reciproche che connettono le sue parti in un tutto, […] in virtù della quale ciascuna di queste ultime assume una sua funzione, coordinata con quella delle altre»,38 è possibile allora definire «sistematica» quella filosofia che «riconduce tutti i propri enunciati e il loro collegamento sotto un unico principio».39 In sostanza, il filosofo sistematico è colui il quale riesce a dimostrare, di fronte alla (apparentemente) caotica e disorganica molteplicità del reale, l’unità ultima delle cose e degli esseri, riconducendo ogni ente al di sotto di un unico principio chiarificatore.
La tradizione della filosofia sistematica è millenaria. Già nei presocratici è possibile rintracciare in nuce una simile volontà unitaria e onni-chiarificatrice, in special modo nella loro nozione di arché.40 Successivamente, dopo la rigorosa elaborazione dossografica e teoretica di Aristotele41 e le altrettanto rigorose elaborazioni del Neoplatonismo e della Scolastica, la filosofia sistematica si è storicamente imposta nel pensiero moderno — in primis con Spinoza, la cui Ethica more geometrico demonstrata è esemplare al riguardo, e in secundis con Leibniz, al quale si deve la concettualizzazione e matematizzazione della nozione di sistema.42 La svolta vera e propria si avrà, però, soltanto con Kant e con la sua nozione di Architettonica della ragione: infatti, se prima la sistematicità della filosofia era sostanzialmente un riflesso dell’ordine cosmologico, adesso invece essa diventa un ideale normativo del sapere, un principio regolativo al quale la ragione deve uniformarsi necessariamente a priori.43 Se è vero che Kant pone un simile ideale come irraggiungibile, in una sorta di tensione asintotica della conoscenza empirica verso la totalità e la completezza, è altrettanto vero che per Kant solo la conoscenza a priori sistematica è propriamente scientifica:
Sotto il governo della ragione, le nostre conoscenze non posso affatto costituire una rapsodia, ma devono piuttosto costituire un sistema: è soltanto in questo, difatti, che le nostre conoscenze possono sostenere e favorire i fini essenziali della ragione. Per sistema, d’altronde, io intendo l’unità di molteplici conoscenze sotto un’idea. Questa idea è il concetto razionale della forma di un tutto, in quanto sia l’estensione del molteplice, sia la posizione reciproca delle parti, vengono determinate a priori da tale concetto.44
Sarebbe irrispettoso concludere questo breve excursus senza citare il nome di Hegel, il quale fu molto probabilmente il vero apice della filosofia sistematica — e, allo stesso tempo, l’inizio del suo declino. In lui, infatti, la totalità di un sistema ne stabilisce la stessa veridicità: in questa prospettiva, un filosofo che ammettesse di non essere in grado di spiegare un certo evento confuterebbe ipse facto la sua stessa filosofia, poiché un sistema o è totale o è falso. «La figura autentica in cui la verità può esistere è soltanto il sistema scientifico della verità stessa».45 Il vero sapere (das wirkliches Wissen) è, dunque, soltanto il sapere sistematico, totale e omni-chiarificatore:
Un filosofare senza sistema non può essere scientifico. Un tale filosofare, a parte il fatto di esprimere di per sé un modo di sentire più che altro soggettivo, ha un contenuto accidentale. Un contenuto ha la sua giustificazione come momento del Tutto; al di fuori della totalità, invece, esso è un presupposto infondanto oppure una certezza soggettiva. In tal senso, sono molti gli scritti filosofici che si limitano a esprimere modi di sentire e opinioni.^[48]
Sull’altro versante troviamo, in netta minoranza, i filosofi a-sistematici. Già di per sé è difficile parlare di una vera e propria tradizione della filosofia a-sistematica, a differenza di quanto detto precedentemente per il versante opposto. In effetti, da un punto di vista meramente storiografico, i pochi filosofi asistematici che si ricordano sono quasi sempre stati ai margini dei vari mainstream filosofici, poiché a malapena è stato loro riconosciuto lo status di filosofi — li ricordiamo oggi spesso come moralisti, aforisti o scrittori.
Essi rifiutano in toto la nozione di sistema, sia nei contenuti che nel metodo. Innanzitutto, essi non hanno alcuna fede in un unico logos omni-chiarificatore. Al contrario, essi ritengono che ricondurre tutta la molteplicità del reale al di sotto di un unico principio sia sostanzialmente un’illusione e una forzatura, se non addirittura una vera e propria «mancanza di onestà».46 Allo stesso modo, essi rifiutano l’idea di un sapere totale e assoluto: al contrario di un Hegel, ad esempio, il quale nella sua Fenomenologia dello Spirito pretendeva risolvere ogni singolo campo del sapere (dalla morale alla chimica, dalla politica alla fisica, etc.),47 il filosofo asistematico preferirà piuttosto lasciare a margine della sua riflessione tutte quelle questioni che non rientrano nel suo campo d’interesse; similmente, lungi dal voler forzare delle conclusioni laddove esse non sono evidenti, il filosofo asistematico ammetterà candidamente di non poter comprendere alcune cose che vanno oltre la sua portata, senza che ciò infici la validità della sua filosofia. È una questione di lucidità e di onestà intellettuale, come ricorda Nietzsche nel seguente aforisma: «una volta per tutte, io non voglio sapere molte cose. — La saggezza traccia dei limiti anche alla conoscenza».48 Fatte queste premesse, è facile comprendere perché il filosofo asistematico preferisca la scrittura aforistica o la creazione letteraria al trattato filosofico: quest’ultimo è per definizione quanto di più particolareggiato e completo possa esistere; mirando all’esaustività totale e alla meticolosa concatenazione di ogni singolo concetto con gli altri, esso si è contraddistinto spesso per i suoi apici di pedanteria e puntigliosità. Ma in questa maniera, come sottolinea Adorno, non si rischia soltanto di compromettere «la tensione della lettura»: è la stessa sostanza concettuale del testo ad essere compromessa.49 La volontà di spiegare l’universo intero nell’arco di mille pagine conduce inevitabilmente ad una irrimediabile e fuorviante dispersione del sapere. A tal riguardo Nietzsche è, ancora una volta, estremamente chiaro:
L’aforisma, la sentenza, […] sono le forme dell’“eternità”; la mia ambizione è quella di dire in dieci proposizioni quel che ogni altro dice in un libro — quel che ogni altro non dice in un libro. . .50
Ritornando a Camus, è evidente come egli si collochi esplicitamente su quest’ultimo versante. Per quanto tra i suoi scritti pubblicati non troviamo mai una raccolta di aforismi, leggendo i suoi Carnets è facile notare una notevole propensione verso la scrittura aforistica, parallela al rifiuto del metodo sistematico.51 In ogni caso, Camus ha certamente adoperato una metodologia di scrittura e di argomentazione non convenzionale per gli standard della filosofia tradizionale, motivo per il quale, da una parte, non è stato mai considerato un filosofo dai suoi colleghi «Denker vom Gewerbe»,52 dall’altra, egli stesso ha rifiutato più volte l’etichetta di filosofo. Basti pensare alla famosa intervista rilasciata al giornale Servir il 20 dicembre 1945: di essa tutti ricordano facilmente la frase «Je ne suis pas un philosophe», trascurando però il contesto particolare in cui Camus la espresse. In effetti, la domanda introduttiva postagli dalla giornalista modifica drasticamente il senso della risposta di Camus: «Ciò che colpisce i lettori delle cronache a voi consacrate è il fatto di trovare spesso il vostro nome associato a quello di Jean-Paul Sartre, come se voi foste un discepolo della filosofia esistenzialista». Prima che la giornalista potesse terminare la sua domanda, Camus la interruppe:
Io non sono un filosofo. Non credo abbastanza nella ragione per credere ad un sistema. Ciò che mi interessa, è sapere come bisogna comportarsi (comment il faut se conduire). E più precisamente come ci si può comportare quando non si crede né in Dio né nella ragione.53
Posta in questa maniera, non sembra difficile comprendere il senso velato dell’affermazione di Camus: egli non sta negando in maniera assoluta l’etichetta di filosofo; piuttosto, egli afferma che, se con il termine «filosofo» si intendono i vari filosofi esistenzialisti (Sartre, Heidegger, Jaspers, etc.), allora egli non si considera tale. Eppure, allo stesso tempo, la preoccupazione che egli rivendica come sua propria («come ci si può comportare quando non si crede né in Dio né nella ragione») è genuinamente e radicalmente filosofica. È evidente, dunque, che Camus aveva una visione particolare (ed alternativa) della figura del filosofo, lontana dai canoni tradizionali e rientrante a pieno titolo nella già citata tradizione a-sistematica. Nel prossimo capitolo il nostro compito sarà proprio di analizzare e definire questa visione, così da comprendere che tipo di filosofo Camus ha cercato di essere — nella vita come negli scritti.
3. Un filosofo fuori dalla filosofia
Lo stile camusiano è evidentemente al di fuori dei canoni tradizionali della storia della filosofia occidentale. Anche nei suoi due unici «saggi filosofici» — Il mito di Sisifo e L’uomo in rivolta — Camus si avvale di una struttura argomentativa e di un lessico ben lontani dagli standard accademici. Non a caso egli amava definire queste sue due opere piuttosto come «livres d’idées». Ad ogni modo, già soltanto dal confronto con i tre capisaldi dell’esistenzialismo contemporaneo — Essere e tempo di Martin Heidegger, L’essere e il nulla di Jean-Paul Sartre, Filosofia di Karl Jaspers — emerge una differenza abissale, come abbiamo già avuto modo di vedere nel capitolo precedente. Nel momento in cui si ricerchino le motivazioni reali di tale differenza, l’errore più ingenuo sarebbe quello di attribuirle all’incapacità filosofica di Camus, come fece Sartre nella sua famosa Réponse à Albert Camus.^[57] Nelle sue «diciannove pagine al vetriolo»,54 con toni a tratti puerili,55 a tratti iper-narcisistici,56 Sartre accusa esplicitamente Camus di scarsa competenza in materia filosofica:
E se si fosse sbagliato? Se il suo libro rivelasse semplicemente la sua incompetenza filosofica? Se risultasse scritto con nozioni raccolte in fretta e di seconda mano? […] E se il suo ragionamento non fosse del tutto giusto? Se le sue idee fossero imprecise e banali? Avrò almeno questo in comune con Hegel, che lei non ci ha letto, né l’uno né l’altro. Ma che mania è la sua, di non rifarsi direttamente alle fonti!57
Lontano da simili aberrazioni sartriane, la situazione è piuttosto un’altra: lo stile argomentativo e il contenuto filosofico dell’opera camusiana non seguono il «protocollo accademico» per scelta, non per presunta incapacità. Sin dai primissimi scritti, infatti, Camus ha sempre avuto un’idea ben precisa riguardo il futuro metodo della sua opera, il quale si fonda a sua volta su una visione particolare ed alternativa della filosofia, come già sottolineato in precedenza.
Primariamente, egli insiste sulla necessità di rivitalizzare la fredda e morta sostanza dei concetti e delle nozioni filosofiche attraverso il potere catalizzatore delle immagini,58 a tal punto da formulare un’affermazione che pochi «addetti ai lavori» avvallerebbero: «Non si pensa che per immagini. Se vuoi essere filosofo, scrivi romanzi».59
Secondariamente, sulla scia di Nietzsche e della succitata tradizione asistematica, Camus ritiene che la filosofia, lungi dall’essere una mera disciplina erudita ed accademica dal carattere storico-teoretico, sia piuttosto una ardua pratica concreta e quotidiana, della quale è necessario «portare testimonianza». Meno retoricamente, Camus sostiene la necessità della coincidenza tra il filosofo e la sua filosofia: se Nietzsche affermava che «il prodotto del filosofo è la sua vita»,60 Camus sosteneva allo stesso modo che «le filosofie valgono ciò che valgono i filosofi. Più grande è l’uomo, più vera è la filosofia».61 Seguendo questo principio, Camus formulò, con un evidente intento polemico, una sorta di test al quale sottoporre i vari pensatori ad esso contemporanei:
Domanda da porre: Amate le idee — con passione, con il sangue? Un’idea vi lascia insonne? Sentite che su di essa state giocando la vostra vita? Quanti pensatori si tirerebbero indietro!62
In effetti, il filosofo contemporaneo — specialmente quando anche professore — vive senza troppi tormenti la scissione tra sé stesso e la propria filosofia, come se ormai fosse una abitudine acquisita e consolidata: egli può insegnare in classe una certa dottrina o teoria, negandola poi sul piano pratico una volta al di fuori dell’aula; o, peggio, egli può passare da una convinzione all’altra senza avvertire la necessità di giustificarsi e, allo stesso tempo, senza venire accusato di incoerenza da un pubblico spesso troppo passivo, acritico e sottomesso. Per Camus, invece, la filosofia non può essere considerata un mero divertissement intellettuale, nel quale il filosofo possa destreggiarsi con le idee come in un gioco frivolo e infecondo, né tanto meno una mera disciplina storica, nella quale le idee vengano analizzate e discusse con il distacco tipico dello storico. La prospettiva di Camus è, dunque, piuttosto la seguente: le idee giustificano la vita nella misura in cui la vita è testimonianza delle idee.^[67]
Portando questo principio metodologico alle sue estreme conseguenze si comprenderà perché per Camus il suicidio sia l’unico «problema filosofico veramente serio»: se davvero deve esserci una causalità diretta e forte tra idee e vita, tra teoria e pratica, tra pensiero e azione, allora tutti quei filosofi che sostengono l’assurdità e il non-senso assoluto dell’esistenza63 devono prefigurare come unica azione coerente il suicidio. Altrimenti le loro teorie non sono che pose intellettuali, poste in malafede. Vale la pena riportare a questo punto l’incipit de Il mito di Sisifo:
Vi è solamente un problema filosofico veramente serio : quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia. Il resto — se il mondo abbia tre dimensioni o se lo spirito abbia nove o dodici categorie — viene dopo. Questi sono giuochi: prima bisogna rispondere. E se è vero, come vuole Nietzsche, che un filosofo, per essere degno di stima, debba predicare con l’esempio, si capisce l’importanza di tale risposta, che dovrà precedere il gesto definitivo.64
Appare chiaro come, nella misura in cui venga data importanza fondamentale al problema del suicidio, si stia in realtà per converso ponendo come centrale il problema del senso della vita — un problema che diventa, nell’ottica camusiana, improcrastinabile. Qualsiasi riflessione teoretica che, in nome di un’apparente profondità di pensiero, indaghi le problematiche più astratte e più inutili è pura elusione — un modo come un altro di rinviare la domanda fondamentale sul senso della vita.
A questo punto del nostro lavoro abbiamo raccolto materiale sufficiente per trarre alcune conclusioni. In primis, utilizzando un’espressione enfatica ma efficace, definiremo Camus «un filosofo fuori dalla filosofia», dove con quest’ultimo termine, sulla base di quanto detto finora, si intende evidentemente la filosofia accademica. L’espressione vuole mettere in risalto l’antinomia peculiare della figura di Camus: egli pensa e crea la sua opera nei termini di una filosofia; studia filosofia, dentro e fuori l’università; vive la sua vita seguendo una coerente condotta filosofica; ma, messo di fronte alla richiesta di adattarsi all’ipocrisia del sistema accademico-editoriale, decide piuttosto di rifiutare l’appellativo di filosofo, conscio dell’impossibilità di invertire la folle tendenza della filosofia contemporanea. Tuttavia, la sua ironia persisterà: dopotutto Pascal sosteneva che «prendersi gioco della filosofia, è filosofare davvero».
In secundis, possiamo definire Camus un «filosofo che scrive per essere compreso». Evidentemente si tratta di una definizione provocatoria, poiché sottintende che esistano filosofi che scrivono per non essere compresi — anche se in pochi sarebbero disposti ad avvalorare una simile affermazione. A ben vedere, però, la storia della filosofia ne è piena: esercizi di retorica a sé stanti, come nel caso di una certa Sofistica alle origini della filosofia; un linguaggio gergale impenetrabile che dia il senso di una profondità inesistente, come ammesso da Foucaul;65 uno sforzo costante di persuasione del lettore attraverso l’occultamento e la complessità del lessico, etc. Su una posizione diametralmente opposta, Camus seguì, senza conoscerlo direttamente, l’insegnamento di Schopenhauer:
Non vi è nulla di più facile che scrivere in modo che nessuno possa capire; come, invece, nulla è più difficile che esprimere pensieri significativi in modo che ognuno debba comprenderli. L’astrusità è parente dell’assurdità, e ogni volta è infinitamente più probabile che essa celi una mistificazione piuttosto che una qualche intuizione profonda. […] Un autore nulla dovrebbe temere più del palese sforzo di far vedere più spirito di quanto non abbia; ciò, infatti, risveglia nel lettore il sospetto che abbia assai poco spirito.66
In aggiunta a ciò, Camus propugnava anche una vera e propria portata etica — e a tratti addirittura metafisica — della chiarezza del linguaggio, affermando, in un commentario sulla filosofia dell’espressione di Brice Parain, che «nominare male un oggetto, significa incrementare l’infelicità di questo mondo»;67 oppure definendo la logica dell’uomo in rivolta come lo sforzo di attenersi «ad un linguaggio chiaro per non infittire la menzogna universale»;68 o ancora, nelle parole di Tarrou:
Ho sentito tanti ragionamenti da farmi girare la testa, e che hanno fatto girare abbastanza altre teste da farle consentire all’assassinio, che ho capito come tutte le disgrazie degli uomini derivino dal non tenere un linguaggio chiaro. Allora ho preso il partito di agire chiaramente, per mettermi sulla buona strada.69
In Camus, dunque, la chiarezza concettuale alla quale tende il lirismo delle immagini non è soltanto un fattore estetico: si tratta, in realtà, di un vero e proprio imperativo morale. Arriviamo così alla terza ed ultima definizione della figura di Camus. Riprendendo e modificando l’espressione di Bernard-Henri Lévy («Camus le philosophe-artiste»),70 definiremo Camus «filosofo attraverso l’artista», volendo sottolineare in questa maniera la precedenza del momento filosofico su quello artistico, quest’ultimo essendo espressione del primo.
«Il filosofo deve riconoscere di che cosa c’è bisogno e l’artista deve crearlo»: così si esprimeva un giovanissimo Nietzsche.71 A noi sembra che Camus abbia seguito alla lettera la strada intravista dal maestro.
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Così come, ad esempio, Luigi Pareyson si è occupato della filosofia di Dostoevskij, il quale resta a tutti gli effetti un romanziere, o così come Paolo Tamassia si è occupato delle influenze filosofiche nell’opera di René Char, il quale resta invece a tutti gli effetti un poeta. Cfr. Luigi Pareyson, Il pensiero etico di Dostoevskij, Einaudi, Torino 1967; Paolo Tamassia, «René Char e il Logos di Eraclito» in Micromega, Editrice Periodici Culturali, Roma 1998, p. 55-61. ↩︎
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A titolo d’esempio, Armando Rigobello, uno dei più importanti lettori italiani dell’opera di Camus, filosofo e storico della filosofia, nonostante interpreti la medesima opera attraverso la categoria del misticismo plotiniano e, in negativo, attraverso S. Agostino, considera nondimeno Camus un moralista, ma non un filosofo: «la filosofia teoretica di Camus è — in realtà — facilmente vulnerabile, ma il suo messaggio morale è ricco di un alto insegnamento. La classificazione più consona a Camus è quella che lo colloca tra i moralisti». Cfr. Armando Rigobello, Albert Camus tra la misera e il sole, Il tripode, Napoli 1976, p. 5. Ancora, lo stesso Paolo Flores D’Arcais, filosofo anch’esso, nonostante definisca Camus «filosofo del futuro» nella sua recente — e, a nostro avviso, limitata — monografia, non chiarisce però in alcun modo la questione da noi posta, dando per assodato o superfluo un simile chiarimento metodologico. Cfr. Paolo Flores D’Arcais, Albert Camus filosofo del futuro, Codice, Torino 2010, 60 pp. (solo 35 sono di D’Arcais, le restanti 23 sono atti di una tavola rotonda del 2002 su Camus). ↩︎
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Albert Camus, Œuvres complètes, Gallimard, Paris 2008, I, p. 794. L’espressione è utilizzata all’interno del commento a La Nausea di Sartre. ↩︎
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Il riferimento al Pantheon di Parigi è chiaramente voluto. Si pensi, a tal riguardo, alla discussa (e bocciata) proposta dell’ex-presidente francese Nicholas Sarkozy di «pantheonizzare» le spoglie di Camus in occasione del centenario della sua nascita. Cfr. Henri Guaino, Camus au Panthéon, Plon, Paris 2013. ↩︎
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André Comte-Sponville, «L’absurde dans Le mythe de Sysyphe», in Jean-François Mattéi, Anne-Marie Amiot (editori), Albert Camus et la philosophie, PUF, Parigi 1997, pp. 159-160: «Camus n’est pas Aristote, ni Kant. […] Il m’est indifferent que mes enfants lisent ou pas la Critique de la raison pure ou l’Éthique à Nicomaque ; mais je regretterais pour eux, pour leur vie d’hommes, qu’ils ne lisent pas, un jour ou l’autre et si possible dans leur jeunesse, Le mythe de Sisyphe». ↩︎
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Emilio Baccarini, «Editoriale: dieci anni dopo», in Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia, anno 12 (2010): «La filosofia deve ripensare il suo ruolo e il suo senso. Che fa il filosofo? Non siamo in grado di rispondere perché ci sfugge chi è il filosofo. Non possiamo pensare a una categoria professionale, o almeno non soltanto». Cfr. anche Maurice Weyembergh, «Camus philosophe?», in Albert Camus, ou la mémoire des origines, De Boeck université, Paris-Bruxelles 1998, p 16: «Les philosophes excommunient les philosophes, comme les religieux condamnent les religieux, les politiques les politiques et les intellectuels les intellectuels. […] C’est qu’elle [la philosophie] n’a pas d’objet bien circonscrit et qu’elle n’est pas arrivée à développer une méthode acceptée par les membres de la profession. En somme, elle a trop d’objets et trop de méthodes. La philosophie est à elle-même son premier problème». ↩︎
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È importante sottolineare come la scelta di questa espressione («la domanda più imbarazzante per un filosofo») sia precedente alla lettura di Gerd B. Achenbach (La consulenza filosofica, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 35-47), in cui questa medesima espressione si ritrova identica: «io non posso parlare di consulenza filosofica e contemporaneamente avere rispetto di quella sensibilità, che riguarda noi tutti, quando al posto della domanda poco insidiosa “che cos’è la filosofia?” entra in gioco quella più imbarazzante e per questo meticolosamente evitata, “chi è il filosofo?”». ↩︎
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Paul Feyerabend, Erkenntnis für freie Menschen, citato in Gerd B. Achenbach, La consulenza filosofica, cit., p. 48: «I filosofi oggi sono più dei funzionari del pensiero e degli amministratori del concetto, e si sa quale paura del sovvertimento e del disordine abbiano i funzionari e gli amministratori. Essi non hanno nemmeno il più piccolo motivo per cambiare le loro opinioni. Si lodano a vicenda, sono lodati o criticati da altri funzionari (fisici, biologi, sociologi, premi Nobel), cioè, in ogni caso, sono considerati; il loro stipendio non è affatto cattivo e la loro “immagine dell’essere umano” si adatta perfettamente a quella situazione e a quelle manifestazioni concrete dell’essere umano che incontrano nelle aule, negli uffici, alle conferenze filosofiche, nei laboratori e nelle chiacchiere scientifico-filosofiche da caffè. Quanto contano là i desideri degli uomini, che non hanno potere, con i quali non ci si può intrattenere su questioni sottili, alla presenza dei quali non ci si sente a proprio agio e che, insomma, si mettono facilmente da parte?». ↩︎
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Del Protreptico di Aristotele sono rimasti soltanto frammenti e testimonianze, perlopiù in Giamblico, nel suo libro omonimo. Lo stesso passo riportato di seguente si presenta in diverse versioni, in base al commentatore a cui si fa riferimento. Ivi si è scelta la versione di Elìa di Alessandria riportata in un commentario all’Isagoge di Porfirio, principalmente per una questione di eleganza e di chiarezza. Aristotele, Opere, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 135: «se si deve filosofare, si deve filosofare e se non si deve filosofare, si deve filosofare: in ogni caso dunque si deve filosofare. Se infatti la filosofia esiste, siamo certamente tenuti a filosofare, dal momento che essa esiste; se invece non esiste, anche in questo caso siamo tenuti a cercare come mai la filosofia non esiste, e cercando facciamo filosofia, dal momento che la ricerca è la causa e l’origine della filosofia». ↩︎
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Karl R. Popper, Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico, Armando Editore, Roma 1975, p. 58: «Tutti abbiamo una filosofia, siamo coscienti o meno di questo fatto, e la nostra filosofia non importa molto. Ma l’influenza della filosofia sulle nostre azioni e sulle nostre vite è spesso catastrofica. Questo rende necessario cercare di migliorare la nostra filosofia con la critica. Questa è l’unica scusa, perché la filosofia continui ad esistere, che sono in grado di offrire». ↩︎
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Breve nota metodologica. Nella sterminata bibliografia sulla questione «Camus philosophe ?» si distinguono più o meno nettamente due tipi di approcci: da una parte, quella che definiremo «via esterna», ovvero la scelta preliminare di una particolare definizione di filosofo e il susseguente raffronto di Camus con tale definizione (Cfr. ad esempio Maurice Weyembergh, «Camus philosophe ?», in Albert Camus, ou la mémoire des origines, cit., pp. 15-28); dall’altra parte, la «via interna», ovvero una comprensione della prospettiva filosofica di Camus interna alla sua stessa opera, avvalendosi in particolare del suo lascito autobiografico, nel quale Camus dà liberamente sfogo alla suo senso di insoddisfazione verso la filosofia contemporanea e prospetta per sé stesso una maniera alternativa di filosofare (Cfr. ad esempio Jacqueline-Lévi Valensi, «“Si tu veux être philosophe…”», in Albert Camus et la philosophie, cit. pp. 21-33). Come abbiamo già sottolineato, il nostro approccio rientra nella seconda categoria, quella della «via interna». ↩︎
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L’espressione è mia. ↩︎
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Albert Camus, Taccuini (1942-1951), Bompiani, Milano 1965, pp. 76-77. Per il testo originale francese, Albert Camus, Œuvres complètes, cit., II, p. 990-991 : «Les anciens philosophes (et pour cause) réfléchissaient beaucoup plus qu’ils ne lisaient. C’est pourquoi ils tenaient si étroitement au concret. L’imprimerie a changé ça. On lit plus qu’on ne réfléchit. Nous n’avons pas de philosophies mais seulement des commentaires. C’est ce que dit Gilson en estimant qu’à l’âge des philosophes qui s’occupaient de philosophie a succédé l’âge des professeurs de philosophie qui s’occupent des philosophes. Il y a dans cette attitude à la fois de la modestie et de l’impuissance. Et un penseur qui commencerait son livre par ces mots, “Prenons les choses au commencement” s’exposerait aux sourires. C’est au point qu’un livre de philosophie qui paraîtrait aujourd’hui en ne s’appuyant sur aucune autorité, citation, commentaire, etc., ne serait pas pris au sérieux. Et pourtant…» ↩︎
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A tal riguardo Schopenhauer era severo e disilluso: «Coloro che sperano di diventare filosofi studiando la storia della filosofia dovrebbero, piuttosto, ricevere da essa l’idea che filosofi si nasce proprio come avviene per i poeti, anzi assai più di rado». Cfr. Arthur Schopenhauer, «Sulla filosofia e il suo metodo», in Parerga e Paralipomena, Adelphi, Milano 1981, p. 16. ↩︎
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Si intenda qui «storicista» con riferimento alla già citata nozione di «feticismo storico», e non allo storicismo come corrente filosofica otto-novecentesca. ↩︎
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Albert Camus, Taccuini (1935-1942), cit., p. 77. Cfr. Richard J. Bernstein, La nuova costellazione. Gli orizzonti etico-politici del moderno/postmoderno, Feltrinelli, Milano 1994, p. 37: «La filosofia perde di spessore e corre il rischio di perdere la sua identità quando dimentica il suo passato, quando rinuncia a cimentarsi sia con la stranezza sia con la familiarità di ciò che è ‘altro’ e alieno. Ma perde di spessore anche quando si lascia indurre a pensare che appellarsi alla tradizione sia sufficiente per rispondere alle sue domande». Corsivo nostro. ↩︎
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Le parole di Bernardo di Chartres a cui si fa riferimento si ritrovano in una citazione diretta di Giovanni di Salisbury nel Metalogicon (III, iv), traducibile come segue: «La nostra età fruisce del beneficio delle precedenti, e spesso conosce molte cose non per esservi giunta con il proprio ingegno, ma illuminando con forze altrui anche le grandi opere dei padri. Diceva Bernardo di Chartres che noi siamo come nani che siedono sulle braccia di giganti, così che possiamo vedere molte cose anche molto più in là di loro, non come per acutezza della propria vista o perché più alti di corporatura, ma perché siamo sollevati e innalzati da gigantesca grandezza». ↩︎
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Ad esempio, nell’enciclica Aeterni Patris, atto fondativo del neotomismo, Leone XIII affermò che i filosofi cattolici moderni, con le loro menti invase da un certo «amore della novità» (sic!), dopo aver «messo in disparte il patrimonio dell’antica sapienza, vollero tentare cose nuove piuttosto che aumentare e perfezionare con le nuove le antiche». O ancora, come ulteriore esempio, il filosofo neokantiano Otto Liebmann concluse ogni capitolo del suo volume Kant e gli epigoni con le medesime parole: «Also muß auf Kant zurückgegangen werden» — «si deve dunque ritornare a Kant». ↩︎
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Theodor W. Adorno, Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa, Torino, Einaudi 1954, pp. 68-69, aforisma 41: «Dentro e fuori. Un po’ per pietà, un po’ per negligenza e un po’ per calcolo, si lascia vivacchiare la filosofia in un ambito accademico sempre più stretto, dove si tende sempre più a sostituirla con la tautologia organizzata. Chi si affida alla profondità esercitata d’ufficio, è costretto, come cento anni or sono, ad essere ad ogni momento così ingenuo come i colleghi da cui dipende la sua carriera. Ma il pensiero extra-accademico, che vorrebbe sottrarsi a questa necessità e alla contraddizione tra la grandezza degli argomenti e il filisteismo della trattazione, è esposto ad un pericolo non meno grave: alla pressione economica del mercato, a cui in Europa — almeno — i professori erano ancora sottratti. Il filosofo scrittore, che vuol guadagnarsi la vita, deve essere in grado di offrire, ad ogni momento, qualcosa di scelto e prelibato, per affermarsi, col monopolio della rarità, contro il monopolio dell’ufficio» ↩︎
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Friedrich Nietzsche, Il libro del filosofo, Ananke, Torino 2007, pp. 14-16. ↩︎
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Maurice Merleau-Ponty, Elogio della filosofia, SE, Milano 2008, p. 46. Per il testo originale francese, Maurice Merleau-Ponty, Éloge de la philosophie, Gallimard, Paris, 1953, p. 49: «Il y a lieu de craindre que notre temps, lui aussi, rejette le philosophe en lui-même et qu’une fois de plus la philosophie n’y soit que nuées. Car philosopher, c’est chercher, c’est impliquer qu’il y a des choses à voir et à dire. Or, aujourd’hui, on ne cherche guère. On “revient” à l’une ou à l’autre des traditions, on la “défend”. Nos convictions se fondent moins sur des valeurs ou des vérités aperçues que sur les vices ou les erreurs de celles dont nous ne voulons pas. Nous aimons peu de choses, si nous en détestons beaucoup. Notre pensée est une pensée en retraite ou en repli. […] Les idées cessent de proliférer et de vivre, elles tombent au rang de justifications et de prétextes, ce sont des reliques, des points d’honneur, et ce qu’on appelle pompeusement le mouvement des idées se réduit à la somme de nos nostalgies, de nos rancunes, de nos timidités, de nos phobies». ↩︎
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Arthur Schopenhauer, La filosofia delle università, Adelphi, Milano 1992, p. 20 (originariamente pubblicato in Parerga e Paralipomena, Adelphi, Milano, 1981, pp. 197-276): «Nonostante tutto i filosofi universitari, pur limitati a questa maniera, rimangono nel far ciò [nel filosofare, n.d.A.] di buon umore, poiché la loro autentica serietà sta nell’acquistarsi con onore un onesto reddito per sé, la moglie e i figli, e inoltre nel godere una certa fama di fronte alla gente. Per contro l’animo profondamente agitato di un vero filosofo, la cui grande serietà sta nel ricercare una chiave della nostra esistenza, tanto enigmatica quanto scabrosa, viene da loro annoverato tra gli esseri mitologici, se pure colui che porta in sé tale animo non sembra loro addirittura, caso mai volesse presentarsi di fronte ad essi, come affetto da monomania. Che infatti vi possa essere una tale amara e autentica serietà nella filosofia, nessuno, almeno di regola, potrebbe immaginare tanto poco quanto un docente della stessa, allo stesso modo che il cristiano più incredulo è di solito il Papa. È quindi uno dei casi di più rari che un vero filosofo sia stato al tempo stesso un docente di filosofia». Da sottolineare come Schopenhauer vedesse in Kant un caso eccezionale, in cui il filosofo coesisteva con il professore di filosofia. ↩︎
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Arthur Schopenhauer, La filosofia delle università, cit., p. 35: «si tratta dell’antica lotta tra coloro che vivono per qualcosa e coloro che vivono di qualcosa, o tra coloro che sono qualcosa e colo che lo rappresentano». Cfr. anche Arthur Schopenhauer, «Sulla filosofia e il suo metodo», in Parerga e Paralipomena, cit., p. 11: «I primi due requisiti del filosofare sono questi: prima di tutto che si abbia il coraggio di non serbare nel proprio cuore alcuna domanda e, in secondo luogo, che si porti a chiara coscienza tutto ciò che si capisce da sé per concepirlo come problema. Infine, per filosofare davvero, lo spirito deve essere veramente ozioso: non deve perseguire degli scopi e dunque non deve essere guidato dalla volontà, bensì dedicarsi integralmente all’ammaestramento che gli danno il mondo intuibile e la sua stessa scienza. — I professori di filosofia, invece, pensano al loro utile e vantaggio personale, a ciò che serve in questo senso: qui risiede la loro serietà. Per questo non vedono affatto tante cose che invece sono chiare; anzi non giungono mai alla meditazione, sia pure soltanto sui problemi della filosofia». ↩︎
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Per una dettagliata ed esaustiva discussione critica del linguaggio heideggeriano cfr. Gustavo Micheletti, «Il gergo dell’essere. Il linguaggio heideggeriano secondo Löwith, Calogero, Adorno e Ortega y Gasset».Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia, anno 4 (2002). ↩︎
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Martin Heidegger, Essere e Tempo, Mondadori, Milano 2006, p. 28. ↩︎
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Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1965, p. 118. ↩︎
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Herbert Marcuse — Karl R. Popper, Rivoluzione o riforme?, Armando, Roma 1982, p. 58. ↩︎
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La frase non ha deliberatamente alcun senso compiuto. Ciononostante, una possibile traduzione letterale è la seguente: «Essere nel farsi e far sì che ciò sia, è essere per chiunque senza essere nessuno». ↩︎
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Ad esempio, per acconsentire al matrimonio della figlia Sofia chiede al suo spasimante (Monsieur Mélusin) di provare il suo amore attraverso la fornicazione, perché «l’ampiezza di un sentimento si giudica proprio dal numero di carezze che suscita»; oppure arriva ad un passo dal ripudiare la moglie, persuaso da Monsieur Néant che questa sia la cosa giusta per dimostrare la sua libertà. ↩︎
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Albert Camus, La commedia dei filosofi, Via del Vento Edizioni, Pistoia 2010, p. 29 (Ibidem per tutte le precedenti citazioni). ↩︎
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Jacques Derrida, La farmacia di Platone, Jaka Book, Milano 1985, p. 45. ↩︎
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Non a caso Michel Foucault, in un confronto privato con il suo amico e collega John Searle, definì l’opera di Derrida «oscurantismo terrorista», aggiungendo anche che «è impossibile decifrare il senso di un materiale così incomprensibile — e se si chiedono chiarimenti all’autore si rischia di essere presi per cretini». Del resto, lo stesso Foucault confessò anche, ancora una volta a Searle, di aver volontariamente complicato il suo scrivere con la seguente assurda giustificazione: «in Francia occorre avere un 10% di incomprensibilità, altrimenti le persone non penseranno che tu sia un pensatore profondo». Secondo Pierre Bourdieu, poi, altro filosofo ed intellettuale parigino, la stessa soglia di incomprensibilità deve essere invece almeno del 20%. Per comprendere i termini della polemica tra Searle e Derrida cfr. John R. Searle, «The Word Turned Upside Down», in The New York Review of Books, 27 ottobre 1983; Jacques Derrida, «Afterword: Toward an Ethic of Discussion», in Limited Inc., Northwestern University Press, Evanston 1988, pp. 111-160. ↩︎
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Quest’ultima espressione, evidentemente ironica, è di Camus. Viene adoperata all’interno della sua famosa Réponse à Monsieur Directeur (ovvero Sartre), di cui riportiamo il seguente passaggio. Albert Camus, Œuvres complètes, cit., III, p. 417 : «J’ai entrepris avec L’Homme révolté une étude de l’aspect idéologique des révolutions. Ce n’était pas seulement mon droit le plus strict ; peut-être y avait-il aussi quelque urgence à le faire dans un temps où l’économie est notre tarte à la crème et où des centaines de volumes et de publications attirent l’attention d’un très patient public sur les fondements économiques de l’histoire et l’influence de l’électricité sur la philosophie. Ce que Les Temps modernes font tous les jours avec tant de bonne volonté, pourquoi l’aurais-je refait ? Il faut bien se spécialiser». ↩︎
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Albert Camus, Œuvres complètes, cit., IV, p. 1268: «Kierkegaard brandissait devant Hegel une terrible menace : lui envoyer un jeune homme qui lui demanderait des conseils». ↩︎
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Molto probabilmente Camus non avrebbe approvato le ultimissime forme di «filosofia commerciale» — manuali d’uso quali Le pillole di Aristotele o Platone è meglio del Prozac, entrambi di Lou Marinoff, giusto per fare un esempio. ↩︎
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Albert Camus, «L’enigma», in L’estate e altri saggi solari, Bompiani, Milano, 2003, p. 86. Per il testo originale francese, Albert Camus, Œuvres complètes, cit., III, p. 603: «Un écrivain écrit en grande partie pour être lu (ceux qui disent le contraire, admirons-les, mais ne les croyons pas). De plus en plus cependant, il écrit chez nous pour obtenir cette consécration dernière qui consiste à ne pas être lu. À partir du moment, en effet, où il peut fournir la matière d’un article pictoresque dans notre presse à grand tirage, il a toutes les chances d’être connu par un assez grand nombre de personnes qui ne le liront jamais parce qu’elles se suffiront de connaître son nom et de lire ce qu’on écrira sur lui. Il sera désormais connu (et oublié) non pour ce qu’il est, mais selon l’image qu’un journaliste pressé aura donnée de lui. Pour se faire un nom dans les lettres, il n’est donc plus indispensable d’écrire des livres. Il suffit de passer pour en avoir fait un dont la presse du soir aura parlé et sur lequel on dormira désormais». ↩︎
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Albert Camus, Taccuini (1942-1951), cit., p. 272. Per il testo originale francese, Albert Camus, Œuvres complètes, cit., IV, p. 1087: «Ceux qui écrivent obscurément ont bien de la chance : ils auront des commentateurs. Les autres n’auront que des lecteurs, ce qui, parait-il, est méprisable». ↩︎
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S. Tagliagambe, voce Sistema, in Enciclopedia Filosofica Bompiani, Bompiani, Milano, 2010, XI, p. 10693. ↩︎
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Voce Sistematico, in Enciclopedia Filosofica Bompiani, cit., XI, p. 10704. ↩︎
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Inteso ora come principio generatore del cosmo (cronologicamente antecedente a tutte le entità sensibili, le quali da esso si sono generate ed eventualmente in esso sono destinate a risolversi), ora come elemento fondamentale del reale (sostanza comune a tutte le entità sensibili, ad esse contemporanea, come ad esempio l’acqua per Talete), ora infine come legge fondamentale del divenire (principio supremo in grado di regolare e conservare l’armonia delle cose e degli eventi). In ogni caso, al di là della sua antecedenza o posteriorità cronologica, l’arché è sempre e comunque ontologicamente e assiologicamente superiore agli elementi sensibili-reali ad esso subordinati. ↩︎
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In special modo Cfr. Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano, 2000, libro Alpha, di cui riportiamo il seguente estratto (983b, p. 15): «La maggior parte di coloro che primi filosofarono pensarono che princìpi di tutte le cose fossero solo quelli materiali. Infatti essi affermano che ciò di cui tutti gli esseri sono costituiti e ciò da cui derivano originariamente e in cui si risolvono da ultimo, è elemento ed è principio degli esseri, in quanto è una realtà che permane identica pur nel trasmutarsi delle sue affezioni». ↩︎
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Da ricordare anche la distinzione di d’Alembert tra «spirito di sistema» (esprit de système) e «spirito sistematico» (esprit systématique): dogmatico, sterile ed astratto il primo; concentro, produttivo e scientifico il secondo. Cfr. Jean Le Ronde d’Alembert, Discours préliminaire de l’Encyclopédie, Paris, Vrin, 2000. ↩︎
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Immanuel Kant, Critica della ragion pura, Adelphi, Milano, 1967, p. 807: «Ciò che noi chiamiamo scienza […] non può sorgere tecnicamente, in base alla somiglianza ritrovata nel molteplice, o in base all’uso contingente della conoscenza in concreto per ogni sorta di fini esterni arbitrari, ma deve sorgere architettonicamente, in base all’affinità tra le parti ed alla derivazione da un unico fine supremo ed interno, il solo che renda possibile il tutto». ↩︎
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Immanuel Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 806. ↩︎
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G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, Bompiani, Milano, 2000, p. 53. ↩︎
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Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, Adelphi, Milano, 1970, p. 28: «Diffido dei sistematici e li evito. La volontà di sistema è una mancanza di onestà». Questo stesso aforisma è riportato da Camus nei suoi Carnets. ↩︎
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Per avere un’idea dell’aspirazione «totalitaria» della filosofia hegeliana basterà un rapido sguardo all’indice analitico della Fenomenologia dello Spirito. ↩︎
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Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, cit., p. 25. ↩︎
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Theodor W. Adorno, Minima Moralia, cit., p. 75: «Testi dove ogni passaggio è accuratamente segnato, ed è evitata ogni discontinuità, risultano inevitabilmente di una banalità e di una noia che non affetta solo la tensione della lettura, ma la loro stessa sostanza». Ivi, p. 5: «La teoria dialettica [di Hegel], contraria ad ogni ente isolato, non lascia quindi posto agli aforismi come tali. Nel migliore dei casi, essi potrebbero — nel linguaggio della prefazione della Fenomenologia dello spirito — essere tollerati come «conversazione». Il loro tempo è finito. Ma questo libro [gli stessi Minima Moralia, n.d.A.], nonché dimenticare la pretesa di totalità del sistema, che non è disposto a tollerare che si esca dai suoi confini, insorge apertamente contro di essa. […] Oggi che il soggetto è in corso di sparizione, gli aforismi fanno propria l’istanza che “proprio ciò che sparisce sia considerato come essenziale”». ↩︎
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Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, cit., p. 129. ↩︎
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Una nota del febbraio 1951 è illuminante a riguardo: «Après L’Homme révolté. Le refus agressif, obstiné du système. L’aphorisme désormais». Albert Camus, Œuvres complètes, cit., IV, p. 1104. ↩︎
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L’espressione citata, traducibile alla lettera come «pensatori di professione», è originariamente di Kant e venne ripresa successivamente da Hannah Arendt, la quale non voleva appunto essere annoverata tra di essi. Cfr. Hannah Arendt, La vita della mente, il Mulino, Bologna 1987, p. 83. ↩︎
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Albert Camus, Œuvres complètes, cit., II, p. 659: «Je ne suis pas un philosophe. Je ne crois pas assez à la raison pour croire à un système. Ce qui m’intéresse, c’est de savoir comment il faut se conduire. Et plus précisément comment on peut se conduire quand on ne croit ni en Dieu ni en la raison». ↩︎
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Olivier Todd, Albert Camus. Une vie, Gallimard, Paris, 1996, p. 777. ↩︎
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Jean-Paul Sartre, Che cos’è la letteratura?, cit., p. 449 : «Lei ha fatto il suo Termidoro. […] In lei si è insediata una dittatura violente e cerimoniosa, che si fonda su una burocrazia astratta e presume di instaurare la legge morale»; p. 450: «Può darsi che lei sia stato povero, ma ora non lo è più; ora è un borghese, come Jeanson, come me». ↩︎
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Ivi, p. 461: «Non oso consigliarle di prendere in mano L’Être e le Néant, la cui lettura le sembrerebbe inutilmente ardua: lei detesta le difficoltà del pensiero e stabilisce alla svelta che non c’è nulla da capire per evitare in partenza il rimprovero di non aver capito». ↩︎
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Ivi, pp. 456-461. ↩︎
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Albert Camus, Œuvres complètes, cit., II, p. 659: «Les sentiments, les images multiplient la philosophie par dix». ↩︎
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Albert Camus, Taccuini (1935-1942), cit., p. 14. Da notare come la suddetta affermazione sia del gennaio 1936, nel primo dei nove cahiers raccolti successivamente nei Carnets, quando Camus non aveva ancora compiuto ventitré anni. ↩︎
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Friedrich Nietzsche, Nachgelassene Fragmente Sommer—Herbst 1873, 29 [205]: «Das Product des Philosophen ist sein Leben». ↩︎
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Albert Camus, Taccuini (1935-1942), cit., p. 41. ↩︎
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Ivi, p. 51. Per il testo originale francese, Albert Camus, Œuvres complètes, cit., II, p. 971: «Question à poser : Aimez-vous les idées — avec passion, avec le sang ? Faites-vous une insomnie de cette idée ? Sentez-vous que vous jouez votre vie sur elle ? Que de penseurs reculeraient !» ↩︎
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Ad esempio, la nausea schiacciante dell’essere-per-sé di Sartre e l’angoscia opprimente dell’essere-alla morte di Heidegger. ↩︎
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«Il n’y a qu’un problème philosophique vraiment sérieux : c’est le suicide. Juger que la vie vaut ou ne vaut pas la peine d’être vécue, c’est répondre à la question fondamentale de la philosophie. Le reste, si le monde a trois dimensions, si l’esprit a neuf ou douze catégories, vient ensuite. Ce sont des jeux ; il faut d’abord répondre. Et s’il est vrai, comme le veut Nietzsche, qu’un philosophe, pour être estimable, doive prêcher d’exemple, on saisit l’importance de cette réponse puis-qu’elle va précéder le geste définitif.» ↩︎
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Si veda precedentemente la nota 34. ↩︎
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Arthur Schopenhauer, «Sul mestiere dello scrittore e sullo stile», in Parerga e Paralipomena , cit., p. 687. ↩︎
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Albert Camus, Œuvres complètes, cit., I, p. 908: «mal nommer un objet, c’est ajouter au malheur de ce monde». Traduzione nostra. ↩︎
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L’uomo in rivolta, Bompiani, Milano, 2005, p. 311. ↩︎
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Albert Camus, La peste, Bompiani, Milano 2004. p. 196. Per il testo originale francese, Albert Camus, Œuvres complètes, cit., II, p. 210: «J’ai entendu tant de raisonnements qui ont failli me tourner la tête, et qui ont tourné suffisamment d’autres têtes pour les faire consentir à l’assassinat, que j’ai compris que tout le malheur des hommes venait de ce qu’ils ne tenaient pas un langage clair. J’ai pris le parti alors de parler et d’agir clairement, pour me mettre sur le bon chemin». ↩︎
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Bernard-Henri Lévy, «Albert Camus, philosophe artiste», in Albert Camus. La révolte et la liberté, Hors-série du “Monde”, 2010. ↩︎
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Friedrich Nietzsche, Il libro del filosofo, Ananke, Torino 2007, p. 16. (frammento del 1872). ↩︎