I risvolti etici della rivolta camusiana

L’intera opera di Albert Camus — per stessa ammissione dell’autore — può essere considerata un vero e proprio percorso filosofico «a tappe»: nel presente lavoro ci occuperemo di mostrare nel dettaglio soltanto un parte di tale percorso — quella che va dall’assurdo alla rivolta — per poi mostrare i possibili risvolti etici di tale ultimo approdo concettuale. Cominciamo dunque subito con l’analisi della condizione assurda.

1. L’assurdo come punto di partenza

Anche l’assurdo ha le sue origini: esse vanno ricercate in quel concetto ad esso immediatamente precedente costituito dall’estraneità. La sua prima e più completa trattazione la ritroviamo sotto forma di romanzo ne Lo straniero1, ma senza ombra di dubbio è ne Il mito di Sisifo che tale concetto viene affrontato esplicitamente da un punto di vista filosofico. Se dovessimo tentare una prima ed elementare definizione, potremmo provare con la seguente: «condizione esistenziale nella quale l’uomo è straniero al mondo in cui vive». Ma a ciò andrebbe subitamente aggiunto l’aspetto più importante di tale condizione: in essa, l’uomo non è consapevole della sua stessa estraneità; egli si limita a viverla sulla sua pelle, appunto inconsapevolmente. Proprio questa inconsapevolezza è ciò che distingue tale condizione da quella assurda, a tal punto che una prima e complementare definizione di assurdo potrebbe essere proprio la seguente: una «estraneità consapevole». A conferma di tale intuizione ci viene incontro un passaggio interessante del Mito:

E avviene così che la scena si sfasci. La levata, il tram, le quattro ore di ufficio o di officina, la colazione, il tram, le quattro ore di lavoro, la cena, il sonno e lo svolgersi del lunedì martedì mercoledì giovedì venerdì e sabato sullo stesso ritmo… questo cammino viene seguito senza difficoltà la maggior parte del tempo. Soltanto, un giorno, sorge il “perché” e tutto comincia in una stanchezza colorata di stupore. “Comincia”, questo è importante. La stanchezza sta al termine degli atti di una vita automatica, ma inaugura al tempo stesso il movimento della coscienza, lo desta e provoca il seguito, che consiste nel ritorno incosciente alla catena o nel risveglio definitivo. Dopo il risveglio viene, col tempo, la conseguenza: suicidio o ristabilimento. In sé, la stanchezza ha qualche cosa di disgustoso, ma, in questo caso, devo concludere che è vantaggiosa. Infatti, tutto comincia con la coscienza e nulla ha valore se non per mezzo di questa. Le presenti osservazioni non hanno nulla di originale, ma sono evidenti: bastano per un certo tempo, quando si tratti di studiare sommariamente le origini dell’assurdo.2

In questo lungo passaggio — caratteristico per la sua disarmante ma efficace semplicità — troviamo dunque confermata l’idea secondo la quale l’assurdo si origina dall’estraneità: esso sorge a seguito di quella riflessione su se stesso del soggetto estraniato che determina un passaggio dall’inconsapevolezza nella quale si è immersi nel vivere quotidiano alla consapevolezza che necessariamente richiede la domanda sul «perché» del proprio stesso vivere.3 Ma l’estraneità, presa in sé stessa, rappresenta però molto di più di un semplice precursore dell’assurdo. Essa significa in realtà la radicale e permanente «differenza ontologica» che intercorre tra l’uomo e il mondo, differenza che contrappone razionalità ed emotività umane all’inscalfibile indifferenza del mondo.4 Sicché possiamo definire a pieno titolo l’estraneità come una categoria esistenziale originaria, al pari della Geworfenheit heideggeriana.5

A tale condizione esistenziale di smarrimento — nella quale si è esposti ad una sofferenza interiore più o meno latente — l’uomo tenta di far fronte attraverso un processo di «mascheramento», per mezzo del quale il vero volto del mondo viene occultato con immagini (teologiche, scientifiche, metafisiche, etc.) atte a renderlo più familiare ed ospitale. Ma il mondo in sé è nudità e mutismo: tali immagini non sono altro che categorie antropomorfiche, «sustruzioni concettuali» che mal si applicano alla realtà del tutto irragionevole del mondo:

Scendiamo ancora di un gradino (rispetto all’assurdo, n. d. A.) ed ecco l’estraneità: accorgersi che il mondo è “denso”, intravedere fino a che punto una pietra sia estranea e per noi irriducibile, con quale intensità la natura, un paesaggio possano sottrarsi a noi. Nel fondo di ogni bellezza sta qualcosa di inumano, ed ecco che le colline, la dolcezza del cielo, il profilo degli alberi perdono, nello stesso momento, il senso illusorio di cui noi li rivestivamo, più distanti ormai che un paradiso perduto. L’ostilità primitiva del mondo risale verso di noi, attraverso i millenni. Per un secondo non lo comprendiamo più, [sia] perché per secoli non avevamo capito in esso [nient’altro] che le figure e i disegni che gli avevamo antecedentemente attribuiti, sia perché ormai ci mancano le forze per servirci di tale artificio. Il mondo ci sfugge poiché ritorna sé stesso. Le scene travisate dall’abitudine, ridiventano ciò che sono e si allontanano da noi.6

Arrivati a questa consapevolezza della sfuggevolezza del mondo al tentativo «umano, troppo umano» di razionalizzazione del medesimo, si è ad un passo dal senso dell’assurdo. Manca ancora un consolidamento ultimo di tale coscienza: occorre infatti renderla lucida e definitiva. Bisogna cioè riconoscere che se nel mondo non è possibile rintracciare alcunché, non è a causa di un’insufficienza della «vista», bensì di una radicale assenza di qualsiasi senso da cogliere.

Qual è, dunque, quell’imponderabile sensazione che priva lo spirito del sonno necessario alla vita? Un mondo che possa essere spiegato, sia pure con cattive ragioni, è un mondo familiare; ma viceversa, in un universo subitamente spogliato di illusioni e di luci, l’uomo si sente un estraneo, e tale esilio è senza rimedio, perché privato dei ricordi di una patria perduta o della speranza di una terra promessa. Questo divorzio tra l’uomo e la sua vita, fra l’attore e la scena, è propriamente il senso dell’assurdo.7

L’uomo assurdo è dunque l’uomo di una certa impossibilità. Egli ha riconosciuto che l’estraneità non è una condizione contingente: egli afferma che non la sua singola vita, ma la vita in generale è estraneità. La sua peculiare impotenza è allora quella di non poter più possedere il mondo come prima,8 all’interno di quella accogliente familiarità che ne caratterizzava l’esistenza. In questo definitivo e inconciliabile divorzio, in questo interminabile e insolvibile confronto, risiede l’intero dramma umano: da una parte l’uomo, con la sua coscienza ora desta ora assopita, la sua instabilità emotiva, il suo pensiero e la sua razionalità ardenti di chiarezza; dall’altra un mondo totalmente indifferente, irragionevole, incosciente, muto.

L’assurdità nasce da un confronto. È dunque con fondamento che dico che il senso dell’assurdo non nasce dal semplice esame di un fatto o di un’impressione, ma scaturisce dal paragone fra uno stato di fatto e una certa realtà, fra un’azione e il mondo che la supera. L’assurdo è essenzialmente un divorzio, che non consiste nell’uno o nell’altro degli elementi comparati, ma nasce dal loro confronto. […] Distruggere uno dei termini, è distruggerl (o) interamente. Non può esistere assurdo al di fuori dello spirito umano. Così l’assurdo finisce, come tutte le cose, con la morte. Ma non può neppure esistere assurdo al di fuori di questo mondo.9

Uomo e mondo si trovano paradossalmente «uniti nella loro inconciliabilità»: l’assurdo è ora l’unico legame che intercorre tra di loro. Per millenni il mondo era apparso all’uomo familiare e trasparente: da una parte la teologia, affermandone la diretta discendenza dalla volontà divina, ne salvaguardava il primo aspetto; dall’altra la metafisica e ogni tipo di filosofia speculativa — nonché, nel suo campo meramente descrittivo, la scienza10 — ne garantivano la piena intelligibilità. La tragedia contemporanea è allora al tempo stesso la «morte di Dio» e la «fine della metafisica»: una certa onesta intellettuale, se vuole mantenersi tale,11 non può più avvalersi né della trascendenza divina né di qualsiasi entità metafisica per spiegare il reale. A partire da questa impossibilità sorge e si consolida il divorzio tra uomo e mondo:

Dicevo che il mondo è assurdo; ma andavo troppo presto. Il mondo, in sé, non è ragionevole: è tutto ciò che si può dire. Ma ciò che è assurdo, è il confronto di questo irrazionale con il desiderio violento di chiarezza, il cui richiamo risuona nel più profondo dell’uomo. L’assurdo dipende tanto dall’uomo quanto dal mondo, ed è, per il momento, il loro solo legame.12

Secondo una certa lettura13 l’assurdo è allo stesso tempo un’esperienza e un concetto. Camus stesso all’inizio del capitolo Il suicidio filosofico ragiona in questi termini: «Il senso dell’assurdo non equivale alla nozione dell’assurdo: la fonda e basta; e non è contenuto in quella, se non il breve istante in cui esso pronuncia il proprio giudizio sull’universo».14 Finora ci siamo limitati a descrivere il senso dell’assurdo. A partire da adesso invece ci concentreremo nell’analisi del suo concetto: cercheremo — per ritornare all’etimologia greca del termine «analisi» — di «sciogliere» e «scomporre» tale concetto nelle sue parti costitutive, la prima delle quali è quella riguardante il suo sentimento fondante. L’assurdo ha infatti le sue radici più profonde nell’animo dell’uomo, in una sua aspirazione intima e primordiale apparentemente ineliminabile. Camus la definisce con più di un’espressione: «esigenza di familiarità», «brama di chiarezza» e «di assoluto», «nostalgia di unità». In sostanza si tratta del bisogno umano tanto forte quanto insoddisfabile di «costituire in unità il mondo»:

Il profondo desiderio dello spirito, anche nei suoi più evoluti processi, si ricongiunge al sentimento incosciente dell’uomo di fronte al proprio universo: è esigenza di familiarità, brama di chiarezza. Comprendere il mondo, per un uomo, significa ridurre quello all’umano, imprimergli il proprio suggello. L’universo del gatto non è l’universo del formichiere. La lapalissiana verità che «tutti i pensieri sono antropomorfici» non ha altro significato. Parimente, lo spirito che cerca di capire la realtà, non può ritenersi soddisfatto se non quando la riduca in termini di pensiero. Se l’uomo riconoscesse che anche l’universo può amare e soffrire, si riconcilierebbe con questo. Se il pensiero scoprisse, nei mutevoli specchi dei fenomeni, eterne relazioni che potessero sintetizzarli e sintetizzarsi esse stesse in un unico principio, si potrebbe parlare di una felicità dello spirito, di cui il mito dei beati sarebbe soltanto una ridicola contraffazione. Questa nostalgia di unità, questa brama di assoluto spiega lo svolgimento del dramma umano nella sua essenza.15

In sostanza, la scena concettuale è la seguente: l’uomo, perseguendo il suo desiderio di unità, interroga il mondo riguardo al suo principio unitario, ma esso gli risponde con un enigmatico silenzio: dov’è l’errore? va forse riformulata la domanda? No, l’errore è la domanda stessa. Essa non può materialmente essere posta, poiché manca l’interlocutore.16 Il filosofo razionalista che ancora oggi si sforza di costruire un qualche sistema metafisico è figlio dell’ostinazione. L’assurdo non insegna altro che questo: il mondo non ha nulla da dirci, qualsiasi ricerca di un senso in esso è vana — di un senso che sia indipendente dalla coscienza umana, unica fonte di significato possibile. L’incomprensibilità del mondo è nel mondo stesso — nell’assenza di un senso in esso e di qualsiasi ragione che lo motivi — e non in un mio difetto di comprensione.

Voglio che mi sia spiegato tutto o nulla. E la ragione è impotente di fronte a questo grido del cuore. Lo spirito, risvegliato da questa esigenza, cerca e non trova che contraddizioni e sragionamenti [dèraisonnements] . Ciò che io non comprendo è senza ragione. Il mondo è popolato da questi irrazionali, ed esso stesso, di cui non capisco il significato unico, non è che un immenso irrazionale.17

Nostalgia di unità e esigenza di familiarità umane sono dunque destinate irrimediabilmente a rimanere insoddisfatte. È questo il prezzo dell’onestà assurda, nella quale non tutti hanno la forza di mantenersi. Dirà a riguardo Camus:

A questa svolta estrema, in cui il pensiero vacilla, molti uomini, e proprio fra i più umili, sono giunti. Costoro hanno rinunziato allora a ciò che avevano di più caro: la vita. Altri ancora, principi nel campo dello spirito, hanno pure fatto tale rinunzia, ma hanno proceduto al suicidio del loro stesso pensiero, nella più pura rivolta. Il vero sforzo consiste, al contrario, nel rimanervi per quanto ciò è possibile, ed esaminare da vicino la barocca vegetazione di queste contrade lontane. La tenacità e la perspicacia sono spettatori privilegiati in questo giuoco inumano, dove l’assurdo, la speranza e la morte scambiano le loro repliche. Lo spirito può allora analizzare le figure di questa danza al tempo stesso elementare e sottile, prima di illustrarle e di riviverle in se stesso.18

L’uomo assurdo, arrivato in questi «luoghi deserti ed aridi in cui il pensiero giunge ai propri confini»,19 deve trarre le sue conseguenze, e non può che farlo nel modo più radicale possibile. Le conseguenze dell’assurdo: questo è ciò che intimamente interessa a Camus.20 Egli vuole cioè che la sua riflessione si concentri in ultima analisi sui risvolti pratici ed esistenziali dell’assurdo, poiché è questo ciò che conta veramente. Una verità che non abbia delle conseguenze pratiche non ha una reale importanza. «Io non ho mai veduto alcuno morire per l’argomento ontologico», dirà nella prima pagina del Mito, sottolineando che il criterio per determinare l’importanza di un problema è proprio nelle sue conseguenze pratiche: «se mi domando da che cosa si possa giudicare che un problema sia più urgente di un altro, rispondo che lo si può fare dalle azioni che implica».21

L’uomo di fronte all’assurdo deve rispondere, ed in fretta: «il vivere sotto tale cielo soffocante, richiede che se ne esca o che vi si rimanga. Si tratta di sapere come se ne esca nel prima caso e perché si resti nel secondo».22 Per quanto riguarda la prima evenienza, Camus intravede essenzialmente due possibilità: il suicidio — la negazione di se stessi — e il suicidio filosofico — la negazione dell’assurdo. Nei prossimi due paragrafi ci occuperemo proprio di analizzare schematicamente queste due possibilità, mostrandone le ragioni della loro illegittimità.

1.1. Significato e condanna del suicidio e del suicidio filosofico

Uccidersi, in un certo senso e come nel melodramma, è confessare: confessare che si è superati dalla vita o che non la si è compresa. […] È confessare che “non vale la pena”. Vivere, naturalmente, non è mai facile. Si continua a fare i gesti che l’esistenza comanda, per molte ragioni, la prima delle quali è l’abitudine. Morire volontariamente presuppone che si sia riconosciuto, anche istintivamente, il carattere inconsistente di tale abitudine, la mancanza di ogni profonda ragione di vivere, l’indole insensata di questa quotidiana agitazione e l’inutilità della sofferenza.23

Il suicidio, per quanto sia la maggior parte delle volte un atto impulsivo e irrazionale, non può certo definirsi un gesto insignificante. Come si evince dal passo appena citato, il suicidio ha infatti un suo preciso significato: esso afferma la propria sconfitta nei confronti del mondo — che ci supera con la sua sproporzionata insensatezza — e della propria vita — alla quale non si è stati capaci di dare una «direzione di senso».

Ma al tempo stesso, per quanto significante, il suicidio — diciamolo sin da ora — non è un «gesto assurdo», nel senso che non è né una conseguenza logica dell’assurdo né un gesto da esso legittimato.24 L’attenzione dedicata da Camus al tema del suicidio è esclusivamente funzionale al tema della vita e del suo senso: per dirla in parole semplici e volutamente paradossali, Camus si concentra sul tema della morte (volontaria) per parlare del suo opposto, la vita. Infatti, nell’ineguagliabile incipit del Mito, suicidio e senso della vita sono posti in diretta successione, proprio a sottolineare tale loro intima connessione:

Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia. Il resto — se il mondo abbia tre dimensioni o se lo spirito abbia nove o dodici categorie — viene dopo. […] Giudico dunque che quella sul senso della vita è la più urgente delle domande.25

Detto ciò, veniamo ora a ciò che più ci interessa, cioè alle ragioni della condanna del suicidio da parte dell’assurdo. Nel primo paragrafo avevamo mostrato come l’assurdo si origini a partire da un determinato movimento della coscienza che, riflettendo su se stessa e sulla sua vita personale, diviene consapevole della propria estraneità. Ma la coscienza non è in realtà solo l’elemento genetico dell’assurdo, non si limita cioè ad «attivarlo» — a «produrlo» — per poi allontanarsene: essa è invece lo stesso elemento che ne permetta la durata e la persistenza. La coscienza è, dunque, condizione di possibilità dell’assurdo. O, volendo condensare il tutto in una massima: non si dà assurdo senza coscienza dell’assurdo. Questo perché l’assurdo non è un realtà a sé — qualcosa in sé sussistente nel mondo, trascendente la coscienza — bensì una tensione originantesi proprio dal confronto tra la coscienza e il mondo, «fra il richiamo umano e il silenzio irragionevole del mondo».26

Domandiamoci allora: in questo ordine di cose, qual’è il ruolo del suicidio? Esso coincide evidentemente con la soppressione volontaria della coscienza e quindi di conseguenza — stando a quanto abbiamo detto — dell’assurdo stesso. Ma è proprio qui il problema: per Camus «l’assurdo ha senso solo nella misura in cui gli venga negato il consenso»,27 e il suicidio è proprio tale consenso all’assurdo. Di qui scaturisce la sua illegittimità:

È qui che si vede fino a qual punto l’esperienza assurda si scosti dal suicidio. Si può credere che il suicidio sia la rivolta, ma a torto, poiché esso non rappresenta il logico sbocco di questa, ma è, anzi, esattamente il suo contrario, a causa del consenso che presuppone. Il suicidio, come il salto, è l’accettazione del proprio limite. […] A suo modo il suicidio risolve l’assurdo, perché lo trascina nella stessa morte. Ma io so che per mantenersi, l’assurdo non può risolversi. Esso sfugge al suicidio nella misura in cui è al tempo stesso coscienza e rifiuto della morte.28

L’assurdo dunque non comanda il suicidio, ma anzi lo condanna fermamente, perché esso «è un disconoscimento».29 L’uomo di fronte all’assurdo, sempre se vuole conservarsi all’interno di una certa onestà, deve mantenere la propria coscienza salda e vigile,30 così da affermare contro l’assurdo la propria rivolta — che però non è ancora la rivolta di cui ci occuperemo successivamente. È lo stesso Camus ad usare proprio tale termine, anticipando in qualche modo quella che sarà poi la sua tematica fondamentale:

Coscienza e rivolta: questi rifiuti sono il contrario della rinunzia. [Conscience et révolte, ces refus sont le contraire du renoncement] Tutto ciò che vi è di irriducibile e di appassionato in un cuore umano li anima, al contrario, della propria vita. Si tratta di morire irreconciliati e non già di pieno accordo. Il suicidio è una sconoscenza. L’uomo assurdo non può far altro che tutto esaurire ed esaurirsi. L’assurdo è la sua estrema tensione, quella che egli conserva costantemente con uno sforzo solitario, poiché sa che in questa coscienza e in questa rivolta, giorno per giorno, egli attesta la sua sola verità, che è la sfida. Questa è una prima conseguenza.31

Tale passo ci consente di introdurre una distinzione fondamentale nella filosofia camusiana che è quella tra rifiuto e rinuncia: in sostanza tale distinzione afferma che rifiutare la condizione nella quale si è calati non significa automaticamente rinunciare a vivere in essa, e così è — e deve essere — per l’assurdo. Camus, nell’incipit de L’uomo in rivolta, insisterà proprio su tale «rifiuto senza rinuncia» quando, domandandosi «che cos’è un uomo in rivolta? », risponderà che esso è «un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi». Anche all’uomo assurdo spetta dunque una certa positività, sicché la rinuncia per eccellenza — il suicidio — gli è estranea. A conferma di tale affermazione, nell’introduzione dell’appena citato testo del 1951, Camus dichiara esplicitamente:

la conclusione ultima del ragionamento assurdo consiste infatti nel respingere il suicidio e nel mantenere quel confronto disperato tra l’interrogazione umana e il silenzio del mondo. Il suicidio significherebbe la fine di questo confronto e il ragionamento assurdo ritiene di non potervi sottoscrivere se non negando le proprie premesse. Per esso, tale conclusione sarebbe fuga o liberazione. Ma è chiaro che con ciò il ragionamento assurdo ammette la vita come il solo bene necessario, in quanto essa permette appunto il confronto: senza vita, la scommessa assurda non avrebbe appoggio alcuno.32

Per le stesse motivazioni, all’uomo assurdo è estraneo anche il cosiddetto «suicidio filosofico»: se il suicida di fronte all’assurdo negava se stesso, con questo particolare suicidio è invece l’assurdo stesso ad essere negato «in nome dell’eternità». La parola «abnegazione» descrive al meglio tale gesto: lì dove l’unica vera evidenza — la più scottante e innegabile — è l’assurdo, il «suicida filosofico» sacrifica tale evidenza e il pensiero che la attesta in nome di una paradossale fede in una indimostrabile eternità. Egli compie un «salto mortale» verso la trascendenza. Ma così facendo non sta che cedendo il passo alla speranza e all’illusione. Camus utilizza una splendida metafora a tal proposito:

Nei musei italiani, si trovano, a volte, piccoli schermi dipinti, che il prete teneva davanti il viso dei condannati, per nascondere loro il patibolo. Il salto, in tutte le sue forme, il precipitarsi nel divino o nell’eterno, l’abbandonarsi alle illusioni del quotidiano o dell’idea, tutti questi schermi celano l’assurdo.33

Anche qui, dunque, ci troviamo di fronte ad una «sconoscenza». Ma la logica assurda insegna che bisogna attenersi alla verità e all’evidenza, bisogna — lo ripetiamo ancora una volta — mantenersi onesti. Quando Kierkegaard, o il meno conosciuto Chestov, nonché gli esistenzialisti e addirittura la fenomenologia di Husserl34 proclamano il salto, stanno in realtà rimettendosi alla trascendenza. Vi è in questo una seconda umiliazione della ragione — lì dove la prima umiliazione era quella della ragione di fronte alle «muraglie assurde». Il salto, lungi dall’essere una nuova affermazione della ragione, è in realtà un suo totale abbandono. Chestov, ad esempio, afferma che

la sola vera via di uscita è proprio là dove, secondo il giudizio umano, non v’è alcuna. Altrimenti, perché avremmo bisogno di Dio? Non ci si rivolge a Dio che per ottenere l’impossibile. Quanto al possibile, gli uomini soli vi bastano.35

Ma quale logica coerente vi può mai essere ancora in funzione in un pensiero del genere? Nessuna, perché si è ormai compiuto quello che Ignazio di Loyola definiva «il sacrificio dell’intelletto». Camus rifiuta nettamente un simile sacrificio. Lutero sosteneva che la ragione «nei credenti dev’essere uccisa e sepolta». Ma per l’uomo assurdo è vero il contrario: la ragione ha un suo preciso dominio di validità, nel quale è uno strumento legittimo di conoscenza ma oltre il quale non può andare. Proprio oltre tali limiti si affrettano ad andare gli uomini della speranza e del salto: ma essi, lungi dal risolvere il problema dell’assurdo, lo distruggono. In tale distruzione, la nostalgia di unità prevale sulle evidenze della ragione: sia il filosofo razionalista che quello religioso hanno fretta di concludere e di risolvere, ma in realtà tutto ciò che vogliono fare è saltare.

La ragione e l’irrazionale conducono alla stessa predicazione. Il fatto è che, in verità, il cammino ha poca importanza e la volontà di arrivare basta a tutto. Il filosofo astratto e il filosofo religioso partono dallo stesso smarrimento e si sostengono nella stessa angoscia. Ma l’essenziale è dare una spiegazione. Qui la nostalgia è più forte della scienza. […] questo divorzio (l’assurdo, n. d. A.) è soltanto apparente. Si tratta di giungere ad una conciliazione e, in entrambi i casi, basta il salto.36

Il loro è un naufragio dissimulato. Ancora una volta tutto si riduce ad una questione di onestà: «sapersi mantenere su questa cresta vertiginosa (che precede il salto, n. d. A.), ecco l’onestà: il resto è sotterfugio».37 Riconosciuti i limiti della ragione, nulla ci legittima a oltrepassarli — neanche la nostra irrefrenabile nostalgia di unità e brama di chiarezza. L’esistenza di tali ansie ineliminabili non ne attesta la legittimità: esse sono destinate a rimanere senza requie per loro stessa essenza. Colui che crede di poter fare il contrario si nutre soltanto delle «rose dell’illusione».38 La perspicacia e l’insistenza camusiana ci insegnano semplicemente di attenerci alle evidenze:

il mio ragionamento vuol essere fedele all’evidenza che lo ha destato. Tale evidenza è l’assurdo. È il divorzio fra lo spirito che desidera e il mondo che delude, è la mia nostalgia di unità; l’universo disperso e la contraddizione che lega l’una all’altro. […] si trattava di vivere e di pensare con questo strazio, di sapere se bisognava accettare o rifiutare, ma non certo di mascherare l’evidenza, di sopprimere l’assurdo, negando uno dei termini della sua equazione.39

Camus non nega la trascendenza o l’eternità.40 Nega invece che si possa vivere in essa e per essa. Tutto ciò che la ragione ci dice è che l’uomo è una finitudine, che ha dei limiti oltre i quali non può andare:

Questo — si dice — passa la misura umana, bisogna dunque che sia sovrumano. Ma questo “dunque” è eccessivo. Qui non vi è affatto certezza logica e neppure probabilità sperimentale. Tutto quanto posso dire è che, in realtà, ciò passa i miei limiti. Se anche non ne traggo una negazione, almeno non voglio fondare nulla sull’incomprensibile. Voglio soltanto sapere se posso vivere con ciò che so e con ciò soltanto. Mi si dice ancora che l’intelligenza deve sacrificare il proprio orgoglio e che la ragione deve inchinarsi. Ma se pure riconosco i limiti della ragione, non la nego fino a tal punto, poiché ammetto i suoi poteri relativi. Voglio solamente restare in quella via di mezzo, in cui l’intelligenza può mantenersi chiara. Se è quello il suo orgoglio, non vedo una sufficiente ragione per rinunciarvi.41

Come si potrà notare, la differenza sostanziale tra i filosofi del salto e l’uomo assurdo è nel loro diverso approccio alla trascendenza — inteso come quel dominio di indeterminabilità che supera la ragione: i primi corrono sicuri a dare voce a tale trascendenza, a riempirla di forme e parole, a «determinarla» insomma; il secondo invece riconosce che una trascendenza che sia veramente tale non può che essere nulla per lui, che è l’elemento trasceso. I due atteggiamenti sono ben riassunti nella seguente citazione: «per Chestov la ragione è vana; ma, al di là di questa, vi è qualche cosa. Per uno spirito assurdo, la ragione è vana; ma non vi è nulla al di là di essa».42

Dunque, in definitiva, anche il suicidio filosofico subisce la condanna da parte dell’assurdo: esso, lungi dal risolvere l’assurdo, lo cela, lo nasconde. E invece tale scottante evidenza va mantenuta, poiché è da essa che si origina la stessa riflessione umana: risolvere con un salto il problema da cui si è partiti, è in realtà evitare di rispondere; è un annientare il problema, non risolverlo; è, in sostanza, un’«elisione». Le parole di Camus chiariscono meglio di qualsiasi nostra spiegazione il problema in questione:

Si tratta di vivere entro lo stato di assurdo. So su che cosa sono fondati questo spirito e questo mondo, puntellati uno contro l’altro, senza riuscire ad abbracciarsi. Domando una regola di vita per questo stato, e ciò che mi viene proposto ne trascura il fondamento, nega un termine dell’opposizione dolorosa, mi ordina una rinunzia. Domando ciò che porta con sé la condizione che riconosco come mia, so che questa implica l’oscurità e l’ignoranza, e mi viene assicurato che tale ignoranza spiega tutto e che codesta notte è la mia luce. Ma non si risponde qui al mio pensiero, e quel lirismo esaltante non può nascondermi il paradosso.

1.2. Le ricadute pratiche ed esistenziali dell’assurdo

Condannati definitivamente il suicidio e il suicidio filosofico, viene ora il tempo di mostrare la via per mantenersi nell’assurdo. Analizzeremo dunque in sequenza i caratteri di questa permanenza, cioè ci sforzeremo di indicare cosa significa e cosa comporta vivere nell’assurdo — e solo successivamente, nella parte conclusiva, entreremo nel merito della validità etico-esistenziale di tale posizione. Quali sono quindi le prime caratteristiche rintracciabili di una vita assurda? È lo stesso Camus a dircelo:

spingendo fino all’estremo questa logica assurda, devo riconoscere che tale lotta suppone la totale assenza di speranza (che non ha nulla a che vedere con la disperazione), il rifiuto continuo (che non deve essere confuso con la rinuncia) e l’insoddisfazione cosciente (che non dev’essere assimilata all’inquietudine giovanile.43

Riassumendo: non-speranza, rifiuto e insoddisfazione (che, come mostreremo, è in realtà una «insoddisfabilità»). Partiamo dal primo elemento: abbiamo già detto che con il salto mortale l’uomo sfugge all’assurdo, nella misura in cui ricorre ad una travisata trascendenza e ad una sovrumana eternità. Ora, in questo ricorso disperato ciò che si instaura nella vita del singolo è il dominio tanto misero quanto inconfutabile della speranza. Essa rappresenta la procrastinazione ultima e l’elisione definitiva, poiché ritiene di trovare il senso della vita — di questa vita che ora avvertiamo come reale e pulsante — in un’«altra vita» — quella ultraterrena e ultrasensibile dopo la morte:

Eludere, ecco il giuoco costante. L’elisione tipo, l’elisione mortale, che costituisce il terzo tema di questo saggio, è la speranza, speranza di un’altra vita che bisogna «meritare», o inganno di coloro che vivono non per la vita in se stessa, ma per qualche grande idea che la supera, la sublima, le dà un senso e la tradisce.

L’uomo della speranza è dunque l’uomo votato all’eternità. Agli antipodi di tale devozione,44 l’uomo assurdo è invece «colui che, senza negarlo, nulla fa per l’eterno».45 Il suo tempo è il presente. Il suo campo di azione è la terra. Egli vive qui ed ora, poiché riconosce che l’espressione «una vita dopo la morte» è semplicemente ossimorica e paradossale.46 «Non che la nostalgia gli sia estranea; ma egli preferisce il proprio coraggio e il proprio ragionamento. Il primo gli insegna a vivere senza richiami e a contentarsi di ciò che ha; il secondo gli fa conoscere i suoi limiti». Nella sua non-speranza egli accetta la massima nietzschiana — citata da Camus — secondo la quale «ciò che importa non è la vita eterna, ma l’eterna vivacità».47 Proprio per questo egli, messo di fronte ad una bivio improcrastinabile, prediligerà sempre l’azione alla contemplazione:

viene sempre il momento in cui bisogna scegliere fra la contemplazione e l’azione. Ciò si chiama diventare un uomo. Questi strappi sono sempre terribili, ma per un cuore fiero non può esservi via di mezzo. C’è Dio o il tempo, la croce o la spada. O il mondo ha un senso più alto che supera le sue agitazioni, o nulla è vero al di fuori di tali agitazioni. Bisogna vivere con il tempo e con lui morire o sottrarsi ad esso per una vita più grande. So che si può venire a transazioni e vivere nel secolo, credendo nell’eterno. Questo compromesso si chiama accettazione. Ma a me ripugna tale termine e voglio essere tutto o nulla. Se scelgo l’azione, non crediate che per questo la contemplazione sia per me una terra sconosciuta. Soltanto essa non può tutto darmi, e, privato dell’eterno, voglio allearmi al tempo. Non voglio far figurare sul mio conto la nostalgia né l’amarezza, e voglio solamente vederci chiaro.48

L’uomo del presente e dell’azione, dunque. Il tutto in nome di un rifiuto continuo che non rinuncia ad affermarsi contro il mondo. Ma in cosa consiste precisamente tale rifiuto — il secondo dei tre elementi prima elencati? In una negazione dell’opprimente irragionevolezza del mondo e, allo stesso tempo, in una affermazione del proprio essere desideroso di chiarezza pur sempre attenentesi soltanto alle evidenze reali e concrete dell’esperienza terrena — compresa quella dell’assurdo: «tale rivolta non è aspirazione, poiché è senza speranza; è la certezza di un destino schiacciante, meno la rassegnazione che dovrebbe accompagnarla».49

Dunque, oltre a vivere nel presente, l’uomo assurdo vivrà per il presente. Cosa soddisferà allora il suo animo? Nulla, assolutamente nulla: una insuperabile «insoddisfabilità» cosciente — «che non dev’essere assimilata all’inquietudine giovanile» — gli appartiene intimamente, poiché egli sa che nessuna teleologia — e di conseguenza nessuna possibile apocatastasi riconciliatrice — opera nel mondo. Anche egli, come l’uomo nietzschiano, «giunto alla libertà della ragione, non può sentirsi sulla terra nient’altro che un viandante — non un viaggiatore diretto a una meta finale: perché questa non esiste».50

Egli non deve mettersi al pari con nulla, nasce e vive senza debiti verso il divino: la sua condizione è quella del «peccato senza Dio»,51 quella in cui l’unico giudice, lungi dall’essere un entità superiore e sovrumana, è in realtà ogni altro uomo che con lui condivide questo destino fatale. Egli non deve né guadagnarsi una salvezza ultraterrena, né scongiurare l’inferno: egli è innocente, perché nato senza nessun peccato originale. Ma «questa innocenza è terribile»: perché l’uomo assurdo — è questo un punto fondamentale da tenere a mente — non si compiace affatto di tale nichilismo assoluto, di tale «divina equivalenza». Egli è consapevole che «la certezza di un Dio, che darebbe il proprio senso alla vita, supera di gran lunga in attrattiva il potere impunito di mal fare», ma è altrettanto consapevole che un Dio in questo mondo è impossibile o inutile: «la scelta non sarebbe difficile; ma non vi è scelta e comincia allora l’amarezza. L’assurdo non libera: vincola. E non autorizza ogni atto. Tutto è permesso non significa che nulla sia proibito».52

Una certa libertà e indipendenza gli appartiene, ed è quella — terribile e carica di responsabilità — che spetta ad un abitante di un mondo senza Dio. Egli riconosce il nichilismo del reale ma non per questo se ne compiace — come fece mezzo secolo prima Nietzsche, «la coscienza più acuta del nichilismo». Egli — lo ripetiamo ancora una volta — è l’uomo dell’onesta, e tutto ciò che richiede è di attenersi all’evidenza:

Posso tutto confutare, in questo mondo che mi circonda, mi urta o mi trasporta, salvo questo caos, questo caso imperante e questa divina equivalenza, che nasce dall’anarchia. Non so se il mondo abbia un senso che lo trascenda; ma so che io non conosco questo senso e che, per il momento, mi è impossibile conoscerlo. Che valore ha per me un significato al di fuori della mia condizione? Io posso comprendere soltanto in termini umani. Ciò che tocco e che mi resiste, ecco quanto comprendo. E queste due certezze, la mia brama di assoluto e di unità e l’irriducibilità del mondo a un principio razionale e ragionevole, so anche che non posso conciliarle. Quale altra verità posso conoscere senza mentire, senza far intervenire una speranza che non ho e che non significa nulla entro i limiti della mia condizione?

Come si noterà da questo passo, è impossibile pensare che la filosofia camusiana sia — anche solo a questo stadio — una filosofia del libero compiacimento del nichilismo e del non-senso del mondo. La «divina equivalenza» — l’anarchia, l’essere-senza-principio, an-archia — è un fatto terribile, ma è appunto un fatto, e con esso occorre fare i conti senza mezze misure né mascheramenti mitici, fronteggiandolo attraverso quella coscienza ormai salda sorta con l’assurdo. Non si vive per l’assurdo ma sempre contro di esso:

insistiamo ancora sul metodo: si tratta di ostinarsi. A un certo punto del cammino, l’uomo assurdo è incalzato. La storia non è priva di religioni né di profeti, anche senza dei. Gli si chiede di saltare. Tutto quello che può rispondere è che non comprende bene, perché ciò non è evidente. Egli, appunto, non vuol fare quello che non capisce. Lo si assicura che è peccato di orgoglio (ma egli non afferra la nozione di peccato); che forse, alla fine, c’è l’inferno (ma egli non ha sufficiente immaginazione per raffigurarsi questo strano avvenire); che perderà la vita immortale (ma questo gli sembra futile). Si vorrebbe fargli riconoscere la sua colpevolezza, ma egli si sente innocente. A dire il vero, egli non sente che questo: la propria innocenza irreparabile. È questa che gli permette tutto. Cosicché, ciò che egli richiede da se stesso è solamente vivere con ciò che sa, adattarsi a ciò che è, e non far intervenire nulla che sia certo. Gli viene risposto che niente lo è; ma questa, almeno, è una certezza. È con questa che ha a che fare: egli vuole sapere se è possibile vivere senza ricorso.53

«Vivere senza ricorso»: ovvero, attenersi al reale e vivere in esso, nella sua unica concretezza immanente, senza appelli né salti verso qualsiasi entità, essere o idea che trascenda la propria finita condizione. «Il corpo, la tenerezza, la creazione, l’azione, la nobiltà umana»: questa è «la scommessa straziante e meravigliosa dell’assurdo»54 che va accettata se e solo se si vuole rimanere onesti a sé stessi e al proprio originario sentire. «Tutto il resto è sotterfugio».

1.3. Il mito di Sisifo e l’assurdo

Prima di passare all’esame critico del concetto di assurdo, è d’obbligo spendere qualche parola su Sisifo, il simbolo della filosofia camusiana giunta a questo stadio. Il suo mito è noto:

Gli dei avevano condannato Sisifo a far rotolare senza posa un macigno sino alla cima di una montagna, dalla quale la pietra ricadeva per azione del suo stesso peso. Essi avevano pensato, con una certa ragione, che non esiste punizione più terribile del lavoro inutile e senza speranza.55

Ma a ciò si aggiunge una serie di circostanze — più o meno note e leggendarie — che caratterizzano ancora di più il volto e il carattere del personaggio. Leggenda vuole che egli svelò al dio fluviale Asopo l’identità del rapitore di sua figlia Egina — in cambio di una sorgente d’acqua per la sua città natale, Corinto. Ma si dà il caso che tale rapitore fosse il grande Zeus, che volle punire Sisifo per questa rivelazione oltraggiosa. Per questo motivo Zeus chiese a suo fratello Ade di inviare Thanatos (la Morte) a casa di Sisifo per punirlo, ma questi fece ubriacare Thanatos, per poi incatenarlo e imprigionarlo. Visto che sulla terra nessuno più moriva, gli dei si insospettirono: mandarono allora Ares alla ricerca dell’imprigionato Thanatos. Liberato questo, Ares scoprì Sisifo e lo condusse agli inferi. Ma quest’ultimo, prima di venir catturato, disse alla moglie di non seppellire il suo corpo e di non mostrare nessun rancore per questo gesto. Così facendo, egli non poté entrare negli inferi ma dovette rimanere sulle sponde dello Stige, fino a quando il suo corpo non sarebbe stato seppellito. Allora Sisifo convinse Ade a farsi rispedire sulla terra per tre giorni, così da poter punire la moglie per quell’oltraggioso gesto. Ma, una volta sulla terra, egli vi rimase fino alla vecchiaia: solo allora gli dei inviarono Hermes a riprendere il rivoltoso.

Si è già capito che Sisifo è l’eroe assurdo, tanto per le sue passioni che per il suo tormento. Il disprezzo per gli dei, l’odio contro la morte e la passione per la vita, gli hanno procurato l’indicibile supplizio, in cui tutto l’essere si adopera per nulla condurre a termine. È il prezzo che bisogna pagare per le passioni della terra.

Amore per la vita e per la terra da una parte, odio per la morte e per gli dei dall’altra. Sisifo è allora — in certo e limitato senso — un umanista: sa che il destino «è una questione di uomini, che deve essere regolata fra uomini»,56 e in nome di questa lucida e nuova consapevolezza si adatta a vivere senza ricorso né speranza. Il suo sollevare e risollevare all’infinito quel masso, rappresenta alla perfezione la gratuità dell’esistenza umana: nulla verrà ricompensato, né punito, allora tutto è gratuito. Ma in questa gratuità, Sisifo scopre una felicità superiore: «Non si scopre l’assurdo senza esser tentati di scrivere una manuale della felicità. “E come! Per vie così anguste? ” Ma vi è soltanto un mondo. La felicità e l’assurdo sono figli della stessa terra e sono inseparabili».

Nella nostra lettura, Sisifo incarna — con tutti i limiti che ne derivano — la nietzschana fedeltà alla terra che dice «si» alla vita e sopprime qualsiasi retro-mondo.57 È dunque l’uomo della lucidità e dell’onestà e, al tempo stesso, della vitalità e dell’amore: i due poli, che prima ci sembravano così inconciliabili, in lui raggiungono un equilibrio miracoloso:

non v’è sole senza ombra, e bisogna conoscere la notte. Se l’uomo assurdo dice di sì, il suo sforzo non avrà più tregua. Se vi è un destino personale, non esiste un fato superiore o, almeno, ve n’è soltanto uno, che l’uomo giudica fatale e disprezzabile. Per il resto, egli sa di essere il padrone dei propri giorni. In questo sottile momento, in cui l’uomo ritorna verso la propria vita, nuovo Sisifo che torna al suo macigno, nella graduale e lenta discesa, contempla la serie di azioni senza legame, che sono divenute il suo destino, da lui stesso creato, riunito sotto lo sguardo della memoria e presto suggellato dalla morte. Così, persuaso dell’origine esclusivamente umana di tutto ciò che è umano, cieco che desidera vedere e che sa che la notte non ha fine, egli è sempre in cammino. Il macigno rotola ancora.

All’assurdità del mondo Sisifo risponde con la sua primitiva rivolta: egli oppone a tale insensato mondo la sua felicità solare e originaria, il suo «sole invincibile», la sua «perenne estate». E così, per concludere la nostra descrizione, non possiamo che lasciare la parola al meraviglioso capoverso conclusivo del Mito, sintesi finale del cammino assurdo che in queste pagine abbiamo percorso:

Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli dei e solleva i macigni. Anch’egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare né sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice.

1.4. Analisi critica dell’assurdo: il «vicolo cieco» della «divina equivalenza»

Preliminarmente occorre elencare uno ad uno tutti gli elementi concettuali e gli aspetti dell’assurdo analizzati finora, così da ottenere una visione di insieme che ci aiuterà da un punto di vista metodologico.

  1. L’assurdo si origina dall’estraneità, a partire dalla presa di coscienza dell’individuo della proprio estraneità, fino ad allora vissuta inconsapevolmente. A partire dal consolidamento di tale coscienza l’uomo si rende definitivamente conto dell’ineludibilità della condizione assurda, cioè si rende conto che il divorzio e l’estraneità che intercorre tra sé e il mondo è destinato a mantenersi tale.
  2. L’assurdo si fonda su un sentimento peculiare dell’animo umano: il bisogno di unità (definito da Camus anche come «esigenza di familiarità», «brama di chiarezza» e «di assoluto», «nostalgia di unità»). Per quanto l’esistenza di tale desiderio sia evidente e fuori da ogni ombra di dubbio, il problema si pone invece sulla sua effettiva soddisfabilità e, di conseguenza, sulla sua reale legittimità. L’assurdo sorge proprio da questa continua tensione intercorrente tra la richiesta ragionevole dell’uomo e l’irragionevole silenzio del mondo. Sicché, in ultima analisi, il bisogno di unità dell’uomo è evidentemente insoddisfabile e dunque illegittimo.
  3. Esistono due «vie di fuga» dall’assurdo: il suicidio e il suicidio filosofico. Entrambi illegittimi, sono accomunati dalla implicita negazione compiuta nei confronti dell’assurdo. Il primo, infatti, nel suo negare l’individuo, e dunque nel suo negare quella coscienza da cui si origina l’assurdo, nega in ultima analisi proprio tale termine del divorzio. Il secondo, invece, nel suo salto irrazionale verso la trascendenza e l’eternità, nega l’evidenza dalla quale era partito, cioè l’assurdo stesso. Quindi suicidio e suicidio filosofico non sono gesti dettati dall’assurdo, quanto più dei modi per sviare da esso.
  4. L’uomo assurdo non nega la ragione, ma anzi ne riconosce il valore entro e non oltre i suoi limiti di validità. Ciò che conta è dunque il rispetto di tali limiti: una ragione che sconfini oltre le sue stesse frontiere è per essenza destinata a naufragare e a tramutarsi nel suo contrario, l’irrazionale.
  5. L’uomo assurdo non nega la trascendenza, ma la considera semplicemente per ciò che è, ovvero come qualcosa di indeterminabile che lo sorpassa, che è oltre il suo essere. Egli si attiene all’immanente concretezza del mondo e della sua vita, lì dove i «suicidi filosofici» si tuffano nella vertiginosa inconsistenza del trascendente.
  6. L’uomo assurdo non nega Dio. Egli ne riconosce l’ipotetico valore, ma sa che, in questo mondo così strutturato, un Dio come quello venerato dalle maggiori religioni positive è impossibile — nonché inutile. Di qui, il carattere agnostico e non-ateo dell’uomo assurdo, lontano da qualsiasi negazione che a lui non spetta.
  7. L’uomo assurdo vive al presente e in questo mondo, poiché ha abbandonato qualsiasi speranza in un futuro oltremondano originantesi dal mero bisogno umano. La speranza, ai suoi occhi, è un’elisione che nega a suo modo l’assurdo, poiché procrastina questa vita in nome di una improbabile «vita dopo la morte» — ma per esso questa espressione non hanno senso, solo questa vita conta.
  8. L’uomo assurdo rifiuta l’irragionevolezza di questo mondo, nonché l’elisione che il concetto di Dio compie nei confronti dell’esistenza, ma non per questo rinuncia a vivere. Egli è semplicemente cosciente dell’evidenza della propria istanza di ragionevolezza e dell’evidenza del mutismo irrimediabile del mondo, sicché rifiuta qualsiasi «via di fuga» ma non rinuncia a vivere.

Redatto questo piccolo ed estremo riassunto di quanto detto in precedenza riguardo all’assurdo, possiamo ora concentrarci sull’analisi critica di tale concetto. Iniziamo con l’esplicitare quanto già accennato nel titolo di questo capitolo: l’assurdo è un punto di partenza, nel senso che non è che una riflessione provvisoria, una tappa iniziale in quel cammino che condurrà alla rivolta. Se ci si fermasse a questa riflessione, la filosofia camusiana potrebbe legittimamente essere considerata come nichilista. Ma è proprio qui il punto: Camus, sin dall’avvertenza al Mito, sottolinea il «carattere provvisorio» della sua riflessione e, nell’introduzione a L’uomo in rivolta, ribadirà più volte questa idea — «l’assurdo, considerato come regola di vita, è dunque contraddittorio», «è in se stesso contraddizione», «ci lascia in un vicolo cieco», «ha fatto tabula rasa».58 Alcune riflessioni e discorsi di Camus ci spingono a pensare che, sin dalle origini, il piano della sua opera fosse già bene chiaro,59 come si evince dal seguente stralcio del discorso pronunciato in occasione del ritiro del premio Nobel nel 1957, tre anni prima della sua tragica e prematura morte:

Avevo un piano preciso quando ho cominciato la mia opera: volevo prima di tutto esprimere la negazione. Sotto tre forme. Romanzesca: e fu Lo straniero. Drammatica: Caligola, Il malinteso. Ideologica: Il mito di Sisifo. Prevedevo il positivo sempre sotto tre forme. Romanzesca: La peste. Drammatica: Lo stato d’assedio e I giusti. Ideologica: L’uomo in rivolta. Intravedevo già un terzo stato di questo piano relativamente al tema dell’amore.60

Di qui la tesi che sostiene come nella condizione assurda — meramente iniziale e negativa — non sia possibile altro che una vita estetica: se, infatti, il mondo è una «divina equivalenza», se cioè in esso non si danno punti di riferimento valoriali, né la benché minima possibilità di perseguire delle linee precostituite di orientamento etico, allora non esiste gerarchia né differenza tra un gesto e un altro. Ogni atto si equivale, e il più feroce degli assassini non è condannabile tanto quanto il più filantropo degli uomini non è apprezzabile. Leggiamo a tal proposito due passi diversi, tratti rispettivamente dal Mito e da L’uomo in rivolta:

L’assurdo restituisce soltanto alle conseguenze di questi fatti la loro equivalenza. Esso non raccomanda il delitto — cosa che sarebbe puerile — ma rende al rimorso la sua inutilità. Parimente, se tutte le esperienze sono indifferenti, quella del dovere è altrettanto legittima che un’altra. Si può essere virtuosi per capriccio.61

Il senso dell’assurdo, quando si pretenda trarne subito una norma d’azione, rende l’omicidio per lo meno indifferente, e quindi possibile. Se a nulla si crede, se nulla ha senso e se non possiamo affermare alcun valore, tutto è possibile e nulla ha importanza. Non c’è pro né contro, né l’assassino ha torto o ragione. Si possono attizzare i forni crematori, come anche ci si può consacrare alla cura dei lebbrosi. Malizia è virtù sono caso o capriccio.62

A conferma di tale tesi è possibile far notare come gli «uomini assurdi» descritti nel Mito (Don Giovanni, il Conquistatore, il Commediante, ma anche l’uomo dei record, nonché il personaggio di Caligola nell’omonima opera teatrale) siano tutti dei personaggi esclusivamente estetici, impossibilitati a condurre eticamente la propria vita proprio in quanto rinchiusi nell’assurdo senza alcuna volontà di superamento: «ciò che Don Giovanni mette in atto è un’etica della quantità, contrariamente al santo, che tende alla qualità».63 L’assurdo appiattisce il mondo e annulla qualsiasi scala di valori: tutto ciò che resta è fare collezione di esperienza, esaurirne il numero fino alla morte, mantenendo salda la lucidità e la coscienza:

battere tutti i records significa, in primo luogo ed unicamente, trovarsi di fronte al mondo il più spesso possibile. Come può avvenire ciò senza contraddizioni e senza giuochi di parole? Da un lato, infatti, l’assurdo insegna che tutte le esperienze sono indifferenti, mentre dall’altro spinge verso la più grande quantità di esse. […] Sentire la propria vita, la propria rivolta e la propria libertà, il più intensamente possibile, equivale a vivere il più possibile. Dove regna la lucidità, la scala dei valori diventa inutile.64

L’attore che vuole incarnare il maggior numero di personaggi possibili — che vuole «avere tante anime compendiate in un sol corpo»;65 oppure quei conquistatori che «parlano di vincere e di superare; ma è sempre di “superarsi” che essi intendono»66: tutto ciò non fa che confermare la nostra tesi.

Di più: l’uomo assurdo, proprio in quanto imprigionato nel suo stesso estetismo non-etico, è incapace di considerasi al di fuori del suo solipsismo — lo stesso Sisifo è rinchiuso irrimediabilmente nella sua solitudine. Il mondo agli occhi dell’uomo assurdo è semplicemente insensato: agli occhi delL’uomo in rivolta esso sarà invece ingiusto, che è cosa ben diversa — ma su questa distinzione torneremo tra poco.

Un ultimo aspetto va sottolineato. Dopo aver definito la vita nell’assurdo come estetica e solipsistica, dobbiamo far notare come essa sia il regno di una libertà assoluta e senza limiti. Infatti tutti i personaggi assurdi, nel loro anarchico essere situati, sono completamenti liberi da qualsiasi vincolo morale che potrebbe vietargli alcunché. Esemplari a tal proposito sono le parole di Caligola:

Caligola: Ragazzi miei. Comincio a capire la virtù del potere. È qualcosa che va di pari passo con l’immaginazione. Da questo momento — e per sempre — la mia libertà è senza più limiti.

Ma la libertà assoluta è, per essenza, sregolata, folle, «disumana» e, a suo piacimento, omicida. La sua coerenza è l’incoerenza e il capriccio: come Caligola è capace di mandare a morte Mereia con una fiala di veleno seguendo il suo libero e folle arbitrio, così i generali nazisti fucilavano i loro prigionieri disposti in file seguendo la logica del «lui si, lui no». Proprio l’inaccettabilità di una tale condotta segnerà l’implosione dell’assurdo e l’instaurazione della rivolta: il male che è nel mondo non è più accettabile, per questo urge una condotta di vita che ad esso si opponga con coraggio e temerarietà.

Sisifo — eroe dell’assurdo apertosi a questo male sovrano incondizionato del mondo — abnega la sua felicità solitaria in nome della rivolta. Il suo masso è fermo ai piedi della montagna, ed egli è già altrove. Sisifo è diventato Prometeo.

2. La rivolta oltre l’assurdo

In chiusura del precedente capitolo avevamo evidenziato come la rivolta si instauri nell’assurdo soltanto a partire da una soggettiva presa di coscienza dell’insostenibilità dell’assurdo stesso, dal momento che in tale condizione, essendo impossibile una condotta etica coerente, l’uomo è irrimediabilmente destinato alla tentazione di un’onnipotente follia senza limiti. Sisifo è allora ad un bivio: può seguire la via della rivolta o quella dell’esacerbazione dell’assurdo. Prometeo o Caligola: bisogna scegliere — e tale scelta è tutt’altro che scontata.

L’introduzione a L’uomo in rivolta dal titolo L’assurdo e l’omicidio parte proprio dalla constatazione che la nostra epoca ha scelto la via di Caligola: le due guerre mondiali, i totalitarismi, gli stermini di massa, sono solo alcuni dei più significativi esempi dell’esacerbazione assurda contemporanea e della sua follia. L’incipit de L’uomo in rivolta, proprio a seguito di questo cambiamento delle circostanze, non può che essere caratterizzato da un radicale slittamento tematico: infatti, non si parla più del suicidio, come nella trattazione dell’assurdo, bensì dell’omicidio, in particolare di quello «logico» e premeditato, simbolo incontestabile di un’epoca — il Novecento.

Ci sono delitti di passione e delitti di logica. Il confine che li separa è incerto. Ma il Codice penale li distingue, abbastanza acconciamente, in base alla premeditazione. Siamo nel tempo della premeditazione e del delitto perfetto. I nostri criminali non sono più quei bimbi inermi che adducevano la scusa dell’amore. Sono adulti, al contrario, e il loro alibi è irrefutabile: è la filosofia, che può servire a tutto, fino a tramutare in giudici gli assassini.67

Caligola aveva perlomeno l’alibi della follia: è infatti per la morte della sua compagna (e sorella) Cesonia che sceglie la logica dell’assurdo. La società contemporanea invece, pervasa dal suo iper-razionalismo, che scusa può addurre? Nessuna. È infatti non per una spassionata follia, ma in nome di un ideale di liberazione universale e di «super-umanità» che asserve e uccide milioni di uomini, nei gulag e nei lager. La filosofia — che a partire da Marx68 ha abbandonato definitivamente il theorein aristotelico in nome della praxis volta alla trasformazione del mondo — è divenuta assassina: le ideologie novecentesche hanno in comune con Caligola di essere arrivati al punto di «trasformare la propria filosofia in cadaveri».69 Proprio per ricercare una via di uscita da tale insostenibile e assurda situazione Camus scrive L’uomo in rivolta, inteso dall’autore stesso come «uno sforzo per comprendere il mio tempo»:

Si riterrà forse che un’epoca la quale, in cinquant’anni, asserve o uccide settanta milioni d’esseri umani debba soltanto, e innanzi tutto, essere giudicata. Ma bisogna almeno che la sua colpevolezza sia compresa. Ai tempi ingenui in cui il tiranno radeva al suolo qualche città a propria maggior gloria, in cui lo schiavo aggiogato al carro del vincitore sfilava per le città festanti, e il nemico veniva gettato alle belve davanti al popolo adunato, di fronte a delitti così candidi, la coscienza poteva essere salda, e chiaro il giudizio. Ma i campi di schiavi sotto il vessillo della libertà, i massacri giustificati dall’amore per l’uomo o dal sogno di una super-umanità, disarmano, in certo senso, il giudizio. Il giorno in cui il delitto si adorna delle spoglie dell’innocenza, quella cui viene intimato di fornire le proprie giustificazioni, per una strana inversione propria al nostro tempo, è l’innocenza stessa. Sarebbe ambizione di questo saggio accettare ed esaminare questa strana sfida.70

Dunque, proprio per compiere questa uscita dalla condizione assurda, Camus sceglie — inutile dirlo — la via prometeica della rivolta. Ma nel farlo — ci teniamo a sottolinearlo — non compie nessun salto: «i due ragionamenti sono legati», dirà a riguardo.71 La rivolta infatti, seppur non sia un’automatica e naturale conseguenza dell’assurdo, è quella scelta che l’uomo deve compiere di fronte all’assurdo se — e solo se — vuole mantenersi ancora fedele alle sue poche ma innegabili evidenze: la stessa onestà che frenava l’uomo assurdo dal salto e dal suicidio è da perpetrarsi anche qui. L’uomo assurdo si atteneva all’evidenza dell’insolvibilità della tensione intercorrente tra la sua richiesta di senso e il silenzio irragionevole del mondo: in poche parole, si atteneva all’evidenza dell’assurdo. L’uomo in rivolta, allo stesso modo, resta fedele alla sua prima evidenza che è il suo stesso grido di contestazione: non più una domanda che attende invano una risposta, ma un vero e proprio ribellarsi alla condizione da cui si è oppressi. In sostanza, non si chiede più nulla al reale, ma ci si pone contro di esso, lo si contesta — seppur per adesso solo istintivamente.

Spezzato lo specchio, nulla resta che possa servirci a rispondere ai problemi del secolo. L’assurdo, come il dubbio metodico, ha fatto tabula rasa. Ci lascia in un vicolo cieco. Ma come il dubbio, esso può, tornandoci sopra, orientare una nuova indagine. Il ragionamento continua allora allo stesso modo. Grido che a nulla credo e che devo almeno credere alla mia protesta. La prima e sola evidenza che mi sia data così, all’interno dell’esperienza assurda, è la rivolta. Privo d’ogni scienza, incalzato a uccidere o ad acconsentire a che si uccida, dispongo di questa sola evidenza che trae nuova forza dal dissidio in cui mi trovo. La rivolta nasce dallo spettacolo dell’irragionevolezza, davanti a una condizione ingiusta e incomprensibile. Ma il suo cieco slancio rivendica l’ordine in mezzo al caos e l’unità al cuore stesso di ciò che fugge e scompare. Essa grida, esige, vuole che lo scandalo cessi e che si fissi finalmente quanto finora si scriveva senza posa sull’acqua.72

Camus, che sembrerebbe essere agli antipodi di un filosofo come Descartes, si riscopre improvvisamente cartesiano nel metodo: con una logica incalzante e incontestabile mostra come dall’evidenza dell’assurdo si possa passare naturalmente e senza salti all’evidenza del grido della rivolta, allo stesso modo in cui Descartes aveva dimostrato come dalla certezza dell’ego cogito derivi necessariamente quella dell’ego sum. Il ragionamento è schematicamente riassumibile come segue: la mia brama di chiarezza mi spinge a chiedere un senso al mondo, ma esso non risponde perché essenzialmente muto e senza senso; apparentemente destinato a rimanere in questo nichilista e assurdo vicolo cieco, grido la mia rivolta contro tale condizione ingiusta e opprimente, ma nel farlo mi accorgo che non posso negare né tale grido né quel contenuto implicitamente positivo che lo sostiene e lo fa sorgere; è questa la mia prima innegabile evidenza.

Eccoci alle origini della rivolta: si tratta in sostanza di una negazione che ritornando su stessa mostra l’implicita positività che le sottostà, poiché nel contestare il reale io devo — logicamente parlando — far appello ad un certo valore, altrimenti la contestazione stessa è impossibile.73 Così si esprimerà in un passaggio tra i più famosi de L’uomo in rivolta:

Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi. Uno schiavo che in tutta la sua vita ha ricevuto ordini, giudica ad un tratto inaccettabile un nuovo comando. Qual è il contenuto di questo “no”? Significa, per esempio, “le cose hanno durato troppo”, “fin qui si, al di là no”, “vai troppo in là” e anche “c’è un limite oltre il quale non andrai”. Insomma, questo no afferma l’esistenza di una frontiera. […] Egli afferma, insieme alla frontiera, tutto ciò che avverte e vuol preservare al di qua della frontiera. Dimostra, con caparbietà, che c’è in lui qualche cosa per cui “vale la pena di… ”, qualche cosa che richiede attenzione. In un certo modo, oppone all’ordine che l’opprime una specie di diritto a non essere oppresso al di là di quanto egli possa ammettere.74

Chiariamo sin da ora un punto: come si può ben vedere, la viva consapevolezza dell’assurdo non è in nessun momento né stata negata, né messa tra parentesi, né tanto meno semplicemente dimenticata. Al contrario, tale consapevolezza è la stessa condizione di possibilità della rivolta, poiché quest’ultima sorge e si mantiene soltanto a partire dal suo netto e radicale opporsi all’assurdo. Prima ricordavamo come non si dia assurdo senza coscienza dell’assurdo: allo stesso modo possiamo ora affermare che non si da rivolta senza coscienza dell’assurdo.

2.1. La rivolta: frontiera, valore, solidarietà

L’iniziale negazione della rivolta — che si oppone al «male della creazione» e all’assurdo — si rivela essere dunque, per necessità logica, una certa positività: essa infatti nel suo negare «afferma l’esistenza di una frontiera» — e non potrebbe essere altrimenti, poiché, lo ripetiamo, qualsiasi contestazione porta necessariamente e implicitamente con sé un giudizio di valore.

La rivolta, in senso etimologico, è un voltafaccia. In essa, l’uomo che camminava sotto la sferza del padrone, ora fa fronte. Oppone ciò che è preferibile a ciò che non lo è. Non tutti i valori trascinano con sé la rivolta, ma ogni moto di rivolta fa tacitamente appello a un valore.75

Nello specifico, a quale valore fa appello la rivolta camusiana? Fino ad ora ci si è mossi su un terreno puramente formale, ovvero si è sempre parlato di «opporre ciò che è preferibile a ciò che non lo è» o di «riconoscere dei limiti oltre i quali non andare»: ma di cosa in realtà si sta parlando? Come vedremo, ci si sta appellando ad un concetto classico ben radicato nella cultura greca, quello di «natura umana».

Per quanto confusamente, dal moto di rivolta nasce una presa di coscienza: la percezione, ad un tratto sfolgorante, che c’è nell’uomo qualche cosa con cui l’uomo può identificarsi, sia pure temporaneamente. […] L’analisi della rivolta conduce almeno al sospetto che esista una natura umana, come pensavano i Greci, e contrariamente ai postulati del pensiero contemporaneo. Perché rivoltarsi se non s’ha, in se stessi, nulla di permanente da preservare? È per tutte le esistenze a un tempo che insorge lo schiavo quando giudica che, da un determinato ordine, viene negato in lui qualche cosa che non gli appartiene esclusivamente, ma che è luogo comune in cui tutti gli uomini, anche quello che l’insulta e l’opprime, hanno pronta una comunità.76

Questo aspetto giusnaturalistico della rivolta camusiana costituirà un aspetto importante da tenere a mente quando discuteremo della possibilità di un’etica della rivolta. Per adesso, esso ci mostra soltanto come il moto di rivolta si caratterizzi essenzialmente come un moto altruistico, che si innalza sempre e solo a partire dal singolo individuo ma necessariamente in nome della comunità più universale — l’umanità stessa. Sicché la rivolta è di per sé descrivibile come un’apertura dell’io — di quell’io che nell’assurdo era irrimediabilmente solitario — al noi, nel quale per forza di cose si è sempre calati. Seguendo una chiave di lettura cara alla letteratura critica camusiana,77 possiamo definire il passaggio dall’assurdo alla rivolta come una svolta da «la révolte solitaire» a «la révolte solidaire». Pensiamo a Caligola: quando egli si rivolta contro l’assurdità dell’esistenza lo fa unicamente per affermare la «sua» libertà senza limiti; uomini e cose gli sono indifferenti, proprio perché sono soltanto ostacoli del suo agire — o tuttalpiù strumenti di esso.

Caligola: Ho deciso di essere logico. Vedrete quanto vi costerà la logica. Il potere ce l’ho io. Eliminerò chi mi contraddice, e anche le contraddizioni.78

Al contrario, Prometeo si rivolta contro gli dei in nome dell’umanità: egli instaura e rende ad ogni passo più viva quella solidarietà che accomuna gli uomini in primis di fronte all’assurdità dell’esistenza, ma soprattutto di fronte al male e alla sofferenza che tale assurda creazione infligge. La rivolta prometeica è dunque a tutti gli effetti un concreto umanesimo, poiché opera nella contingenza della storia in nome di qualcosa che alla storia stessa sfugge: l’umanità. Egli ha smesso di considerare il mondo semplicemente come insensato: ai suoi occhi il mondo è ora ingiusto, poiché nella sua indifferenza opprime l’uomo.79

Se l’individuo accetta di morire, e muore quando se ne presenta l’occasione, nel suo moto di rivolta, mostra con questo di sacrificarsi a pro di un bene che egli giudica trascendente il proprio destino. Se preferisce l’eventualità della morte alla negazione del diritto che difende, è perché pone quest’ultimo al di sopra di sé. Agisce dunque in nome di un valore, ancora confuso, ma che avverte, almeno, di avere in comune con tutti gli uomini. Vediamo dunque che l’affermazione implicita in ogni atto di rivolta si estende a qualche cosa che eccede l’individuo in quanto lo trae dalla sua supposta solitudine e gli fornisce una ragione d’agire. […] L’individuo non è dunque, in se stesso, quel valore che egli vuole difendere. Occorrono almeno tutti gli uomini per costituirlo. Nella rivolta, l’uomo si trascende nell’altro e, da questo punto di vista, la solidarietà umana è metafisica. Semplicemente, si tratta per ora soltanto di quel genere di solidarietà che nasce tra le catene.80

Alla base della rivolta, dunque, non c’è «un calcolo aritmetico degli interessi» o «una fiducia teorica nella natura umana», bensì un sentimento originario che, proprio in quanto sentimento, non può essere razionalmente giustificato81: si tratta di «quanto, nell’uomo, non può ridursi all’idea, quella parte calorosa che a null’altro può servire se non ad essere», quel sentimento empatico che accomuna e che, se può essere dimenticato, non può essere però eliminato.

È il moto stesso dell’amore. Contro Scheler, non insisteremo mai troppo sull’affermazione appassionata che scorre nel moto di rivolta e lo distingue dal risentimento. Negativa in apparenza, poiché nulla crea, la rivolta è profondamente positiva poiché rivela quanto, nell’uomo, è sempre da difendere.82

Ma a questo punto si pone un problema fondamentale: «questa rivolta e il valore di cui è veicolo non sono forse relativi? ». In un certo senso, occorre rispondere affermativamente a questa domanda, poiché se è vero che da un lato il valore a cui fa appello la rivolta — la natura umana — è posto e concepito come universale, dall’altra è altrettanto vero che non ovunque tale valore è concepibile: esistono e sono esistite culture in cui il senso della gerarchia è ed era essenziale nella concezione comune della società; la forma piramidale, secondo la quale gli uomini si dividono naturalmente in classi sociali superiori ed inferiori, è tuttora viva in molti popoli. Tutto ciò per arrivare a dire che esistono delle precondizioni socio-culturali della rivolta. Il che vuol dire che essa non può sorgere ovunque, ma soltanto a partire da certi presupposti — almeno tre — che qui di seguito elencheremo schematicamente avvalendoci delle parole stesse di Camus83:

  1. Il problema della disuguaglianza:

Il problema della rivolta si esprime nelle società in cui le disuguaglianze [sono] molto grandi (regime delle caste indiane) o, al contrario, in quelle ove l’uguaglianza [è] assoluta (certe società primitive). Nella società, lo spirito di rivolta è possibile solo nei gruppi in cui un’eguaglianza teorica celi grandi disuguaglianze di fatto. Il problema della rivolta dunque non ha senso se non entro la nostra società occidentale.

  1. Il presupposto dell’autocoscienza:

La rivolta è propria dell’uomo avvertito, che abbia coscienza dei propri diritti. Ma nulla ci permette di dire che si tratti soltanto dei diritti dell’individuo. Al contrario, per la solidarietà già segnalata, sembra proprio che si tratti d’una coscienza di sé sempre più estesa che la specie umana consegue nel corso della sua avventura.

  1. La questione religiosa:

Di fatto, il suddito dell’Inca, o il paria non si pongono il problema della rivolta, perché esso è già stato risolto per loro in un tradizione, e prima che abbiano potuto porselo, consistendo la risposta in una concezione religiosa. Se nel mondo religioso non si trova il problema della rivolta, si è che in verità non vi si trova alcuna problematica reale, tutte le risposte essendo date in una volta. La metafisica è sostituita dal mito. Non ci sono più interrogativi, ci sono soltanto risposte ed eterni commenti, che possono allora essere metafisici. Ma prima di entrare nel campo religioso, ed anche per entrarvi, o appena ne esce, ed anche per uscirne, l’uomo è interrogazione e rivolta. L’uomo in rivolta è l’uomo che sta prima o dopo l’universo sacro e si adopera a rivendicare un ordine umano in cui tutte le risposte siano umane, cioè razionalmente formulate. Da quell’istante, ogni interrogazione, ogni parola è rivolta, mentre nel mondo religioso, ogni parola è rendimento di grazie. Sarebbe possibile mostrare così come non vi possano essere per uno spirito umano che due soli universi possibili, l’universo religioso (o per parlare il linguaggio cristiano, della grazia), e quello della rivolta. […] L’attualità del problema della rivolta deriva solo dal fatto che oggi intere società hanno voluto assumere una posizione di distanza rispetto ad ogni universo sacro. Viviamo in una storia sconsacrata.

Confrontando la millenaria storia dell’uomo con queste tre precondizioni ricaviamo essenzialmente una conclusione: la rivolta — per quanto abbia avuto nella storia molti precursori — è un problema tipicamente contemporaneo. È soltanto a partire dagli effetti degli sconvolgimenti sociali a cavallo tra Ottocento e Novecento che i tempi sono diventati davvero maturi per essa. Prima di tale periodo, l’universo religioso era in grado di far soccombere qualsiasi possibile presa di coscienza da parte dell’individuo — che doveva sempre e solo considerarsi come «creatura di Dio» — nonché qualsiasi possibile critica rispetto all’assetto sociale gerarchico — la filosofia politica antica e medievale ha sempre giustificato una certa gerarchia naturale della società; soltanto a partire dall’Illuminismo si è davvero cominciato a porre in dubbio tale disposizione. Oggi invece «viviamo in una storia sconsacrata»: l’universo religioso ha ormai perso il suo potere risolutivo, prima fortissimo.

L’uomo, certo, non si riassume nell’insurrezione. Ma la storia di oggi, con le sue contestazioni, ci costringe a dire che la rivolta è una delle dimensioni essenziali dell’uomo. È la nostra realtà storica. A meno di fuggire la realtà, dobbiamo trovare in essa i nostri valori. Si può, lungi dall’universo religioso, e dai suoi valori assoluti, trovare una regola di condotta? È questa la domanda posta dalla rivolta.84

Non possiamo non notare lo spirito innovativo di tale domanda: per secoli ogni «regola di condotta» è stata dettata all’individuo da una morale sovrumana e incontestabile a cui era possibile solo adeguarsi senza appello; i suoi valori erano assoluti e trascendenti, calati dall’alto; la rivolta richiede invece che si agisca consapevolmente in nome di valori che si è riconosciuti in prima persona, a partire da una radicale esperienza personale che va mantenuta viva ad ogni passo. La rivolta stessa va rinnovata continuamente, poiché essa può in ogni momento degenerare in rivoluzione, perdendo di vista i motivi e le esperienze che l’hanno destata. È lo stesso Camus a descrivere tale difficoltà:

la solidarietà degli uomini si fonda sul movimento di rivolta, e questo, reciprocamente, solo in tale complicità trova giustificazione. Saremmo dunque in diritto di dire che ogni rivolta che s’autorizzi a distruggere questa solidarietà perde con questo il nome di rivolta e coincide in realtà con l’assenso omicida. Allo stesso modo questa solidarietà, fuori dall’universo religioso, prende vita soltanto sul piano della rivolta. Il vero dramma della rivolta del pensiero è allora annunciato. Per essere, l’uomo deve rivoltarsi, ma la sua rivolta deve rispettare il limite che scopre in se stessa; limite nel quale gli uomini, venendo a raggiungersi, cominciano ad essere. Il pensiero informato alla rivolta non può dunque prescindere dalla memoria: esso è tensione perpetua. Seguendolo nelle opere e negli atti, dovremo dire, ogni volta, se rimanga fedele alla sua primitiva nobiltà oppure, per stanchezza e pazzia, se ne scordi, in un’ebrezza di tirannia o di servitù.85

Il singolo individuo viene così caricato di una responsabilità immensa: il suo agire, la sua onestà e la sua perspicacia sono i fattori determinanti del mantenimento veritiero della rivolta. Nell’universo religioso la ricompensa e/o la punizione erano ultraterreni: per L’uomo in rivolta invece l’unica ricompensa e l’unica punizione sono rispettivamente il successo o il fallimento della rivolta stessa. In ballo non ci sono dunque la salvezza o la dannazione eterne, l’inferno o il paradiso: tutto si gioca qui ed ora, «intramondanamente».86 La stessa sofferenza umana non verrà vendicata o ricompensata in un antropomorfico aldilà — come da millenni afferma il pensiero religioso: al pari di ogni cosa, anche la sofferenza non sfugge alla «legge dell’assurdo». Eppure, proprio in rapporto alla sofferenza, notiamo gli effetti subitanei della rivolta:

ecco il primo progresso che lo spirito di rivolta fa compiere ad una riflessione da principio compenetrata dall’assurdità e dall’apparente sterilità del mondo. Nell’esperienza assurda, la sofferenza è individuale. A principiare dal moto di rivolta, essa ha coscienza di essere collettiva, è avventura di tutti. Il primo progresso di uno spirito intimamente straniato sta dunque nel riconoscere che questo suo sentirsi straniero, lo condivide con tutti gli uomini, e che la realtà umana, nella sua totalità, soffre di questa distanza rispetto a se stessa e al mondo. Il male che un solo uomo provava diviene peste collettiva.

La rivolta è allora un’apertura dell’io al noi, la costituzione stessa di una comunità prima irraggiungibile se non attraverso un riferimento divino: prima della rivolta l’individuo è irrimediabilmente solo nel suo grido di dolore; ma ritornando su tale dolore e rivoltandosi ad esso si accorge di come tale esposizione alla sofferenza egli la condivida con l’umanità intera.

In quella che è la nostra prova quotidiana, la rivolta svolge la stessa funzione del “cogito” nell’ordine del pensiero: è la prima evidenza. Ma questa evidenza trae l’individuo dalla sua solitudine. È un luogo comune che fonda su tutti gli uomini il primo valore. Mi rivolto, dunque siamo.

2.2. La rivolta metafisica

L’uomo in rivolta è diviso in cinque capitoli (L’uomo in rivolta, La rivolta metafisica, La rivolta storica, Rivolta e arte, Il pensiero meridiano) più la già nota introduzione: i capitoli centrali (II, III, IV), hanno un carattere storiografico e dedicano le loro pagine a numerosi autori ed eventi. Non potendo analizzarli tutti, abbiamo deciso di soffermarci sui quattro autori più importanti ai fini della storia della rivolta: Dostoevskij, Nietzsche, Hegel e Marx.

Incominciamo dunque dalla rivolta metafisica, definita da Camus come «il movimento per il quale un uomo si erge contro la propria condizione e contro l’intera creazione».87 Fino ad ora Camus aveva parlato di rivolta soltanto nei termini della classica categoria schiavo-padrone: l’oppresso si rivolta al suo oppressore, uomo contro uomo, sicché in questa rivolta lo scontro è tra pari. Nella rivolta metafisica invece lo scontro è il più impari possibile: in essa, infatti, l’uomo si rivolta alla creazione e — ora esplicitamente, ora più velatamente — al suo stesso creatore, Dio: essa è quindi metafisica

perché contesta i fini dell’uomo e della creazione. Lo schiavo protesta contro la condizione che gli viene fatta all’interno del suo stato: l’insorto metafisico contro la condizione che gli viene fatta in quanto uomo. Lo schiavo ribelle afferma che c’è qualche cosa in lui che non accetta il modo in cui lo tratta il suo signore; l’insorto metafisico si dichiara frustato dalla creazione. Sia per l’uno che per l’altro, non si tratta soltanto di una pura e semplice negazione. In ambedue i casi, troviamo infatti un giudizio di valore in nome del quale l’insorto rifiuta la sua approvazione alla condizione che gli è propria.88

L’insorto metafisico si oppone dunque al mondo stesso: nella condizione assurda egli non faceva altro che reclamare una risposta tanto agognata quanto impossibile; ora invece ha compreso l’inutilità di questa attesa — che potrebbe essere eterna — e ha mosso il suo grido di rivolta contro la creazione. Il motivo di tale netta opposizione è chiaro: al cuore del reale non opera nessuna teleologia benefica, né tanto meno è possibile ritrovare una traccia della misericordia e giustizia di Dio. Al contrario, al cuore del reale è all’opera l’entropia, il disordine, la lotta per la sopravvivenza e dunque, agli occhi dell’uomo, il male e l’ingiustizia:

il movimento di rivolta appare in lui [all’insorto metafisico, n. d. A.] come una rivendicazione di chiarezza e di unità. La più elementare ribellione esprime, in modo paradossale, l’aspirazione a un ordine. […] Egli si erge su di un mondo in frantumi per rivendicarne l’unità, oppone il principio di giustizia che sta in lui al principio di ingiustizia che vede all’opera nel mondo. Non vuole dunque nient’altro, primitivamente, che risolvere questa contraddizione, instaurare il regno unitario della giustizia, se può, oppure, ove lo si spinga agli estremi, dell’ingiustizia. Intanto, denuncia la contraddizione. Protestando contro la condizione in ciò che essa ha di incompiuto a causa della morte, e di disperso, a causa del male, la rivolta metafisica è la rivendicazione motivata di un’unità felice, contro la sofferenza di vivere e di morire. Se la pena di morte generalizzata definisce la condizione degli uomini, la rivolta, in [un] certo senso, è ad essa contemporanea.89

La rivolta metafisica non è però una forma di ateismo. Camus dichiara esplicitamente che «lo schiavo che si erge contro il signore non si cura di negare questo signore in quanto essere» ma «in quanto padrone». Dunque «l’insorto metafisico non è sicuramente ateo, come si potrebbe credere, ma necessariamente blasfemo. Semplicemente, egli bestemmia innanzitutto in nome dell’ordine, denunciando in Dio il padre della morte e il supremo scandalo».90 Tutta la protesta dell’insorto metafisico non si scaglia contro l’esistenza di Dio, bensì contro la sua indifferenza che ha permesso e permette continuamente il perpetrarsi ingiustificabile del male.

La storia della rivolta metafisica non può dunque confondersi con quella dell’ateismo. Sotto un certo aspetto anzi, essa si confonde con la storia contemporanea del sentimento religioso. Più che negare, L’uomo in rivolta sfida. Primitivamente almeno, non sopprime Dio, gli parla semplicemente da pari a pari. Ma non si tratta di un dialogo cortese. Si tratta di una polemica animata dal desiderio di vincere.91

Nella nostra interpretazione però la rivolta metafisica ha un significato ulteriore: essa infatti, nel momento stesso in cui carica di responsabilità l’uomo in quanto possibile oppositore o continuatore del male già presente naturalmente nel reale, ne afferma la sua «innocenza originale». L’uomo è responsabile, ma non colpevole: come già detto in precedenza, nessun «peccato originale» lo segna dalla nascita; tutto ciò che gli si può ascrivere come sua responsabilità è ciò che compie nella sua vita hic et nunc, non in un passato che non gli appartiene.92 «Se non c’è immortalità, non c’è premio né castigo»93 dirà parlando della rivolta di Ivan Karamazov.

Eppure alle prime forme di rivolta metafisica non appartiene alcuna dimensione comunitaria: il singolo individuo si scaglia contro il creatore e la creazione semplicemente in nome di se stesso, e non dell’umanità intera. Egli non è parte di una comunità che legittima la rivolta. L’insorto metafisico ai suoi primordi è invece solo contro tutto e tutti: è Caino, che si scaglia contro quel «Dio personale» che ha preferito i doni di Abele ai suoi; è Sade, teorico «del no assoluto»; è il dandy, impegnato in una lotta tutta personale contro un Dio altrettanto personale.

Solo molto tardi nella storia — a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, con il superamento del Romanticismo — la rivolta assumerà un altro volto: da eroica ed egoista qual’era, essa diventerà comunitaria, senza divenire per questo collettiva. Infatti, è pur sempre il singolo che si rivolta, soltanto che adesso egli insorge in nome di una comunità — più o meno astratta — a cui appartiene, comunità ritenuta oppressa e/o ingannata da un insostenibile Dio.

Fino a Dostojevskij e a Nietzsche, la rivolta si erge soltanto contro una divinità crudele e capricciosa, quella che preferisce, senza motivo convincente, il sacrificio di Abele e quello di Caino, e con ciò provoca il primo omicidio. Dostojevskij con l’immaginazione, e Nietzsche di fatto, estenderanno smisuratamente il campo della rivolta del pensiero, e chiederanno dei conti allo stesso dio d’amore. Da Nietzsche, Dio sarà considerato morto nell’animo dei contemporanei. Egli volgerà allora i suoi attacchi, come il suo predecessore Stirner, contro l’illusione di Dio che si attarda, sotto le apparenze della morale, nello spirito del secolo. Ma fino a loro, il pensiero libertino, per esempio, s’è limitato a negare la storia di Cristo («questo piatto romanzo», secondo Sade) e a serbare, nelle sue stesse negazioni, la tradizione del dio terribile.94

Tema dei prossimi due paragrafi sarà proprio l’analisi di quelle due significative rivolte che tanto affascinarono Camus: Dostojevskij e Nietzsche.

Dostojevskij: Ivan Karamazov e il rifiuto della salvezza

Se il romantico, nella sua rivolta, esalta l’individuo e il male, non prende dunque le parti degli uomini, ma semplicemente prende partito per sé. Il dandysmo, qualunque esso sia, è sempre un dandysmo rispetto a Dio. In quanto creatura, l’individuo può opporsi soltanto al creatore. Ha bisogno di Dio, con cui esplica una specie di cupa civetteria. […] Con Dostojevskij invece la descrizione della rivolta farà un passo avanti. Ivan Karamazov prende le parti degli uomini e pone l’accento sulla loro innocenza. Afferma che la condanna morte che grava su loro è ingiusta. Nel suo primo movimento almeno, invece di difendere la causa del male, difende quella della giustizia mettendola al di sopra della divinità. Non nega dunque assolutamente l’esistenza di Dio. La confuta in nome di un valore morale.95

Dostojevskij è un autore fondamentale per Camus. Ma v’è un personaggio dostojevskiano più importante del suo stesso autore: si tratta di Ivan Karamazov. In esso, nella sua posizione teorica, Camus vede chiaramente una tappa fondamentale e irrinunciabile della storia della rivolta — come si evince dal passo appena citato. Ivan infatti si contraddistingue da una parte come il primo insorto che si rivolta in nome dell’umanità, dall’altra come il primo esponente del cosidetto «rifiuto della salvezza».96 I due aspetti sono legati e sono entrambi parte di una «teoria» ben definita che possiamo riassumere brevemente così: Ivan riconosce il male e l’ingiustizia a cui sono sottoposti universalmente gli uomini e contro tale oppressione egli si scaglia, affermando con fermezza la sua ansia di giustizia che deve imporsi sulla verità — verità che è appunto ingiusta. Dio dunque non viene assolutamente negato e la sua esistenza non è messa in questione: egli viene rifiutato, poiché la sua accettazione significherebbe allo stesso tempo l’accettazione del mistero e dell’ingiustizia:

Non voglio l’armonia, è per amore dell’umanità che non la voglio. Preferisco rimanere con le sofferenze non vendicate. Preferisco rimanere con le mie sofferenze non vendicate e nella mia indignazione insoddisfatta, anche se non dovessi avere ragione. Hanno fissato un prezzo troppo alto per l’armonia; non possiamo permetterci di pagare tanto per accedervi. Pertanto mi affretto a restituire il biglietto d’entrata. E se sono un uomo onesto, sono tenuto a farlo al più presto. E lo sto facendo. Non che non accetti Dio, Alëša, gli sto solo restituendo, con la massima deferenza, il suo biglietto.97

La svolta di Ivan è il suo perentorio «anche se»: anche se Dio esistesse e anche se, dunque, il male che gli uomini soffrono contribuisse, dolore dopo dolore, alla creazione dell’armonia universale, Ivan lo rifiuterebbe. Il male è un’evidenza insuperabile, un’evidenza mille volte più scottante e tangibile di qualsiasi possibile Dio d’amore e misericordia: credere in un tale Dio significherebbe arrendersi e accettare che il male venga perpetrato; significherebbe giustificare la condanna a morte a cui l’uomo è destinato. Si tratta di un peculiare rapporto con la verità, riconosciuta come tale ma allo stesso tempo inaccettabile.

“Se il patimento dei bimbi, ” dice Ivan, “serve a compiere la somma dei dolori necessari al conseguimento della verità, affermo fin d’ora che questa verità non vale un tale prezzo”. Ivan rifiuta l’interdipendenza profonda che il cristianesimo ha introdotto tra sofferenza e verità. Il grido più profondo d’Ivan, quello che apre i più sconcertanti abissi sotto i passi delL’uomo in rivolta, è il suo anche se. “La mia indignazione perdurerebbe anche se avessi torto”. Il che significa che anche se Dio esistesse, anche se il mistero celasse una verità, anche se lo starets Zosima avesse ragione, Ivan non accetterebbe che questa verità fosse pagata con il male, la sofferenza e la morte inflitti all’innocente. Ivan incarna il rifiuto [della] salvezza.98

La portata di tale rifiuto è tanto epocale quanto — almeno in questa fase — solo immaginaria. Ma dopotutto è nell’essenza del concetto di rivolta metafisica una tale impossibile ambizione sovrumana. Il rifiuto di Ivan è radicale poiché giustificato da una logica impeccabile, fondata su tre evidenze innegabili: l’esistenza del male, la sua ingiustificabilità e la sua inconciliabilità con una giustizia divina.

La fede conduce alla vita immortale. Ma la fede implica l’esistenza del mistero e del male, la rassegnazione all’ingiustizia. Colui al quale la sofferenza dei bimbi impedisce d’accedere alla fede non riceverà dunque la vita immortale. A queste condizioni, anche se la vita immortale esistesse, Ivan la rifiuterebbe. Egli respinge questo mercato. Non accetterebbe la grazia se non incondizionata, e per questo pone egli stesso le proprie condizioni. La rivolta vuole tutto, o non vuole nulla. “Tutta la scienza del mondo non vale le lacrime dei bambini”. Ivan non dice che non vi sia alcuna verità. Dice che se verità c’è, non può essere altro che inaccettabile. Perché? Perché è ingiusta. È aperta qui per la prima volta la lotta della giustizia contro la verità; essa non avrà più tregua.

In sostanza, il rifiuto di Ivan Karamazov è una forma «eroica» di umanesimo, nella quale si esprime «l’impresa essenziale della rivolta, che sta nel sostituire al regno della grazia il regno della giustizia». Ma Ivan esprime anche e soprattutto un altro aspetto fondamentale della rivolta: egli incarna «il rifiuto di salvarsi da solo». In nome di tale altruismo della rivolta egli

si fa solidale con i dannati e, per essi, rifiuta il cielo. Se credesse infatti, potrebbe essere salvo, ma altri sarebbero dannati. Il patimento continuerebbe. Non c’è salvezza possibile per chi patisce di compassione vera. Ivan continuerà a mettere Dio nel torto rifiutando doppiamente la fede come si rifiutano ingiustizia e privilegio. Un passo più in là, e dal Tutto o Niente, passiamo al Tutti o nessuno.99

Esposta brevemente la rivolta di Ivan Karamazov, ritorneremo su di essa più avanti, per trarne gli elementi essenziali quando sarà il momento di definire sistematicamente «un’etica della rivolta». Per adesso lasciamo che riecheggi la sua domanda, «la sola che qui c’interessi: si può vivere e permanere nella rivolta? ».

«Siate fedeli alla terra»: la rivolta di Nietzsche

Il superuomo è il senso della terra. Dica la vostra volontà: sia il superuomo il senso della terra!

Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze! Lo sappiano o no: costoro esercitano il veneficio.100

L’interpretazione camusiana della rivolta di Nietzsche tende a metterne in risalto il carattere allo stesso tempo di provvisorietà e di radicalità. Come per il rifiuto di Ivan Karamazov, anche qui si riscontra una tendenza all’esacerbazione e all’estremizzazione della rivolta tali da non permettere alcuna possibilità di reale permanenza in essa. Gli elementi concettuali alla base di tali posizioni ci sono e rimangono fondamentali, ma la loro applicazione coincide in entrambi i casi con un’insostenibile esasperazione — Camus non mancherà di sottolineare come sia Ivan Karamazov sia Nietzsche concludano i loro i giorni nella follia.

Ciononostante è innegabile l’importanza nietzschiana per la filosofia della rivolta — proprio lui che paradossalmente «non ha formulato una filosofia della rivolta, ma [ha] edificato una filosofia sulla rivolta».101 La filosofia nietzschiana rappresenta per Camus innanzitutto quel passaggio epocale dall’incoscienza alla coscienza del nichilismo: quello che prima era solo un pensiero strisciante e silenzioso nella storia della filosofia, marchiato a più riprese come immorale, si legittima con Nietzsche dinanzi al mondo. Il nichilismo ottiene la sua voce in capitolo — ma per farlo deve urlare contro le voci antiche e inamovibili della tradizione. Fuor di metafora: esso, per porsi, deve prima di tutto distruggere. «Per erigere un nuovo santuario, bisogna abbattere un santuario, è questa la legge»: il santuario da abbattere è in questo caso quello della religione, della metafisica, della teologia e della morale, nonché quello delle nascenti ideologie comu-socialiste, che tendono «a creare una forma di gesuitismo secolare, a fare di tutti gli uomini tanti strumenti». Riguardo alla metodica di tale nietzschiana distruzione e alla sua valenza per la rivolta, Camus dirà:

la filosofia di Nietzsche si aggira senza dubbio intorno al problema della rivolta. Esattamente, comincia con l’essere una rivolta. Ma si avverte lo spostamento operato da Nietzsche. La rivolta, con lui, parte dal “Dio è morto” che considera come una fatto acquisito; si volge allora contro tutto ciò che mira a sostituire falsamente la divinità scomparsa e disonora un mondo indubbiamente senza direzione, ma che permane tuttavia la sola matrice degli dei. Contrariamente a quanto pensano alcuni dei suoi critici cristiani, Nietzsche non ha concepito il progetto di uccidere Dio. L’ha trovato morto nell’anima del suo tempo. Per primo, ha compreso l’immensità dell’avvenimento e deciso che questa rivolta dell’uomo non poteva condurre a una rinascita se non fosse guidata. Ogni altro atteggiamento nei suoi riguardi, fosse rimpianto o compiacimento, doveva provocare l’apocalissi. Nietzsche non ha dunque formulato una filosofia della rivolta, ma edificato una filosofia sulla rivolta.102

Nietzsche dunque come distruttore, come colui che insegna a «filosofare con il martello».103 Ma non si tratta di un distruggere sterile e fine a se stesso — quello che Nietzsche stesso chiamò «nichilismo passivo» — quanto più una distruzione compiuta al fine di una prossima e fondamentale creazione — «nichilismo attivo»: sulle ceneri della morte di Dio — che sanciscono la fine di un senso del mondo — l’umanità deve costruire autonomamente un nuovo senso tutto umano — un senso nel mondo.104 Ma il compito è più arduo di quanto sembri a parole: la tentazione di ricadere in una nuova adorazione di «retro-mondi» è forte, e l’umanità rischia con molta probabilità di perdersi. Il compito che Nietzsche si pone esplicitamente è di guidare tale costruzione, quella che lui chiama la «transvalutazione di tutti i valori». Camus ne parla in questi termini:

“Noi neghiamo Dio, neghiamo la responsabilità di Dio, solo così libereremo il mondo”. Con Nietzsche, il nichilismo sembra divenire profetico. Ma non si può trarre niente da Nietzsche, salvo la crudeltà bassa e mediocre che egli odiava con tutte le sue forze, finché nella sua opera non si metta in primo piano, ben avanti al profeta, il clinico. Il carattere provvisorio, metodico, in una parola strategico del suo pensiero non può essere messo in dubbio. Con lui, per la prima volta, il nichilismo diviene cosciente. I chirurghi hanno questo in comune con i profeti, che pensano e operano in funzione dell’avvenire. Nietzsche non ha mai pensato altrimenti che in funzione di un’apocalissi avvenire, non per esaltarla, perché indovinava il volto sordido e calcolatore che questa apocalissi finirebbe per assumere, ma per evitarla e tramutarla in rinascita. Ha riconosciuto il nichilismo e l’ha esaminato come un fatto clinico. […] Il “si può vivere nella rivolta? ” è divenuto in lui “si può vivere senza credere a nulla? ” La sua risposta è positiva.

Eppure — questa è in parte la nostra interpretazione — Nietzsche non ha potuto articolare ed esplicitare questa risposta, non ha potuto cioè formulare quella regola di vita necessaria all’umanità per persistere nella morte di Dio. Egli ha mostrato il Superuomo, ma quest’ultimo è rimasto soltanto un miraggio lontano ed ideale. Dopotutto, ad un compito siffatto di per sé già arduo, si aggiungeva l’anacronismo in cui Nietzsche si trovava: la solitudine e l’insostenibile derisione nella quale si ritrova Zarathustra — «io non sono la bocca per queste orecchie»105 — sono le medesime del suo autore. L’inattualità delle sue Betrachtungen era la sua propria inattualità, e di questo egli stesso ne era conscio: «a me si confà unicamente il giorno seguente al domani. C’è chi è nato postumo».106 Si può dunque dire che il primo a vivere in prima persona la terribile libertà del Superuomo, fu Nietzsche stesso:

In questo mondo sbarazzato di Dio e degli idoli morali, l’uomo è ora solitario e senza padrone. Nessuno meno di Nietzsche, e in questo egli si distingue dai romantici, ha lasciato credere che tale libertà potesse essere facile. Questa selvaggia liberazione lo metteva nel numero di coloro, di cui disse egli stesso che patiscono di una nuova ambascia [angoscia, n. d. A.] e di una nuova felicità. Ma per cominciare, è l’ambascia sola che grida: “Ahimè, concedetemi dunque la follia… A meno di essere al di sopra della legge, sono il reprobo tra i reprobi. ” Chi non può mantenersi al di sopra della legge, deve in realtà trovare un’altra legge, o la demenza. Dacché non crede più in Dio, né alla vita immortale, l’uomo diviene “responsabile di tutto ciò che vive, di tutto ciò che, nato dal dolore, è destinato a patire della vita”.

Camus — che ha sempre nutrito, nonostante le critiche, una ferma ammirazione e un certo rispetto nei confronti di Nietzsche107 — tiene sempre a mente le due anime del filosofo tedesco: da una parte è l’infervorato profeta della morte di Dio e del nichilismo; dall’altra è il «clinico» premonitore della possibile follia conseguente a tale annuncio — follia in cui lui stesso soccomberà. Nietzsche non fa altro che mettere in guardia la sua contemporaneità, sostenendo che il nichilismo non può mai essere un punto di arrivo, ma soltanto di partenza. La transvalutazione di tutti i valori, nella sua ottica, era di vitale importanza alla stessa sopravvivenza dell’umanità. I suoi toni ferventi e ardimentosi non derivano da una incolmabile gioia, ma dall’insostenibile peso della preveggenza: sentirsi superati da una verità nello stesso momento in cui la si proferisce, prevedendo le sicure catastrofi che seguiranno. Ecco la maledizione nietzschiana: colui che, ormai nella follia, si identificava con il «Dioniso crocifisso»,108 era in realtà una «Cassandra maledetta».

In questo vicolo cieco entro il quale spinge metodicamente il proprio nichilismo, si può dire che Nietzsche si getti con una specie di gioia tremenda. È suo scopo dichiarato rendere insostenibile la situazione all’uomo del suo tempo. Sembra che per lui la sola speranza stia nell’arrivare all’estremo della contraddizione. Se allora l’uomo non vuole perire nei lacci che lo strangolano, dovrà reciderli di colpo, e creare i propri valori. La morte di Dio non è in alcun modo un termine e non può viversi se non a condizione di preparare una resurrezione. “Quando non si trova la grandezza in Dio, ” dice Nietzsche, “non la si trova in alcun luogo: bisogna negarla o crearla. ” Negarla era compito del mondo che lo circondava e che egli vedeva correre al suicidio. Crearla fu il compito sovrumano per il quale ha voluto morire. […] Nietzsche gli grida dunque che la terra è la sua sola verità, alla quale deve essere fedele, sulla quale bisogna vivere e operare la propria salvezza. Ma insieme gli insegna che vivere su una terra senza legge è impossibile perché vivere presuppone appunto una legge. Come vivere libero e senza legge? A quest’enigma l’uomo deve rispondere, pena la morte.109

Nietzsche fu, per almeno un secolo dopo la sua morte, drammaticamente incompreso: in molto credettero — e tuttora il senso comune crede — che egli sia stato l’ispiratore del nazismo. Nulla di più aberrante. Camus ne fu a tal punto indignato da affermare: «dobbiamo esser gli avvocati di Nietzsche».110 La lettura camusiana è stata, in questo senso, un riconoscimento — o una riabilitazione — del vero valore dell’opera nietzschiana:

Nietzsche è effettivamente quanto riconosceva di essere: la coscienza più acuta del nichilismo. Il passo decisivo che egli ha fatto compiere allo spirito di rivolta [è] consistito nel farlo saltare dalla negazione dell’ideale alla secolarizzazione dell’ideale. Poiché la salvezza dell’uomo non si fa in Dio, deve farsi sulla terra. Poiché il mondo non ha direzione, l’uomo, dal momento che accetta, deve dargliene una che faccia capo a un’unità superiore. Nietzsche rivendicava la direzione dell’avvenire umano: “ci sta per toccare in sorte il compito di governanti della terra”. E altrove: “s’avvicina il tempo in cui si dovrà lottare per il dominio della terra, e questa lotta sarà condotta in nome di principi filosofici”. Annunciava così il ventesimo secolo.111

2.3. La rivolta storica

Finora ogni rivolta analizzata si è mossa solamente su un piano teorico e astratto — quello del pensiero: di qui la ragionevolezza dell’appellativo «metafisica». Il passaggio da un tale tipo di rivolta a quella «storica» non è nient’altro che il passaggio dal piano puramente astratto e improduttivo della «mera filosofia» al piano più concreto e dinamico dell’azione: prima ogni contestazione era puramente verbale e letteraria; adesso si passa alla concretezza dei gesti. Le motivazioni di fondo che sorreggono le due rivolte sono però sempre le stesse:

L’insurrezione umana, nelle sue forme elevate e tragiche, non è e non può essere altro che una lunga protesta contro la morte, un’arrovellata accusa a questa condizione retta dalla pena di morte generalizzata. In tutti i casi in cui ci siamo imbattuti, la protesta si rivolge sempre a quanto, nella creazione, è dissonanza, opacità, soluzione di continuità. Si tratta dunque, essenzialmente, di un’interminabile rivendicazione di unità. […] L’uomo in rivolta non chiede la vita, ma le ragioni della vita. Rifiuta la conseguenza introdotta dalla morte. Se niente dura, niente è giustificato, ciò che muore è privo di senso. Lottare contro la morte equivale a rivendicare un senso alla vita, a combattere per la regola e l’unità.112

Il male è dunque l’elemento fondamentale contro il quale la rivolta si scaglia. Di conseguenza è anche allo stesso tempo la sua unica ragione d’esistere — sparito il male, la rivolta cesserebbe di esistere. E invece le cose non stanno proprio così, per due motivi: innanzitutto perché il male non può scomparire — come l’essere di Parmenide, anche esso «non può non essere»; in secondo luogo perché non è il male in sé ad essere inaccettabile, quanto più la sua ingiustificabilità. Proprio per questo le più grandi «narrazioni metafisiche» della storia dell’umanità — visioni religioso-teologiche e filosofico-metafisiche — sono sempre state soprattutto dei tentativi di risposta a tale ingiustificabilità. La rivolta, lungi dall’accontentarsi di una risposta mitologica o fideista che porti ad un’accettazione del male, è una costante e determinata opposizione ad esso.

A questo riguardo, è significativa la protesta contro il male che sta al cuore stesso della rivolta metafisica. Non è la sofferenza del bambino ad essere rivoltante in se stessa, ma il fatto che questa sofferenza non sia giustificata. Dopotutto il dolore, l’esilio, la clausura, vengono talvolta accettati quando ce ne persuadano la medicina o il buon senso. Agli occhi delL’uomo in rivolta, ciò che manca al dolore del mondo, come agli istanti della sua felicità, è un principio di spiegazione. L’insurrezione contro il male rimane innanzi tutto una rivendicazione d’unità. Al mondo dei condannati a morte, alla mortale opacità della condizione, l’uomo della rivolta oppone instancabilmente la sua esigenza di vita e di trasparenza definitive. Senza saperlo è alla ricerca di una morale o di un elemento sacro. La rivolta è un’ascesi, sia pure cieca. Se l’insorto bestemmia, lo fa nella speranza del nuovo Dio. Lo scuote l’urgere del primo e più profondo tra i moti religiosi, ma si tratta di un moto religioso deluso. Non la rivolta in se stessa è nobile, ma quanto essa esige, anche se ciò che consegue sia di nuovo ignobile.113

La rivolta storica sancisce il passaggio dal contestare all’agire, dal volere al pretendere: da «il mondo è ingiusto» si passa al «rendiamo giusto il mondo». Ma, a partire da adesso, essa cambierà radicalmente aspetto, assumendo un volto allo stesso tempo tanto umano quanto spaventoso: prima ogni rivolta metafisica era solitaria e per lo più innocente; adesso ogni rivolta storica, in quanto volenterosa di un cambiamento ad ogni costo, è pronta a macchiarsi di sangue le mani — del sangue dei suoi simili che con tanto ardore voleva salvaguardare contro il male che è nel mondo. La lotta allora non è più tra uomo e Dio, ma tra uomo e uomo: da blasfema qual’era, la rivolta si trasforma ora in omicida. Perché

ogniqualvolta deifica il rifiuto totale di ciò che è, il no assoluto, essa uccide. Ogniqualvolta accetta ciecamente ciò che è, e grida il si assoluto, uccide. L’odio contro il creatore può tramutarsi in odio contro la creazione o in amore esclusivo e provocante di ciò che è. Ma in ambedue i casi, va a sfociare nell’omicidio e perde il diritto a dirsi rivolta. Si può essere nichilista in due modi, e ogni volta per intemperanza di assoluto. […] L’anche se, che come abbiamo riconosciuto segnava il momento capitale della rivolta metafisica, si adempie in ogni caso nella distruzione assoluta. Non è la rivolta a risplendere oggi sul mondo, né la sua nobiltà, ma il nichilismo.114

Si comprende dunque come il passaggio da metafisica a storica sia, agli occhi di Camus, carico di potenziali e pericolose derive: certo, la rivolta non deve evitare tale passaggio — rimanendo relegata nella sua improduttiva astrattezza — ma deve il più possibile mantenersi salda alle motivazioni che l’hanno portata alla luce. Nel farsi storica, la rivolta rischia di perdersi — e, come attestano i fatti del Novecento, essa si è alla fine persa. La nobiltà di ciò che rivendica — il voler sostituire il regno della grazia con quello della giustizia — si è macchiata dell’ignobiltà dei suoi omicidi, compiuti in nome di quelle stesse rivendicazioni:

Al principio, L’uomo in rivolta, voleva soltanto conquistare il proprio essere e mantenerlo in faccia a Dio. Ma perde la memoria delle proprie origini e, seguendo la legge di un imperialismo spirituale, eccolo in marcia per l’impero del mondo attraverso uccisioni moltiplicate all’infinito. Ha scacciato Dio dal suo cielo, ma venendo allora lo spirito di rivolta metafisica a raggiungere risolutamente il movimento rivoluzionario, la rivendicazione irrazionale della libertà prenderà come arma, paradossalmente, la ragione, solo potere di conquista che le sembri puramente umano. Morto Dio, restano gli uomini, vale a dire la storia che bisogna comprendere e costruire. Il nichilismo che, in seno alla rivolta, sommerge allora la forza creativa, aggiunge soltanto che si può costruirla con qualsiasi mezzo. Ai delitti dell’irrazionale, l’uomo, su di una terra che sa ormai solitaria, unirà i delitti della ragione in cammino verso l’impero degli uomini. Al «mi rivolto, dunque siamo» aggiunge, meditando prodigiosi disegni e la morte stessa della rivolta: «E siamo soli».115

Hegel e la divinizzazione della storia

In questa «storicizzazione della rivolta» un ruolo chiave è svolto senza ombra di dubbio da Hegel. Ad esso Camus riserverà un capitolo intero (I deicidi). I meriti (o, meglio, le colpe) attribuite al filosofo idealista tedesco sono numerose e solo in minima parte possono essere considerate come derivanti da una lettura parziale e faziosa.116 Prima di tutto, Camus criticherà in Hegel la concezione smisurata ed esasperata della ragione, ormai immanente ad ogni accadere:

Alla ragione universale, ma astratta, di Saint-Just e di Rousseau, il pensiero tedesco ha dunque finito per sostituire un concetto meno artificioso, ma anche più ambiguo, l’universale concreto. Finora, la ragione si librava al di sopra dei fenomeni ai quali serviva di riferimento. Eccola ormai incorporata entro il fiume degli eventi storici, illuminandoli al tempo stesso che essi le danno corpo.117

Secondo l’idealismo hegeliano il divenire procede razionalmente poiché la ragione è contemporaneamente in esso e alla fine di esso: dunque qualsiasi evento — sia esso nocivo o benefico ad uomo, sia esso guerra o pace, scontro o riconciliazione, odio o amore — è giustificato, in quanto momento di un processo razionale. Ciò che fino ad ora era avvertito come scandalo e come contraddizione viene ora spiegato e compreso: è l’esaltazione del principio di ragione, per cui nihil est sine ratione. La contraddizione stessa è riconciliante, in quanto è essa che permette il superamento di ogni tesi attraverso la sua negazione (antitesi) in una nuova sintesi qualitativamente superiore. Eppure — qui sta la critica camusiana — tutto questo processo si basa su una credenza smisurata ed esaltata nella ragione. Attraverso di essa, il mondo appare trasfigurato: tutto sembra trovare il suo posto, ogni concetto è determinato, ogni evento giustificato. Ma, tolta tale credenza, il mondo torna inevitabilmente alla sua assurdità.

Si può dire senza dubbio che Hegel ha razionalizzato perfino l’irrazionale. Ma contemporaneamente, dava alla ragione un irragionevole fremito, vi introduceva una dismisura di cui abbiamo davanti agli occhi i risultati. Entro la fissità del pensiero dell’epoca, il pensiero tedesco ha introdotto ad un tratto un moto irresistibile. Verità, ragione e giustizia si sono bruscamente incarnate nel divenire del mondo. Ma gettandole in un’accelerazione perpetua, l’ideologia confondeva il loro essere con il loro moto e fissava la compiutezza di questo essere al termine del divenire storico, se un termine esisteva. Questi valori hanno cessato d’essere punti di riferimento, per divenire fini. Quanto ai mezzi per perseguire questi fini, cioè la vita e la storia, nessun valore preesistente poteva guidarli. […] Norma dell’azione è dunque divenuta l’azione stessa, che deve svolgersi nelle tenebre aspettando l’illuminazione finale. La ragione, annessa da questo romanticismo, non è più che una passione inflessibile.118

L’inflessibilità e la onnipervasività del sistema hegeliano — capace di ricondurre ogni evento al di sotto della dialettica triadica, per poi fissare ogni attività all’interno di un sistema concettuale «architettonicamente» definito — è frutto di una convinzione ostinata, ingenuamente antropomorfica e apparentemente inconfutabile — almeno nel breve periodo. Antropomorfica perché si rivela essere, ad uno sguardo lucido, una mera proiezione sul mondo di quella categoria umana che è la razionalità. Inconfutabile perché posticipa in un futuro anche molto lontano la verificabilità delle sue profezie — lo spirito si manifesta nella storia, ma è soltanto alla fine di essa che si realizzerà:

Hegel distrugge definitivamente ogni trascendenza verticale, e soprattutto la trascendenza dei principi, e qui sta la sua incontestabile originalità. Senza dubbio egli ristabilisce, nel divenire del mondo, l’immanenza dello spirito. Ma questa immanenza non fissa [n’est pas fixe], non ha nulla in comune con l’antico panteismo. Lo spirito è, e non è, nel mondo: vi si fa, e vi sarà. Il valore viene dunque trasferito alla fine della storia. Fino a quel momento, nessun criterio proprio a fondare un giudizio di valore. Si deve agire e vivere in funzione dell’avvenire. Ogni morale diviene provvisoria. L’Ottocento e il Novecento, nella loro tendenza più profonda, sono secoli che hanno cercato di vivere senza trascendenza.119

«Was vernünftig ist, das ist wirklich; und was wirklich ist, das ist vernünftig».120 È questo uno dei capisaldi della filosofia hegeliana, quello contro cui più di un filosofo dopo Hegel si è scagliato. Ma da tale insostenibile affermazione, a prima vista «innocente», ne derivano almeno altre due, molto più che insostenibili: da una parte, la divinizzazione della storia, intesa come manifestazione dello spirito; dall’altra, la giustificazione di ogni realtà, anche di quella del male, della violenza e della sofferenza.

In quanto per lui tutto ciò che è reale è razionale, Hegel giustifica tutte le violenze esercitate dall’ideologo sul reale. Quello che è stato chiamato il panlogismo di Hegel è una giustificazione dello stato di fatto. Ma il suo pantragismo esalta anche la distruzione in se stessa. Tutto è riconciliato, senza dubbio, nella dialettica, né può porsi un estremo senza che l’altro sorga; c’è in Hegel, come in ogni grande pensiero, di che correggere Hegel. Ma i filosofi sono raramente letti con l’intelletto solo, spesso con il cuore e le sue passioni; es esse non riconciliano niente.121

Di fatto, Camus riterrà le successive interpretazioni (ed esacerbazioni) della filosofia hegeliana più nocive e pericolose della filosofia hegeliana stessa: la convinzione personale che «dopo di me non [ci sarà] più filosofia, ma storia della filosofia», oppure quella secondo la quale la storia si sarebbe finalmente compiuta nel 1807 con Napoleone, avrebbero da che far ridere oggi, se non fosse che a partire da queste esasperanti convinzioni si è svolta la storia del secondo Ottocento e del primo Novecento. Per questo motivo Hegel va affrontato con estrema serietà, seppur criticamente: la sua filosofia, insieme a (e più di) quella nietzschiana, è stata più o meno consapevolmente l’alibi dei totalitarismi e della distruzione mondiale del Novecento.122 Hegel, il filosofo razionalista per eccellenza che considerava il nichilismo superato, si è rivelato essere il padre di un nuovo nichilismo:

ciò che autorizzava la pretesa di Hegel è quanto lo rende intellettualmente, e per sempre, sospetto. Ha creduto che nel 1807, con Napoleone e con se stesso, la storia fosse compiuta, che l’affermazione fosse possibile, e il nichilismo vinto. La Fenomenologia, Bibbia che avrebbe profetizzato solo il passato, metteva un termine ai tempi. Nel 1807, tutti i peccati erano perdonati, gli evi compiuti. Ma la storia ha continuato. Altri peccati, da allora, gridano in faccia al mondo e fanno scoppiare lo scandalo degli antichi delitti, assolti per sempre dal filosofo tedesco. La divinizzazione di sé operata da Hegel, dopo quella di Napoleone ormai innocente poiché era riuscito a porre la storia in quiete, ha durato soltanto sette anni. Invece dell’affermazione totale, è stato il nichilismo a permeare il mondo. La filosofia, anche servile, ha anch’essa le sue Waterloo.123

Hegel, affermando la necessità della contraddizione e, allo stesso tempo, l’impossibilità per l’uomo di un azione innocente, ha messo i suoi discepoli di fronte ad un bivio: «uccidere o asservire». Coloro i quali scelsero il primo termine, furono i teorici della distruzione e dell’omicidio filosofico, esponenti di quella che Camus definisce «aristocrazia del sacrificio» (come Bakunin e Neciaiev, i quali affermavano che «è nostra missione distruggere, non costruire»). Coloro i quali invece scelsero il secondo termine furono, in sostanza, gli esponenti della sinistra hegeliana, fautori dell’ateismo assoluto e del materialismo scientifico, i quali con fare a tratti religioso annunciarono che

«l’individualità ha preso il posto della fede, la ragione quello della Bibbia, la politica quello della religione e della Chiesa, la terra del cielo, il lavoro della preghiera, la miseria dell’inferno, l’uomo di Cristo». C’è dunque un solo inferno, ed è di questo mondo: è contro questo che si deve lottare. La politica è religione, il cristianesimo trascendente, quello dell’aldilà consolida i padroni della terra con la rinuncia dello schiavo, e suscita un padrone di più in fondo ai cieli.124

Ecco allora che l’attenzione di Camus si sposterà repentinamente da Hegel ai suoi «figli spirituali», i quali, credendo di correggere il proprio maestro, ricadranno con la stessa folle convinzione nella stessa accecante esaltazione:

nulla può scoraggiare l’appetito di divinità nel cuore dell’uomo. Altri sono venuti e vengono ancora che, dimenticando Waterloo, pretendono sempre di portare a termine la storia. La divinità dell’uomo è ancora in cammino e non sarà adorabile che alla fine dei tempi. Bisogna servire quest’apocalisse e, in mancanza di Dio, costruire almeno la Chiesa. Dopo tutto, la storia che non s’è ancora fermata lascia intravedere una prospettiva che potrebbe essere quella del sistema hegeliano; ma per la semplice ragione che è provvisoriamente trascinata, se non condotta, dai figli spirituali di Hegel. Quando il colera porta via, in piena gloria, il filosofo della battaglia di Iena, tutto è in ordine, infatti, per ciò che seguirà. Il cielo è vuoto, la terra in preda alla potenza senza principi. Quelli che hanno scelto di uccidere e quelli che hanno scelto di asservire stanno per occupare successivamente il proscenio, in nome di una rivolta fuorviata dalla sua verità.125

Marx: la rivoluzione come fine della rivolta

Il successore di Hegel più significativo per Camus è Carl Marx.126 La sua filosofia infatti è considerata come l’ultima tappa nel processo di degenerazione della rivolta — degenerazione che, passando dapprima attraverso l’azione terroristica, culminerà con la rivoluzione e con la successiva instaurazione del regime totalitario. Una delle svolte fondamentali di tale filosofia è stata senza dubbio quella di trasformare la dialettica, che in Hegel era manifestazione dello spirito, in dinamica della materia: la realtà è prima di tutto economica; è sulla «struttura», intesa come insieme organizzato dei mezzi di produzione, che si sostiene tutto l’apparato culturale ed istituzionale, la «sovrastruttura»; sicché il cambiamento dell’ordine sociale è determinato prima di tutto e necessariamente da un cambiamento dell’ordine materiale. Eppure Camus non considera il marxismo come un materialismo assoluto, poiché ritiene impossibile una tale definizione:

L’originalità di Marx sta nell’affermare che la storia, nel mentre è dialettica, è anche economica. Hegel, più sovrano, affermava che essa era ad un tempo materia e spirito. Non poteva d’altra parte essere materia se non in quanto appunto era spirito, e inversamente. Marx nega lo spirito come sostanza ultima, e afferma il materialismo storico. Si può subito mettere in rilievo, con Berdiaiev, l’impossibilità di conciliare dialettica e materialismo. Non può esservi dialettica se non del pensiero. Ma il materialismo stesso è un concetto ambiguo. Soltanto per formare questa parla, bisogna già dire che c’è al mondo qualche cosa di più della materia. A maggior ragione questa critica andrà applicata al materialismo storico. La storia di distingue appunto dalla natura in quanto trasforma per mezzo della volontà, della scienza e della passione. Marx non è dunque un materialista puro, per la ragione evidente che non esiste materialismo puro, o assoluto. Lo è tanto poco da riconoscere che se le armi fanno trionfare la teoria, allo stesso modo la teoria può suscitare le armi. Sarebbe più esatto chiamare la posizione di Marx un determinismo storico.127

Tale determinismo storico ha sicuramente un merito, quello di aver reso la storia un fatto umano: annullata ogni trascendenza, l’uomo è allora l’unico «autore ed attore della storia »; poiché Dio non prende parte al gioco, ogni stato di fatto — fonte di disuguaglianza e di miseria — è d’attribuirsi all’uomo stesso; la condizione umana ha quindi cause terrene, materiali, «sociali».

Mettere alla radice dell’uomo la determinazione economica, significa ridurlo ai suoi rapporti sociali. Non esiste uomo solitario, è questa la scoperta incontestabile del diciannovesimo secolo. Una deduzione arbitraria porta allora a dire che l’uomo si sente solitario nella società unicamente per ragioni sociali. Se infatti lo spirito solitario dev’essere spiegato con qualche cosa che sta al di fuori dell’uomo, questi è allora sulla via di una trascendenza. La socialità, al contrario, non ha altro autore che l’uomo: se per di più si può affermare che la socialità è insieme creatrice dell’uomo, si crede di avere in mano la spiegazione totale che permettere di espellere la trascendenza. L’uomo è allora, come pretende Marx, “autore e attore della propria storia”.128

Ma, del resto, a cosa dovrà far riferimento l’uomo nel momento in cui deciderà di cambiare tali stati di fatto? Quando deciderà di diventare «autore della storia», quali valori gli rimarranno per indirizzare e giustificare la propria azione? Evidentemente, annullando ogni trascendenza, non si è solo cancellato Dio, ma anche qualsiasi principio regolatore. Questo è l’ultimo passaggio di un processo iniziato nel secolo precedente, quando la ragione era ancora al di sopra della storia e da quella altezza la rischiarava, senza confondersi con essa:

La profezia di Marx è rivoluzionaria perché egli porta a compimento il moto di negazione iniziato dalla filosofia illuminista. I giacobini distruggono la trascendenza di un dio personale, ma vi sostituiscono la trascendenza dei principi: Marx fonda l’ateismo contemporaneo distruggendo anche la trascendenza dei principi. La fede nel 1987, è sostituita dalla ragione. Ma questa ragione, nella sua fissità, è essa stessa trascendente. Più radicalmente di Hegel, Marx distrugge la trascendenza della ragione e la precipita nella storia. Era regolatrice, prima di loro, eccola ora conquistatrice.129

Con Marx, l’abbiamo già detto, la filosofia cambia ruolo: dal semplice interpretare il mondo, si passa ora al tentativo di trasformarlo. Si tratta dunque di conquistare sulla terra e nella storia il regno dell’uomo. Ma — è importante sottolinearlo — così come in Hegel alla fine della storia c’era, come fine ideale e come credenza, il compimento dello Spirito assoluto, così in Marx troviamo nella medesima posizione l’avvento del comunismo, ugualmente inteso come fine ideale e come credenza. In sostanza, Marx ha sostituito alla fede nello Spirito, la fede nella Storia .

Marx va più in là di Hegel, e ostante di considerarlo un idealista (ciò che egli non è, o almeno non più di quanto Marx sia materialista), appunto in quanto il regno dello spirito ristabilisce, in certo modo, un valore sovra-storico. Il Capitale riprende la dialettica signoria-servitù, ma sostituisce all’autocoscienza la autonomia economica, al regno finale dello Spirito assoluto l’avvento del comunismo. «L’ateismo è l’umanesimo mediato dalla soppressione della religione, il comunismo è l’umanesimo mediato dalla soppressione della proprietà privata». L’alienazione religiosa ha la medesima origine dell’alienazione economica. Non la si fa finita con la religione se non attuando la libertà assoluta dell’uomo rispetto alle sue determinazioni materiali. La rivoluzione coincide con l’ateismo e con il regno dell’uomo.130

Appare ormai chiaro sin dai toni che ad una religione se ne sta sostituendo un’altra: la Storia prende il posto di Dio, la politica diventa tale religione, pena e castigo vengono di nuovo reintrodotte nella vita degli uomini — soltanto che adesso essi sono da riscuotersi subito e non in una vita ultraterrena. La sofferenza stessa viene accettata se essa serve alla causa comune, all’avvento dell’utopia. La profezia giustifica ogni gesto — anche il più violento — in nome di se stessa.

Se è certo che il regno verrà, che importano gli anni? La sofferenza non è mai provvisoria per chi non crede all’avvenire. Ma cent’anni di dolore sono fuggevoli allo sguardo di colui che afferma, per l’anno centesimo primo, la città definitiva. Nella prospettiva della profezia, nulla importa. […] L’età dell’oro rinviata al termine della storia e coincidente, per duplice attrazione, con un’apocalisse, giustifica dunque tutto. Bisogna meditare sulla prodigiosa ambizione del marxismo, valutare la sua predicazione smisurata, per capire come una simile speranza costringa a trascurare problemi che appaiono allora secondari. […] L’utopia sostituisce a Dio l’avvenire. Essa identifica allora avvenire e morale: solo valore, quello che serve tale avvenire. Di qui il suo essere stata, quasi sempre, coercitiva e autoritaria. In quanto utopista, Marx non differisce dai suoi terribili predecessori, e una parte del suo insegnamento giustifica i suoi successori.131

La rivoluzione, proprio in quanto utopica, diverrà, nel suo voler realizzare ad ogni costo la profezia, una nuova Inquisizione: gli uomini, nel nome dei quali la rivoluzione voleva agire, diverranno cose, mezzi per l’attuazione della rivoluzione o, qualora si opponessero ad essa, ostacoli da rimuovere. È questa la logica di ogni rivoluzionario: l’ideale, l’utopia, la metà finale va ricercata ad ogni costo, va anteposta ad ogni cosa, uomo od oggetto che sia. I discepoli di Marx hanno dimenticato — o totalmente ignorato — il monito del maestro per cui «un fine che ha bisogno di mezzi ingiusti non è un fine giusto», gettandosi come indemoniati nel «il fine giustifica i mezzi». E quanto più tale fine sembrerà allontanarsi, tanto più violenti saranno i mezzi e tanto più si acuirà il Terrore: la propaganda dovrà omogeneizzare il consenso, la polizia dovrà arrestare i dissidenti, la Siberia annientarli. La ragione — principio regolatore della realtà per i Giacobini, realtà stessa per Hegel — è ormai tiranna: non sono più le cose che tendono ad essa, ma è essa stessa che asserve le cose a sé.

La ragione non si predica; se essa predica, non è più ragione. Per questo la ragione storica è una ragione irrazionale e romantica, che ricorda talvolta la sistematicità del paranoico, e altre volte l’affermazione mistica del verbo. […] Non ci si stupirà dunque che per rendere scientifico il marxismo, e sostenere questa finzione, utile al secolo della scienza, si sia dovuto in precedenza rendere marxista la scienza, mediante il terrore. […] Dopo tutto, il principio che consiste nel ricondurre la ragione scientifica al servizio di una profezia non ha niente di misterioso. Già lo si è chiamato principio d’autorità; è quello che guida le Chiese quando vogliono asservire la vera ragione alla fede morta e la libertà dell’intelligenza al mantenimento del potere temporale.132

Si può parlare a questo punto senza esitazione di una «Chiesa marxista»: il compimento della rivoluzione — ovvero la società senza classi, la scomparsa dello Stato e della politica, il passaggio «dal governo delle persone all’amministrazione delle cose» — sta al comunismo come il regno dei cieli sta al cattolicesimo. Il lavoro, la sofferenza, la privazione della libertà di milioni di persone, la polizia politica e l’eliminazione fisica dei dissidenti, tutto ciò viene imposto e giustificato in nome di un’utopia futura che gli addetti alla rivoluzione — gli unici depositari del suo significato — costruiscono nel presente, allo stesso modo in cui le gerarchie ecclesiastiche nel medioevo imponevano il proprio potere e mandavano al rogo gli eretici in nome di una «parola divina» di cui loro erano gli unici custodi.

La sola risorsa dei marxisti sta nel dire che il tempo necessario è semplicemente più lungo del previsto e che bisogna confidare che il fine giustificherà tutto, un giorno ancora invisibile. In altre parole, siamo in purgatorio e ci si promette che non vi sarà inferno. Il problema che allora si pone è di un altro ordine. Se la lotta di una o due generazioni nel corso di una evoluzione economica necessariamente favorevole basta a far sorgere la società senza classi, il sacrificio diviene concepibili per il militante: l’avvenire ha per lui un volto concreto, per esempio quello del suo bimbo. Ma se, non essendo bastato il sacrificio di parecchie generazioni, dobbiamo ora affrontare un periodo infinito di lotte universali mille volte più distruttrici, occorre allora la certezza della fede per accettare di morire e per dare la morte. Semplicemente, questa nuova fede non ha maggior fondamento nella ragione pura di quanto ne avessero le antiche fedi.133

2.4. Analisi critica della rivolta

Come per l’assurdo, anche per la rivolta stileremo un resoconto schematico di quanto detto riguardo ad essa:

  1. La rivolta nasce e si mantiene in quanto protesta contro l’assurdo, sicché la condizione assurda non viene da essa negata, dimenticata oppure mascherata; la rivolta ha un legame imprescindibile con l’assurdo;
  2. la rivolta sorge a partire da una negazione che si scopre in sé stessa un’implicita affermazione di una frontiera valoriale — valore che, nello stato primitivo della rivolta, è del tutto opaco e indefinito, ma che poi si farà mano a mano più limpido e chiaro;
  3. tale negazione è «ri-volta» contro il male e l’ingiustizia che sono all’opera nel mondo, a causa della sua mancanza di un principio ordinatore (anarchia); ma essendo il male ineliminabile, la rivolta diviene dunque una condizione esistenziale permanente, della quale è impossibile pensare una conclusione o un compimento;
  4. le precondizioni socio-culturali della rivolta sono tre: essa sorge in società in cui la disuguaglianza sia esasperata — o, al contrario, sia nulla; soltanto soggetti consapevoli dei propri diritti e della propria individualità possono rivoltarsi; ogni rivolta è necessariamente blasfema, in quanto si pone fuori dall’universo della grazia religiosa, tentando di instaurare quello della giustizia;
  5. la rivolta fa perno sulla natura umana che ogni individuo scopre in se stesso e che condivide con ogni altro individuo; ma tale valore va salvaguardato e va costantemente sostenuto, in quanto facilmente può offuscarsi ed essere travisato; la rivolta è per questo una perpetua tensione e una continua vigilanza;
  6. alle origini, la rivolta è metafisica, ovvero protesta contro l’intera creazione in nome di quanto in essa è inaccettabile; solo successivamente, nel suo divenire storica, essa passerà dalla semplice protesta alla trasformazione di tale realtà;
  7. ma in tale storicizzazione, la rivolta degenera in rivoluzione: assolutizza un ideale nel nome del quale finirà per asservire e uccidere gli stessi uomini che voleva salvare.

Descritta così la rivolta, possiamo finalmente analizzare la possibilità di un’etica della rivolta.

3. Un’etica della rivolta

In quest’ultima parte affronteremo il tema fondamentale del nostro lavoro, ovvero la possibilità di rintracciare un’etica della rivolta all’interno dell’opera di Albert Camus. Innanzitutto, è importante sottolineare l’ostacolo principale che si ci para davanti nell’affrontare un tale tema: la natura a-sistematica e multiforme del pensiero camusiano. A tale ostacolo faremo fronte rispettando fedelmente lo stile lirico e appassionato dell’opera di Camus, quindi eviteremo quanto più possibile forzature e sistematizzazioni non legittimate da precisi passaggi dell’opera stessa. Per questo motivo, diciamo sin da subito che l’etica della rivolta che ci accingiamo ad elaborare non sarà un elenco di norme morali né un improbabile vademecum pronto all’uso in qualsiasi situazione: essa sarà invece quanto più un insieme di principi morali che fungeranno da punti di riferimento per il singolo individuo alle prese con la sua esistenza intrecciata saldamente con quella altrui.

Il rifiuto dell’assoluto: la misura

Alla base di una tale etica della rivolta c’è un gesto fondamentale: il rifiuto consapevole di ogni assoluto — che sia esso la Storia, Dio, il terzo Reich, etc. — in nome di quanto nell’uomo è affermazione del limite e della finitudine. «Imparare a vivere, a morire e, per essere uomo, rifiutare di essere dio»: questo è l’insegnamento della rivolta, il constante e perpetuo sforzo di mantenersi a mezz’aria tra l’essere animale e l’essere Dio — ovvero, l’essere uomo. Un passo più in alto o più in basso, ed ecco in entrambi i casi l’omicidio — irrazionale e istintivo il primo, razionale e filosofico il secondo. Il lucido riconoscimento dei limiti dell’uomo è alla base della rivolta, poiché tale riconoscimento da una parte unisce gli uomini nella loro comune finitudine — nessun uomo è Dio -, dall’altra trattiene la loro ragione dall’esaltazione e dalla follia:

Se la rivolta potesse fondare una filosofia, questa sarebbe al contrario una filosofia dei limiti, dell’ignoranza calcolata e del rischio. Chi non può sapere tutto, non può tutto uccidere. L’uomo in rivolta, lungi dal fare della storia un assoluto, la ricusa e la sottopone a contestazione in nome di un’idea che ha della propria natura. Rifiuta la propria condizione, condizione che è, in gran parte, storica. L’ingiustizia, la fugacità, la morte si manifestano nella storia. Respingendole, si respinge la storia stessa. Certo, L’uomo in rivolta non nega la storia che lo circonda, appunto in essa egli cerca di affermarsi. Ma si trova di fronte alla storia come l’artista di fronte al reale, la respinge senza sfuggirla. Non un attimo ne fa un assoluto.134

L’assoluto è un’illusione mortale per l’uomo: la libertà assoluta, come la giustizia assoluta — con la loro dismisura, la loro mistificazione del reale sostenuta da un’esaltazione irragionevole — sono omicide. Dal momento in cui si decide di rendere una qualsiasi idea astratta un assoluto, si ci legittima ad ogni gesto in nome di esso: è la dialettica dell’illuminismo, che dichiara di voler liberare gli uomini dal loro stato minoritario, salvo poi finire per imprigionarli con altre e nuove catene; è la rivoluzione, che in nome della propria realizzazione in un domani lontano, uccide e asserve gli uomini oggi.

La mistificazione propria alla spirito che si dice rivoluzionario riprende oggi e aggrava la mistificazione borghese. Sotto la promessa di una giustizia assoluta, fa passare la perpetua ingiustizia, il compromesso senza limiti e l’indegnità. Quanto alla rivolta, essa non tende che al relativo e non può promettere altro che una dignità certa congiunta ad una giustizia relativa. Si fa sostenitrice di un limite sul quale si stabilisce la comunità degli uomini. Il suo è l’universo del relativo.135

Ma tale universo del relativo non conduce al relativismo: tale posizione, infatti, sostenendo che ogni verità è soggettiva, finisce per annullare l’idea di verità stessa — ovvero qualcosa di valido indipendentemente dai punti di vista. Camus invece utilizza il termine «relativo» in un senso totalmente diverso: egli infatti afferma che è compito della rivolta mantenere sempre i diversi aspetti della realtà — nonché i concetti attraverso i quali l’uomo legge tale realtà — in relazione tra di loro, evitando di sopprimere tale relazione e dunque evitando di annullare un termine, assolutizzando l’altro. «Nulla di ciò che costringe ad escludere è vero»136: il che significa che bisogna mantenere vivi insieme tutti gli aspetti del reale, senza escluderne alcuno. Prendiamo ad esempio il binomio giustizia-libertà. Camus a riguardo afferma:

La rivoluzione del ventesimo secolo ha superato arbitrariamente, per fini smisurati di conquista, due concetti inseparabili. La libertà assoluta irride la giustizia. La giustizia assoluta nega la libertà. Per essere fecondi, i due concetti devono trovare, l’uno nell’altro, il proprio limite.137

E, allo stesso modo, riguardo al binomio bellezza-giustizia dirà:

La bellezza isolata finisce col far le grinze, la giustizia solitaria finisce con l’opprimere. Chi vuol servire una escludendo l’altra non serve nessuno, né se stesso e, alla fine, serve doppiamente l’ingiustizia. […] Si, c’è la bellezza e ci sono gli umiliati. Per difficile che sia l’impresa, vorrei non essere mai infedele né all’una né agli altri.138

Ecco dunque compreso il senso della relatività in Camus: ogni concetto, per non essere fonte di legittimazione della sregolatezza omicida, deve mantenersi di fronte agli altri, in relazione con essi; solo in tale «essere-insieme» ogni concetto di definisce e si limita allo stesso tempo. «Esiste dunque una volontà di vivere senza rifiutare nulla dalla vita, ed è la virtù che io onoro di più in questo mondo. […] non eludere nulla e conservare intatta una doppia memoria»139. Si tratta in sostanza di rintracciare una misura capace di far coesistere insieme ogni aspetto del reale. Ciò che è mancato agli atteggiamenti rivoluzionari e totalitari del ventesimo secolo è proprio tale misura:

Lo smarrimento rivoluzionario si spiega innanzi tutto con l’ignoranza o il misconoscimento sistematico di quel limite che sembra inseparabile dalla natura umana e che la rivolta, appunto, rivela. Le concezioni nichiliste, trascurando questa frontiera, finiscono col gettarsi in un moto uniformemente accelerato. Nulla le ferma più nelle loro conseguenze, ed esse giustificano allora la distruzione totale o la conquista indefinita. Sappiamo ora, al termine di questa lunga indagine sulla rivolta e sul nichilismo, che la rivoluzione senz’altro limite che l’efficacia storica, significa servitù senza limiti. Se il limite scoperto della rivolta trasfigura tutto; se ogni pensiero, ogni atto che oltrepassi un certo punto nega se stesso, c’è [allora] una misura delle cose e dell’uomo.

Nel caos dell’esistenza, l’uomo può trovare una misura che gli permetta di vivere con una certa coerenza nelle contraddizioni, di vivere «rettamente lì dove si scontrano i contrari»:

Pour un esprit aux prises avec la réalité, la seule règle alors est de se tenir à l’endroit où les contraires s’affrontent, afin de ne rien éluder et de reconnaître le chemin qui mène plus loin. La mesure n’est donc pas la résolution désinvolte des contraires. Elle n’est rien d’autre que l’affirmation de la contradiction, et la décision ferme de s’y tenir pour y survivre.140

Camus riprende l’idea di misura dalla cultura greca, nella quale appunto ritroviamo l’attenersi al limite come caratterizzante ogni retta esistenza — la dea Nemesi, dea della dismisura, punisce coloro che sorpassano il limite invisibile della misura. Ma l’Europa ha ormai rinnegato — o forse solamente obliato — le sue origini elleniche, gettandosi a piè sospinto nella dismisura e ottenendo come risultato Auschwitz ed Hiroshima: soltanto ritornando alla grecità e soltanto attenendosi alla misura che la rivolta suggerisce sarà possibile andare oltre il nichilismo.141

Esistono dunque, per l’uomo, un’azione e un pensiero possibili a quel livello medio che gli è proprio. Ogni tentativo più ambizioso si rivela contraddittorio. L’assoluto non si consegue e soprattutto non si crea attraverso la storia. La politica non è religione, o allora è inquisizione. Come potrebbe la società definire un assoluto? Ognuno forse cerca, per tutti, quest’assoluto. Ma la società e la politica hanno il solo compito di sbrigare gli affari di tutti perché ciascuno abbia il tempo e la libertà di questa ricerca comune. La storia allora non può più essere innalzata a oggetto di culto. È solo un’occasione, che si tratta di rendere feconda con una rivolta vigile.142

L’affermazione di una natura umana

Lo storicismo crea — e pone alla fine della storia — un ideale di uomo: ad esso, gli uomini reali devono assomigliare il più possibile; qualora non tentino spontaneamente di assomigliarci, è compito degli spiriti rivoluzionari di forzarli a ciò. Il motto di Robespierre era «imporre la virtù, anche con la forza». Ma la rivolta smaschera subito questo finto umanesimo, riconoscendolo per quel che in realtà è: una tirannia della virtù — «la virtù» infatti, «non può scindersi dal reale senza divenire principio di male».143 La rivolta, al contrario della rivoluzione storicista, non crea un ideale di uomo: essa lo scopre nell’uomo stesso, non come qualcosa che è da farsi ma come qualcosa che è già e che va salvaguardato come un valore in sé.

La rivoluzione assoluta presupponeva l’assoluta plasticità della natura umana, la sua riduzione possibile allo stato di forza storica. Ma la rivolta è, nell’uomo, il rifiuto di essere trattato come cosa e ridotto alla pura storia. È l’affermazione di una natura comune a tutti gli uomini, che sfugge al mondo della potenza. Certo, la storia è uno dei limiti dell’uomo; in questo senso il rivoluzionario ha ragione. Ma reciprocamente l’uomo, nella sua rivolta, pone un limite alla storia. Su questo limite nasce la promessa di un valore.144

Tale valore è appunto la natura umana: si tratta non di «un ideale astratto», ma di ciò che, «nell’uomo, non può ridursi all’idea, quella parte calorosa che a null’altro può servire se non ad essere».145 Tale natura viene scoperta con una dinamica particolare: l’uomo avvertito — la cui coscienza finora asservita e assopita ha accettato passivamente la sua condizione di schiavo — si rivolta e nega quanto l’opprime; ma con questa negazione — apparentemente egoistica — egli afferma implicitamente la comunità degli uomini e, soprattutto, la natura comune ad essi. E quindi a partire da ciò che il singolo individuo trova ad un tempo desiderabile e insopportabile — ciò a cui dà l’assenso e ciò che nega — che si definisce tale natura: essa reclama la felicità degli uomini, il loro diritto inviolabile alla libertà, la necessità della giustizia; al tempo stesso protesta contro l’umiliazione e lo sfruttamento, la riduzione a cosa o animale di ogni uomo. In questo si e in questo no, gli uomini possono trovare la loro unica occasione di incontro di fronte e contro il male:

Ad echeggiare per noi ai confini di questa lunga avventura ribelle non è qualche formula di ottimismo, di cui non sapremmo che fare all’estremo della nostra sciagura, ma parole di coraggio e d’intelligenza che, vicino al male, sono una stessa virtù.

Oggi, nessuna saggezza può pretendere di dare di più. La rivolta cozza instancabilmente contro il male, dal quale non le rimane che prendere un nuovo slancio. L’uomo può signoreggiare in sé tutto ciò che deve essere signoreggiato. Deve riparare nella creazione tutto ciò che può essere riparato. Dopo di che, i bambini moriranno sempre ingiustamente, anche in una società perfetta. Nel suo sforzo maggiore, l’uomo può soltanto proporsi di diminuire aritmeticamente il dolore del mondo. Ma ingiustizia e sofferenza perdureranno, e, per limitate che siano, non cesseranno di essere scandalo. Il “perché” di Dimitri Karamazov continuerà a risuonare, l’arte e la rivolta non moriranno se non con l’ultimo uomo.146

L’opposizione al male

Appare chiaro dunque che un’etica della rivolta, piuttosto che sforzarsi di decidere arbitrariamente quale sia il vero bene per ognuno, suggerirebbe invece di preoccuparsi prima di tutto di eliminare le costrizioni e le sofferenze che affliggono gli uomini, al fine di renderli liberi di perseguire la loro idea di bene e di felicità.147

La logica della rivolta sta nel voler servire la giustizia per non accrescere l’ingiustizia della condizione, nello sforzarsi al linguaggio chiaro per infittire la menzogna universale e nel puntare, di fronte al dolore degli uomini, sulla felicità.148

L’etica della rivolta, così delineata, è allora un’«un’etica della cura»: essa afferma che prima di tutto occorre opporsi al male della creazione e curare gli uomini che questo male patiscono; tutto il resto viene dopo. Bernard Rieux, protagonista del romanzo La peste, è il personaggio più rappresentativo a riguardo: di fronte alla peste che imperversa nella sua città messa in quarantena, mentre i più si daranno alla preghiera, alla fuga o all’edonismo, egli lotterà da medico contro la peste, senza domandarsi il perché della necessità di tale lotta.

«Non posso nello stesso tempo guarire e sapere! E allora guariamo il più presto possibile: è la cosa che più importa».149

L’etica della rivolta antepone a qualsiasi «ragione teoretica» che voglia spiegare e comprendere il male la «ragion pratica» della cura. «Gli uomini muoiono e non sono felici» dirà Caligola: la rivolta, come tentativo di opporsi a questa verità, è una lotta contro la morte e per la felicità.

Il problema della violenza

Come si pone l’etica della rivolta di fronte al problema dell’uso della violenza? La questione è molto complessa. Se è vero che la rivolta, per quanto abbiamo finora detto, non può certamente aderire alla violenza come mezzo del proprio agire, lo stesso discorso vale per la non-violenza assoluta. Una volta ancora ci viene incontro la misura, a riprova dell’importanza cardinale di tale concetto nell’etica della rivolta:

La non-violenza assoluta fonda negativamente la servitù e le sue violenze: la violenza sistematica distrugge positivamente la comunità vivente e l’essere che ne riceviamo. Per essere feconde, queste due nozioni devono trovare i loro limiti. Nella storia considerata come assoluto, la violenza si trova legittimata; come rischio relativo, essa costituisce una frattura nella comunicazione. Deve dunque serbare, per l’insorto, il suo carattere di provvisoria effrazione, andar sempre congiunta, se non può evitarsi, a una responsabilità personale, a un rischio immediato.150

Dunque, lungi dall’uso metodico della violenza, così come da un’estremizzazione della non-violenza — che si rivelerebbe sempre e comunque non solo inefficace ma anche controproducente — l’etica della rivolta permette, in situazioni estreme, il ricorso alla violenza:

Allo stesso modo [in cui] L’uomo in rivolta considera l’omicidio come un limite che deve, qualora vi acceda, consacrare morendo, così la violenza non può essere nient’altro che un limite estremo che si oppone a un’altra violenza, per esempio in caso d’insurrezione. Se l’eccesso di ingiustizia rende quest’ultima impossibile a evitarsi, chi sia fedele alla rivolta rifiuta in anticipo la violenza al servizio di una dottrina o di una ragion di Stato.151

La violenza come difesa deve essere allora l’ultimo rimedio estremo contro coloro i quali ne fanno invece un uso sistematico: che cosa opporre, infatti, alla forza — e alla follia — militare di un Führer? La non violenza, contro i carrarmati e i bombardamenti, è ingenua e non può definirsi neanche eroica: un tale gesto potrebbe essere legittimato solo da una fede superiore, che L’uomo in rivolta si è ormai negato in nome di una costante lucidità.

Nel mondo d’oggi, solo una filosofia dell’eternità può giustificare la non-violenza. Allo storicismo assoluto obietterà la creazione della storia, alla situazione storica chiederà la sua origine. Infine, consacrando allora l’ingiustizia, rimetterà nelle mani di Dio la cura della giustizia. Con ciò le sue risposte, a loro volta, esigeranno la fede. Le si obietterà il male, e il paradosso di un Dio onnipotente e malefico, o benefico e sterile. Resterà aperta la scelta tra la grazia e la storia, tra Dio e la spada.152

Tra Dio e la spada, L’uomo in rivolta deve trovare una terza via che superi sia la colpa originaria dello spirito religioso, sia l’innocenza atea macchiata di sangue delle rivoluzioni storiciste: si tratta — è questa l’espressione di Camus — di mettersi «sul cammino di una colpevolezza calcolata» in cui la «sola ma invincibile speranza s’incarna, al limite, in uccisori innocenti».153

Insoddisfabilità etica e vigilanza continua

Da tutto ciò si deduce che l’etica della rivolta impone vigilanza e tensione continua, proprio perché, come abbiamo visto, le possibili deviazioni e degenerazioni sono molto probabili. Possiamo esplicitare questa perpetua tensione della rivolta continuando a far riferimento al tema della violenza:

Se esiste rivolta, è in quanto menzogna, ingiustizia e violenza ne determinano, in parte, le condizioni. L’insorto non può dunque pretendere assolutamente di non uccidere né mentire, senza rinunciare alla sua rivolta e accettare una volta per tutto l’omicidio e il male. Ma non può neppure accettare di uccidere o di mentire, poiché il movimento inverso che legittimerebbe omicidio e violenza distruggerebbe anche la ragione della sua insurrezione. L’uomo in rivolta non può dunque trovar requie. Sa il bene e fa suo malgrado il male. Il valore che lo sorregge non gli è mai dato una volta per tutte, egli deve senza posa mantenerlo. L’essere che egli consegue si sfascia se di nuovo non lo sostiene la rivolta. In ogni caso, se non sempre può non uccidere, direttamente o indirettamente, può volgere la sua febbre e la sua passione a diminuire intorno a sé le probabilità di omicidio. Sua sola virtù sarà, immerso nelle tenebre, non cedere alla loro vertigine oscura; incatenato al male, trascinarsi ostinatamente verso il bene.154

Le etiche tradizionali — soprattutto quelle di derivazione religiosa — promettevano una ricompensa ultraterrena per i giusti e un castigo per i malvagi. L’etica della rivolta insegna invece che tutto è in gioco sulla terra qui ed ora, senza possibilità di appello né di procrastinazione: ogni ricompensa ed ogni castigo si ottengono in questa vita. Kant postulò l’immortalità dell’anima perché, non trovandosi nel mondo coincidenza di virtù e felicità, deve esserci allora una vita ultraterrena in cui l’anima possa trovare questa coincidenza. La rivolta, al contrario, è consapevole sia che la coincidenza di virtù e felicità è impossibile in questa vita, sia che è assurdo pensarla possibile in un’altra vita dopo la morte: L’uomo in rivolta dunque non troverà mai pace né soddisfazione, poiché il male contro cui combatte è ineliminabile.155 Ma allora, ciò premesso, la rivolta sarà un continuo sforzo e una continua donazione al presente, in nome di una generosità superiore, ingiustificabile da nessun teorema razionalistico:

Si comprende allora che la rivolta non può fare a meno di uno strano amore. Colore che non trovano quiete né in Dio né entro la storia si dannano a vivere per quelli che, come loro, non possono vivere; per gli umiliati. Il movimento più puro della rivolta si corona allora del grido lacerante di Karamazov: «Se non sono salvi tutti, a che serve la salvezza di uno solo! ». […] È questa la pazza generosità della rivolta, che dà senza indugio la sua forza d’amore e rifiuta senza dilazioni l’ingiustizia. Il suo onore sta nel non calcolare nulla, nel distribuire tutto alla vita presente e ai suoi fratelli vivi. In questo modo essa giova agli uomini di là da venire. La vera generosità verso l’avvenire consiste nel dare tutto al presente.156

Arrivati a questo punto, abbiamo compreso finalmente quali opportunità e quali sfide la rivolta ci proponga: lontani dalla trascendenza e dalla sua impossibile quiete, l’uomo deve trovare la sua regola di condotta autonomamente; consapevole dell’essenza caotica ed anarchica del reale, deve trovare a partire da sé — ed in sé stesso — quei valori che possano indirizzare coerentemente la propria esistenza; lungi dal credere in una possibile compiutezza del gesto etico e della cura, egli deve continuare ciononostante ad operare il bene e ad opporsi al male.

Le parole conclusive de L’uomo in rivolta possono quindi concludere ora anche questo nostro lavoro.

Al meriggio del pensiero l’uomo in rivolta rifiuta così la divinità per condividere le lotte e la sorte comune. Sceglieremo Itaca, la terra fedele, il pensiero audace e frugale, l’azione lucida, la generosità dell’uomo che sa. Nella luce, il mondo resta il nostro primo e ultimo amore. I nostri fratelli respirano sotto il nostro stesso cielo, la giustizia è viva. Allora nasce la gioia strana che aiuta a vivere e a morire e che rifiuteremo ormai di rimandare a più tardi. Sulla terra dolorante, essa è la gramigna instancabile, l’amaro nutrimento, il vento duro venuto dai mari, l’antica e nuova aurora. Con lei, rifaremo l’anima di questo tempo e un’Europa che, essa, non escluderà nulla. […] Ognuno dice all’altro che non è Dio; qui termina il romanticismo. In quest’ora in cui ognuno di noi deve tendere l’arco per rifare la prova, per conquistare, entro e contro la storia, quanto già possiede, la magra messe dei suoi campi, il breve amore di questa; nell’ora in cui nasce infine un uomo, bisogna lasciare l’epoca e i suoi furori adolescenti. L’arco si torce, il legno stride. Al sommo della più alta tensione scaturirà lo slancio di una dritta freccia, dal tratto più e più libero.157


  1. Pubblicato nel giugno 1942, poco prima del Mito (che uscirà ad ottobre dello stesso anno), il romanzo vede come protagonista Meursault, un modesto e «silenzioso» impiegato che vive una vita anonima e senza valori. L’intero romanzo non è altro che una narrazione in prima persona del protagonista nella quale gli eventi si susseguiranno l’uno all’altro senza interruzioni né momenti di particolare pathos, in un sorta di costante mutismo che rappresenta al meglio la condizione dell’estraneità. ↩︎

  2. Il mito di Sisifo, p. 16. (corsivo aggiunto) ↩︎

  3. Dirà Camus riguardo a tale priorità anche temporale della vita sul pensiero che «noi prendiamo l’abitudine di vivere prima di acquistare quella di pensare». Il mito di Sisifo, p. 11. ↩︎

  4. Nell’ultima pagina de Lo straniero, il protagonista Meursault userà l’espressione «la dolce indifferenza del mondo». ↩︎

  5. La Geworfenheit è - nelle parole di Jonas - «un carattere fondamentale dell’esserci e della sua esperienza di sé […]. Esprime la violenza che mi è stata fatta, che senza chiedermi nulla mi ha fatto essere dove sono e ciò che sono, la passività del mio trovarmi in un mondo che io non ho fatto e la cui legge non è la mia». Hans Jonas, Tra il nulla e l’eternità, Gallio Editore, Ferrara 1992, p. 40. ↩︎

  6. Il mito di Sisifo, p. 17. Ho preferito usare degli accorgimenti nella traduzione, al fine di rendere il testo più comprensibile, evidenziando le aggiunte con delle parentesi. ↩︎

  7. Il mito di Sisifo, p. 10 (corsivo mio). ↩︎

  8. Prima, nella condizione mediterranea. Si leggano a tal proposito i Saggi solari, raccolta di saggi giovanili pubblicati nel 1954 sotto il titolo L’estate↩︎

  9. Il mito di Sisifo, p. 30-31. ↩︎

  10. Si legga a tal proposito l’intera pagina 22, di cui riportiamo solo un piccolo estratto: «Tutta la scienza di questa terra non potrà darmi nulla che possa rendermi certo che tale mondo mi appartiene. […] Capisco allora che, se posso afferrare con la scienza i fenomeni ed enumerarli, non posso comprende altrettanto bene il mondo». ↩︎

  11. Se cioè essa, secondo il detto nietzschiano, non vuole più «coniare monete false davanti a se stessi». F.W. Nietzsche, L’anticristo, XXII ed. Adelphi, Milano 2006, p. 14. ↩︎

  12. Il mito di Sisifo, p. 23. ↩︎

  13. David Sherman, in un suo lavoro monografico su Camus, distingue tra esperienza e concetto dell’assurdo, facendo derivare questo secondo elemento dal primo: «The Absurd is both an experience and a concept. As an exceedingly rough first approximation, we might say that it is a concept born of an experience [un concetto nato da un’esperienza], a deep, visceral experience that life, with its joys and its sorrows, with its loves and its hates, with its spectacular acts of magnanimity and its despicable acts of pettiness, with its grand victories and crushing defeats — in other words, life itself — finally adds up to absolutely nothing». David Sherman, Camus, p. 21, Wiley-Blackwell 2009. ↩︎

  14. Il mito di Sisifo, p. 29. ↩︎

  15. Il mito di Sisifo, p. 19-20. ↩︎

  16. Rimandiamo a tal proposito alla suggestiva composizione musicale The unanswered question di Charles Ives. ↩︎

  17. Il mito di Sisifo, p. 28. (corsivo mio). ↩︎

  18. Il mito di Sisifo, p. 13. ↩︎

  19. Il mito di Sisifo, p.12. ↩︎

  20. «L’argomento del presente saggio è appunto il rapporto fra l’assurdo e il suicidio, la misura esatta nella quale il suicidio sia una soluzione dell’assurdo. Si può porre come principio che le azioni di un uomo che non bari debbano essere regolate da ciò che egli crede vero. La credenza nell’assurdità dell’esistenza deve, dunque, prescrivere la sua condotta. È una curiosità legittima chiedersi, chiaramente e senza falso patetico, se una conclusione di questo genere esiga che si abbandoni al più presto una condizione incomprensibile.» Il mito di Sisifo, p. 10. Oppure: «ciò che mi interessa - voglio ripeterlo ancora - non sono tanto le scoperte assurde, quanto le loro conseguenze». Il mito di Sisifo, p. 19. ↩︎

  21. Il mito di Sisifo, p. 7. Anche per la precedente. ↩︎

  22. Il mito di Sisifo, p. 29 ↩︎

  23. Il mito di Sisifo, p. 9. ↩︎

  24. A tal proposito, ci permettiamo di considerare errata la lettura che ne da Zygmunt Bauman in un suo articolo in occasione del 50° anniversario della morte di Camus, nel quale si sostiene che «l’unica risposta e via d’uscita» alla maledizione di Sisifo sia il suicidio, che seguirebbe fedelmente la massima di Plinio il Vecchio secondo cui «nella miseria della nostra vita sulla terra, il suicidio è il miglior regalo di Dio all’uomo». Ci basta qui ricordare che proprio il Mito si conclude con le seguenti parole: «Bisogna immaginare Sisifo felice». Per l’articolo citato: Zygmunt Bauman, Camus, la «rivolta» 50 anni dopo, tratto dal quotidiano Avvenire del 28/12/2010, oppure consultabile all’indirizzo web: www.kore.it/caffe2/Albert_Camus2.htm ↩︎

  25. Il mito di Sisifo, p. 7. Aprendo con queste parole il Mito, Camus vuole tracciare con fermezza sin dall’inizio i confini nei quali la sua filosofia si muoverà: se per millenni l’oggetto per eccellenza dell’indagine filosofica è stato «la verità», tanto che Aristotele nella Metafisica definiva la filosofia come «scienza della verità», nella riflessione camusiana - carica di una sensibilità tragica che solo il Novecento ha potuto offrire - esso diventa «il senso della vita». Ciò non significa la fine di qualsiasi discorso teoretico, logico o gnoseologico, quanto piuttosto la loro temporanea messa da parte: «questi sono giuochi: bisogna prima rispondere». Rispondere alla prioritaria domanda sul senso della vita. ↩︎

  26. Il mito di Sisifo, p. 28. ↩︎

  27. Il mito di Sisifo, p. 32. ↩︎

  28. Il mito di Sisifo, p. 51 (corsivo aggiunto). ↩︎

  29. Opere, p.250. Aniello Montano dirà a riguardo: «Intuire l’assurdo, rendersene cosciente, dimostrarlo, significa formulare una verità di cui si deve essere «preda» per sempre. E se è vero, come crede Camus, che “l’assurdo è il contrario della speranza”, allora solo la rinuncia ad essere cosciente, vale a dire solo la rinuncia alla ragione, consente di aprirsi alla speranza». Aniello Montano, Camus. Un mistico senza Dio. Edizioni Messaggero Padova, 2003, p. 77. ↩︎

  30. «Per mezzo del solo giuoco della coscienza, trasformo in regola di vita ciò che era un invito alla morte - e rifiuto il suicidio». Il mito di Sisifo, p. 59. ↩︎

  31. Il mito di Sisifo, p. 52. ↩︎

  32. L’uomo in rivolta, p. 8. ↩︎

  33. Il mito di Sisifo, p. 86. ↩︎

  34. Ci permettiamo di dissociarci dalla lettura camusiana della fenomenologia di Husserl (Il mito di Sisifo, pagine 41-45), in quanto riteniamo che essa sia forzata e a tratti caricaturale, ma riconosciamo allo stesso tempo che il tema dell’essenza fenomenologiche presta il fianco a certe interpretazioni idealistiche e platoneggianti. ↩︎

  35. Il mito di Sisifo, p.33-34. Corretta dall’autore una piccola omissione nell’edizione del Mito citata (manca il termine «che»: il senso della frase ne risulta sconvolto, «non ci si rivolge a Dio per ottenere l’impossibile»). In Opere, il passo è scritto correttamente. ↩︎

  36. Il mito di Sisifo, p. 45. ↩︎

  37. Il mito di Sisifo, p. 47. ↩︎

  38. Il mito di Sisifo, p. 39. ↩︎

  39. Il mito di Sisifo, p. 46-7. ↩︎

  40. Come non nega Dio. Ripetutamente, infatti, egli sottolinea questo particolare, ad esempio quando, affermando che «l’assurdo non conduce a Dio», dice in nota: «non ho detto “esclude Dio”, poiché sarebbe una nuova affermazione». Il mito di Sisifo, p. 39. ↩︎

  41. Il mito di Sisifo, p. 39. ↩︎

  42. Il mito di Sisifo, p. 35. ↩︎

  43. Il mito di Sisifo, p. 31 (corsivo aggiunto). ↩︎

  44. «Non ignoriamo che tutte le Chiese sono contro noi. Un cuore tanto applicato a questi problemi sfugge all’eterno, mentre tutte le Chiese, divine o politiche, aspirano all’eterno. Quello che esse apportano è una dottrina, alla quale bisogna sottoscrivere. Ma io non so che farmene delle idee e dell’eterno. Le verità, che sono alla mia portata, possono essere toccate dalla mia mano. Io non posso separarmi da loro». Il mito di Sisifo, p. 84. ↩︎

  45. Il mito di Sisifo, p. 63 (anche per le successive). ↩︎

  46. «Una vita superiore non può significare per lui un’altra vita. Sarebbe disonesto». Come per Goethe, il suo campo «è il tempo». Il mito di Sisifo, p. 63. ↩︎

  47. Il mito di Sisifo, p. 78. ↩︎

  48. Il mito di Sisifo, p. 81-82. ↩︎

  49. Il mito di Sisifo, p. 51. ↩︎

  50. Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano, XI ed. Adelphi, Milano 2006, aforisma 638, p. 304-5. ↩︎

  51. Il mito di Sisifo, p. 39. ↩︎

  52. Il mito di Sisifo, p. 64. ↩︎

  53. Il mito di Sisifo, p. 50. ↩︎

  54. Il mito di Sisifo, p. 49. ↩︎

  55. Per tutte le citazioni di questo paragrafo: Il mito di Sisifo, pagine 117-121. ↩︎

  56. Il mito di Sisifo, p. 120. ↩︎

  57. Nell’epigrafe del Mito troviamo una significativa citazione di Pindaro - «O anima mia, non aspirare alla vita immortale, ma esaurisci il campo del possibile» - mentre in quella de L’uomo in rivolta sulla stessa scia troviamo un altrettanto significativa citazione di Hölderlin: «E apertamente dedicai il cuore alla terra grave e sofferente, e spesso, nella notte sacra, promisi d’amarla fedelmente fino alla morte, senza paura, col suo greve carico di fatalità, e di non spregiare alcuno dei suoi enigmi. Così, m’avvinsi ad essa di un vincolo mortale. ↩︎

  58. Se queste argomentazioni non dovessero bastare a sostenere tale provvisorietà della riflessione camusiana sull’assurdo, rimandiamo allora all’infinita serie di appunti personali di Camus pubblicati nei suoi Carnets (Albert Camus, Taccuini, II ed. Bompiani, Milano 2004), in special modo nel primo libro (1935-1942). ↩︎

  59. Roger Grenier è di opinione opposta. Rimandiamo a riguardo a Opere, p. IX. ↩︎

  60. Tratto dalla introduzione di Roger Grenier ad Albert Camus, Opere, I ed. Bompiani, Milano 1988, pp. VIII-IX. ↩︎

  61. Il mito di Sisifo, p. 64. ↩︎

  62. L’uomo in rivolta, p. 7. ↩︎

  63. Il mito di Sisifo, p. 68. ↩︎

  64. Il mito di Sisifo, p. 58. ↩︎

  65. Il mito di Sisifo, p. 77. ↩︎

  66. Il mito di Sisifo, p. 83. ↩︎

  67. L’uomo in rivolta, p. 5. ↩︎

  68. «I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo ma si tratta di trasformarlo». Marx-Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma, 1969, pag. 187-190 ↩︎

  69. Caligola, p. 20. ↩︎

  70. L’uomo in rivolta, p. 6. ↩︎

  71. «Se abbiamo coscienza del nulla e del nonsenso, se troviamo che il mondo è assurdo e la condizione umana è insopportabile, ciò non significa che non c’è niente da fare e che possiamo rassegnarci. All’infuori del suicidio, la reazione dell’uomo è la rivolta istintiva… Così, dal sentimento dell’assurdo, vediamo sorgere qualcosa che lo supera». Opere, p. 1318. ↩︎

  72. L’uomo in rivolta, p. 12. ↩︎

  73. Camus si spingerà così lontano da affermare che lo stesso vivere è una implicita affermazione valoriale, tanto che lo stesso «respirare è giudicare». ↩︎

  74. L’uomo in rivolta, p. 17. ↩︎

  75. L’uomo in rivolta, p. 18. ↩︎

  76. L’uomo in rivolta, p. 18-20. ↩︎

  77. Si veda la voce Révolte nel Dictionnarie Albert Camus, Editions Robert Laffont, Paris 2009.. ↩︎

  78. Caligola, p. 9. ↩︎

  79. Ovviamente c’è anche - e forse soprattutto - il male inflitto all’uomo dall’uomo stesso, ma di ciò ne parleremo dopo. ↩︎

  80. L’uomo in rivolta, p. 20-21. ↩︎

  81. Hume a riguardo si esprimerà come segue: «È evidente che dei fini ultimi delle azioni umane non si può mai, in alcun caso, render conto per mezzo della ragione; essi si raccomandano interamente ai sentimenti e agli affetti dell’umanità, senza dipendenza alcuna dalle facoltà intellettive. Domandate ad una persona perché è solita fare esercizi fisici; essa vi risponderà di farlo, perché desidera mantenersi in salute. Se voi allora domandate perché desidera la salute, vi risponderà prontamente: perché la malattia è dolorosa. Se voi spingete più in là le vostre ricerche e desiderate conoscere la ragione per cui la persona in questione odia il dolore, è impossibile che essa vi dia mai qualche risposta. Questo è un fine ultimo che non si riferisce mai ad alcun oggetto». Ricerca sui principi della morale, I ed. Economica Laterza, 1997, p. 203. ↩︎

  82. L’uomo in rivolta, p. 23-24. ↩︎

  83. Per tutte le citazioni di questo paragrafo, L’uomo in rivolta, p. 24-25. ↩︎

  84. L’uomo in rivolta, p. 25-26 (corsivo mio). ↩︎

  85. L’uomo in rivolta, p. 26. ↩︎

  86. Il protagonista del romanzo La caduta, l’avvocato Jean-Baptiste Clamence, dirà al suo interlocutore di «non aspettare il giudizio universale» poiché «esso avviene ogni giorno»: «N’attendez pas le jugement dernier. Il a lieu tous les jours». La caduta, p. 63. ↩︎

  87. L’uomo in rivolta, pg 31. ↩︎

  88. Ibidem. ↩︎

  89. L’uomo in rivolta, p. 32. ↩︎

  90. Ibidem.. ↩︎

  91. L’uomo in rivolta, p. 33. ↩︎

  92. «L’homme n’est pas entièrement coupable: il n’a pas commencé l’histoire; ni tout à fait innocent, puisqu’il la continue». L’homme révolté, Gallimard, 1951, p. 370. ↩︎

  93. L’uomo in rivolta, p. 67. ↩︎

  94. L’uomo in rivolta, pg 43. ↩︎

  95. L’uomo in rivolta, p. 65. ↩︎

  96. Il rifiuto della salvezza è proprio il titolo del capitolo dedicato a Dostojevskij ne L’uomo in rivolta (pp. 65-72). ↩︎

  97. Discorso di Ivan Karamazov, tratto dal capitolo IV (La rivolta) del quinto libro de I fratelli Karamazov,. Interessante a tal proposito è la reazione di Alëša al discorso di Ivan: «Questa è ribellione» o, secondo un’altra traduzione, «questa è rivolta». ↩︎

  98. L’uomo in rivolta, p. 66. ↩︎

  99. L’uomo in rivolta, p. 67. ↩︎

  100. Così parlò Zarathustra, Friedrich Nietzsche, XXV ed. Adelphi, Milano 2004, p. 6. ↩︎

  101. L’uomo in rivolta, p. 80. ↩︎

  102. L’uomo in rivolta, p. 80. ↩︎

  103. È questo il sottotitolo di una sua opera fondamentale, Crepuscolo degli idoli↩︎

  104. Si legga a tal proposito il seguente insuperabile aforisma 285 della Gaia scienza: «Non pregherai mai più, non adorerai mai più, non riposerai mai più in una fiducia senza fine — è questo che ti neghi: fermare il passo davanti a un’ultima saggezza, a un ultimo bene, a un’ultima potenza […] … non esiste per te nessuno a retribuirti e a correggerti in ultimo appello — non esiste più nessuna ragione in ciò che accade, nessun amore in ciò che ti accadrà — più non si dischiude al tuo cuore un asilo di pace, in cui ci sia soltanto da trovare e non più da cercare, ti stai difendendo contro una qualsiasi ultima pace, tu vuoi l’eterno ritorno di guerra e pace: uomo della rinuncia, in ogni cosa vuoi tu rinunciare? Chi te ne darà la forza? Nessuno ancora ebbe questa forza!». C’era un lago che si rifiutò un giorno di far defluire le sue acque e che rialzò una diga laddove fino ad allora trovava deflusso: da questo momento questo lago cresce sempre più d’altezza. Forse proprio quella rinuncia darà anche a noi la forza con cui può essere sopportata la rinuncia stessa; forse l’uomo a partire da ora crescerà sempre più in alto, non avendo più sbocco in un dio». ↩︎

  105. Così parlo Zarathustra, p. 10. ↩︎

  106. L’anticristo, prefazione. ↩︎

  107. Rimandiamo alla voce Nietzsche del Dictionnaire Albert Camus↩︎

  108. Nietzsche, ormai sprofondato nella follia, firmava le sue lettere con vari pseudonimi, tra cui il più famoso era appunto quello di «Dioniso crocifisso». ↩︎

  109. L’uomo in rivolta, p. 84. ↩︎

  110. «Nella storia dell’intelletto, fatta eccezione per Marx, l’avventura di Nietzsche non ha equivalenti; non avremo mai finito di riparare l’ingiustizia che gli è stata fatta. Si conoscono senza dubbio filosofie che sono state tradotte, e tradite, nella storia. Ma fino a Nietzsche e al nazionalsocialismo, non v’è esempio che un pensiero tutto illuminato dalla nobiltà dilaniata di un animo eccezionale sia stato illustrato agli occhi del mondo da una parata di menzogne, e dallo spaventoso ammucchiarsi di cadaveri nei campi di concentramento». L’uomo in rivolta, p. 88. ↩︎

  111. L’uomo in rivolta, p. 90. ↩︎

  112. L’uomo in rivolta, p. 114. ↩︎

  113. L’uomo in rivolta, p. 114-115. ↩︎

  114. L’uomo in rivolta ↩︎

  115. L’uomo in rivolta, p. 117 ↩︎

  116. Il testo hegeliano principale su cui si focalizza la critica di Camus è la Fenomenologia dello spirito, anche e soprattutto attraverso l’apparato critico fornito dal commentario di Alexandre Kojève Introduction à la lecture de Hegel. Leçons sur la Phènomènologie de l’esprit. A riguardo va ricordato che Jean Paul Sartre arriverà a mettere in dubbio la competenza filosofica di Camus su Hegel. ↩︎

  117. L’uomo in rivolta, p. 150-151. ↩︎

  118. L’uomo in rivolta, p. 151. ↩︎

  119. L’uomo in rivolta, p. 160. ↩︎

  120. «Ciò che è razionale è reale, e ciò che reale è razionale». Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, Frankfurt am Main 1972, p. 11. ↩︎

  121. L’uomo in rivolta, p. 152. ↩︎

  122. «Che Hegel e Nietzsche servano d’alibi ai signori di Dachau e di Karaganda non condanna tutta la loro filosofia. Ma ciò lascia supporre che un aspetto del loro pensiero, e della loro logica, potesse condurre a questi terribili confini». L’uomo in rivolta, p. 154. ↩︎

  123. L’uomo in rivolta, p. 165. ↩︎

  124. L’uomo in rivolta, p. 163. ↩︎

  125. L’uomo in rivolta, p. 166. ↩︎

  126. A lui - e al marxismo - è dedicato il capitolo più lungo del libro, Terrorismo di Stato e terrore razionale. ↩︎

  127. L’uomo in rivolta, p. 218. ↩︎

  128. L’uomo in rivolta, p. 219. ↩︎

  129. L’uomo in rivolta, p. 220. ↩︎

  130. L’uomo in rivolta, p. 220. ↩︎

  131. L’uomo in rivolta, pp. 220-222. ↩︎

  132. L’uomo in rivolta, pp. 242-43 ↩︎

  133. L’uomo in rivolta, p. 243. ↩︎

  134. L’uomo in rivolta, p. 316. ↩︎

  135. L’uomo in rivolta, p. 316. ↩︎

  136. Albert Camus, Ritorno a Tipasa, in L’estate e altri saggi solari, p. 95. ↩︎

  137. L’uomo in rivolta, p. 318. ↩︎

  138. Albert Camus, Ritorno a Tipasa, in L’estate e altri saggi solari, p. 95-6, 99. ↩︎

  139. Idem. ↩︎

  140. «Per uno spirito alle prese con la realtà, la sola regola è allora di attenersi al diritto lì dove i contrari si affrontano. La misura non è dunque la risoluzione disinvolta dei contrari. Essa non è nient’altro che l’affermazione della contraddizione, e la decisione di mantenersi in essa per sopravvivere». Tratto da Dictionnaire Albert Camus, Éditions Robert Laffont, Paris 2009, p. 546. Traduzione mia. ↩︎

  141. Oltre il nichilismo è il titolo dell’ultimo capitolo del libro, del quale la citazione seguente è l’incipit. ↩︎

  142. L’uomo in rivolta, p. 330. In una conferenza tenuta a New York nel 1946, dal titolo La crisi dell’uomo, Camus dirà analogamente: «La politica deve per quanto possibile essere riportata nei suoi giusti termini, che sono termini di contorno. Il suo fine non deve essere quello di fornirci un vangelo o un catechismo, né politico né morale […], il ruolo della politica è di tenerci in ordine la casa, non di occuparsi delle nostre questioni intime. Per quel che mi riguarda, non so se un Assoluto ci sia o no. Ma so per certo che non è un problema politico. L’Assoluto è un affare non di tutti, ma di ciascuno singolarmente. E i tutti devono regolare i rapporti con i singoli in modo che ciascuno possa aver spazio interiore per interrogarsi sull’Assoluto». ↩︎

  143. L’uomo in rivolta, p. 323. ↩︎

  144. L’uomo in rivolta, p. 271. ↩︎

  145. L’uomo in rivolta, p. 23. ↩︎

  146. L’uomo in rivolta, p. 331. ↩︎

  147. Poiché se è vero che solo poche persone sanno con certezza cosa sia il bene e la felicità, se è vero che in molti li ricercano senza averne un idea chiara, è altrettanto vero che nessuno può arrogarsi il diritto di decidere il bene e la felicità per un’altra persona. ↩︎

  148. L’uomo in rivolta, p. 311. ↩︎

  149. L’uomo in rivolta, p. 162. ↩︎

  150. L’uomo in rivolta, p. 318. ↩︎

  151. Ibidem. ↩︎

  152. L’uomo in rivolta, p. 313. ↩︎

  153. L’uomo in rivolta, p. 324. ↩︎

  154. L’uomo in rivolta, p. 312. ↩︎

  155. Vale la pena di ricordare qui uno dei tanti e splendidi dialoghi de La peste (pp. 96-99). Quando Tarrou domanda a Rieux perché egli è diventato medico, quest’ultimo, dopo una serie di risposte dai toni «anti-eroici», dirà: «Rieux: […] se l’ordine del mondo è regolato dalla morte, forse val meglio per Dio che non si creda in lui e che si lotti con tutte le nostre forze contro la morte, senza gli occhi verso il cielo dove lui tace. Tarrou: […] Ma le vostre vittorie, ecco, saranno sempre provvisorie. Rieux: Sempre, lo so. Non è una ragione per smettere la lotta». ↩︎

  156. L’uomo in rivolta, p. 160. ↩︎

  157. L’uomo in rivolta, p. 335. ↩︎