Recensione a Vandana Shiva, Chi nutrirà il mondo? Manifesto per il cibo del terzo millennio

Vandana Shiva, Chi nutrirà il mondo? Manifesto per il cibo del terzo millennio, Feltrinelli, Milano 2015, pp. 207.

Riallacciandosi al suo ruolo di attivista dei diritti umani e sociali e riprendendo i temi principali della sua produzione (tra gli altri rimando a Il mondo sotto brevetto e Il bene comune della Terra), di cui quest’ultimo libro vuole esserne la sintesi paradigmatica, Vandana Shiva ci offre con fonti e dati diretti una vigorosa denuncia nei confronti dell’agricoltura industriale e globalizzata e un appello a ritornare ad un’agricoltura biologica, che per l’autrice significa il passaggio dal paradigma della Legge dello Sfruttamento e del Dominio a quello della Legge della Restituzione. Soltanto il 30 per cento del cibo consumato proviene dalle coltivazioni industriali su vasta scala, anche se l’agricoltura industriale è responsabile del 75 per cento del danno ecologico arrecato al pianeta. L’esempio emblematico è la Rivoluzione verde nel Punjab, cioè il modello agricolo basato sull’uso di agenti chimici introdotto in India nel 1965, sostanzialmente fallito nell’obiettivo principale di produrre più cibo per risolvere il problema della fame nei paesi in via di sviluppo.

La seconda Rivoluzione verde in atto oggi è invece incentrata sugli organismi geneticamente modificabili (Ogm) e gli ostacoli da superare sono soprattutto tre: il potere delle grandi multinazionali delle sementi e della chimica (come Monsanto, Syngenta, Bayer, Dow e DuPont), il modello di agricoltura industrializzato/militarizzato e i profitti che se ne ricavano. L’autrice si fa portatrice dell’agro-ecologia, ossia di un’agricoltura che rispetti l’ambiente naturale: non a caso i piccoli contadini forniscono tuttora circa il 70 per cento del cibo del pianeta pur disponendo di appena il 30 per cento delle risorse mondiali. Il suo appello all’agricoltura biologica significa tutelare la difesa del suolo, degli impollinatori, dei piccoli coltivatori, dei semi, del cibo locale, del lavoro delle donne. Dal 1987 è alla guida di Navdanya (che significa nove semi, o nove coltivazioni, raccolti o varietà), un movimento da lei fondato che lotta per la salvaguardia dei semi (non a caso negli ultimi anni ha contribuito alla creazione di 120 banche di semi comunitarie), la difesa della biodiversità e la diffusione di metodi ecologici in agricoltura.

Le teorie su cui poggia il paradigma teorico dell’agricoltura industriale sono il modello riduzionistico e meccanicistico cartesiano-newtoniano che tende a privilegiare la scienza moderna come l’unico sistema teorico scientifico possibile e la teoria darwiniana della competizione per l’evoluzione delle specie. La dimostrazione di ciò è che dopo la Seconda guerra mondiale, il settore bellico dei prodotti chimici e degli armamenti si è riconvertito in buona parte nell’industria agro-chimica, che ha progressivamente sostituito il sistema naturale delle coltivazioni, basato sul riciclaggio naturale del suolo, dell’acqua e delle piante, mediante l’apporto esterno di sementi, prodotti chimici e fertilizzanti che devono essere acquistati dalle grandi multinazionali. In questo modo si è assistito al passaggio a vaste monocolture, che fanno un uso intensivo di sostanze chimiche, di carburanti fossili e di capitale, sostituendo sempre di più la varietà delle colture di un sistema agro-ecologico che Vandana Shiva vuole recuperare all’insegna della «libertà dei semi» posti sotto il controllo dei coltivatori e della sostenibilità naturale e umana. I dati che riporta sono allarmanti: ogni anno l’agricoltura mondiale perde 24 miliardi di tonnellate di suolo fertile; le monocolture chimiche sono direttamente responsabili dell’aumento della siccità, della riduzione dell’acqua potabile, del 40 per cento delle emissioni di gas serra (che provoca i cambiamenti climatici), dell’insicurezza alimentare e della povertà. La biodiversità favorisce invece la sopravvivenza di milioni di organismi e batteri (come le micorrize, gli actinomiceti, i nematodi, animali come i lombrichi, ragni, formiche, acari, scarafaggi, millepiedi e piante come la sesbania, la gliricidia, la crotalaria) che sono la fonte principale della fertilità del suolo. I terreni ricchi di materia organica sono inoltre più resistenti delle monocolture industriali in caso di siccità e di eventi climatici estremi in quanto usufruiscono di una maggiore varietà di colture.

L’autrice mira a salvaguardare il ciclo del seme, che a sua volta si fonda sui cicli dell’impollinazione. Pertanto denuncia l’impiego spropositato di circa 1400 pesticidi impiegati nel mondo nell’agricoltura industriale (insetticidi, rodenticidi, fungicidi, molluschicidi) che in realtà favoriscono lo sviluppo dei parassiti anziché tenerli sotto controllo. I pesticidi avvelenano i cibi, creano gravi rischi sanitari a chi li usa sul lavoro (soprattutto i contadini) e a chi vive nelle vicinanze degli stabilimenti industriali che li producono. Un esempio per tutti è il grave disastro industriale verificatosi a Bhopal, in India, nel 1984, in uno stabilimento della Union Carbide (ora Dow Chemical), in cui una fuga di gas tossici (utilizzati per la produzione di pesticidi) uccise 3000 persone e altre 30000 negli anni seguenti.

Il rapporto Veleno nel nostro cibo pubblicato da Navdanya dimostra il legame tra l’uso di pesticidi in agricoltura e lo sviluppo del cancro, sulla base dei dati ufficiali raccolti relativi al Punjab. In realtà solo l’1% dei pesticidi agisce sui parassiti, distruggendo però gli insetti benèfici e gli impollinatori come le api che sono indispensabili per l’equilibrio ecologico della terra. Anche le coltivazioni OGM sono pericolose, in quanto vengono introdotte nelle piante dei geni che producono tossine che a loro volta producono parassiti. In questi ultimi anni due soli tipi di semi geneticamente modificati si sono diffusi in modo particolare: quello della tolleranza agli erbicidi e quello della resistenza agli insetti che però servono soprattutto a uccidere altre piante che sono usate dagli impollinatori, come ad esempio l’erba della bambagia (Asclepias incarnata L.) usata dalle farfalle monarca per depositare le uova. L’agricoltura biologica invece favorisce la crescita di piante che fungono da agenti antiparassitari, come il neem, il dhaikan (Melia azadirachta), il nirgundi (Vitex negundo), la sharifa (Annona squamosa), il pongam o karanja (Pongamia pinnata), l’aglio (Allium sativum) e il tabacco (Nicotiana tabacum).

Un altro dato importante che ci fornisce Vandana Shiva è che oggi le trenta colture più diffuse forniscono il 90 per cento delle calorie della dieta umana, e il riso, il frumento e il granturco costituiscono il 50 per cento del nostro apporto calorico. I fattori che hanno contribuito maggiormente al diffondersi delle monocolture industriali a scapito della biodiversità sono tre: l’avvento delle multinazionali nel settore delle sementi; il commercio a lunga distanza e la lavorazione industriale.

L’agricoltura industriale fa uso di input esterni come i pesticidi chimici e le varietà Ogm con i pesticidi già incorporati che uccidono le specie benefiche e avvelenano la produzione alimentare. L’autrice dimostra che le monocolture con impiego di sostanze chimiche non solo producono meno cibo per ettaro rispetto all’agricoltura biologica tradizionale, ma anche che non è vero che quest’ultima sia più costosa della prima. Molte varietà indigene garantiscono una maggiore produttività rispetto alle Hyv (le varietà ad alto rendimento) che le hanno sostituite, se si prende in considerazione la biomassa totale di un sistema agricolo e l’impiego di input esterni.

Pertanto le monocolture non sono più redditizie dell’agricoltura biologica che, rispetto alla prima, presenta molti vantaggi, tra cui quello fondamentale che la maggiore varietà di raccolti espone meno la produzione ai parassiti e ai cambiamenti climatici. Inoltre i terreni coltivati assorbono una maggiore quantità di acqua piovana, garantendo una maggiore autonomia in casi di siccità. I coltivatori biologici ricorrono meno ai prestiti per l’acquisto degli input esterni, riescono a difendersi dalla caduta dei prezzi di una singola merce e la varietà dei raccolti offre una migliore distribuzione stagionale dei ricavi. Secondo il rapporto di Navdanya intitolato Health per Acre la coltivazione biologica comporta un aumento del nutrimento prodotto e una riduzione delle spese per gli input. Pertanto Vandana Shiva propone un cambiamento di paradigma che consiste nel passaggio dalle monocolture alla diversità biologica, dagli input esterni a quelli interni, dal rendimento per ettaro al nutrimento per ettaro.

Quello che viene prodotto dalle multinazionali non è cibo, ma merce. Infatti il 90 per cento del granturco e della soia prodotti a livello mondiale viene usato come mangime nelle grandi aziende zootecniche. Utilizzando i rapporti e gli studi sul commercio e l’ambiente di alcune grandi istituzioni come la Fao, l’Ilo (International Labour Organization), l’Unctad (United Nations Conference on Trade and Development), l’International Assessment of Agricultural Knowledge, Science and Technology for Development e Navdanya (per l’India), l’attivista indiana dimostra dati alla mano che le monocolture industriali producono cibo in quantità insufficiente con alti costi economici e ambientali, mentre le piccole fattorie sono di gran lunga più produttive (la Fao ha calcolato che forniscono il 70 per cento del cibo mondiale). Le multinazionali infatti vendono ai coltivatori sementi e prodotti chimici costosi e comprano i loro prodotti a prezzi bassissimi, facendoli restare intrappolati nella morsa del debito. Le nuove varietà dell’agribusiness sono: le varietà ad alto rendimento (Hyv), i semi ibridi e gli Ogm. Le prime sono varietà a elevata reazione e dipendono da prodotti chimici e fertilizzanti vulnerabili alle malattie e ai parassiti. I semi ibridi:

Sono la prima generazione dei semi prodotti dall’incrocio di due specie genitrici geneticamente dissimili (pp.105-106).

Gli Ogm, o organismi geneticamente modificati:

Usano la tecnica dello splicing genetico o del Dna ricombinante per introdurre geni da un organismo d’altra specie nelle cellule di una pianta. Per far ciò si può procedere in due modi: utilizzando una pistola genetica per sparare al gene o introducendo un cancro della pianta chiamato agrobacterium per infettare la pianta. Poiché queste tecniche sono entrambe inaffidabili, viene aggiunto un gene che sviluppa la resistenza agli antibiotici per separare le cellule che assorbivano il nuovo gene da quelle che non lo assorbivano (p.106).

Un tipo più recente di Ogm è il seme Terminator, che rilascia una tossina letale capace di uccidere l’embrione del seme, rendendo sterile la pianta. Gli Ogm, secondo l’autrice, sono stati introdotti al solo scopo di appropriarsi dei semi mediante i brevetti. A questo proposito, nell’ambito dell’Organizzazione mondiale del commercio sono stati stipulati nel 1994 gli accordi sui diritti di proprietà intellettuale legati al commercio (o Trips, Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights), che istituiscono brevetti sui semi che consentono alle multinazionali come Monsanto (che ha 1676 varietà di semi brevettati) di proibire ai coltivatori di conservare semi. Anche Nel Regno Unito e nell’Unione europea ci sono leggi che impediscono lo scambio di semi per favorire le multinazionali. Pertanto l’associazione Navdanya si propone di difendere la «libertà dei semi» e i diritti dei coltivatori alla loro conservazione, selezione e libero scambio (dal 2012 è nato anche il Movimento per la libertà dei semi che comprende diverse associazioni di tutto il mondo, tra cui Slow Food International e Shumei International).

Attualmente ci sono cinque multinazionali che controllano i semi (Monsanto, Syngenta, DuPont, Bayer e Dow), cinque che controllano gli approviggionamenti di granaglie (Cargill, Adm, Bunge, Glencore International, Louis Dreyfus), cinque che controllano il trattamento di cibo e bevande (PepsiCo, Jbs, Tyson Foods, Danone e Nestlè) e cinque per la vendita al dettaglio (Walmart, Carrefour, Metro Group, Aeon, Tesco). La globalizzazione alimentare si è imposta sulla base di due promesse che non si sono realizzate: l’aumento della produzione alimentare e la diminuzione dei prezzi dei cibi. I costi elevatissimi del cibo globalizzato (soprattutto l’acquisto di input come fertilizzanti, pesticidi e macchinari) sono ammortizzati dai 400 miliardi di sussidi che l’agribusiness riceve ogni anno dai paesi ricchi.

La liberalizzazione dei commerci ha portato i paesi poveri ad essere più vulnerabili al dumping: le merci del Nord vengono «scaricate» nei paesi del Sud del mondo, con il risultato di distruggere l’agricoltura locale e il reddito dei coltivatori che sono così privati del cibo per la loro sussistenza. Paesi come l’India e l’Indonesia, che fino a qualche anno fa erano produttori autosufficienti rispettivamente di olio vegetale e di soia, con la liberalizzazione dei commerci si sono ritrovati nella condizione opposta di diventare importatori di questi prodotti. Oggi più di un miliardo di persone soffre la fame, la metà delle quali coltiva la terra: questo avviene perché le terre più fertili sono state acquistate dalle multinazionali. La globalizzazione del commercio incide sui cambiamenti climatici spostando le industrie inquinanti nei paesi del Sud del mondo, il che aumenta notevolmente la distanza che separa i luoghi della produzione alimentare da quelli del suo consumo.

Attualmente la Fao stima che il 30 per cento circa della produzione alimentare globale vada sprecato, per un totale di circa 1000 miliardi di dollari ogni anno. Per evitare un simile spreco Vandana Shiva propone il passaggio dall’agricoltura globalizzata ad una localizzata che favorisca la biodiversità e la proprietà collettiva dei semi delle comunità. A livello politico i governi dovrebbero favorire questo passaggio incentivando prioritariamente la produzione alimentare nazionale, aumentando gli investimenti sulla produzione dei contadini e dei piccoli coltivatori e sui sistemi di produzione variegati. Inoltre dovrebbero essere stabilizzati i prezzi dei mercati interni ad un livello ragionevole per i coltivatori e dovrebbe essere incoraggiata la vendita diretta tra contadini e consumatori. Infine bisognerebbe intervenire per stabilizzare i prezzi dei mercati, distribuire la terra e l’acqua alle famiglie dei contadini.

Difendere i sistemi agricoli tradizionali significa innanzitutto difendere il lavoro e i diritti delle donne, come testimonia l’Appello di Lipsia del 1996 lanciato dall’autrice insieme a Maria Mies, i cui concetti-chiave sono: localizzazione e regionalizzazione, non-violenza, equità e reciprocità, rispetto per la natura e per l’uomo, tutela della biodiversità. Per fare ciò è necessario formulare un nuovo paradigma agricolo che passi dai semi come «proprietà intellettuale» delle corporation ai semi come esseri viventi, dalla finzione della personificazione delle multinazionali alle persone vere, dalle monocolture alla biodiversità, dal cibo come merce al cibo vero, dal globale al locale, dalla concorrenza alla cooperazione.

In particolare bisogna lavorare per potenziare la localizzazione, attraverso gli orti urbani, i mercati rionali, l’agricoltura civica e le iniziative a chilometro zero per l’acquisto diretto dei cibi dai coltivatori che li producono. Questo è il compito principale del movimento Navdanya (che oltre a «nove semi» vuol dire anche «nuovo dono»): non a caso oggi più di 3000 varietà di riso sono conservate nelle 120 banche dei semi comunitarie create dal movimento. In India inoltre il movimento ha creato delle rivendite al dettaglio a Delhi e Mumbai e promuove gli Orti della Speranza nelle scuole e nelle comunità. All’interno della fattoria di Navdanya, nella valle del Doon, è stata fondata anche Bija Vidyapeeth, l’Università della Terra, che è un centro studi per la diffusione dei sistemi di sapere fondati sugli insegnamenti della natura. Promuove inoltre alcuni programmi di tutela delle donne come Diverse Women for Diversity e Mahila Anna Swaraj (Sovranità alimentare delle donne).