Recensione a Simone Weil, La rivelazione greca

Simone Weil, La rivelazione greca, a cura di M. Concetta Sala e G. Gaeta, Adelphi, Milano 2014, 489 pp.

Questo libro raccoglie per la prima volta in italiano tutti gli scritti, compresi gli appunti e gli abbozzi, che Simone Weil ha dedicato alla civiltà greca nel periodo compreso tra il 1936 e il 1943 (tuttavia i testi principali che contiene, L’«Iliade» o il poema della forza, Dio in Platone, Discesa di Dio e Abbozzo di una storia della scienza greca sono già stati pubblicati dalla casa editrice Borla con il titolo La Grecia e le intuizioni precristiane). In questo modo è possibile ricostruire l’evoluzione della sua interpretazione del pensiero greco in vista di un avvicinamento alquanto originale con il vangelo cristiano.

Il saggio più famoso è senz’altro L’«Iliade» o il poema della forza, la cui lettura offre alla Weil l’occasione di definire la forza come ciò che trasforma l’uomo che le è sottomesso in cosa, mentre soltanto Dio (che è il bene) e alcuni esseri umani che siano riusciti a trovare un contatto mistico della propria anima con Dio possono sfuggirle. Infatti Simone Weil riconosce soltanto ad una facoltà dell’anima la capacità di sottrarsi totalmente all’imperio della forza: la facoltà di consenso al bene, di amore soprannaturale, cioè una concezione puramente mistica. La sua analisi si concentra soprattutto sullo sguardo del poeta circa le conseguenze della guerra di Troia, in cui è facile notare che chi usa la forza contro il nemico è destinato ad essere a sua volta ripagato allo stesso modo. L’Iliade è il primo esempio della riflessione dei greci sul castigo che punisce inevitabilmente chi abusa della forza e del proprio potere. La Weil non considera però che gli stessi greci riconoscevano come naturale l’uso monodirezionale della forza nei confronti degli schiavi e dei nemici, che non potevano certo contraccambiare. La loro riflessione non si estende dunque all’intera umanità, ma soltanto a quella parte che consideravano loro pari e che, sotto l’egida del destino, riuscivano a sottomettere finché non erano a loro volta sottomessi. La grandezza dell’autore dell’Iliade, a suo avviso, è data dall’equilibrio con cui descrive le vicende di greci e troiani legati dalla stessa sventura umana di sottomissione alla forza. Dimentica però che un popolo è stato vinto, massacrato, distrutto, anzi ritiene che i greci non avessero mostrato la stessa brutalità dei romani nei confronti di Cartagine. La realtà storica dimostra invece che Troia è stata distrutta e che la forza che sottomette tutti i popoli sottomette in modo intollerabile chi perde rispetto a chi vince. Simone Weil tuttavia riconosce giustamente che in quel poema è espresso in modo sublime il sentimento della miseria umana, scaturito molto probabilmente dal rimorso che i greci ebbero per il crimine orrendo commesso.

Anche delle tragedie greche la Weil dà una lettura parziale, strettamente legata al disegno di avvicinare il pensiero greco alla rivelazione cristiana. L’esempio emblematico è l’Elettra di Sofocle, in cui ella partecipa della sventura della protagonista e si sofferma sul dialogo del riconoscimento del fratello Oreste, ritornato ad Argo per vendicare l’omicidio del padre Agamennone ad opera di sua madre Clitemnestra e del suo amante Egisto. Non tiene affatto conto delle ragioni di questi ultimi: la madre uccide il marito che in nome della guerra a tutti i costi aveva sacrificato la figlia Ifigenia, sorella di Oreste ed Elettra; Egisto uccide lo zio Agamennone perché il padre di lui, Atreo, per prendere il trono, non aveva esitato a dare in pasto al fratello Tieste i suoi figli (e fratelli di Egisto). Simone Weil si identifica con le figure femminili di Elettra e di Antigone, ma non spende una parola per Ifigenia, vittima sacrificale di un atto violento da cui nasce il diritto della civiltà greca da lei tanto elogiata e messa in costante contrapposizione con la barbarie della civiltà romana. Dalle sue parole, a volte molto toccanti, si ricava un profondo senso di pietà per i vinti, ma non per tutti i vinti; per chi usa la forza, ma non per tutti quelli che la usano.

Emerge una concezione della grecità che è più cristiana che greca, più basata sul concetto generico di giustizia (quella che elargiscono gli dei e che pertanto non si comprende se non per il giogo della necessità a cui tutti dobbiamo sottostare) che sul diritto su cui si fondano le civiltà storiche. Prima ancora che in Platone, Simone Weil riconosce nei tragici greci l’ispirazione cristiana più pura: la maledizione nata da un peccato che si trasmette di generazione in generazione potrà essere annullata soltanto da un essere perfettamente puro che la prenda su di sé, Eteocle, Prometeo e Oreste in Eschilo, Antigone in Sofocle.

Nei saggi Dio in Platone e Discesa di Dio la filosofa rilegge in chiave mistica le principali fonti greche da cui attinge, dall’orfismo al pitagorismo, dalla dottrina dei misteri a Platone. È in particolare la sapienza di quest’ultimo che ne fa un anticipatore del cristianesimo, soprattutto nella sua concezione dell’amore soprannaturale divino e dell’orientamento dell’anima verso la grazia come perfetta imitazione di Dio. Le idee platoniche, in altri termini, non sono altro che attributi di Dio. Le fonti principali della sua interpretazione sono soprattutto i dialoghi Teeteto, Gorgia, Fedone, Repubblica, Fedro, Simposio e Timeo. Il suo commento al discorso di Aristofane del Simposio è sconcertante: se l’uomo esiste nonostante la sua mediocrità è perché Dio vuole essere amato da lui con il sacrificio. In altri termini, «Dio concede l’esistenza all’uomo affinché l’uomo abbia la possibilità di rinunciarvi per amore di Dio» (p. 191). Ora non si capisce come si possa amare un Dio che mi crea soltanto per farmi rinunciare a vivere! Il dialogo su Eros viene trasformato dunque in un dialogo sulla mortificazione della carne, la repressione degli istinti vitali e il disgusto della sessualità.

La lettura della grecità della Weil si contrappone radicalmente a quella di Nietzsche e non mi pare che sia lei ad avere ragione, a partire dall’interpretazione troppo spirituale che dà di Dioniso le rare volte che lo cita. L’Anima del mondo del dialogo platonico della creazione, il Timeo, viene da lei comparata al Figlio di Dio Gesù, riuscendo persino a scorgere tra le righe la Trinità cristiana con il Demiurgo e il Modello a fungere da Padre e da Spirito Santo. Le idee essenziali del Timeo sono sostanzialmente due: la sostanza dell’universo è l’amore permeato di bellezza e questo amore non è altro che l’Amore di Dio che dobbiamo imitare nel Modello la cui immagine perfetta è il Figlio di Dio. Il suo è dunque un amore che si contempla, che si vive nell’anima escludendo totalmente il corpo, in quanto noi siamo pure immagini divine che a Dio devono ritornare. Come mai però Dio abbia avuto bisogno di creare un universo materiale e, soprattutto, degli esseri corporei non lo dice.

La novità più peculiare della mistica greca consiste nella sua stretta relazione con le matematiche, all’interno di un pensiero originale che non conosceva ancora la separazione tra religione e scienza, sacro e profano a cui da tempo ormai siamo abituati. Nel discorso di Socrate nel Simposio, a suo avviso, Poros è lo Spirito Santo ed è figlio di Metis, la saggezza che è pressoché uguale a Prometeo, il cui nome significa Provvidenza. I testi di riferimento in questo caso sono Prometeo incatenato e Supplici di Eschilo. Per la Weil «Prometeo è l’agnello sgozzato sin dalla fondazione del mondo» (p. 252). Anche il Giusto perfetto (descritto da Platone nella Repubblica), Dioniso e l’Anima del mondo, in quanto Amore possono essere accostati al Figlio di Dio Gesù. L’assimilazione a Dio avviene tramite il Giusto perfetto, che è mediatore tra l’uomo giusto e Dio. L’interpretazione mistica prevalente ha un sapore prettamente autobiografico: in questi testi trasuda il rifiuto del contatto fisico, la corruzione del desiderio carnale, il valore della castità in contrapposizione alla sessualità che mi sembra in netto contrasto con l’istinto dionisiaco delle tragedie e delle dottrine dei misteri greci. A suo avviso tutto ciò che è carnale, sessuale degrada l’amore di Dio ed è soprattutto in questa chiave che la Weil rilegge Platone e l’Ippolito di Euripide. Pertanto ella può essere con ragione considerata una suora laica, una mistica senza una chiesa di riferimento. L’unica forma legittima di amore che riconosce è quello spirituale, anaffettivo e questi testi descrivono soprattutto il cammino ascetico individuale di una persona che aspira al bene puro, assoluto, ma dispera che questo possa essere esteso all’umanità intera. È un improponibile itinerarium mentis in deum nettamente in contrasto con l’ipotesi di una qualche forma di salvezza collettiva: se tutti infatti fossimo in grado di seguire un simile percorso, l’umanità si estinguerebbe. È una testimonianza oltremodo sublime dello stretto rapporto che si instaura tra l’esperienza individuale e l’attività del pensiero: in questo caso però traluce lo sforzo disperato dell’attività della mente a condizionare la vita della carne. L’obbedienza diventa la virtù per eccellenza.

La Weil individua una corrente di spiritualità pura che dall’antichità arriva al cristianesimo passando per il pitagorismo, la cui rilettura è l’apporto a mio avviso più rilevante della sua interpretazione della grecità. Proprio l’amore cristiano ante litteram dei pitagorici ha permesso loro di inventare la geometria come ricerca di mediazione e la dimostrazione scientifica. La scienza teorica è anzi uno degli spiragli di accesso alla luce divina, insieme alla bellezza nell’arte e alla sventura. In matematica la necessità indica il numero o il rapporto (logos o logismos): il consenso alla necessità da parte della mente non è altro dunque che amore puro. È la dottrina stoica dell’amor fati, in cui fatum (necessità) e logos (l’oggetto d’amore) entrano in stretta relazione. La necessità matematica è, in altri termini, mediatrice fra le cose e fra Dio e la materia, come Cristo è mediatore fra Dio e l’uomo. La bellezza del mondo consente di contemplare e amare tutto ciò che esiste. Il sentimento della bellezza permette di cogliere la necessità non come brutale coercizione, ma piuttosto come obbedienza a Dio.

Come per i pitagorici, anche per Simone Weil la matematica è l’unica forma di conoscenza in cui si manifestano le verità divine. Dio nel creare si è ritratto, consentendo ad una parte dell’essere di essere altro da Lui. A questa rinuncia divina dovrà corrispondere la rinuncia della parte soprannaturale dell’anima che acconsente ad obbedire. L’uomo può soltanto amare la mediazione divina fra Dio e l’uomo, fra Dio e le cose, fra l’uomo e l’uomo, fra le cose e le cose. La sua intelligenza può cogliere soltanto un’immagine degradata della mediazione, ovvero i rapporti che sono alla base sia della matematica e delle scienze che di questa morale soprannaturale. Questa operazione filosofica ricorda l’Amor Dei intellectualis di Spinoza: la via platonica verso la sapienza riguarda pochi prescelti, i filosofi, non certo la maggioranza degli uomini. Pertanto la proposta della Weil va intesa soprattutto come un’indicazione, il cui sacrificio richiede una fede molto salda che è necessario possedere a priori, in quanto non può essere acquisita nello sforzo del cammino.

Questi saggi rappresentano la testimonianza viva di una donna di fede e da ciò non si può prescindere. È un vero peccato che la storia della scienza greca sia rimasta soltanto a livello di abbozzo. L’intuizione più profonda di Simone Weil è infatti l’aver visto nel pitagorismo, e di riflesso in tutta la scienza greca, la matematica come immagine della teologia, in particolare la dimostrazione introdotta dalla geometria greca (cioè la scienza della ricerca delle medie proporzionali) come forma simbolica della teologia, in particolare con il concetto di Mediazione. Pertanto non ha senso separare scienza e fede, anzi la scienza per raggiungere le sue verità dovrebbe abbandonare il materialismo in cui si trova ai giorni nostri e aspirare alla sapienza.