Recensione a Giuseppe Rensi, La filosofia dell’autorità

Giuseppe Rensi, La filosofia dell’autorità, La Vita Felice, Milano 2013, 277 pp., € 14,50.

Ci sono libri italiani che assumono col tempo la statura di classici e per questo meritano di essere ripubblicati. La filosofia dell’autorità di Giuseppe Rensi, pubblicato per la prima volta nel 1920 (Sandron, Palermo), e poi riedito nel 1993 (De Martinis, Catania), è uno di questi. Per comprendere questo libro è necessario innanzitutto inserirlo nel drammatico contesto storico in cui fu elaborato, l’esperienza della Prima Guerra Mondiale appena conclusa e poco prima dell’avvento dell’era fascista di cui già si intravedevano le prime avvisaglie. La guerra convinse definitivamente Rensi che la crisi della ragione e delle verità assolute non poteva che portare allo scetticismo (e all’irrazionalismo), scuola di pensiero a cui rimase sostanzialmente coerente per il resto della sua vita. Rivalutare i Sofisti, gli Scettici antichi e Leopardi significava inevitabilmente condurre una critica serrata alle aporie delle filosofie sistematiche, in particolare Kant, l’idealismo di Hegel e i filosofi di moda di quel tempo, Croce e Gentile. Ma il bisogno urgente di Rensi non era tanto la sterile polemica sulle Weltanschaungen concettuali (che ha sempre denunciato come la vera «malattia» della filosofia), quanto porsi gli interrogativi fondamentali sull’esistenza umana lacerata dal male, dalla morte, dalla miseria, dalla disillusione. Certamente non può essere sottaciuta la polemica politica che questo libro scatenò in quegli anni: almeno fino al 1922 sembrò a Rensi che il fascismo potesse dare le risposte che cercava sul piano politico, economico e sociale. Fa male però chi tenta di tirare il suo pensiero per la giacca: sin dalla nascita del regime Rensi capì di cosa si trattava e pagò sulla sua pelle il suo antifascismo dichiarato e scritto. L’imprudenza di questo libro del 1920 fu semmai quella di aver descritto l’autorità come un fatto costitutivo, ineliminabile e innegabile della vita sociale dell’uomo (quindi una sua condizione esistenziale), senza aver differenziato la natura dei tipi di autorità che si possono presentare sul piano politico. Sarà il regime fascista a dargli l’occasione per fare questo: nel pamphletdel 1926, dal titolo significativo Autorità e libertà (che sarebbe bene leggere insieme a questo libro), Rensi distingue ciò che dovrebbe essere l’autorità da ciò che non era bene che fosse, con un’aperta ed esplicita allusione al regime di Mussolini.

Rensi dimostra l’impossibilità del razionalismo politico, e quindi della coincidenza tra la libertà individuale e la legge universale. La sua critica si rivolge soprattutto alla volontà generale di Rousseau e al «vero io» della morale kantiana, che pretendono di giustificare rispettivamente l’interesse comune e il bene morale. Kant fonda la legge universale (e quindi l’unanimità del consenso) non tanto sulla realtà quanto sulla «possibilità» che il popolo la possa volere, ma in questo modo l’identità di legge e libertà individuale resta puramente formale. Il compito di mettere in pratica questo principio del razionalismo politico spetta al liberalismo con le sue istituzioni (suffragio universale, parlamentarismo, referendum, iniziativa, plebisciti, autodecisione), su cui si basa anche la filosofia positivista (in particolare quella di Spencer e Mill). Rensi dimostra che nella realtà l’unanimità del volere una determinata legge è impossibile, in quanto qualunque legge, per quanto in teoria possa o debba essere voluta unanimemente da tutti, almeno per una minoranza della popolazione sarà sempre frutto di un’imposizione, di un atto di forza. Per fondare la razionalità della legge e dello Stato per Kant basta soltanto poter pensare senza cadere in contraddizione che essa possa essere voluta all’unanimità da tutti i cittadini. Non basta pensare con Rousseau e Fichte che il consenso sia unanime per il fatto che anche i cittadini dissenzienti continuano a vivere nel loro paese (e se mai al limite se ne vadano se non approvano determinate leggi). In questo modo restiamo nel formalismo, nella genericità e svuotiamo l’idea di Stato e di istituzioni di qualsiasi contenuto concreto. La volontà generale non può essere per uno Stato e delle istituzioni in generale, ma sempre e soltanto per una determinataforma di Stato e di istituzioni. Anzi, nemmeno lo Stato in generale viene voluto da tutti, come dimostra il caso degli anarchici. Uno Stato in altri termini non può essere razionale, in quanto non è altro che il prevalere delle ragioni di una parte (la maggioranza) che impone la sua volontà ad una minoranza. Quindi è un fatto irrazionale, di mera forza. Il bene comune e la volontà generale di Rousseau, l’idea del dovere di Kant, le idee di bello, vero, utile, bene dei neoidealisti italiani non sono altro che puri nomi che non riflettono affatto la realtà concreta. La minoranza si piega ai voleri della maggioranza non perché si persuada che una determinata legge è giusta, ma per un fatto di mera forza e autorità. Un’altra critica rensiana riguarda la crociana teoria della volontarietà o «ateoreticità» dell’errore. Nel campo politico, filosofico e religioso non esistono un’unica ragione e un solo spirito, ma tante ragioni diverse ognuna delle quali può avere la legittima pretesa alla verità. Di conseguenza la sua filosofia abbraccia il relativismo e lo scetticismo: non nega l’apparenza fenomenica e le percezioni su di essa, ma soltanto le interpretazioni filosofiche che pretendono di possedere la verità assoluta. Pertanto non esiste una verità intellettuale pura che si contrappone all’errore della volontà, ma semmai esiste lo spirito (la coscienza, diremmo oggi) umano come unione indistinguibile di ragione, sentimento e volontà. Che la cosiddetta volontà generale non sia diretta al bene comune lo dimostra l’istituto del voto, che viene dato dai cittadini quasi sempre in vista del proprio interesse particolare, professionale, di classe, di categoria o per semplice conoscenza personale. Questo avviene appunto perché non esistono facoltà separate dell’anima, non esiste in altri termini il «vero io» kantiano ma soltanto la coscienza unitaria di intelletto, volontà e sentimento. Il dovere morale deriva sempre all’individuo dal comando di un’autorità esterna (che sia il padre, la Chiesa, il tiranno, la classe, l’opinione pubblica, ecc.), e soltanto per questo motivo si spiega la diversità della morale presso popoli diversi. In altri termini, il senso del dovere non nasce spontaneamente dentro di noi, ma solo in seguito al comando di un’autorità esterna. Secondo Rensi ciò è dimostrato anche dall’impossibilità di persuadere soprattutto nell’ambito della discussione pubblica. Ai comizi politici (e per attualizzare il discorso, nei dibattiti televisivi), ad esempio, non si assiste per farsi persuadere, ma semmai per sostenere con gli applausi all’oratore di turno le proprie convinzioni politiche. Il più delle volte — aggiungo io — in quanto Rensi resta al di qua, per motivi storici, dell’avvento dei mezzi di comunicazione di massa e della loro capacità di persuasione almeno per una parte della popolazione sedotta soprattutto dagli slogan, dalla pubblicità e dall’appeal dell’immagine di determinati candidati (in Italia è emblematico il caso di Berlusconi, ma già negli anni Venti Mussolini cominciò a sfruttare tutti i mezzi a sua disposizione, dalla radio ai cinegiornali alle parate militari per «persuadere» il popolo). Dal punto di vista strettamente politico secondo Rensi il consenso dei partiti cambia soprattutto per l’estensione del diritto di voto e per il ricambio generazionale. La persuasione, quando c’è, non è mai determinata dalla discussione e dal dibattito, ma semmai dal proprio interesse personale che spinge molte persone a salire sul carro del vincitore. Quindi la discussione non serve a nulla, anzi, più precisamente, «non deve servire a nulla» (p. 113). La dimostrazione diretta della mancanza di una verità condivisibile da tutti ci viene dai giornali (oggi soprattutto la Rete), ciascuno dei quali detta la propria verità difendendola con gli argomenti e le opinioni più differenti. Rensi fa proprio, insieme al suo scetticismo di fondo, il relativismo di Protagora, per cui le cose sono come appaiono a ciascuno (per dirla con Pirandello). Quindi per conciliare la legge, lo Stato, le istituzioni con la libera volontà individuale è sempre necessario un intervento di violenza e di autorità. Oltre al voto, anche il modo di funzionare della giustizia penale e civile dimostra, secondo Rensi, che non c’è persuasione delle coscienze, ma semmai una sottoposizione coatta ad un giudizio imposto dall’autorità giudiziaria. L’esempio più evidente riguarda le liti che finiscono in tribunale: ognuno rimane convinto delle proprie ragioni, anche quando il giudice gli dà torto. E poi, del resto, se la persuasione fosse efficace, non esisterebbero né liti né tribunali. Il tribunale non è e non sarà mai un’istituzione razionale in quanto impone il suo verdetto su qualcuno piuttosto che persuaderlo del suo errore. Si serve dell’autorità e della forza piuttosto che della persuasione. Lo stesso accade per i delitti, e a maggior ragione per i reati politici (molto frequenti nell’era fascista che stava per nascere) e i reati comuni, come i reati sessuali. L’autore di un reato troverà sempre una ragione per giustificarsi guardando alle circostanze, al contesto in cui è avvenuta quella data azione. Vuole essere giudicato tenendo conto di tutti i fattori che in un determinato momento del passato lo hanno spinto a commettere quel reato, e vorrebbe quindi che il giudice si ponesse dal suo punto di vista nel momento in cui compiva quel determinato reato. Il compito del diritto è però quello di punire il reato in sé, e pertanto non accetterà mai il verdetto. Paradossalmente il giudice migliore potrebbe essere soltanto il reo che conosce dall’interno tutte le circostanze che hanno accompagnato la sua azione delittuosa, ma in questo caso non si darebbe alcuna pena. Inoltre, se davvero si potessero considerare tutte le circostanze che hanno spinto al delitto, allora tutti giustificherebbero quell’azione come da farsi. È sbagliato dunque, come fanno gli idealisti italiani riesumando la morale cristiana, «porre il principio che per giudicare bisogna collocarsi nelle condizioni della persona giudicata» (p. 144). Ancora, se il reo nel frattempo si è convertito e riconosce i suoi errori, a maggior ragione non serve più a nulla punirlo per un delitto commesso quando era diverso da quello che è ora.

Un altro esempio riportato da Rensi riguarda il concetto di popolo. Non esiste il popolo in generale, ma soltanto i cittadini, ciascuno dei quali la pensa diversamente dall’altro. Per questo motivo punire un popolo, che rappresenta soltanto un nome collettivo, come Germania, Italia, Siria, Iraq, ecc., è un fatto indispensabile ma irrazionale. Infatti, quando in seguito ad un conflitto si applica ad esempio un embargo nei confronti di un determinato Stato, in realtà non si puniscono coloro che sono davvero colpevoli di un delitto, ma soltanto i cittadini inermi. Radicalizzando il discorso, quando si punisce un individuo per un delitto che ha commesso in passato, in realtà si punisce soltanto qualcuno che porta lo stesso nome e che ora è diverso da quel che era prima. Ancora, sul piano della politica internazionale, sarebbe più ragionevole, ma è praticamente impossibile, l’autodecisione dei popoli, cioè la possibilità che ogni popolo decida il suo destino politico. Questo non è possibile perché un popolo non raggiunge mai l’unanimità della decisione, ma si divide sempre in una maggioranza e una minoranza, e quest’ultima subisce sempre la decisione della prima. Perciò è impossibile la coincidenza della legge con la libertà individuale, in quanto si presenta sempre l’imposizione della volontà di una parte sulla volontà dell’altra. Secondo Rensi è impossibile applicare il principio dell’autodecisione in base alla nazionalità degli abitanti di un determinato territorio, in quanto quello stesso territorio fu occupato in passato con la forza da quella stessa nazione di cui ora si condividono la lingua e i costumi. Né si può sollevare il criterio dei cosiddetti confini naturali, oppure ragioni di natura economica o di difesa militare. Non esiste, in altri termini, una ragione sufficiente per giustificare l’autodecisione di un popolo in merito al proprio destino politico. Possiamo radicalizzare ulteriormente il discorso di Rensi guardando alla storia internazionale: lo status quo è sempre stato frutto di un atto di forza, di imposizione violenta delle ragioni di uno Stato, o di un popolo, sugli altri. Perché ad esempio l’inglese è la lingua ufficiale sul piano internazionale e in molti paesi del mondo? Oppure perché lo spagnolo è così diffuso in America latina? Perché sono stati gli inglesi e gli spagnoli a creare un impero coloniale e ad imporre il loro dominio su quei popoli e territori. Gli italiani non lo hanno fatto e l’italiano è una lingua di minoranza, che si parla quasi solo da noi. La guerra, che Rensi ha appena vissuto, è la massima dimostrazione della falsità del razionalismo e dell’idealismo. Essa dimostra praticamente l’inconciliabilità delle molteplici ragioni che spingono ad essa: perciò è impossibile raggiungere una pace «giusta», in quanto a prevalere sarà sempre la giustizia del vincitore di turno. Paradossalmente, anche la rivoluzione è una forma, estrema, di razionalismo e idealismo assoluto perché vuole ridurre il mondo sociale alla piena razionalità, la sua. Rensi confuta la tesi tipica dell’idealismo dell’identità tra la spiegazione di esistenza di una cosa e la sua intrinseca razionalità. Che una cosa esista non vuol dire che sia necessariamente razionale. L’attacco a Croce (il suo bersaglio polemico principale di quegli anni) avviene in questo libro soprattutto nel campo estetico: il giudizio sul valore di un’opera d’arte può essere soggettivo (e quindi arbitrario, senza possibilità di trovare un criterio universale di valutazione), oppure oggettivo (per cui è esteticamente bello tutto ciò che la critica storica ha inteso nel corso dei secoli come tale, e quindi diventa impossibile esprimere un giudizio personale, soggettivo). La cosiddetta educazione estetica non è altro che l’accettazione passiva di modelli di bellezza che si sono imposti d’autorità con il cosiddetto parere degli esperti, della classe dominante che è riuscita così ad imporre i suoi gusti. Per questo motivo il concetto di consenso universale è convenzionale, cioè frutto dell’autorità dei competenti, degli esperti. Secondo Rensi dunque i concetti di giustizia, di vero, di bene e di bello sono meramente formali. Riprendendo il pensiero dei sofisti, ribadisce che la giustizia è un fatto extrarazionale, di mera forza e autorità. È giusto «ciò che chi possiede la forza (…) decide che sia» (p. 228). Il formalismo non è altro che scetticismo: significa infatti svuotare un’idea di ogni contenuto concreto e farne un mero contenitore in cui è possibile introdurre qualsiasi cosa. Solo così, come puri nomi, il vero, il bello, il bene possono essere universali ed assoluti. Nulla di concreto può essere stabilito a priori come bene e male in senso assoluto, perciò il formalismo idealistico non può che preparare la strada allo scetticismo. Di conseguenza come afferma Protagora, «tutto è vero», e quindi, per dirla con Gorgia, «niente è vero». Rensi non vuole affatto negare valore alla conoscenza in sé, ma sottolineare che nel campo filosofico, morale, estetico, religioso, giuridico e logico non potranno mai essere risolte le antinomie della ragione cogliendone l’unica verità assoluta. Gli esempi di alternative che riporta sono universali e valevoli quindi anche ai giorni nostri: «Dio-meccanismo naturale»; «materia-spirito»; «immortalità-estinzione totale»; «libertà morale-determinismo»; «divorzio-indissolubilità del matrimonio»; «rivoluzione-conservazione»; «proprietà privata-collettivismo» (p. 248). Non esiste verità né falsità, ma la nostra concezione dell’una e dell’altra muta nel tempo. Solo nel campo matematico Rensi ammette che ci siano proposizioni che possiamo definire come vere: 2+2=4. Nel campo umano e sociale è invece impossibile raggiungere la verità. Non essendo possibile trovare una soluzione razionale, allora l’unica soluzione è l’autorità, cioè «chi decide quale debba di fatto valere come se fosse la giustizia, il bene, la verità» (p. 262), cioè il monarca, lo Stato vincitore, la classe vincitrice della rivoluzione, il padre di famiglia, ecc. Tutelare la libertà individuale significa riconoscere che non esiste la verità assoluta sulle cose, e quindi affermare lo scetticismo come formalismo nel campo della conoscenza.