Per uscire dal ventesimo secolo è necessario il riconoscimento della natura unitaria, diversificata, passata e presente del totalitarismo.
— E. Morin, Per uscire dal ventesimo secolo
L’approccio di Edgar Morin al marxismo non è soltanto di natura teorica (sociologico-storico-politica), ma è innanzitutto esistenziale, in quanto strettamente legato all’esperienza vissuta e critica di un uomo che ha prima coltivato l’utopia di un sogno (la rivoluzione comunista) e poi ne ha destrutturato l’ideologia attraverso un processo di ri-memorazione e re-interrogazione radicale. È un percorso strettamente autobiografico il suo, e non a caso il testo più significativo è proprio l’Autocritica del 1959,1 in cui riesamina lucidamente il suo percorso all’interno del partito comunista francese e il suo distacco definitivo dopo l’espulsione dal partito avvenuta nel 1951. Persino il suo testo di analisi teorico-politica più importante sulla natura del comunismo staliniano, La natura dell’URSS,2 risponde a un’esigenza autobiografica personale, in quanto non offre volutamente né un orientamento bibliografico né parte delle fonti e degli autori di cui si è servito per la sua riflessione. Del resto, il suo stesso ambizioso progetto di rifondazione del metodo della conoscenza non è soltanto di natura teorica, ma parte proprio dall’intimo bisogno coltivato per anni di comprendere la natura dell’illusione ideologica, e di quella stalinista in particolare, che ha avvinto lui e un’intera generazione prima, durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale. La critica dell’ideologia è, dunque, un bisogno profondo, autobiografico, del Morin uomo prima ancora del Morin intellettuale.
1. Il livello di analisi autobiografico
L’Autocritica del 1959 è un ottimo esempio di autobiografia intellettuale, in quanto Morin analizza criticamente le tappe esistenziali decisive di un periodo cruciale della sua vita, per riprodurre intimamente i processi psicologici di allora e criticare lucidamente gli schemi mentali e i condizionamenti che lo hanno portato a vedere le cose in modo errato. Per comprendere un determinato periodo storico sono sempre state di grande utilità le fonti soggettive, come diari, lettere, testimonianze, autobiografie. La grande novità della proposta moriniana è l’analisi di un periodo storico e di un’ideologia ben precisa, facendo della critica dell’ideologia, della mentalità e della società del suo tempo il punto di arrivo di un processo di ripensamento della propria coscienza di intellettuale e testimone che mette in gioco se stesso in prima persona. Naturalmente non tutto quello che scrive deve essere necessariamente condiviso, in quanto lo stesso Morin rifiuta l’idea che si possa avere una verità oggettiva di qualsiasi tipo, ma è l’importanza di un punto di vista che retroagisce sul proprio pensiero che lo fa prepotentemente inserire nel dibattito teorico sull’ideologia marxista, e marxista-leninista in particolare. La lettura che Morin si propone a più riprese di fare sul fenomeno stalinismo può essere strutturata in tre livelli di analisi: 1) il livello di testimonianza esistenziale e intellettuale sul comunismo; 2) il livello di analisi teorica e ideologica del totalitarismo staliniano (che è il nucleo centrale); 3) il livello di analisi culturale del marxismo a partire da Marx. Cominciamo dal primo, mettendo in evidenza il punto di vista dell’intellettuale militante.
Il motivo principale della razionalizzazione operata da Morin per abbracciare il credo comunista e, in particolare, il sistema sovietico, era l’illusione che, nonostante gli errori strategici e politici commessi fin dall’inizio degli anni Venti, lo stalinismo avrebbe portato all’instaurazione di una società socialista a livello mondiale. Pertanto era necessario dare una fiducia incondizionata al partito, visto hegelianamente come «l’ostetrico della Ragione storica».3 Agli occhi dell’intellighenzia occidentale il fenomeno era visto principalmente come una risposta inevitabile all’accerchiamento capitalista. Quindi ci si basava sull’identità di fondo tra il socialismo e lo stalinismo, ammettendo soltanto un rapporto dialettico di mezzo-fine tra i due concetti. Seguendo la vulgata, bisognava dunque rimanere fedeli al partito nonostante tutti i dubbi suscitati dalla dittatura sul proletariato che anche dopo la guerra si estese al di fuori dell’URSS nei cosiddetti Stati satelliti dell’Europa dell’Est. Dal 1941 al 1948 la vulgata intellettuale giustificava gli eccessi del partito con le condizioni storiche della guerra contro il nazismo e il fascismo. Dopo il ’48 vennero invece giustificati con la lotta manichea tra l’Impero del Bene (che incarnava il socialismo e la rivoluzione) e l’Impero del Male (il capitalismo americano e occidentale sfruttatore dei popoli). Lo stalinismo trasformò nelle coscienze il fervore rivoluzionario in una fede magica, mistica, religiosa assolutamente irrazionale già durante la prima glaciazione staliniana (1931-1937), come dimostrano in particolare i processi di Mosca.4 Morin arrivò al comunismo durante la guerra (come tanti altri) perché vi vide l’antidoto al fascismo. Nel 1948 la sua (e di altri come Antelme e Mascolo) resistenza culturale e morale all’interno del partito fu rafforzata dal problema delle democrazie popolari durante la seconda glaciazione staliniana con i suoi processi, purghe e scomuniche (come ad esempio quella di Tito in Jugoslavia). Il processo di Rajk e di altri dirigenti comunisti e socialisti fu il caso più clamoroso (1949) e rappresentò il primo vero segnale di rottura nella coscienza già dubitante di Morin.5 Infatti, egli non riprese la tessera nel 1950, pur continuandosi a sentire membro del partito. L’illusione, nonostante i dubbi, continuava, perché negli articoli di questo periodo Morin adattava alla guerra fredda la cosiddetta teoria della «fortezza assediata», cioè dello stalinismo giustificato come il socialismo dell’epoca dell’assedio e per questo inevitabilmente guerriero, statale, burocratico. La forza dell’apparato staliniano era dunque di mantenere una psicologia di guerra in tempo di pace. Il suo bisogno mistico era giustificato dalla visione dialettica (hegeliana) della storia, che svalutava il presente come una totalità in divenire che andava letto in funzione della sintesi compiuta del futuro (il socialismo compiuto). Il partito, come universale concreto, era al centro di questo processo, in quanto incarnava ai suoi occhi la forza storica del proletariato.6 La sua metafisica del reale era intrisa di messianismo religioso e gli nascondeva la vera realtà del partito che era la dittatura sul proletariato. L’errore più grossolano della vulgata era l’identificazione dello stalinismo con il socialismo e, quindi, in nome del proletariato si giustificavano crimini, menzogne ed errori dell’apparato (che sarebbero necessariamente finiti con la vittoria finale del socialismo a livello mondiale). In seguito ad un articolo per l’«Observateur» non gradito ai vertici del partito (fu considerata una deviazione personale in quanto era proibito ai membri del partito scrivere per quel giornale), Morin fu espulso nel 1951 come persona non gradita.7 Dopo questo avvenimento decisivo, la sua concezione dello stalinismo da rivoluzionaria divenne evoluzionistica (qui, naturalmente, continuiamo a seguire il suo punto di vista). La sua speranza di trasformazione dello stalinismo era legata all’estensione della rivoluzione su scala mondiale, ed un ruolo di primo piano sperava che potesse assumere in questo senso la Cina divenuta comunista dopo la rivoluzione culturale di Mao iniziata nel 1949. Infine passò dalla fase totalitaria alla fase liberale, credendo che si potesse essere rivoluzionari senza essere staliniani. Lo choc decisivo per lui fu il rapporto Khrusciov,8 che lo obbligò a ripensare totalmente lo stalinismo. Il terrore con le purghe, la decapitazione dei quadri del Comitato centrale e dell’Armata rossa non potevano più trovare una giustificazione nella necessità storica. Il comunismo non poteva che essere, quindi, antistalinismo. Mentre la dottrina professava l’uguaglianza internazionalistica, proletaria e democratica, la pratica era invece gerarchica, autoritaria, burocratica, nazionalistica, pur agendo in nome della dottrina.9 L’insurrezione in Ungheria, Cecoslovacchia e Polonia a partire dalla primavera del 1956 fecero crollare anche l’altro pilastro centrale della vulgata: l’essenza proletaria del comunismo staliniano. Gli interventi di repressione dell’Armata rossa cancellarono in un solo colpo la missione proletaria rivoluzionaria dell’URSS e ne fecero un semplice Stato tra gli altri. La novità delle insurrezioni era il tentativo di instaurare un altro tipo di socialismo, quello dei consigli, che voleva basarsi sulla pluralità dei partiti politici, la separazione dei poteri, il parlamento eletto con suffragio universale. Questo avrebbe significato la fine del totalitarismo sovietico, che intervenne con la repressione aprendo gli occhi a molti intellettuali occidentali, Morin compreso. Subito dopo questi avvenimenti in lui si pose la ridefinizione del sistema dell’URSS a partire dal problema dell’Apparato, come sarà ampiamente trattato sia sul piano teorico (Il Metodo 1)^[10] che sul piano politico (La natura dell’URSS). Ma è già in questa Autocritica che comincia a comprenderne l’importanza:
All’origine dello stalinismo ci fu prima di tutto lo sviluppo senza controllo del segretariato del partito leninista; tale sviluppo divenne una specie di cancro interno al bolscevismo e doveva arrivare letteralmente alla distruzione del partito attraverso il suo apparato amministrativo. Una simile metastasi dell’apparato si produsse quando il partito ebbe preso possesso del potere dello Stato. I quadri amministrativi del partito, divenuti i quadri reali del nuovo Stato, ebbero a disposizione il pieno potere. Nello stesso tempo lo Stato, invece che avviarsi verso la scomparsa annunciata da Lenin, diventava un orco.10
Con il primo stalinismo (1924-1935) si rafforzò il regime d’apparato con la congiunzione del partito bolscevico e delle strutture nazionali statali, attraverso la ripresa dell’eredità della politica zarista (con le conseguenze della guerra civile) e l’imposizione del socialismo in un solo paese, con la pianificazione economica e l’industrializzazione forzata. Nel 1935 l’Apparato staliniano uscì rafforzato sul piano interno con il successo del primo piano quinquennale (e lo sviluppo del secondo), la stabilizzazione delle campagne (dopo la carestia e la deportazione) e, nella politica estera, con l’ingresso dell’URSS nella Società delle Nazioni e il patto Laval-Stalin. Tuttavia proprio in quell’anno si scatenò il secondo stalinismo, con i grandi processi contro i dirigenti del Partito e dell’Armata Rossa, il gulag e la tortura, l’onnipotenza della polizia politica e il culto della personalità geniale di Stalin. L’assassinio di Kirov, il delfino di Stalin, e la liquidazione del 70% del Comitato centrale staliniano venne interpretato da Morin come la reazione a un tentativo di destalinizzazione non riuscito.11 Stalin prima utilizzò la NKVD per la liquidazione, poi colpì direttamente i suoi capi (Yagoda e Yegov). Il 1935 fu quindi l’anno decisivo perché inaugurò la politica del Terrore staliniano contro la destalinizzazione, che fu in parte frenata dall’imminenza della guerra contro i nazisti e poi dalla guerra stessa. Anche la seconda glaciazione staliniana del 1947 fu la ripetizione della prima. A dominare non era la burocrazia, ma un sistema di caste, al vertice delle quali era la casta del partito ad imporre il regime dell’Apparato, controllando strettamente la casta militare e quella poliziesca.12
Nel 1956 Morin ancora credeva nella missione storica del proletariato, rianimata alla periferia dell’Impero dalle rivolte di Budapest, Poznam, Varsavia e dalle rivoluzioni d’Asia e d’Africa con il processo di decolonizzazione. L’analisi sociologica della condizione operaia gli fece definitivamente comprendere che non si aveva a che fare con una lotta di classe, in quanto anche la classe operaia «cominciava ad appropriarsi dei beni materiali della produzione di massa, dei valori immaginari della cultura piccolo borghese».13 Il benessere e il comfort erano i valori a cui tendevano sia i cittadini degli USA che dell’URSS, nonostante le enormi differenze politiche; c’era la tendenza all’omogeneizzazione delle infrastrutture e dei costumi della nuova società industriale. Così, nel giro di pochi anni, Morin smise di credere al compito messianico del marxismo di abolire i rapporti di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, acquisendo una coscienza, anche se non priva di speranza, certamente più pessimistica sul futuro dell’uomo e della civiltà planetaria. Questa nuova consapevolezza si tradusse, a partire proprio dall’Autocritica del 1959, nello slogan forse più celebre del suo pensiero (ripreso in quasi tutti gli scritti successivi): «Siamo nell’età del ferro planetaria».14
L’importanza della militanza di Morin nel partito comunista e l’ossessione del ripensamento continuo dell’errore ideologico commesso nei confronti dello stalinismo, emerge chiaramente anche in un altro scritto autobiografico del 1994, I miei demoni,15 che può essere letto per molti aspetti in continuità con l’Autocritica, perché rivela le stesse esigenze di fondo, unendo la testimonianza alla confessione aperta dei limiti dell’ideologia con i suoi sogni e illusioni. Scrive infatti:
I miei fondamentali errori sull’URSS e sul comunismo furono filosofici, non empirici. […] In due anni, ho commesso due errori contrari partendo dall’identica logica dialettica: nel 1940-41 ritenni che la Germania hitleriana sarebbe stata vinta dalla sua stessa vittoria; nel 1941-1942 pensai che con la vittoria del socialismo l’URSS staliniana si sarebbe lasciata alle spalle il suo carattere oppressivo, e le virtù racchiuse nella sua ideologia sarebbero finalmente sbocciate. […] Nei due casi agiva una stessa idea: che l’universale evolva nella storia […] .16
Il vero problema è, dunque, la trasformazione all’interno dell’ideologia di un processo di razionalizzazione in una fede irrazionale:
Questi errori intellettuali e morali nascevano dal convergere di due forme di razionalizzazione: una razionalità che aspirava, attraverso la dialettica, a diventare più complessa per interpretare le tragedie della Storia, ma che si era corrotta e pervertita dopo essersi trasformata in un meccanismo giustificatorio; e una razionalità semplificatrice, basata su una logica dell’unità come prima condizione della vittoria. Questa duplice razionalizzazione diventava una vera e propria irrazionalità perché nascondeva in sé, rendendola invisibile, la fede religiosa, mistica, messianica per il partito-patria.^[18]
2. Il livello politico-sociologico: lo stalinismo
2.1. L’apparato staliniano
Mentre l’approccio autobiografico di Autocritica utilizza i principali eventi storici dello stalinismo in funzione della rievocazione della propria esperienza personale (per cui la critica è soprattutto di natura psicologica, soggettiva), con La natura dell’URSS Morin risponde ad un bisogno di comprensione oggettivo e critico (per molti aspetti scientifico) sulla natura del totalitarismo. Egli parte dall’insoddisfazione personale verso tutte le spiegazioni principali della dittatura sul proletariato instaurata in URSS dal regime staliniano e post-staliniano, considerando due di esse il punto di partenza della sua riflessione ma non quello di arrivo, cioè l’idea di burocrazia e quella di totalitarismo. La prima fu introdotta in Francia in particolare dal gruppo Socialismo o barbarie guidato da Castoriadis e Lefort; la seconda si rifà ad Hannah Arendt e al suo celebre studio su Le origini del totalitarismo.17 A queste ricerche aggiunge le testimonianze di Solzhenicyn (sul Gulag), di Voslensky (sulla Nomenklatura dirigente) e di Zinov’ev (sull’eliminazione del dissenso ad opera del sistema).18 La sua analisi, oltre che a spiegare, cerca anche di mettere in correlazione la natura totalitaria del sistema staliniano e l’imperialismo post-staliniano e di integrare quindi la posizione di Claude Lefort sul totalitarismo con quella di Cornelius Castoriadis sull’imperialismo sovietico.19 Nell’analisi del sistema Morin ha applicato i principi teorici del suo Metodo (a cui rimandiamo) per avvalorarli in un’esperienza socio-politica reale.
Che cos’è il totalitarismo? La differenza fondamentale con qualsiasi altra forma di governo dittatoriale e assoluto, secondo Morin, è che alla base dello Stato totalitario vi è il Partito unico al potere che ha la certezza di possedere la Verità e che esige obbedienza assoluta alle decisioni da esso prese in nome di una superiore morale consacrata al fine rivoluzionario.20 In URSS la concentrazione del potere in seno all’apparato del partito bolscevico avveniva già ai tempi di Lenin, e l’episodio simbolo fu la rivolta soffocata nel sangue dei marinai di Kronstadt nel marzo del 1921 che, dopo aver contribuito alla vittoria del partito bolscevico nella guerra civile, si erano ribellati per reclamare maggiori poteri ai soviet. Il totalitarismo si affermò definitivamente durante il primo stalinismo (1924-1935) in cui Stalin, segretario generale del partito dal 1922, consolidò il suo potere assoluto sullo stesso partito con l’eliminazione sistematica dell’opposizione (di sinistra, di centro e di destra) e di tutti i dirigenti della rivoluzione del 1917 seguita ai famosi processi di Mosca (1936-1937). Scrive Morin:
La presa di potere da parte di Stalin è inscindibile dalla presa del potere assoluto da parte dell’apparato amministrativo-poliziesco sullo stesso partito, sullo Stato e sulla società. […] Il primo stalinismo provoca, dunque, lo sviluppo ipertrofico del potere del Partito sullo Stato, a sua volta legato allo sviluppo ipertrofico dell’apparato di Stato.21
Nello stesso periodo fu lanciato il primo piano quinquennale (1928-1933) e la collettivizzazione agraria (1929-1930), che portarono all’industrializzazione forzata e alla deportazione dei kulaki nei campi di concentramento con la morte di milioni di persone (il cosiddetto sistema Gulag). Il secondo stalinismo (1935-1941), coi processi di Mosca, instaurò il regime del Terrore con l’eliminazione non solo degli oppositori ma anche degli stessi membri dell’apparato e seguaci di Stalin. Oltre a gran parte dei quadri staliniani del Comitato Centrale furono uccisi anche migliaia di ufficiali dell’esercito e gli stessi dirigenti del N. K. V. D. (Jagoda nel 1938, Ezhov nel 1939 sostituito da Berija). La spiegazione di questa politica sanguinosa e delirante di Stalin non può essere cercata nel cosiddetto pericolo esterno, in quanto negli anni 1934-1935 la minaccia nazista è ancora di là da venire, l’URSS firma il patto Laval-Stalin ed entra nella Società delle nazioni. Inoltre, all’interno del paese il piano quinquennale è riuscito e la collettivizzazione agraria compiuta. Quindi, secondo Morin, il delirio staliniano, iniziato con l’assassinio di Kirov nel 1934, si scatenò in seguito al fallimento di un tentativo di colpo di Stato da parte dei membri dell’apparato (anche se non tiene, a mio avviso, nella giusta considerazione la logica delirante e sospettosa della follia staliniana).22 La principale novità introdotta da Stalin fu il socialismo in un solo paese, realizzato inserendo nel patriottismo sovietico il nazionalismo russo ereditato dall’Impero zarista. Creò inoltre una società sovietica di natura gerarchica e a struttura compartimentale:
Al vertice vi sono coloro che hanno sia il potere che i privilegi (le alte autorità dell’apparato), poi coloro che hanno privilegi, ma poteri parziali (alti funzionari, direttori d’imprese, ufficiali superiori, capi di polizia) ai quali si aggiungono i privilegiati privi di potere (intellettuali, artisti, ufficiali, accademici). Di livello in livello, attraverso funzionari e burocrati, si scende fino agli operai, privati del diritto di sciopero e di autonomia sindacale, ma ricompensati individualmente secondo il loro rendimento e le loro prestazioni.^[25]
Solo in seguito all’invasione hitleriana Stalin attenuò il totalitarismo e, in nome della resistenza patriottica, riprese in servizio ufficiali e generali competenti togliendoli dal Gulag. La seconda glaciazione staliniana cominciò nel 1946 e lo stalinismo, inteso come sistema totalitario, non finì né con la morte del suo fondatore (1953), né con il rapporto Chrushcëv al XX congresso del partito (febbraio 1956). Morin propone opportunamente di definire la fase post-staliniana del totalitarismo sovietico era stalinistica, che si può considerare conclusa con Gorbaciov e il crollo dell’URSS del 1991. Alcuni tentativi di liberalizzazione di Chrushcëv fallirono miseramente con la politica di repressione della rivolta ungherese (1956), mentre l’era di Brezhnev fece assumere all’URSS il ruolo di grande potenza militare imperialistica. Dal bolscevismo come deviazione del marxismo sorse dunque un sistema totalitario che, dopo Stalin, divenne imperialista. Il compito principale che si propone Morin nella sua analisi è di spiegare questo passaggio e di legare insieme questi due concetti.
Il concetto chiave che spiega la natura del partito totalitario comunista è, a suo avviso, quello di apparato (Apparat). Opponendosi al revisionismo e al riformismo socialdemocratico, il partito bolscevico formò un apparato unico, centralizzato, basato sulla disciplina e organizzato sia per la lotta di classe che come dispositivo immunologico contro ogni deviazione o alterazione all’interno. Il partito bolscevico ebbe una natura militante e nello stesso tempo di tipo ecclesiale/religioso. La vera novità che emerse dalla rivoluzione di ottobre fu la creazione di un Partito-Apparato di tipo ecclesiale-militare che deteneva in sé la Verità storica, scientifica, religiosa e, in nome di questa, si credette legittimato a detenere un potere assoluto e a reprimere nel sangue qualunque forma di dissidenza/opposizione.23 Con Lenin l’Ufficio politico aveva ancora la preminenza sull’apparato del partito; con l’avvento di Stalin e le sue epurazioni, in dieci anni fu l’apparato a selezionare e scegliere l’organigramma del partito. La politica del partito divenne subordinata alla politica dell’apparato e nelle mani del Segretario generale si concentrarono non solo tutti i poteri (politici, civili, militari e polizieschi), ma anche la sacralità religiosa del marxismo-leninismo e l’infallibilità teorica del Capo. L’obiettivo principale del primo stalinismo fu la scomparsa del dualismo gerarchico tra Ufficio politico e apparato del Partito, su cui si affermò il totalitarismo sovietico. Il concetto di apparato è essenziale, come spiega bene Morin a livello teorico generale nel primo volume del suo Metodo.24
Il primo apparato antropo-sociale che sorse insieme alla storia delle civiltà fu lo Stato, che dispose fin dall’inizio di un apparato amministrativo, di un apparato poliziesco, di un apparato militare e di un apparato teologico-religioso. Il problema dello Stato fu analizzato da Hegel (che vi scorse l’Universale concreto, l’attore supremo della storia) e da Marx (che invece vi vide lo strumento in mano al dominio di una classe).
Nel caso del totalitarismo non si tratta più, secondo Morin, del potere onnipotente dello Stato, ma del partito.25
In URSS l’Apparato del partito fu gerarchico e piramidale con al vertice il Segretario generale, alla base i responsabili locali o d’impresa, nel mezzo gli apparatchiki, i responsabili del controllo del partito su tutti i settori dello Stato e della società. L’Apparato esercitò dunque un potere di governo, amministrativo-burocratico, poliziesco, militare ed ecclesiale/religioso. Il vero capo dello Stato era il capo del Partito, non il capo dello Stato (ovvero il presidente del Presidium dei popoli). Il controllo esercitato dal partito-Stato fu totale: potere illimitato di comando/controllo, controllo di tutti i settori della società, della libera circolazione degli individui, dei media e delle comunicazioni, della stampa e della cultura, e «controllo del controllo, cioè controllo del Partito da parte della polizia politica e controllo della polizia politica da parte del partito».26
In un regime totalitario è fondamentale la monopolizzazione della decisione, dell’informazione e della comunicazione. Il potere non si esercita soltanto con la censura e la proibizione, ma anche con la creazione di un’immagine radiosa della realtà che maschera la sua vera natura totalitaria. Utilizzando film, interviste, testimonianze di viaggiatori illustri e tutto il potere dell’informazione, il linguaggio ufficiale del Partito (l’unico ammesso) dà un’immagine della realtà completamente diversa da quella reale. Persino le purghe sono necessarie alla vittoria del socialismo, anzi dimostrano il suo reale progresso con l’intensificarsi degli atti di sabotaggio dei nemici che bisogna eliminare a tutti i costi. Il Partito si è appropriato della verità storica in quanto detiene l’unica vera Scienza universale che è il marxismo-leninismo. Quindi «il Partito/Stato possiede non soltanto i mezzi di produzione degli oggetti e dei beni, ma anche i mezzi di produzione della verità».27 Scrive infatti Morin in Turbare il futuro:
Un altro aspetto importantissimo del totalitarismo è il controllo totale della comunicazione, che dipende dall’appropriazione monopolistica dell’informazione e della verità. Non si tratta soltanto di quel sistema di censura che esiste in tanti altri sistemi dittatoriali, volto ad impedire la contaminazione dell’informazione ed in qualche modo ad asfissiare la forza esplosiva dell’informazione. Si tratta di qualcosa di più: è anche la presentazione di un mondo che obbedisce completamente all’Ordine comunista, in cui non capitano incidenti ferroviari, aerei, stradali, e in cui, naturalmente, non si generano scioperi, contestazioni, conflitti. Se viene presentato un male o un difetto, questo è attribuito ai nemici, agli agenti del capitalismo, ai sabotatori, ai traditori, alle spie. I media presentano un mondo di unanimità, di entusiasmo, di trasparenza. Il controllo dei media è anche il controllo del vocabolario, del senso delle parole, del senso delle cose. […] La verità del partito si impone quale riflesso del mondo. La funzione dei media, in altri termini, è quella di riflettere la verità del partito e di riflettere la verità del mondo riflettendo questa verità del partito. È il senso del «realismo socialista»: le cose sono quello che dovrebbero essere. Attraverso i media, il linguaggio ufficiale dice inoltre al lettore e allo spettatore quello che si deve dire, ed ognuno sa che quello che non si deve dire comporta la denuncia e l’arresto.28
Per comprendere bene la manipolazione e il controllo dell’informazione Morin in Per uscire dal ventesimo secolo riporta gli esempi del massacro di Katyn, della visita di Nixon in Cina e della cosiddetta guerra batteriologica.29 Il massacro di Katyn avvenne in una foresta della Polonia orientale durante la Seconda Guerra Mondiale. I nazisti, che trovarono la fossa in cui erano seppellite migliaia di ufficiali e di soldati polacchi, furono accusati di questo crimine; soltanto nel 1955-1956 i dirigenti del Partito operaio unificato polacco rivelarono che il massacro era stato commesso dai russi. Durante la sua storica visita in Cina, il presidente americano Nixon, mentre attraversava il giardino di una pagoda in cui si trovava un piccolo lago, assistette allo spettacolo idilliaco di bambini che giocavano ai bordi del lago con le barchette, di adolescenti che si tenevano per mano, di fanciulle che portavano dei fiori. Dopo aver lasciato il luogo, un fotografo tornò indietro per cercare degli accessori che aveva dimenticato e vide gli stessi bambini e adolescenti messi in fila dagli istruttori che li riportarono indietro in marcia. L’ultimo esempio riguarda la guerra batteriologica. Durante la guerra di Corea i cinesi affermarono che gli americani lanciavano sul territorio nordcoreano delle bombe piene di microbi. Fu grazie all’inchiesta di un giornalista ungherese che si scoprì, anni dopo, che la guerra batteriologica non era mai avvenuta e che i microbi provenivano da carcasse di animali.
In un sistema totalitario l’appropriazione monopolistica dell’informazione è l’elemento fondamentale che serve per dare della società un’immagine ideale/leggendaria mediante l’utilizzo della pseudo-informazione, della sotto-informazione e della contro-informazione. Riguardo la prima scrive Morin:
Nel sistema progettato dallo stalinismo l’informazione dei media è la stessa cosa dell’informazione-programma: è programma, definisce ciò che si deve vedere, sapere, dire, non dire […], detta la norma e si impone entro l’insieme di norme, di regole, di interdizioni, di saperi che controllano e che governano i comportamenti degli individui e i rapporti fra individui e società.30
La funzione della sottoinformazione «è quella di disinnescare la forza esplosiva dell’informazione».31 L’apparato informazionale, quello poliziesco e quello militare dipendono dal Partito/Stato, «e la loro funzione comune è quella di conservare l’appropriazione di tutta quanta la società da parte di questo centro».32
Anche nel capitolo più importante del libro, Il gioco della verità e dell’errore, dedica un po’ di spazio al problema cruciale dell’informazione:
La censura e il monopolio dell’informazione non sono le conseguenze del totalitarismo. Costituiscono l’essenza di questo regime. Il dominio e l’asservimento comportano necessariamente la soppressione e la repressione delle condizioni pluraliste/contraddittorie della verifica, della critica, della discussione. L’ideologia totalitaria fa di tutto affinchè non si prenda coscienza di questi problemi; assicura che la verità del partito è di natura scientifica e che quindi non deve essere sottoposta a discussione (mentre è proprio delle «verità» scientifiche di poter essere rimesse in questione); assicura che l’unanimità popolare è tale per cui non c’è bisogno di presentare dei concorrenti ai candidati del partito; assicura che la libertà di stampa borghese servirebbe soltanto a sabotare il socialismo, quando in realtà saboterebbe quel socialismo.33
Sull’importanza della burocrazia nel sistema totalitario sovietico, Morin prende le distanze dalla posizione del gruppo Socialismo o Barbarie di Castoriadis e Lefort, in quanto l’Apparato del Partito, pur avendo bisogno della burocrazia, lavora anche contro l’inerzia burocratica. Quindi è la burocrazia che dipende dall’Apparato e non viceversa. È il Partito che in nome della sua missione storica universale, da demiurgo della storia, ha creato il sistema totalitario a partire dalla Rivoluzione d’Ottobre con la sua politica economica e il sistema del Gulag. La burocrazia obbedisce agli ordini dell’Apparato, ma non li produce. L’«apparatchik» è prima il militante professionista e diventa poi, a rivoluzione compiuta, il professionista del Partito. L’Apparato staliniano seleziona i quadri dirigenti del Partito in base alle qualità di obbedienza e devozione incondizionate al Partito e al Capo. La selezione avvenne sia con le purghe del 1935-1939 e del 1947-1953 che con la guerra del 1941-1945. L’«apparatchik stal» è l’uomo di comando cinico che si identifica totalmente col Partito, che soffoca nel suo monolitismo rigido alcuni fenomeni di doppia coscienza e di doppia personalità: da un lato si sente servitore della classe operaia e del popolo ma agisce come un despota nei confronti di essi; dall’altro riesce a separare la sua personalità pubblica inflessibile e dura dalla sua individualità privata normale. È l’Apparato del Partito che seleziona gli individui trasformandoli in personalità stal’. Chi mostra debolezza ad esercitare il suo ruolo viene rigettato, condannato, rinnegato, eliminato.
Il socialismo è una religione di salvezza terrena che promette l’avvento della società senza classi. L’operazione di Marx fu quella di dare a questa fede nella salvezza uno statuto di scientificità, dimostrando la necessità storica dell’auto-distruzione del capitalismo e il trionfo del proletariato. Dopo l’avvento dei partiti socialdemocratici, della Seconda Internazionale e del revisionismo di Bernstein, fu compito del bolscevismo riavvalorare le previsioni scientifiche di Marx sull’implosione interna dei paesi capitalisti. Il fallimento della rivoluzione mondiale nei paesi occidentali più industrializzati (Germania, Inghilterra e Francia) negli anni 1917-1920 spostò la fede rivoluzionaria nel Partito/Stato dell’URSS già a partire dal 1920, dopo il successo dei bolscevichi nella guerra civile. Stalin riuscì ad imporre anche il socialismo in un solo paese opponendosi alla tesi della rivoluzione permanente difesa da Trockij. La vittoria di Stalin è la vittoria dell’Apparato:
Il primo stalinismo opera una profonda ristrutturazione/trasformazione della fede socialista, che fa dell’URSS il focolare di una religione istituzionalizzata e cattolicizzata e, del Partito, il detentore e l’autenticatore unico della fede.34
L’affermarsi della fede staliniana anche in Occidente fu determinata soprattutto dalla grande crisi economica del 1929, che portò molti giovani intellettuali ad aderire alla grande ortodossia stalinista, anche in seguito ai successi dell’industrializzazione sovietica. I sospetti sul regime riaffiorarono dopo il 1935 con l’avvento del secondo stalinismo e i processi di Mosca, ma fu la Seconda Guerra Mondiale con i successi dell’URSS contro il nazismo ad alimentare di nuovo le speranze verso Mosca. I tratti dominanti del totalitarismo del Partito /Stato nel corso degli anni Trenta furono: riferimento esegetico ai testi sacri del marxismo-leninismo, linguaggio ritualizzato, sacralizzazione dei dirigenti del Partito (e in primis del Capo) e culto religioso del Partito, carattere cerimoniale /rituale di tutte le manifestazioni pubbliche, assemblee e congressi del Partito, atteggiamento inquisitorio nei confronti di ogni forma di devianza e di opposizione. La caratteristica fondamentale del regime fu il culto della personalità, tributato prima a Lenin morto e poi a Stalin stesso su sua iniziativa. L’autosacralizzazione del Partito/Stato permise a Stalin di costruire la propria divinizzazione in quanto Capo supremo (così come è successo a Mao, Enver Hoxha, Kim Il Sun, Castro). Il punto più alto fu rappresentato dalla farsa dei processi di Mosca in cui, attraverso una grandiosa messa in scena, molti dirigenti del Partito (come Bucharin, Pjatakov, Radek, Rykov), dell’esercito (come il capo supremo maresciallo Cukacevsky) e della polizia (come il capo supremo Jagoda) confessarono di aver tradito la causa complottando contro il nemico (per questo furono definiti hitlero-trotzkisti). Agli occhi degli occidentali, certi crimini erano così assurdi che non si riteneva possibile che fossero inventati. La confessione fu estorta sia con il ricatto psicologico (gli stessi accusati avevano una concezione divinizzata dell’Apparato del Partito) sia con torture e minacce di morte alle famiglie. Un altro grande mito utilizzato da Stalin fu la religione della patria sovietica. All’inizio il partito bolscevico aveva opposto il principio federale sovietico al nazionalismo della Grande Russia zarista. Dopo la costruzione del socialismo in un solo paese, durante il secondo stalinismo (1935-1939), Stalin si riappropriò del nazionalismo e del patrimonio storico zarista, di cui si servì efficacemente nella Grande Guerra patriottica contro l’invasore tedesco. Il Partito non si identificò più solo con lo Stato, ma anche con la Nazione/Patria. La Nazione è la Madre-Patria che, nel momento dell’estremo pericolo, esige il sacrificio supremo dei suoi figli. Il Partito, da essere soltanto internazionale nella sua essenza socialista e rivoluzionaria, divenne anche e soprattutto nazionalista:
Il culto di Stalin trova i suoi fondamenti non solo nell’auto-culto dell’apparato e nella divinizzazione del suo Segretario generale, ma anche nel culto per la Patria russa e per lo zar.35
Attraverso l’Apparato del Partito/Stato si compì dunque la sintesi del cesarismo (zarismo) e del papismo (teocratismo marxocratico). L’URSS diventò allo stesso tempo una grande potenza nazionale e la guida dell’internazionalismo proletario. L’analisi di Morin si fa interessante proprio nel comprendere anche l’origine del fascismo e del nazismo dalla sintesi di questi due aspetti apparentemente contraddittori:
Il primo scontro -1914- si è risolto con l’inghiottimento del socialismo della Seconda Internazionale nella religione nazionale. Il secondo scontro -1917- ha dato la vittoria alla Religione internazionalista. Ma, subito dopo la Prima Guerra mondiale, il fascismo nasceva in Italia come dissenso nazionalista sgorgato dal socialismo, mentre l’hitlerismo incorporava l’idea socialista in un Nazional-Socialismo (N. S. D. A. P.: Nazional-Sozialistische Deutsche Arbeiter Partei, Partito Nazional-Socialista Tedesco dei Lavoratori). Il fascismo si oppone, dunque, non all’idea socialista, ma all’internazionalismo «apolide». Lo stesso Stalin riesce a trasformare un socialismo a vocazione internazionale in socialismo nazionale («socialismo in un solo paese»), che diventa sempre più nazionalista, ma senza cessare di beneficiare degli enormi vantaggi strategici mondiali che gli procura l’internazionalismo.36
Quindi Hitler fonda il Nazional-Socialismo, Stalin la Nazione socialista.
Morin analizza anche il rapporto ambivalente tra il Partito/Stato e la polizia. Quest’ultima fu creata da Lenin nel 1917, con il nome di Ceka, con il compito di consegnare alla giustizia i controrivoluzionari. La Ceka fu sostituita dal Ghepeu nel 1922, a guerra civile conclusa con il trionfo dei bolscevichi, con il compito di eseguire gli ordini speciali del Comitato centrale (cioè dell’Apparato staliniano) e di amministrare i campi d’internamento (Gulag). Il Ghepeu venne assorbito nel 1934 dal N. K. V. D. (Commissariato del popolo per gli affari interni) e fu diretta prima da Jagoda (dal 1934 al 1936) e poi da Ezhov (dal 1936 al 1938), entrambi giustiziati rispettivamente nel 1938 e nel 1939. La potenza della polizia segreta, diventata KGB (Comitato per la Sicurezza di Stato) fu ridimensionata in parte dopo la morte di Stalin (1953) e dopo l’eliminazione di Berija da parte di Chrushcëv, ma si rafforzò nuovamente sotto l’era brezneviana. La funzione principale della polizia segreta fu scoprire e reprimere la sovversione controrivoluzionaria, quindi l’eliminazione di ogni forma di devianza, anche alla fonte. Diventò quindi «il dispotismo regolatore-chiave del totalitarismo dell’URSS».37 L’altra funzione chiave della polizia segreta fu di dimostrare che non esiste un partito di opposizione perché l’opposizione non esiste ed ogni forma di opposizione è solo il frutto di sabotaggio e controrivoluzione. Doveva cioè far recitare la commedia che tutto andava bene a tutti i membri della società per nascondere la vera realtà del totalitarismo dell’Apparato. Si instaurò una doppia rete di sorveglianza tra il Partito e la Polizia, in quanto ogni membro del Partito deve anche essere sorvegliante, scopritore, denunciatore di tutto ciò che viene definito controrivoluzionario. Il Partito e la Polizia sono quindi integrati l’uno nell’altro: «il Partito è poliziesco nella sua natura come la Polizia contiene il Partito nella sua struttura».38 Stalin si servì molto bene della polizia politica, dandole prima un potere immenso e relegandola in secondo piano (giustiziando Jagoda e Ezhov) al momento opportuno senza sopprimere del tutto il controllo permanente della polizia sul Partito. Al centro del sistema totalitario dell’URSS c’è il Gulag che da strumento repressivo nei momenti di emergenza diventò con Stalin l’istituzione centrale. L’altro aspetto fondamentale riguarda il potere occulto dell’Apparato che si esercita innanzitutto con la Commissione dei quadri che controlla i fascicoli personali degli apparatchiki. È l’Apparato che fece una selezione occulta dal vertice del Partito fino alla base. Oltre a dare istruzioni segrete a cellule, reparti, sezioni sparse sul territorio, il Partito esercitò il potere di occultamento dei media monopolizzando l’informazione non solo per censurare, ma anche per simulare la commedia dello Stato perfetto senza problemi di opposizione. Il Comintern (o Terza Internazionale), ufficialmente fondato nel 1919 per scatenare la rivoluzione mondiale, fu sempre subordinato all’Apparato sovietico. A partire dal 1935 esso adottò la strategia del fronte popolare contro il fascismo e, a partire dall’occupazione nazista, il nazionalismo e l’internazionalismo anti-capitalistico si fusero perfettamente. La maggior parte dei movimenti di liberazione nazionale per fortuna rimasero estranei al controllo dell’Apparato sovietico, almeno in un primo momento (come, per citare un esempio, la rivoluzione cubana).
Secondo Morin, il Partito /Stato dell’URSS è un ottimo esempio di cibernetica politica, che ha basato il suo potere non sull’appoggio della classe operaia, ma sul controllo monopolistico della polizia e dell’informazione:
Il potere totalitario si sviluppa in modo uniforme su due livelli, il livello visibile e il livello occulto, elaborando e perfezionando particolarmente la sua strategia occulta, cioè il suo potere di dissimulazione e di manipolazione.39
Riprendendo le analisi di Voslensky, Morin fa una descrizione dettagliata della società gerarchizzata dell’URSS a partire dalla Nomenklatura:
Al vertice della Nomenklatura, gli alti dignitari del Partito/Stato, élite del Potere dotata del monopolio di ogni diritto e di ogni verità; poi, al di sotto, gli ufficiali generali, gli accademici, i direttori d’aziende, i grandi artisti, gli scrittori conformisti. Al di sotto della Nomenklatura, i privilegiati de facto, che dispongono di una particella del potere politico, amministrativo o economico: funzionari, quadri, capi di servizi, ecc. Poi, per gradini, si scende nel mondo contadino e operaio, dove esiste egualmente una gerarchia, secondo i controlli esercitati o le prestazioni fornite, e, alla base civile, più di duecento milioni di contadini e operai: i primi sottomessi alle norme kolchoziane o sovchoziane, non disponendo che di un pezzetto di terra individuale; i secondi, privati di ogni autonomia d’espressione e d’azione, cioè sprovvisti di diritti sindacali e di diritto di sciopero, di modo che il Partito/Stato possa parlare e agire in nome della classe operaia. Nel sottosuolo — o piuttosto all’inferno -, la massa degli zek, o schiavi concentrazionari, che hanno formato una popolazione di diverse decine di milioni d’individui.40
Oltre ad essere gerarchizzata, la società sovietica è compartimentata e atomizzata: l’Apparato divide la società in compartimenti (organismi corporativi, associazioni o club) che controlla e dirige rigidamente impedendo agli individui di costituire associazioni autonome. Come la classe operaia e quella contadina, anche la classe dominante (Nomenklatura) al suo interno è gerarchizzata/compartimentata in caste. L’Apparato però non può controllare tutto: esiste una terra di nessuno privata formata dalle famiglie che mantiene una relativa indipendenza sul piano dei sentimenti privati e che si accentua quanto più ci si allontana dalle grandi città, centro nevralgico del potere. Oltre a questa, vi è un’anarchia economica basata sugli scambi e sui baratti (il mercato nero) che, pur illegale, è necessariamente tollerata dal potere. Pur tentando con Chrushcëv di introdurre delle riforme liberali nell’economia sovietica, l’Apparato non potè portare a termine il processo di liberalizzazione perché il riconoscimento delle libertà economiche avrebbe significato riconoscere una certa autonomia e diritti alla società civile, mettendo in crisi irreversibile il sistema totalitario. Da qui il paradosso del totalitarismo che ha bisogno di controllare interamente l’economia ma, per non rischiare la paralisi assoluta, deve tollerare di fatto una certa anarchia economica della base civile che nel principio viene proibita e condannata.41
In questo modo Morin concilia le posizioni apparentemente opposte di Zinov’ev (per cui il sistema totalitario funziona autonomamente perché tutti collaborano e accettano il posto da loro occupato nella società) e di Solzhenicyn (che invece intravede una resistenza ribelle della società civile al carattere forzato, imposto ed estraneo del totalitarismo). Entrambi hanno ragione, in quanto esiste nello stesso tempo in tutti i settori della società la resistenza e la collaborazione dei cittadini al sistema. Si tratta, al di là delle contraddizioni di fondo, di una resistenza collaboratrice e di una collaborazione resistente:
È necessario, conformemente alla visione di Solzhenicyn, che vi sia tirannia totalitaria e rete/distribuzione politico-poliziesca in tutti i settori e compartimenti della società perché il Partito/Stato possa stabilire la sua influenza, ed è necessario effettivamente che vi sia repressione/eliminazione permanente della devianza perché esso mantenga la sua omeostasi. Ma allora, conformemente alla visione zinoveviana, esso funziona effettivamente attraverso l’inserimento «anarchico», «apolitico», «egoistico», «fatalista» degli individui in seno al sistema, se, in tal modo, si opera un’autoregolazione spontanea, fatta delle interazioni tra ciascuno e tutti. Quindi, è il popolo stesso che, asservito da un sistema contro il quale tutto il suo essere cerca di resistere, trova in questa resistenza anche il suo adattamento al sistema, ma mantenendolo e alimentandolo nello stesso tempo. Così, la resistenza «anarchica» collabora all’omeostasi dispotica.42
Si viene a creare così una specie di contratto sociale tra il Partito/Stato e la società civile, in cui questa ottiene, in cambio dell’accettazione del dispotismo, de facto una terra di nessuno anarchica di libertà private (che servono anche all’Apparato per far funzionare l’economia). Accanto al dualismo complesso (complementare, concorrente e antagonista) resistenza /collaborazione, Morin ne intravede un altro a livello culturale, il russismo/americanismo. La società civile sovietica, soprattutto i giovani, sogna il mito americano con i suoi simboli di libertà (rock, jeans, gadget) ma, accanto a questa resistenza al Partito/Stato, vi collabora con la sua identità russa e i suoi nazionalismi.
L’URSS quindi non era una società né comunista né democratica. La sua economia sopravvisse non solo grazie all’anarchia di base che era tollerata de facto, ma anche grazie all’intervento del capitalismo straniero. Il totalitarismo sfruttò il meglio dello sviluppo e del progresso occidentale pur mantenendo una chiusura sul piano culturale ed un controllo totale nei confronti della classe operaia e del sistema industriale. A livello culturale esercitò una rigida censura e controllo della letteratura contemporanea (che doveva essere di regime), mentre lasciò aperta una breccia verso la letteratura russa del passato e la letteratura classica universale. Di conseguenza i grandi scrittori contemporanei russi furono quelli emarginati, perseguitati o uccisi dal regime (come Babel, Madel’stam, Solzhenicyn, Zinov’ev). Il marxismo staliniano non va interpretato come l’autenticazione del comunismo marxiano, ma soprattutto in base alle sue devianze e contraddizioni ideologiche. Stalin comprese l’importanza antropo-sociale dell’idea di Nazione e della guerra patriottica, nonché l’importanza del mito, del controllo della comunicazione, della manipolazione dell’informazione, andando così oltre il concetto di forze produttive del marxismo ortodosso. Che cos’è quindi il totalitarismo dell’URSS?
Il termine significa letteralmente: chiusura di un potere totale sulla società totale, attraverso una distribuzione dal centro che dispone di questo potere totale. Il totalitarismo significa, dunque, correlativamente, concentrazione di tutti i poteri politici (esecutivo, legislativo, giudiziario), amministrativi, polizieschi, militari, religiosi nelle mani dell’Apparato padrone del Partito/Stato, e ramificazione della guida e del controllo del Partito/Stato in tutti i settori e compartimenti della società.43
Qui Morin critica la concezione del totalitarismo della Arendt, in quanto non sono le ideologie che contengono elementi totalitari, ma al contrario, «non esistono elementi totalitari al di fuori della totalizzazione di questi elementi in un sistema totalitario».44 Non bisogna considerare il totalitarismo come dittatura (come, a suo avviso, sbagliando, pensa che faccia la Arendt), perché le peggiori dittature militari e poliziesche non sono necessariamente totalitarie. Il totalitarismo si afferma nell’unidualismo del Partito/Stato che concentra in sé tutti i poteri politici e controlla tutti i settori della società:
Definiamo dunque il totalitarismo non riducendolo a un termine principale (lo Stato, o il Partito, o il Mito, o il campo di concentramento, o lo stesso Apparato), ma come macro-concetto che associa in modo organizzazionale e complementare questi termini. […] Il totalitarismo si forma attraverso e nella congiunzione simbiotica, governata e controllata dall’Alto Apparato del Partito, del Partito nel suo principio e dello Stato divenuto totalitario di fatto.45
Secondo Morin, che riprende i concetti fondamentali del primo volume del suo Metodo concependo il Partito/Stato come potere cibernetico/organizzazionale totalitario sulla società, Hannah Arendt (e tutti gli studiosi del totalitarismo) non vede il problema dell’Apparato che è alla base dell’organizzazione del Partito/Stato unico. L’Apparato è lo strumento che strumentalizza ogni cosa, compresa la società. L’Apparato del Partito/Stato è l’Apparato degli Apparati (militare, poliziesco, amministrativo, ecc.): monopolizza l’informazione, possiede la vera conoscenza, la scienza suprema, dispone di tutti i mezzi esecutivi, strumentalizza le caste privilegiate che le sono subordinate e ne garantisce i privilegi.
2.2. L’interpretazione di Hannah Arendt
Secondo Morin, Hannah Arendt riconosce e definisce solo gli aspetti di superficie del fenomeno totalitarismo:
L’aveva già compreso Hannah Arendt, anche se ebbe a formulare la sua idea in modo troppo semplice: «Ciò che spaventa nell’ascesa del totalitarismo non è la novità del fenomeno, ma il fatto che esso ha messo in evidenza la rovina delle nostre categorie di pensiero e dei nostri criteri di giudizio». In realtà, proprio la novità del fenomeno ha messo in evidenza questa rovina delle nostre categorie di pensiero. Hannah Arendt ci dice, inoltre, che il tentativo di comprendere il totalitarismo è inseparabile da quello di comprendere noi stessi: «Nella misura in cui i totalitarismi sono apparsi in un mondo non totalitario, il processo della loro comprensione implica dunque chiaramente, e forse anche essenzialmente, che noi comprendiamo noi stessi». Da intendere così: tutti i processi mentali, tutte le potenzialità sociologiche sono in germe già in noi, dentro di noi; ma il formarsi di ogni sistema produce situazioni nuove, cioè dei tratti che ancora non si conoscevano a livello degli elementi costitutivi del sistema, così come si pensava precedentemente o isolatamente, e queste nuove situazioni risultano retroattive nei confronti di tutto ciò che le ha prodotte o costituite. In altre parole, è necessario ricordare questa verità fondamentale: ogni sistema comporta qualcosa di specifico e di nuovo che non può essere concepito se non al livello della comprensione del sistema nella sua organizzazione e nella sua totalità.46
E, dopo aver fatto la sua analisi del totalitarismo, insiste ancora:
Così, Hannah Arendt non inquadra esattamente il problema quando dice che le ideologie contengono elementi totalitari: si deve dire, al contrario, che non esistono elementi totalitari al di fuori della totalizzazione di questi elementi in un sistema totalitario. È certamente giusto sottolineare che un’ideologia chiusa (che pretende di rinchiudere la realtà del mondo nel suo sistema e che si autoconferma in permanenza riferendosi ai propri postulati) porta in se stessa un totalitarismo ideologico virtuale. Ma il totalitarismo non è che ideologico; è una realtà politico-socio-economico-mitico-ideologico-religiosa complessa, che si deve considerare e studiare a questo livello complesso. Quindi, non basta che emerga la nozione di totalitarismo, ma è necessario che essa divenga concetto. Si devono considerare come insufficienti, allora, le spiegazioni che riducono il totalitarismo a un solo termine: dittatura, statalismo, polizia, campo di concentramento, ecc. La chiave dell’organizzazione totalitaria non è nell’idea di sola dittatura, perché la peggiore dittatura militare come la peggiore dittatura poliziesca da sola non sono tuttavia totalitarie. Essa non risiede soltanto nella centralizzazione e nella concentrazione di tutti i poteri politici in uno, né soltanto nel controllo dello Stato su tutti i settori e su tutte le attività. È necessario concepire la dittatura, la centralizzazione, la concentrazione, la statalizzazione generalizzata nell’unidualismo del Partito/Stato, e concepire ancora la totalità multidimensionale politica /poliziesca /religiosa /mitologica /burocratica della realtà totalitaria che diventa una per l’articolazione di questi elementi in una catena di anelli in cui ciascuno è necessario alla costituzione degli altri. Definiamo dunque il totalitarismo non riducendolo a un termine principale (lo Stato, o il Partito, o il Mito, o il campo di concentramento, o lo stesso Apparato), ma come macro-concetto che associa in modo organizzazionale e complementare questi termini.47
In realtà quello che manca nel libro di Morin sono le ragioni vere di differenza tra il suo punto di vista e quello della Arendt, nonché un riscontro dettagliato dei meriti dell’analisi di quest’ultima che, nel suo libro Le origini del totalitarismo, affronta pressoché tutti i temi che Morin riprende quarant’anni dopo: la fiducia delle masse
(pp. 424-425) e la loro organizzazione (p. 427), l’apparato di potere totale (pp. 429, 450, 506, 508, e in un intero paragrafo dal titolo L’apparato statale pp. 539-574).48
Basa inoltre la sua analisi su testi fondamentali da Morin totalmente trascurati come, per citare solo alcuni esempi, lo Stalin di Boris Souvarine, la raccolta di testimonianze di superstiti polacchi in The Dark Side of the Moon e il libro-testimonianza di David Rousset, Les Jours de Notre Mort (ambientato in un lager tedesco).49 Certo, la differenza essenziale tra i due approcci è che la Arendt tratta il fenomeno totalitarismo mostrandosi più esperta e dettagliata riguardo al nazismo rispetto allo stalinismo, mentre a Morin interessa esclusivamente quest’ultimo. Inoltre la Arendt scrive il suo libro negli anni immediatamente successivi alla guerra, agli inizi della guerra fredda e prima ancora della morte di Stalin (anche se nelle edizioni successive del suo libro inserirà un’ampia Prefazione dedicata quasi esclusivamente alle conseguenze della morte di Stalin, del rapporto Chrushcëv e dei documenti emersi nel frattempo in URSS), mentre Morin pubblicherà il suo libro nel 1983. È necessario, dunque, per comprendere la critica moriniana nei giusti termini, riprendere alcuni elementi essenziali dell’analisi della Arendt e sopperire ad una mancanza voluta che non giustificherebbe altrimenti una polemica gratuita.
Innanzitutto la Arendt non ritiene che il fascismo italiano abbia le caratteristiche del regime totalitario, in quanto non dispone di una popolazione numericamente significativa.50
L’altra caratteristica importante nell’avvento dei totalitarismi, a suo avviso, fu che il crollo del sistema classista e del sistema dei partiti creò la grande massa disorganizzata e amorfa di individui pieni d’odio di cui si servì il sistema totalitario.51
In particolare, in URSS fu creata una burocrazia di partito rigidamente accentrata, liquidando prima il potere dei soviet e poi le stesse classi (classe media, contadini kulaki e operai) e infine la stessa burocrazia di partito. L’atomizzazione della società sovietica si ebbe con l’uso di ripetute epurazioni.52
Oltre al fenomeno di atomizzazione messo in luce anche da Morin (e la «sconcertante» alleanza fra plebe ed élite su cui insiste soprattutto la Arendt), altri punti in comune di analisi (che fanno pensare a un debito profondo di Morin nei confronti della Arendt) sono la propaganda per le masse, l’organizzazione e il principio dell’infallibilità del capo.53
Il punto di maggiore divergenza riguarda la struttura Partito/Stato. Scrive infatti la Arendt:
Quel che colpisce l’osservatore dello stato totalitario non è certo la sua struttura monolitica. Anzi, tutti gli studiosi seri convengono, come minimo, sulla coesistenza (o conflitto) di una duplice autorità, il partito e lo stato. Molti hanno inoltre sottolineato la peculiare «mancanza di struttura».54
La filosofa distingue le due autorità considerando il partito come l’autorità reale e lo Stato come l’autorità apparente, mentre Morin, come abbiamo visto, considera il monolitismo Partito/Stato come l’essenza del totalitarismo.
A sostegno della tesi della divisione dell’autorità, la Arendt sottolinea il fenomeno della duplicazione degli uffici, utile per il continuo spostamento del potere. Inoltre, a suo avviso in Russia si potevano distinguere tre organizzazioni rigorosamente separate (che invece per Morin non lo erano): il Soviet con l’amministrazione statale, il partito e l’NKVD. Non c’è, inoltre, nel regime totalitario una gerarchia di potere come in quello autoritario, in quanto a dominare incontrastata è la volontà del capo (sull’importanza di quest’ultima concorda anche Morin): «L’assenza di una cricca dominante ha reso particolarmente difficile e penoso il problema della successione».55
La volontà del capo emerge nettamente con l’assoggettamento totale della polizia segreta, il regime del terrore e i concetti propagandistici di nemico oggettivo prima e di delitto possibile poi, con cui liquiderà tutta l’opposizione interna e gli stessi quadri del partito, dell’esercito e della polizia (con i famosi processi di Mosca).
Quel che manca nell’analisi di Morin è la ricostruzione dei Gulag staliniani, servendosi delle testimonianze di cui dispone (in particolare gli scritti di Solzhenicyn che pure ha letto attentamente), mentre la Arendt dedica bellissime pagine (di grande lucidità morale) all’analisi dei campi di concentramento e di sterminio nazisti (e del totalitarismo in generale).56
Per la Arendt come per Morin il totalitarismo pretende di attuare la legge della storia o della natura, e su questo punto l’analisi è pressoché identica. Scrive infatti la Arendt:
Dovunque è giunto al potere, esso ha creato istituzioni assolutamente nuove e distrutto tutte le tradizioni sociali, giuridiche e politiche del paese. A prescindere dalla specifica matrice nazionale, e dalla particolare fonte ideologica, ha trasformato le classi in masse, sostituito il sistema dei partiti non con la dittatura del partito unico, ma con un movimento di massa, trasferito il centro del potere dall’esercito alla polizia e perseguito una politica estera apertamente diretta al dominio del mondo.57
La grande differenza di analisi tra i due riguarda soprattutto il periodo post-staliniano. Secondo la Arendt, dopo la morte di Stalin non si può più parlare di regime totalitario in URSS, in quanto è cambiata in modo significativo la struttura e la politica del regime con un inequivocabile processo di detotalitarizzazione. Oltre che dell’ormai classico testo su Stalin di Boris Souvarine, si serve tra gli altri anche del volume di Fainsod sull’archivio di Smolensk.58 Secondo lei il regime non è mai stato monolitico, ma edificato su funzioni sovrapponentesi, duplicative e parallele tenute insieme dal culto della personalità del capo. Dopo il 1953
è innegabile che l’enorme impero poliziesco è stato liquidato, che i campi di concentramento sono stati in maggioranza chiusi, che non sono state più promosse epurazioni contro «nemici oggettivi», e che i conflitti fra i membri della nuova «direzione collettiva» vengono ora risolti con la destituzione e l’allontanamento da Mosca anziché con processi spettacolari, confessioni e assassinii.59
C’è comunque una netta somiglianza della conquista del potere da parte di Chrushcëv nel 1957 con il colpo di stato compiuto da Stalin nel 1929:
Anch’egli ebbe bisogno di una forza esterna per acquistare potere nella gerarchia del partito, e si servì dell’appoggio del maresciallo Zukov e dell’esercito precisamente come Stalin aveva usato i suoi legami con la polizia segreta nella lotta per la successione di trent’anni prima. Come nel caso di Stalin il potere supremo dopo il colpo di stato aveva continuato a risiedere nel partito, e non nella polizia […]; come Stalin non aveva mai esitato a epurare i quadri della polizia e a liquidarne il capo, così Chrushcëv aveva completato le sue manovre interne allontanando Zukov dal prezidium e dal comitato centrale del partito, a cui era stato eletto dopo il colpo, oltre che dalla carica di comandante supremo delle forze armate.60
Un chiaro esempio di detotalitarizzazione emerge anche dalla repressione violenta dell’insurrezione ungherese:
La sanguinosa azione repressiva, così terribile ed efficace, era stata compiuta da reparti dell’esercito regolare e non da unità di polizia, e di conseguenza non aveva comportato una soluzione tipicamente staliniana. Benchè le operazioni militari fossero state seguite dall’esecuzione dei capi e dall’incarceramento di migliaia di persone, non c’era stata una deportazione in massa del popolo; in effetti, non si era neppure tentato di spopolare il paese. E, poiché si era trattato di un’operazione militare e non di un’azione di polizia, il governo sovietico aveva potuto inviare al paese sconfitto un aiuto sufficiente a impedire la morte in massa per fame e a scongiurare un completo collasso dell’economia nell’anno successivo all’insurrezione.61
Inoltre, un altro segno di detotalitarizzazione in URSS «è la ripresa sorprendentemente rapida e feconda delle arti nel corso dell’ultimo decennio».^[65] Si tratta in genere di letteratura clandestina, ma è pur sempre letteratura rispetto alla sua assenza nel regime staliniano:
Inoltre, lo stesso fatto che membri dell’opposizione intellettuale subiscano un processo (sia pure non aperto al pubblico), possano far sentire la loro voce nell’aula del tribunale e contare su un appoggio fuori di essa e, lungi dall’ammettere qualcosa, si dichiarino non colpevoli, dimostra che qui non si ha più a che fare col dominio totalitario.62
L’altro merito della Arendt rispetto a Morin è l’aver letto il rapporto Chrushcëv non solo in ciò che ha apertamente rivelato, ma soprattutto in tutto quello che ha volutamente nascosto:
È stato appunto ammettendo alcuni crimini che Chrushcëv ha dissimulato la criminalità del regime nel suo insieme (di cui lui faceva parte integrante, nda) […] Inoltre, la spiegazione dei crimini data da Chrushcëv — l’insana sospettosità di Stalin — ha nascosto il più caratteristico aspetto del terrore totalitario, la sua tendenza a scatenarsi quando ogni opposizione organizzata è ormai spenta e il capo del regime sa che non c’è più nulla da temere.63
2.3. L’imperialismo sovietico
I tratti fondamentali del totalitarismo sono comuni allo stalinismo, ai regimi comunisti, al fascismo e al nazismo con delle importanti differenze: sulla natura della scienza, sul mito nazionale e, ancora più importante, sul carattere incompiuto di esso nel fascismo e nel nazismo.
Il fascismo italiano ha addomesticata la monarchia, senza abolirla; ha reso subordinate le tradizionali caste dominanti, senza distruggerle; ha tollerato un certo pluralismo culturale, a condizione che non si trasformasse in critica politica; si è messo in simbiosi con l’economia capitalistica, anziché impadronirsene. Il totalitarismo fascista non chiuse totalmente il cerchio totalitario, e quindi a torto l’epiteto <fascista> designa il colmo del totalitarismo. Il nazismo hitleriano, a sua volta, si era dato una missione storica universale di rigenerazione dell’umanità che l’autogiustificava in ogni sua iniziativa di dominio e di sterminio. Esso addomesticò la casta militare e la casta capitalistica più severamente di quanto fece il fascismo; istituì un’industria di Stato, ma in seno a una sfera economica privata, e proprio nella collaborazione con il capitalismo, quindi nella limitazione dello stesso totalitarismo, ebbe ad affermarsi il partito nazional-socialista.64
Persino i movimenti di liberazione nazionali del dopoguerra, sfociati spesso in forme di socialismo nazionale, vengono viste da Morin meno totalitarie del regime sovietico (staliniano e post-staliniano), in quanto hanno tollerato al loro interno delle forme di capitalismo economico. Le ragioni dell’interpretazione moriniana, oltre che dettate da motivi di natura autobiografica (per cui questo libro va letto insieme alla sua Autocritica), sono da individuare nella durata del marxismo sovietico (rispetto ai totalitarismi di destra) che, ancora agli inizi degli anni ottanta, quando questo libro fu scritto, sembrava avere la forza e i mezzi per non crollare. Indubbiamente, però, questa lettura di parte del sistema totalitario trova la sua giustificazione più autorevole nella concezione stessa dell’Apparato che è il nucleo fondante del Partito/Stato che spiega ad hoc il sistema totalitario. L’opposto del totalitarismo è la democrazia, con le regole fondamentali del diritto che garantisce, attraverso le elezioni, il pluralismo e limitando i diritti della maggioranza nei confronti delle minoranze. La democrazia, inoltre, non detiene alcuna Verità assoluta.65
L’URSS trasformò l’Impero russo in una federazione di popoli, ma riconobbe solo sulla carta il diritto di secessione di ciascuna repubblica senza mai permetterlo. Nel 1948 nascono anche nuovi Stati satelliti che riproducono fedelmente il modello totalitario del Partito/Stato e che diventano suoi vassalli. Dopo la morte di Stalin, inizia il progetto imperialista dell’URSS che, oltre a reprimere con la forza militare la spinta autonomistica degli Stati-vassalli, tenta di crearne altri anche in Asia, Africa e America latina, sviluppando nello stesso tempo un formidabile complesso bellico-industriale che ne farà la prima o la seconda potenza mondiale. La politica imperialista dell’URSS conosce un grande sviluppo dal 1965 al 1982, con le uniche resistenze dovute ai regimi totalitari comunisti della Jugoslavia e della Cina (a partire dal 1958-1959). Riesce a diventare sovrano nel Vietnam (a sua volta sovrano in Cambogia), nello Yemen, in Etiopia, in Angola, a Cuba, nel Nicaragua e, dal 1979, in Afghanistan. Lo sviluppo economico dell’URSS si è concentrato sul complesso bellico-industriale, utilizzando i progressi del nemico (il capitalismo) che vuole distruggere, nel settore agricolo e industriale per sopravvivere. Con questo nuovo imperialismo, l’URSS spostò la lotta di classe sul piano dello scontro tra Stati socialisti e Stati capitalisti, secondo la logica della Guerra Fredda. Anche gli USA svilupparono l’imperialismo, instaurando regimi dittatoriali soprattutto in America Latina in netta contraddizione con il sistema democratico che vige al suo interno. A differenza però di quello sovietico, quest’ultimo non ha una struttura amministrativa coloniale che gli permette di controllare un territorio, né dispone dell’organizzazione totalitaria del Partito/Stato che controlla i paesi asserviti tramite i loro Partiti/Stati. Quando scrive questo libro, Morin è convinto che l’imperialismo sovietico abbia molti punti di forza perché si basa su una struttura totalitaria in grado di autoriprodursi ovunque si stabilisce, mentre la forza statunitense è più di tipo culturale, cioè la fede nell’american way of life. Per questo ritiene che il mondo viva un’era stalinistica mondiale che difficilmente potrà finire presto, sbagliando grossolanamente le previsioni. I punti di forza di questo nuovo imperialismo sono da ricercare non solo nell’ideologia di stato del comunismo e nello sviluppo del complesso bellico-industriale, ma anche e soprattutto nell’illusione/speranza nei confronti dell’URSS di tutti quei paesi che lottano contro il dominio USA o qualsiasi altro dominio occidentale. Secondo Morin, a differenza dell’ipotesi statocratica formulata da Castoridias, l’imperialismo sovietico non si spiega con la nuova prevalenza dell’apparato militare sul Partito, ma è proprio la conseguenza naturale della conservazione integrale della struttura totalitaria basata sull’apparato del Partito/Stato (anche se questo dipende sempre più dalla potenza militare).
Così, fino al momento presente, l’URSS non è una statocrazia se non nel senso che il suo destino diventa sempre di più militare, e non in quello secondo il quale un Apparato/Casta militare occuperebbe il potere. Ma Castoridias ci ha indicato quello che è ormai un problema-chiave: l’esercito, divenuto un iper-esercito, ha nel sistema un posto sempre più importante, che diventerà anche più importante nel futuro. L’ipotesi di Castoridias, come vedremo, è un’ipotesi di futuro.66
Infatti, l’ipotesi di Castoriadis spiegherà in buona parte l’implosione del sistema sovietico di pochi anni dopo. Anche nei punti di debolezza del totalitarismo sovietico, Morin trova dei punti di forza per il suo mantenimento, per l’incapacità di fidarsi dei popoli che domina. Liberalizzare l’economia e la cultura mantenendo il potere assoluto solo nella sfera politica avrebbe portato inevitabilmente alla sua rovina, come di fatto è avvenuto con Gorbaciov. La nuova potenza imperiale dell’URSS nasce dal fallimento della politica di liberalizzazione che Chrushcëv pensò di attuare. Le crisi del sistema totalitario sovietico sono sorte in alcuni paesi satelliti come la Germania orientale (1953), la Polonia (1956 e poi, in particolare, nel 1980-1981), l’Ungheria (1956) e la Cecoslovacchia (1968). In questi paesi l’Impero interviene ristabilendo l’ordine con l’esercito. Questo dimostra per Morin che non c’è possibilità di mettere in crisi il totalitarismo a partire dalla periferia dell’Impero. Il tentativo di liberalizzazione dal centro, negli anni 1953-1956, ad opera di Chrushcëv si è rivelato un fallimento perché comportava la liberazione delle forze centrifughe nazionali della periferia e, quindi, la seria minaccia di disgregazione dell’Impero. Quando scrive questo libro, Morin esclude che il crollo del totalitarismo possa avvenire in base ad una regressione o sviluppo dell’economia civile dell’URSS (nonostante la sopravvivenza di un’anarchia tollerata dall’economia pianificata) , né ad opera della classe operaia che è privata di tutti i diritti e libertà fondamentali (come la libertà di parola e il diritto di sciopero). Neanche le nazionalità possono riuscire a mettere in crisi il sistema (per l’influenza imperiale di tipo politico-poliziesco-militare su di esse). Infine neanche la cultura e l’intellighenzia, totalmente asservita al regime, potrebbe fare qualcosa di concreto. La crisi può partire solo dal vertice del sistema, in particolare nei meccanismi di successione e di accesso al potere supremo (come si è visto dopo la morte di Stalin nel 1953, con una destabilizzazione durata fino al 1964). La speranza più concreta viene vista da Morin nel cosiddetto male minore dell’Apparato militare, in quanto, pur essendo totalmente controllato dal Partito, l’esercito ha bisogno di competenze che sfuggono parzialmente alla logica politica. L’ipotesi di una dittatura militare sarebbe però solo un’attenuazione della dittatura totalitaria del Partito, non la sua soluzione permanente. Sarebbe a suo avviso il male minore, in quanto porterebbe a una certa liberalizzazione all’interno e a un freno verso l’espansionismo esterno del regime.
Il successo del totalitarismo staliniano fu provocato indubbiamente dal fallimento del socialismo negli anni 1921-1924, quando si allontanò la prospettiva di una rivoluzione mondiale e la Terza Internazionale si trovò ad essere subordinata all’URSS, unico Stato in cui la rivoluzione bolscevica prevalse. Lo stalinismo fu però non soltanto la risposta alla crisi del capitalismo, ma anche e soprattutto la soluzione regressiva alla crisi del socialismo: «Dappertutto il carattere progressivo dell’idea socialista ha mascherato il carattere regressivo della soluzione totalitaria».67
Morin è sincero nelle sue previsioni: agli inizi degli anni ’80 era impossibile prevedere la fine del totalitarismo (imperialismo) dell’URSS ma, per la legge della storia per cui l’imprevedibile si può realizzare, si augura fortemente questa «improbabile possibilità». L’obiettivo della sua analisi, in sintesi, è quello di dimostrare che l’URSS è una deviazione del comunismo e che il totalitarismo è un complesso.
2.4. La perestroijka di Gorbaciov
Alla perestrojka di Gorbaciov Morin non dedica un’analisi dettagliata in un libro specifico, ma solo alcuni interventi sporadici. Nella Prefazione all’edizione italiana (ottobre 1989) de La natura dell’URSS giustifica l’assoluta imprevedibilità di quanto successo in quegli anni. Nessun processo di fuoriuscita dal sistema totalitario può partire dalla periferia, come ha dimostrato il fallimento delle insurrezioni nei paesi Satelliti come l’Ungheria, la Polonia e la Cecoslovacchia; l’evoluzione del sistema nel suo complesso può essere innescata soltanto dal vertice del sistema laddove esso è più debole, cioè nella crisi di successione, in cui interviene una forza relativamente autonoma dal Partito come l’esercito.
Questo è indubbiamente avvenuto con Gorbaciov, ma l’aspetto fondamentale della riforma gorbaceviana, imprevedibile a priori, sta nel fatto che egli vuole utilizzare il potere dell’apparato del partito per limitare lo stesso potere dell’apparato, per far ritrovare al partito il ruolo di «avanguardia» della nazione e nel contempo togliergli il controllo minuzioso e soffocante di tutti i settori della vita economica e culturale della società.68
Per fare questo, oltre che dell’esercito, egli si serve anche degli intellettuali e delle associazioni extrapartito. Le riforme economiche di Gorbaciov sono inseparabili dalle trasformazioni politiche, per questo sono nati termini nuovi come perestrojka e glasnost per giustificare quanto è avvenuto.
Il fallimento delle rivoluzioni in Ungheria, Polonia e Cecoslovacchia ha chiaramente dimostrato l’impossibilità di una riforma del sistema a partire dalla periferia. Questa può partire solo dal centro dell’Impero attraverso, ad esempio, una crisi di successione in cui una delle parti in lotta farebbe ricorso all’esercito. Pertanto Morin riteneva che persino un potere militare sarebbe stato migliore, in quanto avrebbe diminuito i poteri dell’apparato del partito. Quello che gli sembrava impossibile (e che si è realizzato con Gorbaciov) era l’autoriforma dell’apparato, cioè l’autodecisione spontanea di rinunciare al monopolio assoluto e ai suoi privilegi. La perestroijka e la glasnost erano dunque impossibili da prevedere a priori.69
Al processo di riforma di Gorbaciov dedica anche la Prefazione (1988) a Per uscire dal ventesimo secolo, ma anche qui non fa un’analisi dettagliata. Se da un lato è strano che non abbia dedicato tanto spazio a questo evento storico fondamentale (soprattutto dopo la definitiva implosione dell’URSS nel 1991), per l’importanza che egli ha dato al totalitarismo sovietico a partire dalla sua esperienza personale (in Autocritica) e fino agli inizi degli anni ’80, dall’altro tale mancanza si potrebbe spiegare con l’innaturalezza con cui questo fenomeno di implosione del sistema dall’interno si legherebbe con i principi con cui ha fondato il suo metodo e spiegato persino la natura del totalitarismo stesso. In URSS si è creato qualcosa di imprevisto (e imprevedibile), come un compromesso storico fra partito e società in cui il partito si è autodiminuito il ruolo (l’incertezza è comunque uno dei pilastri basilari del suo metodo e, in base a ciò, fa dell’imprevedibilità una caratteristica fondamentale del suo pensiero) .
Il primo elemento di questo compromesso storico è dunque un compromesso fra il partito e alcune forze associate legalmente, ad esso esterne. Il secondo elemento sta nel fatto che il partito accetta nel suo stesso ambito una certa pluralità […] . Il terzo elemento del compromesso storico consiste evidentemente nella libertà culturale, nella libertà di circolazione e di comunicazione. E il quarto elemento è dato dalla riforma economica […] . In questo campo deve essere ricercato un compromesso fra politica di mercato e gestione centralizzata […] .70
L’invito che rivolge in questa Prefazione è di ricercare un compromesso storico anche con le nazionalità in quanto, come ha già dimostrato precedentemente, «il movimento di liberalizzazione produrrà una spinta verso l’autonomizzazione delle nazionalità».71 Questa previsione si è puntualmente avverata con il crollo dell’URSS nel 1991. Anche nel suo diario Viaggio in Cina accenna alla riforma di Gorbaciov mediante un confronto con la Cina di Deng:
La Cina di Deng si era impegnata sulla via della riforma rurale dal 1979 ed ha cominciato la riforma economica urbana nel 1984. Un inizio di liberalizzazione politica si è manifestata nell’88-89 mentre apparivano inflazione e perdita del potere d’acquisto. Poi, dopo alcune esitazioni il partito reprime Tien an Men, istituisce una chiusura politica ed un raffeddamento economico, senza pertanto incrinare le nuove strutture sorte dalla riforma negli anni 79-88. Dopo due anni di congelamento l’apertura e l’economia di mercato diventano le parole d’ordine chiave. Nell’URSS, Gorbatchov inizia timidamente una riforma agraria, che fallisce, da una parte in quanto essa è inibita dal partito, e dall’altra parte in quanto i contadini sono stati sterminati fisicamente da Stalin e sostituiti da salariati rurali che rifiutano l’iniziativa e la responsabilità. La volontà di riforma dell’economia comporta la disarticolazione del sistema burocratico pianificato senza poter veramente creare un mercato concorrenziale. L’economia sprofonda nel caos. Ma ciò che ha avuto successo è la trasformazione politica; la «glasnost» instaura rapidamente la libertà di informazione e d’espressione, il partito perde progressivamente il suo monopolio, fino a estinguersi completamente dopo il «putsch» dell’agosto del ’91. In URSS Gorbatchov ha magistralmente manovrato per due anni mediante accelerazioni/frenate, accelerando il movimento quando si stava insabbiando, frenando quando rischiava di diventare esplosivo. Ma alla fine il processo evolutivo è divenuto esplosivo: la simultaneità e la correlazione fra il crollo economico, la tempesta politica, l’esplosione dei nazionalismi, attivati dai problemi delle minoranze separate, ha fatto esplodere l’Unione Sovietica e il suo partito comunista.72
Anche in Pensare l’Europa Morin intravede nelle nazionalità le forze centrifughe che, spingendo verso l’autonomia, possono distruggere il monolitismo totalitario dell’URSS, a patto però che avvenga una riforma dall’interno del partito che porterebbe il sistema all’autodistruzione. Già il tentativo di liberalizzazione di Kruscev fallì perché liberò forze centrifughe in Polonia e Ungheria che furono represse con la forza militare e con l’autochiusura del totalitarismo; per questo, nel 1987, non riesce ancora a prevedere a cosa possano portare le riforme di Gorbaciov.73 L’analisi più dettagliata è contenuta nel già citato cap. III di Turbare il futuro, La Rivoluzione anti-totalitaria. La riforma interna dell’URSS comincia negli anni 1986-1988 e si trasforma in rivoluzione nel 1989. Questa avviene principalmente per la rinuncia all’egemonismo del potere centrale, come dimostrano chiaramente il trattato sullo smantellamento dei missili a breve e a media gittata (1987), la decisione di concludere la guerra in Afghanistan (1988) e il non intervento nelle rivoluzioni delle cosiddette democrazie popolari nel 1989. Di fondamentale importanza fu la glasnost:
Il fondamento del sistema è la «gulaghizzazione» dell’informazione, della parola e dell’idea, e la glasnost è appunto la «de-gulaghizzazione» dell’informazione, dell’immagine, della parola, dell’idea.74
Il processo rivoluzionario limita i poteri del partito e l’onnipotenza dell’Apparato spostando il potere sullo Stato e sul parlamento liberamente eletto con il suffragio universale, come avviene con l’elezione di Gorbaciov a capo dello Stato (1 ottobre 1988) e con le elezioni semi-democratiche della primavera del 1989.75 Le ragioni del carattere pacifico della rivoluzione antitotalitaria in URSS e nelle democrazie popolari per Morin sono sostanzialmente due: la non epurazione di coloro che erano stati i detentori del sistema totalitario e la non radicalizzazione della lotta. Infine fa una previsione (che si rivelerà giusta) sulla secessione parziale o totale delle nazionalità dell’Impero come conseguenza di questo processo rivoluzionario che ha indebolito definitivamente il centro stesso dell’Apparato.
3. Il rapporto con Marx
Al pensiero di Marx (e al marxismo in generale) Morin non dedica uno studio specifico; alcune analisi critiche compaiono in qualche paragrafo di un paio di libri e, soprattutto, in articoli sporadici pubblicati su giornali e riviste, che sono stati raccolti in particolare in due testi pubblicati anche in italiano, Pro e contro Marx e La mia sinistra.76
Nel libro Introduzione ad una politica dell’uomo del 1965, affronta il problema dell’antropologia di Marx, le cui osservazioni saranno riprese anche negli anni più recenti. Il concetto più fecondo è l’uomo generico che però Marx introduce in un’antropologia ristretta e riduttiva. Per lui, infatti, l’uomo è essenzialmente produttore (homo faber), e gli altri suoi aspetti, ludico, immaginario, mitologico, consumatore, dipendono da quello. Inoltre non tiene conto, come farà invece Freud, della psychè, cioè dell’aspetto psico-affettivo umano (a cominciare dall’inconscio): «Marx trascura il rapporto poetico fra l’uomo e il cosmos».77 La sua concezione mononucleare di uomo generico o a competenza generale impedisce quindi a Marx di fondare, com’era nelle sue intenzioni, un’antropologia generale. Infine la sua dialettica della storia affida l’eliminazione dello sfruttamento ad una classe particolare, il proletariato industriale che, a suo avviso, compirà la sua missione storica con la sua intrinseca bontà. Per Morin Marx su questo punto è poco realista, perché si lascia condizionare dalla fede messianica nel proletariato che diventerà subito dopo (e anche negli sviluppi del marxismo successivo) fede nel partito. Non ha voluto vedere il lato cattivo della dialettica del progresso storico, da lui acutamente analizzato nel fenomeno dell’alienazione e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Il metodo dialogico di Morin supera la dialettica hegelo-marxista in quanto comprende che vi sono contraddizioni che non si possono superare né eliminare. Il termine fondamentale della dialettica in realtà non è la sintesi, bensì il superamento, in quanto le contraddizioni umane possono essere superate senza sparire del tutto. Ciò che Marx non ha compreso è che «la totalità del reale comprende dunque anche l’immaginario, l’ideale, il dover essere. Il sollen è un modo d’essere del reale».78 La dialettica va quindi superata in un movimento ulteriore.
La dialettica era nata parzialmente amputata: ignorava la realtà semi-immaginaria dell’uomo e disprezzava il dover essere. Fu atrofizzata; sterilizzò la negazione e, di conseguenza, pietrificò la positività. Fu mitizzata: gonfiò come una vescica il momento della sintesi. Per aver disprezzato il dover essere, confuse il suo proprio dover essere, l’uomo totale e l’universale concreto, con la realtà. Si spaventò della sua stessa funzione: che è quella di pensare e produrre il divenire. La dialettica si era feticizzata!79
Di Marx Morin riprende soprattutto il concetto di uomo generico dei Manoscritti economico-filosofici del 1844.80
Che cos’è il marxismo secondo Morin?
Un marxismo è un compromesso stabilito fra il metodo di Marx e una sistematizzazione che pretende di essere l’autentica espressione dell’insieme delle idee, tesi e conclusioni di Marx. Dunque, io dico questo: in ogni marxismo c’è un’ambivalenza interna tra un sistema o una dottrina, da una parte, e un metodo, dall’altra. […] Ciò che ha caratterizzato il metodo di Marx è uno spirito critico radicale illimitato, è un pensiero dialettico sempre in movimento, è l’aver privilegiato il movimento in opposizione all’essenza cristallizzata, alla reificazione.81
In Francia una corrente dissidente del trotzskismo, Socialismo o Barbarie, ha proposto una teoria generale basata sull’affermazione, in URSS e in altri paesi, di una nuova classe dominante che fonda il proprio potere sull’appropriazione del potere e non sulla proprietà. Questa teoria rimette in discussione un elemento centrale della vulgata, che vede la superiorità degli Stati socialisti su quelli capitalisti, e dà un’interpretazione interessante del nuovo imperialismo sovietico post- staliniano. L’apporto più importante di Marx è la concezione dialettica,
cioè che non soltanto c’è azione reciproca dei fenomeni gli uni rapporto agli altri nella storia e nella società, ma che c’è una vera e propria totalità di elementi in movimento e che le contraddizioni che appaiono in questa totalità sono il vero motore dello sviluppo umano. […] (E’) la concezione dialettica secondo cui lo sviluppo storico si effettua a partire da polarizzazioni antagoniste, dette <contraddizioni>, e movimenti di superamento di queste contraddizioni.82
Questo dimostra l’importanza della dialettica nello sviluppo del pensiero moriniano, anche se più avanti essa sarà superata dalla dialogica, che è un concetto più comprensivo del movimento insuperabile e ineliminabile delle contraddizioni che fa a meno della sintesi definitiva hegelo- marxiana.
Il saggio più importante dedicato da Morin a Marx è Alla ricerca dei fondamenti perduti, non a caso pubblicato in entrambe le raccolte (sia in francese che in italiano).
La critica di Morin a Marx riguarda i nodi fondamentali del suo sistema:
Per Marx, la filosofia doveva essere necessariamente superata. […] Marx credeva che la materia fosse la realtà essenziale dell’universo. […] Per Marx, il mondo obbediva a una dialettica suprema, e lui credette di cogliere le leggi del divenire storico. […] Le idee di autonomia e di libertà erano inconcepibili nella concezione materialista/determinista. […] La concezione antropologica di Marx era unidimensionale: né l’immaginario né il mito facevano parte della realtà umana profonda. […] La concezione marxiana della società privilegiava le forze di produzione e la lotta di classe. La chiave del potere sulla società risiedeva nell’appropriazione delle forze di produzione. Le idee e le ideologie — compresa l’idea di nazione — non erano che semplici e illusorie sovrastrutture. Lo Stato non era che uno strumento nelle mani della classe dominante. […] Marx credeva nella razionalità profonda della Storia. Era certo della missione storica del proletariato che avrebbe creato una società senza classi.83
Morin sviluppa la sua concezione del pensiero complesso riguardo la storia e la società a partire dalla messa in discussione di questi dogmi marxiani:
Oggi, tutti i progressi delle scienze riaprono gli interrogativi filosofici primari. […] Oggi, la materia non è che uno degli aspetti di una realtà fisica polimorfa che appare come energia, materia, organizzazione. […] Oggi, apprendiamo che, ciascuno a suo modo, mondo fisico, biologico e umano evolvono secondo dialettiche di ordine/disordine/organizzazione, che comportano alee e biforcazioni, e che sono tutti minacciati di distruzione. […] Oggi, possiamo concepire in modo scientifico l’autoorganizzazione e l’autoproduzione, e siamo in grado di comprendere che l’individuo e la società sono macchine non banali capaci di atti inattesi e creatori. […] Sappiamo invece, come hanno mostrato Montaigne, Pascal, Shakespeare, Dostoevskij, che homo è sapiens-demens — un essere complesso, multiplo, che porta in sé un cosmo di sogni e di fantasmi. […] Come non vedere oggi che esiste un problema specifico del potere dello Stato, una realtà socio-mitologica formidabile nella nazione, una realtà propria delle idee? […] Bisogna sapere che la Storia progredisce non in modo lineare, ma per deviazioni che si rafforzano e diventano tendenze. […] Bisogna sapere che la credenza nella missione storica del proletariato non è scientifica bensì messianica: è la trasposizione, sulle nostre vite terrestri, della salvezza giudeocristiana promessa in cielo. […] Nelle nostre società complesse, il capitalismo è uno dei tratti dominanti, ma non è il solo.84
Morin ci invita inoltre a recuperare il meglio dell’eredità socialista:
La prospettiva originaria del socialismo era antropologica (riguardava l’uomo e il suo destino), mondiale (internazionalista) e civilizzatrice (fraternizzare il corpo sociale, sopprimere la barbarie dello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo). Dal XIX secolo, il socialismo ha legato la lotta contro la barbarie di dominazione e di sfruttamento all’ambizione di fare della Terra la grande patria umana. Non solo si può, ma si deve tesaurizzare queste finalità, modificandone però i termini: il nuovo pensiero planetario, che prolunga l’internazionalismo, deve rompere con due aspetti capitali di quest’ultimo: l’universalismo astratto — «I proletari non hanno patria» — e il rivoluzionarismo astratto — «Faremo tabula rasa del passato».85
Per Morin il pensiero di Marx, pur essendo essenzialmente antropologico, presenta due limiti costitutivi: non colloca l’uomo nel cosmo e lo limita alla concezione dell’uomo produttore (homo faber, homo œconomicus). Non considera cioè il problema della persona (coscienza), l’aspetto psico-affettivo dell’uomo. Il concetto centrale per Marx è l’alienazione, ma
le ha dato un senso univoco, un senso privativo: le ha attribuito una sola origine, le condizioni drammatiche del processo storico; le ha attribuito una soluzione messianica: la società senza classi. La nozione di uomo alienato ha bisogno di un modello di uomo non alienato, che Marx definisce uomo generico e uomo totale.86
Oltre all’alienazione storica, si chiede Morin, esiste anche un’alienazione costitutiva e strutturale dell’essere umano, che fa parte del problema della personalità dell’uomo (e che sarà messa in luce da Freud).
Per Hegel, del resto, l’alienazione manteneva un’ambivalenza fondamentale. Era la condizione del progresso dello spirito nel mondo. Lo spirito deve perdersi per ritrovarsi. L’uomo può progredire soltanto attraverso l’alienazione, fino alla fine riconciliatrice della storia. Anche per Marx, certo, l’alienazione è ambivalente; nella misura in cui il processo di alienazione è anche quello della disalienazione, la storia progredisce dal «lato cattivo», ma progredisce. Marx, però, non vede nell’alienazione che un processo di estraniazione — il senso letterale di Entfremdung — e non un processo di partecipazione o di superamento. Egli rinchiude l’alienazione in una definizione univoca, ristretta e peggiorativa. […] La teoria dell’alienazione ha bisogno di essere completata e approfondita, e quindi superata, ma ha anche bisogno di essere ripudiata, in un’antropologia generale che dovrebbe essere spinta ad affrontare il problema della finitezza, dell’insufficienza, persino delle carenze costitutive dell’essere umano.87
Il nucleo centrale della dialettica marxiana è lo sviluppo delle forze produttive, cioè lo sviluppo tecnico ed economico. Su questa base egli fonda un’antropologia importante ma ristretta, in quanto non indaga la dimensione psicologica dell’uomo. Di conseguenza anche la teoria dell’alienazione non è da lui sufficientemente compresa nella sua multidimensionalità:
Marx ha ben posto, metodologicamente, l’antropologia quale dialettica del divenire e dialettica della globalità (che sono l’una e l’altra interdipendenti nel contesto di una super-dialettica della totalità). In primo luogo, egli introduce la struttura nel divenire e il divenire nella struttura. Ed è attorno a questo duplice asse che potranno gravitare, una volta stabiliti, i concetti radicali, le costruzioni teoriche e le analisi. In secondo luogo, attraverso i collegamenti e i percorsi che vanno dall’infrastruttura alla sovrastruttura, egli stabilisce il sistema connettivo che va dall’utensile all’idea (mi è bastato un piccolo tocco per prolungare questa dialettica fino al sogno). E unisce le due dialettiche attraverso la dialettica dei rapporti fra gruppi umani, categorizzata certo in maniera eccessivamente rigida come lotta delle classi.88
Le due ideologie prevalenti almeno fino al 1968 erano ideologie della fine della storia: l’ideologia sociologica borghese e quella marxista-stalinista. La prima si basava sul progresso scientifico e industriale che avrebbe portato allo sviluppo economico e al benessere; la seconda invece prevedeva il medesimo sviluppo tramite i principi egualitari del socialismo. Erano ideologie della fine della storia perché non prevedevano altri mutamenti radicali al di là della società industriale avanzata o del socialismo. Sono state però smentite dai fatti.
Ci sono tre forme di marxismo per Morin: il marxismo aperto, quello chiuso e quello iperchiuso e iperdogmatico del totalitarismo. Il totalitarismo politico moderno si è sviluppato come religione della politica e si è trasformato in una teologia medievale, e precisamente nella religione della salvezza rivoluzionaria.
Ogni interpretazione della genesi dello stalinismo che aspiri a una qualche validità non può essere altro che complessa: bisogna che sia auto-eco-logica nel suo principio stesso. Essa deve cioè comprendere come lo sviluppo dello stalinismo obbedisca non ad una sola logica, sia essa quella delle condizioni/determinazioni esterne o quella della dinamica della determinazione interna, bensì a una dialogica che ci conduce a scorgere nel caso concreto sia la loro connessione che la loro distinzione.89
Tra il totalitarismo sovietico e il nazi-fascismo vi sono delle importanti differenze: l’URSS è diventata una nazione grande-russa di carattere egemonico ed in seguito imperiale: modellandosi ed integrandosi nella forma della nazione, il socialismo «in un solo paese» è diventato nazionale e quindi nazionalista. Da parte loro il fascismo italiano ed in seguito il nazismo tedesco hanno seguito il processo opposto: non hanno introdotto l’idea di nazione nell’idea socialista, ma al contrario l’idea socialista nell’idea di nazione, creando la formula simmetrica, concorrente, nemica, differente eppure analoga del nazionalsocialismo. In tutti questi casi l’elemento nuovo è la costituzione del Partito-Stato, la monopolizzazione del potere e, con maggiore o minore intensità, la concentrazione del potere nelle mani del partito, la cui rete nervosa occupa tutto il corpo sociale fino alle sue più piccole cellule. L’ottocento aveva proposto al mondo l’idea di nazione, il Novecento propone al mondo l’idea di nazione socialista.90
Morin ha rinunciato all’idea di Rivoluzione come fine della storia pur mantenendo il nucleo più profondo delle aspirazioni rivoluzionarie del Novecento.91
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E. Morin, Autocritique, Éditions du Seuil, Paris 1970 (trad.it., Autocritica, Presentazione di M.Ceruti, Moretti e Vitali, Bergamo 1991). ↩︎
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Id., De la nature de l’URSS. Complexe totalitarie et nouvel empire, Librairie Arthème Fayard, Paris 1983 (trad.it, La natura dell’URSS. Il complesso totalitario dell’ultimo Impero, Armando, Roma 1989). ↩︎
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«Noi giudicavamo il partito ontologicamente, e non empiricamente». (in Id. Autocritica, cit.,p.52) ↩︎
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Per un quadro schematico e una prima analisi delle tappe più significative dello stalinismo, si consiglia Martin McCauley, Stalin e lo stalinismo, Il Mulino, Bologna 2004. ↩︎
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«Il processo Raik fu la grande rottura, non alla superficie, ma nel fondo della mia fede. Per la prima volta rifiutai la legge di Hegel che fa della Storia mondiale il tribunale supremo.» (in E.Morin., Autocritica, cit., pp.111-112) ↩︎
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Scrive Morin: «Il marxismo ufficiale occulta l’appropriazione del potere dello Stato da parte dell’apparato del partito. […] Eppure, nella storia dell’URSS, il ruolo storico del partito è quello di un demiurgo. È una decisione del partito bolscevico che ha innescato la rivoluzione d’Ottobre. È questo partito che ha condotto la guerra civile fino al suo esito vittorioso. Che ha instaurato il comunismo di guerra, poi la NEP (Nuova Politica Economica), e deciso di costruire il socialismo in un solo Paese. È questo partito che ha progettato, elaborato, imposto, applicato i piani quinquennali. Che ha trasformato la Russia in un’enorme potenza industriale. Che ha liberato le campagne dai kulaki e imposto la collettivizzazione ai contadini ostili. Che ha devastato il Paese e devastato se stesso attraverso <purghe> inaudite. Che ha impiantato e sviluppato la struttura concentrazionaria del gulag. Il partito è veramente un demiurgo storico. Non è l’espressione del proletariato. Al contrario, esso ha manipolato e asservito il proletariato, creando addirittura un gigantesco sottoproletariato concentrazionario. […] In esso si concentrano tutti i poteri, il potere teologico (il monopolio del possesso della scienza della società e della verità storica), il potere politico, il potere di polizia, il potere giuridico, il potere militare. È questa enorme potenza organizzatrice dell’apparato che costituisce la sfinge della storia contemporanea.» In Id., Pour sortir du XX siècle, Nathan, Paris 1989 (trad.it. Per uscire dal ventesimo secolo, Lubrina, Bergamo 1989, pp.198-199; ora anche in Id., Le jeu de la vérité et de l’erreur, Editions du Seuil, Paris 2004, trad.it., Il gioco della verità e dell’errore. Rigenerare la parola politica, Introduzione e cura di Sergio Manghi, Erickson, Trento 2009, pp. 65-.66). ↩︎
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«Ero stato escluso dal partito non in conseguenza di disaccordo politico o di una rivolta morale, ma per una deviazione personale (o piuttosto se il disaccordo politico e la rivolta morale erano stati, il primo, potenzialmente, la seconda indirettamente, causa di questa esclusione, le cause di questa esclusione non ne erano stati l’occasione). Avevo semplicemente, non intenzionalmente, toccato un piccolo tabù.» (Id., Autocritica, cit.,p.153) ↩︎
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In questo libro scrive così il nome del segretario generale del Pcus, mentre negli scritti successivi lo scriverà in modi diversi. Questo è un chiaro segno dell’autobiografismo costantemente presente nella scrittura moriniana. ↩︎
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«Il rapporto Khrusciov aveva fatto crollare ai miei occhi l’argomento della necessità storica. Ma il pilastro centrale della vulgata anche se vacillava e si sgretolava, reggeva ancora: era l’essenza proletaria del comunismo staliniano. Il mio sguardo restava ancora cieco riguardo alla sociologia del potere cosiddetto sovietico, nei suoi rapporti con la classe operaia. Allora vi fu Poznam, Varsavia e Budapest.» (Ivi., p.174) ↩︎
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Id., Autocritica, cit., p.181. ↩︎
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«Considerando che Kirov, il delfino di Stalin, era stato assassinato «a saputa» di Stalin — dunque in seguito a una sua decisione — […] una parte dell’apparato staliniano tendeva a costituire un ultimo meccanismo di regolazione atto a ridurre, cioè a sopprimere, l’onnipotenza del Grande Segretario. Così mi pareva assai probabile che Kirov e altri stalinisti, esattamente come avrebbero fatto gli epigoni del 1953, preparassero una «destalinizzazione» che fallì ancor prima d’essere avviata. In ogni modo l’assassinio di Kirov e la liquidazione del 70% del Comitato centrale staliniano rivelavano che si erano sviluppate e inserite le une sulle altre delle contraddizioni fondamentali: antagonismo tra Stalin e il suo seguito, antagonismo tra lo sviluppo incontrollato dell’apparato e le forze regolatrici in seno al partito, antagonismo fra l’apparato del partito e l’apparato poliziesco, fratelli siamesi indissolubili e rivali, ciascuno tendente a soffocare e a ipertrofizzare l’altro; tutte queste contraddizioni si intrecciavano intorno al potere personale di Stalin. Allora, minacciato nel suo potere personale, Stalin colpì.» (Ivi, pp.182-183) ↩︎
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Sull’importanza secondaria della burocrazia nell’interpretazione moriniana dello stalinismo, si veda più avanti il cap.2. ↩︎
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Ivi, p.190. Scrive anche: «Restava curvata sotto il giogo dell’organizzazione semi-militare, semi-burocratica dell’impresa, e il lavoro non aveva cessato di essere un’oppressione subita e vissuta. Ma la classe operaia, attraverso l’incremento della produzione di massa e con la lotta sindacale e politica per le assicurazioni sociali, aveva acquisito e conquistato nuovi standard di vita e l’accesso al consumo di massa; entrava nel circuito del benessere che una volta si arrestava alla frontiera delle classi medie. Entrava in una civilizzazione in cui l’individualismo ereditato dalla civilizzazione borghese si trovava plasmato dai mezzi industriali ed esteso in civilizzazione di massa attraverso una gigantesca mescolanza di costumi, di sogni, di aspirazioni, di bisogni. Ciò non significava certo che il problema sociale fosse risolto. Al contrario. Ciò significava che la coscienza operaia, la nostra stessa coscienza, subiva i processi di evoluzione, senza poterli comandare.» (Ivi, p.191) ↩︎
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Ivi, p.199 e p.218. ↩︎
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Id., Mes démons, Editions Stoks, Paris 1994 (trad.it. I miei demoni, Meltemi, Roma 1999). ↩︎
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Ivi, p.254. E poco più avanti scrive anche: «Ero convinto che il bene più prezioso per il Partito fosse la sua unità: unità, sempre unità, niente divisioni, niente scissioni. Una volta decisa, bisogna seguire la Linea: al di fuori della Linea, c’era solo la sconfitta. Poco importava che le idee devianti fossero in parte giuste, dato che più giusta era la necessità di salvaguardare l’unità direttiva.» (Ivi, p.258) Ivi, p.259. Sul termine totalitarismo scrive anche: «Ecco il vero significato del termine «totalitario»: l’Apparato concentra in sé il potere teologico (la verità scientifica, assoluta del marxismo-leninismo), l’autorità politica suprema e il controllo poliziesco sui propri membri, il tutto stretto in una disciplina militare. La fede religiosa, la rispettosa paura dell’autorità, l’obbedienza perinde ac cadaver convergono e si fondono l’una nell’altra.» (Ivi, p.260) ↩︎
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H.Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano 1999. ↩︎
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A.Solzhenicyn, Arcipelago Gulag, Mondadori, Milano 1974; M.Voslensky, La nomenklatura, les privilégiés en URSS, Paris, 1980; A.Zinov’ev, Lo slancio della nostra giovinezza. Saggio letterario-sociologico sullo stalinismo, Spirali, Milano 1986. ↩︎
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Anche se Morin non cita le fonti bibliografiche cui si riferisce, per la natura autobiografica anche del suo libro politico, i testi che prende in considerazione sono soprattutto i seguenti: C.Lefort, L’invention démocratique. Les limites de la nomination totalitarie, Fayard, Paris 1981; Id.,Un Homme en trop. Essai sur l’archipel du goulag de Soljénitsyne, Paris, Le Seuil, 1975; C.Castoriadis, La société bureaucratique, l. Les rapports de productions en Russie, Union Générale d’Éditions, l0/l8, Paris 1973 (trad. it. La società burocratica, l. I rapporti di produzione in Russia, SugarCo, Milano 1978); La société bureaucratique, 2. La révolution contre la bureacratie, UGE, l0/l8, Paris 1973 (trad. it. La società burocratica, 2. La rivoluzione contro la burocrazia, SugarCo, Milano 1979). ↩︎
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«Il totalitarismo è un sistema fondato sul monopolio del potere da parte di un partito che non è soltanto unico, nel senso che è l’unico partito ad avere l’esistenza ed il potere, ma è l’unico anche nel senso che è un partito del tutto particolare.», in G.Bocchi, M.Ceruti, E.Morin, Turbare il futuro, un nuovo inizio per la civiltà planetaria, Moretti e Vitali, Bergamo 1990, cap.III, La rivoluzione anti-totalitaria, pp.29-30. ↩︎
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E. Morin, La natura dell’URSS, cit., p.23. ↩︎
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Su questo punto si veda anche il cap.1. ↩︎
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«È un partito di apparato, nel senso che tutti i poteri sono concentrati nell’apparato, il centro amministratore del partito. È un apparato nel senso tecnico del termine, quello che gli sviluppi della cibernetica ci hanno reso familiare: un dispositivo che asserve un sistema senza subire di ritorno nessuna reazione antagonista, senza accettare di essere a sua volta modificato dallo stato generale del sistema. L’Apparato riceve tutte le informazioni possibili da tutte le parti, le capitalizza, le monopolizza, le programmatizza: manipola e si rifiuta di essere manipolato. Così, in linea di principio, questo apparato è onnicompetente e onnisciente. È in uno stesso tempo un apparato disciplinare, militante, militare, controllore, ed in definitiva poliziesco. È anche un apparato sacerdotale, detentore di una verità assoluta, che costituisce una certezza dal doppio fondamento: il fondamento manifesto, apparente, è dato dalla scienza (cioè dalla conoscenza di ogni verità sul mondo, ma soprattutto delle Leggi della Storia), mentre il fondamento nascosto e profondo è la certezza religiosa nella promessa di una salvezza terrestre rivelata dalle «leggi della storia». In questo modo, è un partito il cui apparato concentra in sé tutti i poteri: il potere spirituale e il potere temporale.», in G.Bocchi, M.Ceruti, E.Morin, Turbare il futuro, cit., p.30. ↩︎
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Id., Il Metodo 1, cit., pp.274-286. ↩︎
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«È sbagliato intendere il totalitarismo come il potere onnipotente dello Stato. Il partito si è impadronito dello Stato. Lo Stato è debole, giacchè è soltanto uno strumento del partito privo di ogni autonomia: lo Stato è completamente asservito dall’apparato asservitore del Partito, e con ciò stesso lo Stato diventa lo strumento di asservimento di tutta quanta la società.», in G.Bocchi, MCeruti, E.Morin, Turbare il futuro, cit., p.31. ↩︎
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Id., La natura dell’URSS, cit., p.42. ↩︎
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Ivi, p.53. ↩︎
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G.Bocchi, M.Ceruti, E.Morin, Turbare il futuro, cit., p.32. ↩︎
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E.Morin,, Per uscire dal ventesimo secolo, cit., pp. 47-50. Gli stessi esempi sono riportati in Id., Viaggio in Cina (1992), a cura di G.Cogi, Moretti e Vitali, Bergamo 1993, pp. 33-35. ↩︎
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Id., Per uscire dal ventesimo secolo, cit., p.64. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ivi, p.66. ↩︎
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Ivi, p.192 e Id., Il gioco della verità e dell’errore, cit., p.59. E poco più avanti scrive: «Ogni repressione dell’informazione e dell’opinione si traduce in oppressione sociale.» (Ivi, p.62 e Per uscire dal ventesimo secolo, p.195). ↩︎
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Id., La natura dell’URSS, p.67. ↩︎
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Ivi, p.81. ↩︎
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Ivi, p.83. ↩︎
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Ivi, p.87. ↩︎
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Ivi, p.91. ↩︎
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Ivi, p.99. ↩︎
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Ivi, p.100. ↩︎
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«[…] la resistenza civile fa vivere il sistema al quale essa si oppone. Facendo finalmente funzionare la macchina economico-sociale, essa perpetua, pur sottraendosi ad esso, l’Apparato che l’asservisce.» (Ivi, p.104) Scrive anche: «La sua debolezza sta nel fatto che, per fare eseguire la pianificazione economica di Stato, l’Apparato è obbligato a ricorrere non soltanto alla costrizione, ma anche a un’anarchia economica sotterranea, che è indispensabile per il funzionamento stesso dell’economia. Nello stesso tempo, questa debolezza è anche una forza, perché la costrizione è una manifestazione della forza infinita che tiene in piedi l’Apparato controllore/repressivo del totalitarismo.», in G.Bocchi, M.Ceruti, E.Morin, Turbare il futuro, cit., pp.33-34. ↩︎
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E. Morin, La natura dell’URSS, cit., p.106. ↩︎
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Ivi, p.114. ↩︎
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Ivi, p.115. ↩︎
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Ivi, pp.115-116. ↩︎
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Ivi, p.17. ↩︎
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Ivi, pp.115-116. ↩︎
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Le pagine si riferiscono al già citato libro della Arendt. ↩︎
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Cfr. B.Souvarine, Stalin, Adelphi, Milano 1983; The Dark Side of the Moon (prefazione di T.S.Eliot), New York 1947; D.Rossuet, Les Jours de Notre Mort, Paris 1947. Quest’ultimo testo poteva essere trascurato da Morin in quanto la sua analisi del totalitarismo non si occupa del nazismo (come fa la Arendt), ma solo dello stalinismo. ↩︎
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«Il regime totalitario è infatti possibile soltanto dove c’è sovrabbondanza di masse umane sacrificabili senza disastrosi effetti demografici.» (H.Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p.431). ↩︎
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«La principale caratteristica dell’uomo di massa non era la brutalità e la rozzezza, ma l’isolamento e la mancanza di normali relazioni sociali.» (Ivi, p.439). «I movimenti totalitari sono organizzazioni di massa di individui atomizzati e isolati, da cui, in confronto degli altri partiti e movimenti, esigono una dedizione e <fedeltà> incondizionata e illimitata.» (Ivi, p.448). «Quando il regime detiene il controllo assoluto, sostituisce la propaganda con l’indottrinamento e impiega la violenza non tanto per spaventare la gente (cosa che fa soltanto nelle fasi iniziali, in presenza di un’opposizione politica), quanto per tradurre in realtà le sue dottrine ideologiche e le menzogne pratiche che ne derivano.» (Ivi, p.471) «La propaganda è soltanto uno strumento, anche se forse il più importante, nei rapporti col mondo esterno; il terrore è invece la vera essenza del regime totalitario.» (Ivi, p.475). «Il vero fine della propaganda totalitaria non è la persuasione, ma l’organizzazione.» (Ivi, p.498) «L’organizzazione dell’intera trama della vita in conformità a un’ideologia può essere pienamente attuata soltanto in un regime totalitario.» (Ivi, p.501). «L’organizzazione e la propaganda (anziché il terrore e la propaganda) sono le due facce della stessa medaglia.» (Ivi, p.503). ↩︎
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«I mezzi con cui Stalin trasformò in Russia la dittatura del partito unico in un regime totalitario, e i partiti rivoluzionari comunisti di ogni parte del mondo in movimenti totalitari, furono la liquidazione delle frazioni, l’abolizione della democrazia interna, la soppressione dell’autonomia dei partiti comunisti stranieri, il loro assoggettamento alla direzione del Comintern.» (Ivi, p.522). ↩︎
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È la libertà dal contenuto della propria ideologia che caratterizza il vertice della gerarchia totalitaria. Questi uomini considerano tutto e tutti dal punto di vista organizzativo, e ciò include il capo che per essi non è né un talismano ispirato né il depositario dell’infallibilità, ma semplicemente un prodotto di tale organizzazione, una funzione indispensabile al movimento. […] Non la veridicità delle parole del capo, ma l’infallibilità delle sue azioni è alla base della struttura.» (Ibidem, pp.532-533). ↩︎
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Ivi, p.543. ↩︎
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Ivi, p.559. E più avanti aggiunge significativamente: «L’apparato dello stato è trasformato in un fronte di burocrati simpatizzanti, che in politica interna hanno la funzione di diffondere fiducia fra le masse dei cittadini meramente allineati e in politica estera quella di ingannare il mondo non totalitario.» (Ivi, p. 566). E ancora:«Tutto il potere reale è conferito alle loro istituzioni, fuori dell’apparato statale e militare. E tutte le decisioni vengono prese all’interno del movimento, che rimane il centro d’azione del paese.»(Ivi, p.575). ↩︎
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«L’uccisione della personalità giuridica che è nell’uomo è una condizione indispensabile per dominarlo interamente.» (Ivi, p.617). «Il passo successivo nella preparazione di cadaveri viventi era l’uccisione della personalità morale.» (Ivi, p.618). «Dopo l’uccisione della persona morale e l’annientamento della persona giuridica la distruzione dell’individualità riesce quasi sempre.» (Ivi, p.623). «È nella natura del regime totalitario esigere un potere illimitato. Questo può essere ottenuto soltanto se letteralmente tutti gli uomini, senza alcuna eccezione, sono sicuramente dominati in ogni aspetto della loro vita.» (Ivi, p.625). «L’aggressività del totalitarismo non deriva da sete di potenza; e se esso cerca febbrilmente di espandersi, non è né per smania di espansione né per profitto, ma solo per ragioni ideologiche: per dimostrare su scala mondiale che la propria ideologia aveva ragione, per edificare un mondo fittizio coerente non più disturbato dalla attualità.» (Ivi, pp.627-628). ↩︎
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Ivi, p.630. E più avanti aggiunge: «Un’ideologia è letteralmente quello che il suo nome sta a indicare: è la logica di un’idea. La sua materia è la storia, a cui l’«idea» è applicata; il risultato di tale applicazione non è un complesso di affermazioni su qualcosa che è, bensì lo svolgimento di un processo che muta di continuo.» (Ivi, p.642) ↩︎
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V.Merle Fainsod, Smolensk under Soviet Rule, Cambridge 1958. ↩︎
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H.Arendt, cit., p.LXXI. ↩︎
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Ivi, pp.LXXI-LXII. ↩︎
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Ivi, pp. LXXII-LXXIII. ↩︎
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Ivi, pp. LXXIII-LXXIV. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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E.Morin, La natura dell’URSS, cit., pp.121-122. ↩︎
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Sulla contrapposizione democrazia-totalitarismo si veda E.Morin, Penser l’Europe, Éditions Gallimard, Paris 1987 (trad.it. Pensare l’Europa, Feltrinelli, Milano 1990, pp. 156-160). ↩︎
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E.Morin, La natura dell’URSS, cit., p.150. ↩︎
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Ivi, p.185. ↩︎
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Ivi, p.11. ↩︎
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«Il miracolo di Gorbaciov è stato proprio quello di avere intrapreso, partendo da quello che forse è il punto più debole del sistema (proprio perché è il punto più forte), il Vertice Onnipotente dell’Alto Apparato, un processo di democratizzazione sufficientemente rallentato per rallentare la distruzione del sistema stesso, e sufficientemente rapido per impedire al sistema di soffocare la trasformazione.», in G.Bocchi, M.Ceruti, E.Morin, Turbare il futuro, cit., pp.34-35. ↩︎
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E.Morin, Per uscire dal ventesimo secolo, p. 20. ↩︎
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Ivi, p.21. ↩︎
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Id., Viaggio in Cina, cit., pp.80-81. ↩︎
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Id., Pensare l’Europa, cit., pp.121-122. ↩︎
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G.Bocchi, M.Ceruti, E.Morin, Turbare il futuro, cit., p.41. ↩︎
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«La rivoluzione antitotalitaria costringe il partito a lasciare la sua presa sullo Stato, che ritrova così la sua relativa autonomia; costringe il partito ad abbandonare il suo potere nella cultura e nell’economia; costringe il partito a diventare un partito politico normale.» (Ivi, p.46) ↩︎
-
E.Morin, Pour et contre Marx, Temps Présent, Paris 2010 (trad.it., Pro e contro Marx. Ritrovarlo sotto le macerie dei marxismi, Erikson, Trento 2010); Id., Ma Gauche, François Bourin Éditeur, Paris 2010 (trad.it., La mia sinistra. Rigenerare la speranza, Erikson, Trento 2011). ↩︎
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Id., Introduction à une politique de l’homme, Édition du Seuil, Paris 1965 (1999) (trad.it. Introduzione a una politica dell’uomo, Meltemi, Roma 2000, p.17. Si veda anche l’intero paragrafo, L’antropologia ristretta di Marx, pp.15-22) ↩︎
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Id., La dialettica e l’azione (1958), in Id., Pro e contro Marx, p.31. ↩︎
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Ivi, p.46. ↩︎
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Ivi, p.18, pp.51-52 e p.90 (si veda anche Id., La mia sinistra, cit., p.132 e p.173). ↩︎
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Ivi, pp.59-60. ↩︎
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Id., Marxismo e sociologia (1964), in Ivi, pp.63-64. ↩︎
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Id., Alla ricerca dei fondamenti perduti (1993), in ivi, p.76 (Si veda anche Id., La mia sinistra, cit., p.118). ↩︎
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Ivi, pp.76-77 (e Id., La mia sinistra, pp.118-119. La stessa analisi è ripetuta nel saggio I paladini della speranza (1993), in Id., La mia sinistra, cit., pp.234-235). ↩︎
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Ivi, pp.95-96; (Id., La mia sinistra, pp.137-138 e I paladini della speranza, p.236). ↩︎
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Id., Le vif du sujet, Édition du Seuil, Paris 1969 (trad.it., Il vivo del soggetto, Moretti e Vitali, Bergamo 1998, pp.85-86). ↩︎
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Ivi, p.87. ↩︎
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Ivi, pp.89-90. Più avanti scrive: «Il mio stalinismo resistenziale e la mia resistenza allo stalinismo sono stati come i due stadi della mia esperienza: uno ha messo a fuoco l’altro.» (p.117) E ancora: «Il completamento della politica antropologica, è il superamento dei costumi attuali, ritorno alla fonte viva. È come per l’uomo generico di Marx: questi, principio primo, prototipo dell’umanità, è presente in tutti gli uomini. Si tratta però di realizzarlo, anche se non è mai esistito concretamente dalle origini.» ↩︎
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Id., Per uscire dal ventesimo secolo, cit.,, p.130. Scrive anche: «Il marxismo è un’ideologia a due stadi. Nel primo stadio è una teoria determinista che prevede in maniera necessaria il crollo della società borghese e l’avvento della società socialista; nel secondo stadio è un’etica di rivolta e di emancipazione.» (p.154) Ancora: «Paradossalmente e contemporaneamente noi ci troviamo in un’ era stalinistica mondiale e in un’area americanistica mondiale.» (p.284) ↩︎
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Ivi, p.295. ↩︎
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«Il mito della rivoluzione è un grandioso mito del nostro secolo che, come ogni grande mito, contiene in sé una verità profonda: l’aspirazione degli oppressi e degli asserviti all’emancipazione, l’aspirazione delle società moderne a uno stadio di maggiore complessità e, nell’idea internazionalista, l’aspirazione dell’umanità a realizzarsi in quanto umanità. […] L’errore consiste nel non essersi accorti dell’infiltrazione, e poi della manomissione del pensiero religioso, sotto la maschera inaudita del termine «marxismo scientifico», nel mito rivoluzionario.» (Ivi, p.204 e Id., Il gioco della verità e dell’errore, cit., p.72). ↩︎