Edgar Morin, Patrick Viveret, Come vivere in tempi di crisi?, Book Time, Milano 2011, pp. 78, 9 €.
Riflettere sulla crisi del nostro tempo senza cadere nel banale e nell’ovvio non è un’impresa facile. Da ormai più di due decenni ci prova il filosofo e sociologo Edgar Morin che, in una serie di articoli, conferenze e seminari pubblicati su riviste e giornali, poi raccolti in vari volumi pubblicati in gran parte anche in Italia, fa una diagnosi dei mali principali della nostra civiltà e propone una voie (per citare il titolo di un suo libro recente) da percorrere per la loro improbabile ma possibile soluzione. Come un Seneca e un Marco Aurelio, oppure alla maniera di un vecchio saggio orientale, servendosi di una scrittura semplice e accattivante, modulata su un linguaggio colloquiale che non vuol vestire i panni del classico conferenziere, Morin cerca di scuotere le coscienze di ciascuno di noi invitandoci a cambiare abitudini e stili di vita per riappropriarci delle risorse e della bellezza del nostro malato pianeta Terra. Questo volumetto raccoglie un suo intervento (dal titolo indicativo Capire il mondo che sta arrivando) insieme a quello del filosofo e Consigliere referente della Corte dei Conti francese Patrick Viveret che, in quanto esperto del fenomeno della ricchezza, approfondisce e rafforza il punto di vista moriniano alla luce di una proposta politica e di dati economici concreti. La lettura di questo libro raggiunge, a mio avviso, un duplice obiettivo: 1) non utilizzando alcun linguaggio tecnico e specifico si rivolge, come è nello stile di Morin, a tutti i cittadini, nessuno escluso, perché tutti siamo coinvolti direttamente nella crisi del pianeta; 2) è un’efficace e sintetica introduzione al pensiero di Morin e può stimolare un percorso a ritroso di approfondimento delle sue opere, a partire proprio da quelle non tecniche degli ultimi anni.
Rispetto alla lettura dei suoi articoli e interventi raccolti in volume, che hanno lo svantaggio, talvolta dovuto a un frettoloso assemblamento (anche se editorialmente corretto e coerente con i temi affrontati), della ripetizione degli stessi concetti, metafore e citazioni che possono dare l’impressione di generalità (se non di superficialità e banalità) nelle proposte dell’autore, la formula di questo volumetto di mettere assieme gli interventi di autori diversi (già proposta in altri libri di Morin, come ad esempio La politica di civiltà scritto con S. Naïr) stimola la riflessione del lettore non solo a prendere consapevolezza del problema affrontato, ma anche ad entrare nel merito.
Per comprendere la crisi del nostro tempo, Morin ci invita a riprendere il senso dell’ambiguità che aveva Pascal, cioè a leggere la realtà che ci circonda nelle sue molteplici sfaccettature e con un occhio attento alle verità opposte che vi si manifestano, superando il pericoloso manicheismo di contrapporre la propria verità giusta alla verità errata dell’altro (come sta accadendo attualmente nel cosiddetto scontro di civiltà tra Islam e Occidente). Bisogna inoltre saper sostare nelle contraddizioni, e quindi recuperare anche il senso dell’ambivalenza, cioè saper cogliere accanto al lato negativo di un evento anche il suo significato positivo. Solo in questo modo si potrà elaborare un pensiero complesso che è l’unico in grado di affrontare la sfida della globalità in cui ci troviamo immersi e di comprendere in modo giusto il senso degli eventi. Solo la complessità (dal latino complexus, cioè “ciò che è intrecciato”), infatti, è in grado di connettere le cause e gli effetti e di cogliere la loro implicazione reciproca (secondo un sistema circolare, ad anello, per citare un concetto caro al metodo moriniano). L’appello che rivolge Morin alle nostre coscienze è di tipo etico: dobbiamo favorire la comprensione nei confronti dell’altro, del diverso e superare egoismi e incomprensioni reciproci. Per questo, accanto alla globalizzazione economica, dobbiamo favorire lo sviluppo della fragile globalizzazione democratica, che è innanzitutto una globalizzazione culturale: l’incrocio di culture diverse non può che arricchire la nostra esperienza ed aprire, con l’arte e i mass-media, alla comprensione dell’altro. Nel suo intervento, Morin riprende en passant temi a lui cari già discussi in altri scritti, come il problema della degradazione della biosfera, la necessità di puntare sulla qualità della vita anziché sull’aspetto quantitativo di essa, il gioco della probabilità e dell’improbabilità. Quest’ultimo aspetto è indubbiamente il più accattivante del suo pensiero più recente: infatti, pur essendo probabile la caduta dell’umanità verso l’abisso, è anche vero che la storia ci insegna che spesso l’improbabile si è realizzato. Gli esempi classici che riporta riguardano la vittoria di Atene sull’immenso Impero persiano, la sconfitta nella campagna di Russia dell’esercito nazista e l’intervento americano nella Seconda Guerra Mondiale dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbour (che rovesciò definitivamente le sorti della guerra). L’imprevedibilità favorisce nella storia delle metamorfosi che, anche nel caso presente della crisi della nostra civiltà, possono portare ad una società-mondo di tipo nuovo, cioè ad un nuovo modo di vivere la globalizzazione. Morin, con un linguaggio semplice ed efficace, utilizza spesso nei suoi scritti metafore e citazioni che colpiscono al cuore il lettore: la Terra, ad esempio, è una nave spaziale «mossa da un quadrimotore: la scienza, la tecnica, l’economia e il profitto». (p. 16) Oppure riprende spesso una citazione da Hölderlin che sintetizza bene il suo principio di speranza nel futuro dell’umanità: «Là dove si manifesta il pericolo, si manifesta anche ciò che salva». (p. 22, oppure la traduzione riportata in altri scritti con il verbo «cresce» anziché «si manifesta») L’incertezza, l’imprevedibilità e la speranza si riassumono soprattutto in un tema fondamentale del suo pensiero, teorizzato nella sua opera principale dal titolo Il Metodo (in sei volumi, ma in particolare i primi due), che è l’ecologia dell’azione. Gli effetti dell’azione iniziata possono portare ad un risultato opposto a quello che ci siamo prefissi perché «non dipendono solo dalle intenzioni di chi agisce, ma anche dalle specifiche condizioni dell’ambito in cui si svolge». (p. 23) Di conseguenza Morin propone di elaborare non un programma, ma una strategia d’azione, in quanto quest’ultima, a differenza della prima, è in grado di modificare l’azione tenendo conto degli imprevisti e delle nuove informazioni che incontra nel suo cammino. Proprio per questo è necessario scommettere, perché l’incertezza da cui partiamo ci permette di formulare una strategia che ci apre le porte alla speranza nel futuro.
L’intervento di Patrick Vivaret, dal titolo Che cosa faremo della nostra vita? si riallaccia immediatamente a Morin e ai concetti di speranza e di improbabile per dare una lettura critica della crisi del nostro tempo. Entra nel merito con un’analisi più approfondita introducendo il concetto greco di hybris (dismisura) per far comprendere il problema ecologico ma anche finanziario, sociale e geopolitico della crisi attuale. La lettura dei dati delle Nazioni Unite del 1998 offre già da allora un quadro abbastanza preciso della situazione: a fronte degli 800 miliardi di dollari per le spese militari, dei profitti sul traffico degli stupefacenti di 400 miliardi di dollari e delle spese per la pubblicità di 400 miliardi di dollari, sarebbero bastati meno di 100 miliardi di dollari per eliminare i principali problemi vitali dell’umanità: la fame, l’acqua potabile, l’assistenza medica di base ecc. Riprendendo il pensiero di Gandhi e di Morin, Viveret ribadisce «che vi è un legame sistemico tra la scarsità artificiale — che porta a una miseria materiale che in condizioni normali non dovrebbe esistere — e l’aggravarsi di un sottosviluppo etico, affettivo e spirituale». (p. 39) Bisogna quindi favorire quelle politiche che mirino a recuperare il rapporto dell’uomo con la natura e a favorire il dialogo tra le diverse culture e civiltà. Riprendendo le analisi del libro di Jacques Robin, Changer d’ère, che gioca sull’omofonia delle parole “air” (riferito alla presa di coscienza ecologica), “aire” (relativo allo sconvolgimento del territorio) e “ère” (cioè il cambiamento dell’epoca storica), Viveret analizza le conseguenze di queste tre simultanee mutazioni a livello politico, economico e culturale nel Vecchio mondo, individuando in particolare nella crisi degli Stati-nazione, della società industriale e dell’organizzazione sociale i punti cardini di questo cambiamento (e qui si riallaccia al pensiero di Morin). Un’altra suggestione moriniana riguarda le sue considerazioni etiche sul problema della barbarie interiore, lanciando un appello per avere il coraggio di guardare dentro di noi prima di giudicare l’altro, il diverso come portatore del male e della violenza. Le considerazioni più affascinanti del suo intervento, che si ricollegano al suo Rapporto sui nuovi fattori di ricchezza (da cui il libro Riconsiderare la ricchezza, che tenta di superare la logica del PIL e di misurare la ricchezza su valori qualitativi ed esistenziali), riguardano proprio il mercato e il valore del denaro. Sul primo punto riprende le analisi dell’economista e antropologo Karl Polányi che, nel libro La grande trasformazione, sottolinea la trasformazione chiave dell’economia occidentale nel passaggio dalle economie di mercato alle società di mercato, in cui ogni cosa si trasforma in merce commerciabile: è il «passaggio da società in cui ciò che aveva valore non aveva prezzo a delle società in cui ciò che non ha prezzo non ha valore». (p. 61) Il secondo punto della sua analisi riguarda la ricchezza, cioè il valore del danaro. Viveret sottolinea come, curiosamente, gli economisti non danno mai una definizione del danaro, ma lo descrivono attraverso le sue funzioni (unità di conto, mezzo di scambio e di pagamento, riserva di valore). Anche qui nello svolgere le sue considerazioni, egli cita un libro che fa eccezione alla regola, La violenza del danaro, degli economisti Michel Aglietta e André Orléan, che interpretano il problema del danaro in base alle categorie antropologiche della violenza e del sacro elaborate da René Girard nell’omonimo libro. Anche la ricerca La monnaine souveraine si collega alle stesse categorie e mette in luce l’origine religiosa della moneta, come dimostrano i nomi di animali che la designano in molte lingue, da pecus (pecunia) a rupus (rupia). Ritornare al significato religioso (da religere) della moneta è il primo passo per comprendere, secondo Viveret, il vero significato del danaro, che deve essere un mezzo per lo scambio e la creazione di ricchezza e non un fine, come avviene oggi con la speculazione finanziaria. L’interesse dell’autore sul rapporto del danaro con il valore lo ha avvicinato a proposte alternative come la valuta solidale “sol” in Francia (che favorisce scambi che non sono monetari in senso classico e comportamenti di natura ecologica e sociale come il commercio equo e l’agricoltura biologica) e la moneta mondiale “Terra” proposta dall’economista Bernard Lietaer in alternativa alla crisi del dollaro come valuta nazionale e mondiale. L’alternativa è suggestiva, in questo momento di grave crisi finanziaria, economica e sociale mondiale, ma in questo saggio ci viene soltanto suggerita senza indicare come possa essere realisticamente varata nei prossimi anni, rimandando il lettore al suo libro e a quelli di Lietaer. Quello che si propone qui, in assoluta consonanza con il pensiero di Morin, è di risvegliare le coscienze per puntare ai valori che contano veramente nella vita, comprendendo quindi che crescita e produttività non sono gli unici indicatori dello sviluppo umano. Come ha provato a fare il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (PNUS), si possono cambiare gli indicatori di benessere assegnando un posto determinante all’ambiente, alla Terra, ai possibili fattori di distruzione (come le catastrofi ambientali e l’ inquinamento), perché la «posta in gioco è quella di “crescere in umanità”! » (p. 78)