Nel Tractatus logico-philosophicus,1 Wittgenstein dava spazio ad una posizione anti-fattualista, quasi humeana, della causalità: non vi sono nel mondo infatti, relazioni di causa ed effetto. Scrive Wittgenstein:
Una costrizione, secondo la quale una cosa debba avvenire poiché ne è avvenuta un’altra, non c’è. V’è solo una necessità logica (TLP 6.37).
Tuttavia, per quanto il filosofo austriaco arrivi addirittura a ritenere che «la credenza nel nesso causale è la superstizione» (TLP 5.1361), non si può dubitare del fatto che la sua posizione sulla causalità sia molto più vicina ad una soluzione kantiana piuttosto che humeana. Lo schema logico infatti che sorregge ogni mondo possibile, cioè la forma logica del mondo o del nostro linguaggio, è strutturato in termini causali.
La legge di causalità non è una vera e propria legge, bensì la «forma di una legge» (TLP 6.32), ossia una struttura per così dire trascendentale, per usare un termine abusato in filosofia, adatta a costruire un sistema di descrizione del mondo di cui le proposizioni della fisica costituiscono un caso particolare:
«Legge di causalità»: un nome di genere. E come nella meccanica, diciamo, vi sono leggi di minimo — come quella della minima azione —, così nella fisica vi sono leggi di causalità, leggi della forma di causalità (TLP 6.321).
Come forma poi, la legge di causalità è a sua volta una forma logica del linguaggio/pensiero di cui è legittimo dubitare quando è oggetto di credenza, ma non quando la si concepisce come conoscenza a priori di ogni possibile forma logica:
Noi non crediamo a priori in una legge di conservazione, ma conosciamo a priori la possibilità di una forma logica (TLP 6.33).
Da quanto detto si può evincere che per quanto una specifica descrizione del mondo possa essere considerata falsa, nella misura in cui le si possono accostare descrizioni alternative possibili, non è possibile tuttavia pensare alcun mondo possibile in cui le cose non si comportino secondo una qualche descrizione legiforme. Scrive Wittgenstein:
Se vi fosse una legge di causalità, essa potrebbe sonare: «Vi sono leggi naturali».
Ma ciò non si può certo dire: ciò mostra sé.
Nella terminologia di Hertz, si potrebbe dire: Solo connessioni conformi a una legge sono pensabili (TLP6.36-6.37).
In due saggi scritti nella seconda metà degli anni Trenta, Causa ed effetto e Lezioni sulla libertà del volere, Wittgenstein ritratta molte idee giovanili risalenti al periodo del Tractatus, ma alcune di queste rimangono, per quanto variate, un sottofondo comune agli sviluppi successivi del suo pensiero.
L’idea, per esempio, di un mondo strutturato dalla forma logica della causalità rimane inalterata, anche se, come osserva acutamente Alberto Voltolini2 questa impossibilità logica a pensare il mondo come non causale ha il suo fondamento, per così dire, non tanto nel linguaggio/pensiero, quanto nel nostro modo di agire che sostanzia il nostro gioco linguistico primario con i concetti di causa ed effetto.
Lo stimolo a pensare la causalità in questo modo viene a Wittgenstein dal Russell della seconda metà degli anni Trenta, in particolare da un saggio, scritto tra il 1935 e il 1936, in cui il filosofo inglese ritiene che noi esperiamo direttamente la relazione causale.
Anche Wittgenstein nello scritto Causa ed effetto, pensa che si possa avere una esperienza genuina quale l’esperienza della causa. Questa esperienza ha tra le sue radici il «cercare con lo sguardo»3 una causa.
Si presti particolare attenzione al fatto che qui è in gioco un approccio antiriduzionistico, per alcuni versi fenomenologico, al gioco linguistico fondato sui concetti di causa ed effetto a cui si mescolano valutazioni che esulano dal campo strettamente logico-grammaticale:
Chiamare qualcosa «causa» è come indicare qualcuno e dire: «lui è il colpevole!».4
Del resto anche in Lezioni sulla libertà del volere,5 (d’ora in poi LLV), Wittgenstein ritiene che il fatto che noi pensiamo alle leggi causali metaforicamente come ad un «binario lungo cui le cose devono muoversi» deriva dalla «intromissione» nel gioco linguistico con i concetti di causa ed effetto di un modo di vedere le cose che non è naturale, che anzi deve la sua giustificazione ad un ordine di intelligibilità extra-logico, oserei dire, morale.
Siamo incoraggiati ad usare la metafora dei «binari» dal fatto che noi abbiniamo all’idea di legge il gioco linguistico «fondato» sulla nozione di «costrizione»:
Che diavolo significherebbe che la legge naturale costringe una cosa ad andare come va? La legge naturale è corretta, e questo è tutto. Perché mai si dovrebbe pensare alle leggi naturali come ad eventi costrittivi? Se ciò che dico è corretto sembrerebbe che si sia preso un granchio. Prima di tutto, l’idea di una costrizione risiede già nella stessa parola «legge». La parola «legge» suggerisce più dell’idea di una regolarità osservata che noi assumiamo continuerà.6
Per Wittgenstein l’intendere qualcosa come costretto o come non costretto, libero o determinato, dipende dall’assunzione di un vocabolario o paradigma interpretativo degli eventi: un tale approccio porta a ritenere che lo stesso modello della spiegazione causale degli eventi non sia l’unico modello; a questo può essere affiancato uno schema interpretativo addirittura storico:
Se dico: la storia non può essere la causa dello sviluppo, questo non significa che io non possa prevedere lo sviluppo a partire dalla storia, perché questo è proprio ciò che faccio; ma significa che noi non chiamiamo questa una «connessione causale», che qui non si tratta di prevedere l’effetto da una causa.7
Questo modello di descrizione è quello che si presta ad essere adottato più facilmente nel campo nelle azioni umani, in quanto si ascrive ad un agente una responsabilità fondata sull’agire in virtù di ragioni piuttosto che di cause. Lo «spazio delle ragioni» è irriducibile allo «spazio delle cause». Da qui l’enorme importanza di questa impostazione per quella parte della filosofia della mente che non si presta ad essere riduttivamente naturalizzata: si pensi a pensatori come Sellars, Rorty, Mcdowell e, in un certo senso, anche D. Davidson.
È possibile così pensare che sotto un certo modello di descrizione, sotto una certa grammatica, come direbbe Wittgenstein, un’azione è libera, sotto un’altra, quell’azione è determinata.
Rimane da stabilire se per Wittgenstein la proprietà della volontarietà o spontaneità dell’azione è una proprietà ontologica, inerente alla persona, o attribuibile solo indirettamente, sulla base del vocabolario adottato, soluzione per esempio gradita al monismo anomalo di Donald Davison. Qui si apre un campo di indagine, secondo me, molto vasto che qui non è il caso di prendere in considerazione. Scrive Wittgenstein:
Io mi trovo in questa stanza, libero di andare dove mi aggrada. Supponete che nella stanza sotto vi sia un uomo, abbia della gente con lui, e dica: «Guardate, io posso far andare Wittgenstein esattamente dove voglio». Ha un meccanismo che regola con una manovella, e voi vedete (con uno specchio) che io cammino esattamente come vuole quell’uomo. Allora qualcuno viene da me e dice: «Eri trascinato qua e là? Eri libero?» Io dico: «Certo che ero libero».
Di fatto, ci sono casi che sono molto simili a questo.8
Il problema relativo a questo Denkexperiment è il valore interpretativo da assegnare alla espressione «Certo che ero libero». Su cosa si fonda questa certezza? Se si adottasse un approccio comportamentistico, tale cioè da eludere ogni riferimento chicchessia a una esperienza qualitativa di coscienza, la risposta si presterebbe a obiezioni forse più pesanti di quelle che mettono in questione ogni riferimento ad una esperienza coscienziale del soggetto. Infatti si può arguire dalla descrizione di un moto apparentemente casuale (traiettorie cioè non aventi una configurazione precisa), la libertà di movimento del soggetto in questione? È chiaro che se il punto di vista adottato è quello in terza persona, allora non si scappa dalla necessità di descrivere il moto in questione secondo due paradigmi interpretativi differenti. Se si ammette invece che il soggetto in moto, nel constatare il suo essere libero, faccia uso di una descrizione in prima persona, cioè di un punto di vista fenomenologico che abilita in un certo senso a sentire il suo stato di libertà, e se si autorizza la legittimità di un tale approccio, allora l’essere libero è pienamente giustificato. Il problema rimane ancora intatto se si ritiene che esperienza in prima persona ed esperienza in terza persona non siano compatibili, cioè non siano possibili traduzioni tra i due ambiti. Ammettendo ciò, infatti, l’espressione «Certo che ero libero» suona unsinnig, insensata a colui che ha esperito in terza persona il moto di quella determinata persona in una stanza.
Wittgenstein ha tuttavia il merito nei saggi qui presi in esame di avere adottato un approccio così antiriduzionistico al problema del determinismo da ipotizzare che un domani, determinate scoperte scientifiche che mostrassero, ad esempio, l’assenza di regolarità a livello neurobiologico, potrebbero portarci a mettere in dubbio quelle regole grammaticali, camuffate (anche lui della «scuola del sospetto») da asserzioni empiriche fondate, proprie del sistema di descrizione determinista; asserzioni quali per esempio «il carattere non cambia». Scrive infatti Wittgenstein:
Quel che volevo sostenere era che queste asserzioni non sono asserzioni scientifiche, non sono corrette dall’esperienza.
Queste asserzioni non sono affatto usate come asserzioni scientifiche; nessuna scoperta scientifica avrebbe una conseguenza su una tale asserzione. Questo non è del tutto vero. Ciò che intendo è: non potremmo dire adesso: «Se scoprono questo e quest’altro, allora dirò che sono libero». Questo non è dire che le scoperte scientifiche non avranno influenza su asserzioni di questo tipo.9
Questo passo importante di Wittgenstein fondato, in termini quasi quineani, sulla distinzione asserzione/regola grammaticale ci fa capire come il problema della libertà non sia per Wittgenstein risolvibile, e quindi riducibile, in termini esclusivamente naturalistici o fisicalistici.
L’adozione di un certo vocabolario, come quello morale incentrato sulla nozione di libertà, non è, entro certi limiti, attaccabile da eventuali scoperte scientifiche che mettano in crisi la credenza nella libertà: qui ci troviamo di fronte a piani e livelli che sono diversi tra loro, per quanto non si possa escludere che possano un giorno comunicare tra loro: il piano logico-prassiologico-grammaticale e quello fisico-naturale.
Nel dire questo non si può certo negare il fatto che se intervengono mutamenti epocali a livello empririco, allora è possibile ipotizzare l’adozione di una grammatica differente da quella adottata finora. Scrive infatti Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche:
Non dico: Se questi e questi altri fatti naturali fossero diversi da quelli che sono gli uomini avrebbero concetti diversi (nel senso di un’ipotesi). Ma: Chi crede che certi concetti siano senz’altro quelli giusti e che colui che ne possedesse altri non si renderebbe conto di quello di cui ci rendiamo conto noi, — potrebbe immaginare fatti generalissimi della natura in modo diverso da quello in cui noi siamo soliti immaginarli; e formazioni di concetti diverse da quelle abituali gli diventerebbero comprensibili.10
Da quanto detto, è evidente che Wittgenstein sia contrario nettamente ad un modello metafisico-naturalistico della causalità: un modello cioè per il quale ad ogni differenza causale di alto livello, spiegata da quella che oggi si può chiamare una scienza speciale debba per forza corrispondere una differenza causale di basso livello, catturata da una scienza basilare, come potrebbe essere la fisica delle particelle.
Per attenerci ad un esempio di Wittgenstein contenuto nel saggio Causa ed effetto, è possibile immaginare che ci siano leggi di macrobiologia per cui da semi di una pianta di tipo A si originano solo piante di quel tipo, mentre da semi di una pianta di tipo B si originano solo piante di quest’altro tipo, anche se questi semi fossero indistinguibili tra loro e dunque fosse impossibile ricondurre la spiegazione della differenza causale di alto livello (macrobiologia) a leggi di livello più basso, per esempio di biologia molecolare.
Ed anche ammesso che una tale riduzione fosse possibile, ipotizzando per esempio una differenza a livello molecolare dei semi che, a prima vista, sembrano indistinguibili, al limite si potrebbe arrivare a scoprire solo una relazione di sopravvenienza tra i due livelli, visto che rimarrebbe da chiedersi se quella differenza sia una differenza così pertinente da avere rilevanza causale.
Per Wittgenstein la nozione di causa, così come quella di volere, sono forme primitive di giochi linguistici che hanno la loro origine in dinamiche complesse di natura reattiva o comportamentale: il linguaggio così rappresenta uno stadio più evoluto di queste forme primitive: «Il linguaggio-vorrei dire — è un raffinamento, “in principio era l’Azione”».11
Queste forme primitive di giochi linguistici sono come solide e dure pietre da costruzione posate rozzamente le une sulle altre; che subiscono poi, con il passare del tempo, un processo di sgrossamento in virtù del quale si giunge a edificazioni più complesse, espressioni di investimenti spirituali più articolati ed elevati.
Ad ogni forma primitiva del gioco linguistico è comune una prassi fondata sulla certezza delle sue operazioni più elementari:
La forma primitiva del gioco linguistico è la certezza, non l’incertezza. Perché l’incertezza non potrebbe portare all’azione. Voglio dire: è caratteristico del nostro linguaggio che esso cresca su un terreno di solide forme di vita, di azioni regolari. La sua funzione è determinata prima di tutto dall’azione che esso accompagna.12
La causa quindi deve essere qualcosa di originariamente tangibile: si tratta dunque di «conoscere la causa per intuizione». Qui le speculazioni filosofiche, per esprimerci in termini wittgensteiniani, girano a vuoto.
La comprensione di nozioni quali quella di causa o di volere non è un gioco che si risolve in acquisizioni passive di definizioni, il gioco di Agostino per intenderci,13 ma che presuppone l’apprendimento di abilità pratiche vere e proprie.
Scrivono Merrill Hintikka e Jaakko Hintikka:
The learning of language does not consist, St Augustine and the author of the Tractatus notwithstanding, in a series of acquisitions of sundry names for different entities. It consists in learning those language-games that serve to mediate the word-object relations. The teachiong of these games is logically speaking more like training the learner in a new skill than conveying to him definitions of words and expressions, no matter whether or not these definitions are verbal.14
Si possono trovare alcune affinità tra il modo in cui Wittgenstein concepisce le nozioni di causa o di volere, riportandole a descrizioni suscettibili di essere tradotte in altri vocabolari e la posizione adottata da Donald Davidson nel giustificare l’irriducibilità del vocabolario mentale, contenente predicati quali credenze, disposizioni, valutazioni, al vocabolario espressione delle scienze naturali.
Il «monismo anomalo» di Davidson mira a escludere «correlazioni rigorosamente legiformi tra fenomeni classificati come mentali e fenomeni classificati come fisici, per quanto le entità mentali, considerate una alla volta, siano identiche a entità fisiche».15
Davidson è convinto infatti che, per esempio, a favore della irriducibilità del mentale a fisico può essere addotta la ragione che nella interpretazione del primo è presente un elemento normativo; ragione riconosciuta persino da un fisicalista convinto come Willard Quine che introduce la nozione di carità quando si confrontano enunciati altrui con i propri.
Anche il comportamento, se considerato come azione, è un concetto irriducibilmente causale: le azioni infatti di solito non vengono descritte soltanto come movimenti, ma come movimenti che possono essere spiegati dalle ragioni che l’agente ha, dalle sue credenze e desideri che si intrecciano olisticamente.
Se si esclude il carattere normativo ed olistico del mentale si può forse giungere ad una versione scientifica della psicologia?
La risposta di Davidson è articolata ma di segno negativo:
Credo che gli elementi normativi, olistici ed esternalistici nei concetti psicologici non si possano eliminare senza mutare radicalmente gli oggetti in questione. Avendolo fatto a lungo altrove, non voglio argomentare a favore di questa tesi nel presente saggio. Quello che qui mi interessa, piuttosto, è chiedermi che cosa consegue se questa tesi è la tesi corretta. È abbastanza chiaro che da essa non segue automaticamente che non ci possa essere una psicologia scientifica: che tale conclusione segua dipende da quello che si intende per «scienza» e dall’ipotesi che i tratti che secondo me caratterizzano il mentale siano degli ostacoli per la scienza così intesa. Quel che ne segue è che la psicologia non si possa ridurre alla fisica, né ad alcun’altra scienza naturale. Ma, a meno di non decretare semplicemente che la scienza è ciò che può essere ridotto alla scienza naturale, il fallimento della riduzione, in sé, non deve essere preso come base per mostrare che quel che non si può ridurre non merita di essere chiamato scienza.16
Naturalmente Wittgenstein, come Ryle d’altronde, è molto più pessimista riguardo alla possibilità di indagare scientificamente e seriamente il mentale, una volta assunto il suo carattere normativo ed olistico.
Prima di proseguire oltre nell’analisi dei giochi linguistici implicati da nozioni come quella di causa o di volere, sarebbe d’uopo indagare più dettagliatamente le convinzioni di Wittgenstein relative a domini come l’etica o l’estetica che risulterebbero senza semantica, cioè senza alcun riferimento al mondo.
Wittgenstein nei suoi quaderni, scritti tra il 1914 ed il 1916, si interessa al problema del rapporto tra l’etica ed il mondo. Per il filosofo austriaco il soggetto che rappresenta (das vorstellende Subjekt) il mondo — che tanta parte ha avuto nella storia della filosofia occidentale — è un concetto vuoto, al contrario egli riconosce una certa dignità al soggetto che vuole (das wollende Subjekt) il quale, a sua volta, non «appartiene al mondo, ma è un limite del mondo».17
Nel Tractatus Wittgenstein, affrontando il tema del rapporto tra soggetto e mondo, scrive:
Il soggetto non è parte, ma limite del mondo. (Prop. 5.632)
Non è il mondo della rappresentazione ad essere buono o cattivo, ma il soggetto che vuole.
Il soggetto che pensa è certo vana illusione. Ma il soggetto che vuole c’è.
Se la volontà non fosse, non vi sarebbe nemmeno quel centro del mondo che chiamiamo l’Io e che è il portatore dell’etica.
Buono e cattivo è essenzialmente solo l’Io, non il mondo.
L’Io, l’Io è il mistero profondo!18
Il mondo dei fatti (die Tatsachenwelt) è indipendente dal volere dell’uomo. Del resto nel Tractatus, Wittgenstein sostiene con la proposizione 6.373 che «Il mondo è indipendente dalla mia volontà».
In questo modo, poiché il senso del mondo (der Sinn der Welt) giace al di là del mondo reale dei fatti, è illegittimo attribuire alle proposizioni etiche un qualunque valore semantico.
La volontà risulta dunque impotente nell’ordire le trame del mondo:
Io non posso guidare gli eventi del mondo secondo la mia volontà; al contrario, sono affatto impotente.
Solo in un modo posso rendermi indipendente dal mondo — e dunque, in un certo senso, dominarlo —: rinunziando a influire sugli eventi19 .
L’etica dunque non è parte del mondo, ma per Wittgenstein ad essa è riconosciuta tuttavia l’importanza di essere, come la logica o l’estetica, «una condizione del mondo».
Del resto nel Tractatus, con la proposizione 6.421, si dice che
È chiaro che l’etica non può formularsi.
L’etica è trascendentale.
(Etica ed estetica sono tutt’uno).
Se l’etica deve essere qualcosa di rilevante e fondamentale per un soggetto, allora paradossalmente essa non deve trattare del mondo, perché un giudizio etico non dipende in alcun modo dall’esistenza di un mondo reale, di altri soggetti viventi:
Può esservi un’etica anche se non v’è essere vivente all’infuori di me?
Se l’etica dev’essere qualcosa di fondamentale: sì!
Se io ho ragione, per il giudizio etico non basta che sia dato un mondo.20
L’unico mondo accessibile all’etica è quello personale e privato del soggetto: il mio mondo;La posizione etica di Wittgenstein quindi si risolve in un solipsismo che, del resto, nelle intenzioni dello stesso, svolto rigorosamente coincide con il realismo puro.
L’Io filosofico infatti «si contrae in un punto inesteso» non avendo nessuna proprietà psicologica; è un «soggetto metafisico», un limite appunto del mondo; ogni valore etico concepibile, alla fine, è dunque è un predicato del soggetto che vuole e non una proprietà del mondo.
Questa Ethik des Schweigens21 non può essere fondata proprio in quanto condizione del mondo.
Nel 1919, dovendo cercare un editore per il suo Tractatus, Wittgenstein inviò un dattiloscritto a Ludwig von Ficker che allora pubblicava la rivista «Der Brenner». In una delle sue lettere a von Ficker, il filosofo austriaco scrive che il senso del suo libro è etico e che l’etico, nel suo libro, è «delimitato dall’interno».
In che senso qui l’etico viene delimitato dall’interno?
Per Rush Rhees, il Tractatus mostra tutto ciò che si può enunciare, tutto ciò che descrive direttamente o indirettamente dei dati di fatto.
Ciò che è un dato di fatto, così come la frase che lo denota, non presenta alcunché di «superiore», cioè alcun rimando fuori da se stesso. Ciò significa che per il soggetto valutante il mondo non ha alcuna importanza o rilevanza. Ma è proprio questa indifferenza o irrelevanza del mondo a investire l’etica di un certo interesse per noi.
Il mondo nella sua neutralità valoriale infatti non ci attrae in alcun modo; è l’investimento spirituale o culturale del soggetto a renderlo rilevante dal punto di vista etico.
La delimitazione dall’interno dunque ha senso per Wittgenstein solo finché regge la demarcazione rigida tra discorso sensato ed insensato, tra sfera privata e sfera pubblica, tra mondo e soggetto, tra riferimento e senso, tra mondo fisico e mondo privato, tra linguaggio fenomenologico e linguaggio fisicalistico. Scrive infatti Rush Rhees:
L’idea della delimitazione poteva reggersi finché reggeva l’idea dell’unità formale del linguaggio, ossia finché egli poteva pensare a una forma proposizionale generale, a una struttura essenziale «che fa del linguaggio il linguaggio», finché reggeva l’idea di una ‘realtà’unitaria, ossia l’ipotesi che per tutti noi ‘realtà’abbia sempre lo stesso significato. E questa idea della ‘realtà’era, per così dire, ‘l’altra faccia’dell’idea della forma proposizionale generale.22
Il destino dell’etica è vincolato dunque alla teoria del linguaggio, in particolare alla forma proposizionale generale espressa nel Tractatus.
Significa forse ciò indirettamente che il passaggio wittgensteiniano da questa posizione filosofica a quella incentrata sui giochi linguistici e sul significato come uso ha conseguenze rilevanti anche per la concezione dell’etica?
Proseguiamo per gradi!
Per Wittgenstein l’etica ha a che fare con i limiti del mondo; ma anche la logica condivide la stessa funzione dell’etica: questo significa in qualche modo che per passare da un approccio naturalistico verso il mondo ad uno etico, è indispensabile in qualche modo cambiare i limiti del mondo stesso, trovare un modo nuovo per esprimere il reale. Scrive Piergiorgio Donatelli:
When we are ethically involved with something it seems to us that the limits of the world change, that something like a new mode of expression is introduced.23
In una nota del suo diario scrive Wittgenstein:
Quale cosa tra cose, ogni cosa è ugualmente insignificante; quale mondo, ognuna è ugualmente significante.
Se ho contemplato la stufa e mi si viene a dire: ma adesso non conosci che la stufa, certo che il mio risultato appare esiguo. Così infatti la si mette giù come se io avessi studiato la stufa tra le molte, molte cose del mondo. Ma, se ho contemplato la stufa, essa era il mio mondo, e di contro tutto il resto moriva.
(Qualcosa di buono, in complesso, ma cattivo nei particolari.)
Si può infatti concepire la mera rappresentazione presente sia come la vana immagine momentanea in tutto il mondo temporale, sia come il mondo vero tra le ombre.24
Quando siamo coinvolti in un senso delle cose radicato in un atteggiamento etico verso il mondo, allora è come se le cose abitassero una dimensione differente da quella ordinaria in cui le connessioni temporali e causali che sorreggono quest’ultima svaniscono. Scrive ancora Donatelli:
So it is really as if the mode of expression is radically changed and the ordinary context of expression were annihilated. Things seen sub specie eternitatis seem, as it were, to escape the context where they are placed and mark such a deep contrast with it that things surrounding them become colourless in comparison, they seem to lose their presence, their solidity as objects. And each thing seen in such a light acquires an importance which renders it absolute, makes it appear as the sole occupier of the world, as Wittgenstein writes, «as the true world among shadows».25
In questo senso un approccio austero alla concezione etica di Wittgenstein con cui si relegherebbe senza possibilità di appello l’etica nelle profondità dell’insensatezza risulta alquanto superficiale se non fuorviante.
Per Wittgenstein se una espressione manca di un senso, ciò può dipendere dal fatto che non abbiamo accordato un significato determinato ad uno dei suoi costituenti.26
Ora quando si ha a che fare con espressioni etiche che «ci parlano» della bellezza o dello stupore delle cose, ci si libera in qualche modo di quei legami spazio-temporali che individuano le cose o la nostra vita; in questo caso è come se il significato di alcune componenti delle espressioni in questione rimanesse indeterminato, oscillante tra un senso comune che vede certe cose come inserite in un contesto di prassi vitale consolidato e quindi ordinario ed un senso fuori dal comune (etico ed estetico) in base al quale si può tagliare il cordone ombelicale che lega le cose al loro contesto o forma di vita, rendendole uniche. Scrive Donatelli:
The sense of beauty and wonder comes from the esitation bewteen attributing to a certain thing the role it plays in the practices in which it is involved and imagining that we can cut it off from those practices in which it is involved and imagining that we can cut it off from those practices and be able to retain enough of its meaning that that very thing is the sole occupier of the world, that it has a quality of presence among other things which makes it unique in a way in which that thing is not actually.27
L’inespressibilità dell’etico dunque è una conseguenza di questo alone di indeterminatezza che contraddistingue le espressioni etiche. Il coinvolgimento etico, contro un approccio emotivista (vedi Carnap), non è un mero accompagnamento emotivo al proferimento di una espressione, ma un «essere colpito» da questa oscillazione del senso delle cose che può dislocarle in un altro ordine di intelligibilità.
Dopo quanto detto e tornando all’opinione di Rush Rhees relativa alla concezione dell’etica di Wittgenstein, si può dire allora che l’insensatezza di quetsa non implica la sua irrilevanza, ma al contrario il suo collocarsi su un piano di analisi che è completamente differente da quello fatto valere nel Tractatus.
Soprattutto nel Wittgenstein più maturo, linguaggio e realtà sono variamente adoperati e di conseguenza parlare di «limiti del linguaggio» o di «avventarsi contro i limiti del linguaggio» appare come un tributo troppo esoso ed ortodosso da pagare sull’altare della correttezza e rigore dell’analisi linguistica.
Le espressioni di cui il Tractatus tratta riguardano solo un ambito ristretto del linguaggio, quello scientifico. Ma per Wittgenstein è altrettanto vero che non possiamo capire nemmeno questo ristretto ambito del linguaggio, se non ne prendiamo in considerazione anche altri. Si pensi ai giochi linguistici fondati sulla nozione di comando o obbedienza. Un comando non è certo insensato perché non afferma alcunché.
Nella Conferenza sull’etica pronunciata probabilmente tra il 1929 ed il 1930, Wittgenstein dunque cambia in un certo senso la sua posizione sull’etica lasciando cadere espressioni quali «avventarsi contro i limiti del linguaggio» o osservazioni del tipo «non possono esserci proposizioni dell’etica» e conservando la convinzione che sarebbe errato parlare di una fondazione dell’etica.28
Il fatto naturalmente che qui si riconosca la limitazione dell’analisi svolta nel Tractatus a proposizioni che concernono solo fatti non significa che nello stesso testo non sia rinvenibile un «metodo» che possa servire, qui la funzione della filosofia, a marcare il contrasto tra differenti proposizioni.
La proposizione n. 6.53 può svolgere ancora pienamente questa funzione di demarcazione tra proposizioni che ineriscono a differenti ambiti del linguaggio:
Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: Nulla dire se non ciò che può dirsi; dunque, proposizioni della scienza naturale — dunque, qualcosa che con la filosofia nulla ha a che fare —, e poi, ogni volta che un altro voglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che, a certi segni nelle sue proposizioni, egli non ha dato significato alcuno. Questo metodo sarebbe insoddisfacente per l’altro — egli non avrebbe la sensazione che noi gli insegniamo la filosofia —, eppure esso sarebbe l’unico metodo rigorosamente corretto.29
Nelle Denkbewegungen, Wittgestein è dell’avviso che alcune pratiche religiose possano essere «illuminate» se trattate come giochi linguistici che concernono immagini e concetti il cui significato è fissato dal contesto di vita in cui essi sono adoperati.
Certamente questi usi non sono stabiliti e fissati a priori: non siamo in grado di sapere in anticipo gli usi che possiamo fare di alcune nostre risorse intellettuali legate a certe forme di vita.
Se tuttavia alcuni usi sono inquadrati all’interno di determinati giochi linguistici, allora il discorso etico, così come quello religioso, può essere considerato interno al potere espressivo di una Satz. Tuttavia l’eventuale significato delle proposizioni etiche, così come di quelle religiose o estetiche, non è esaurito solo dalle loro condizioni d’uso.
Nel caso infatti di descrizioni di fatti, si possono usare differenti parafrasi, anche se, teoricamente, quest’ultime non sono rilevanti ai fini della descrizione stessa; le proposizioni etiche o religiose al contrario non ammettono in realtà alcuna trasformazione verbale che, parafrasandole, le spieghi, perché al di sotto di queste non vi sono fatti da descrivere direttamente.
In una annotazione scritta da Wittgenstein il 15 febbraio 1937, si dice:
These images thus impose themselves upon me. And yet I am hesitant in using these images and expressions. Above all they are of course no similes. For what can be said through a simile can also be said without it. These images and expressions have a life rather only in a high sphere of life, they can be rightfully used only in that sphere.30
Espressioni come quelle religiose o etiche si riferiscono in qualche modo a quella sfera superiore della vita spirituale di un soggetto in cui al significato intersoggettivamente acquisito o accomodato subentrano le qualità personali del soggetto che proferisce quelle stesse espressioni.
Il Nostro insomma sembra quasi rendersi conto che quella rigida linea di demarcazione fissata nel Tractatus tra proposizioni sensate e proposizioni insensate più che essere una frontiera pericolosa da non oltrepassare a meno di rendere il linguaggio ambiguo o peggio ancora insensato, rappresenta invece semplicemente uno strumento per differenziare ambiti del linguaggio ugualmente degni di essere presi in considerazione.
-
L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino 1998. ↩︎
-
Cfr. A. Voltolini, «Wittgenstein tra causalità e libertà», in L. Wittgenstein, Causa ed effetto e Lezioni sulla libertà del volere, Einaudi, Torino 2006, p. VIII ss. ↩︎
-
L .Wittgenstein, Causa ed effetto, cit., p. 11; d’ora in poi CE. ↩︎
-
CE, p. 11. ↩︎
-
L. Wittgenstein, Lezioni sulla libertà del volere, cit. ; d’ora in poi LLV. ↩︎
-
LLV, p. 61. ↩︎
-
CE, p. 12. ↩︎
-
LLV, p. 66. ↩︎
-
LLV, p. 74. ↩︎
-
Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1999, p. 299. ↩︎
-
CE, p. 23. ↩︎
-
CE, p. 24. ↩︎
-
Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., pp. 9-10. ↩︎
-
M.B. Hintikka, J. Hintikka, Investigating Wittgenstein, Basil Blackwell, Oxford 1986, p. 213. ↩︎
-
D. Davidson, «È possibile una scienza della razionalità?» in M. De Caro, D. Macarthur, La mente e la natura. Per un naturalismo liberalizzato, Fazi Editore, Roma, 2005, p. 149. ↩︎
-
D. Davidson, «È possibile una scienza della razionalità?», cit., pp. 150-151. ↩︎
-
Wittgenstein, Quaderni 1914-1916, cit., p. 224. ↩︎
-
Ivi, p. 225. ↩︎
-
Ivi, p. 217. ↩︎
-
Ivi, p. 224. ↩︎
-
Cfr. Chris Bezzel, Wittgenstein zur Einführung, Junius, Hamburg, 1996, p. 96 ss. ↩︎
-
Rush Rhees, «La conferenza di Wittgenstein sull’etica», in L. Wittgenstein, Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, Adelphi, Milano 1992, pp. 34-35. ↩︎
-
P. Donatelli, «Wittgenstein, ethics and religion: earlier and later», in A. Coliva, E. Picardi (editors), Wittgenstein Today, il Poligrafo, Padova 2004, p. 451. ↩︎
-
Wittgenstein, Quaderni 1914-1916, cit., pp. 229-230. ↩︎
-
Donatelli, «Wittgenstein, ethics and religion: earlier and later», cit., p. 451. ↩︎
-
Nella proposizione 5.4733 del Tractatus si dice infatti: «Frege dice: Ogni proposizione legittimamente formata non può non avere un senso; ed io dico: Ogni possibile proposizione è formata legittimamente, e, se non ha un senso, è solo perché noi non abbiamo dato un significato ad alcune delle sue parti costitutive». ↩︎
-
Donatelli, cit., p. 451. ↩︎
-
Cfr. su questo punto Rush Rhees, «La conferenza di Wittgenstein sull’etica», cit., p. 37. ↩︎
-
Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, cit., p. 109. ↩︎
-
Wittgenstein, Denkbewegungen. Tagebücher1930-1932, 1936-1937, Innsbruck, Haymon-Verlag, 1997, p. 80. ↩︎