Responsabilità che misura il tempo, responsabilità consegnata al tempo. Una possibile aporia nel pensiero di Levinas

1. Un vorticoso intreccio

Abitare il mondo segnati da una costitutiva temporalità che ci rende viatores, esistenze viandanti. E trovarsi coinvolti, nelle pieghe più preziose di questa avventura, da una irrinunciabile corrente di responsabilità che orienta i nostri passi. Quale rapporto può legare, in chiave profonda, le due dimensioni? Nella odierna temperie epocale l’interrogativo risuona con una intensità particolare, per certi aspetti inedita. Perché la nostra appartenenza al tempo e il nostro vissuto responsabile appaiono stretti da un intreccio, da un reciproco rinvio, che ha risvolti problematici radicali di cui siamo testimoni grazie a una più acuta coscienza della finitezza. Infatti, come mai è accaduto, ci sentiamo chiamati, con urgenza e su un piano planetario, a rispondere del tempo: il divenire della biosfera si è svelato campo vulnerabile sul quale incide con rischi impressionanti il nostro azzardato potere di modificare ogni equilibrio attorno a noi e dentro la nostra stessa natura. Per altro verso, mai come oggi una matura consapevolezza critica fa avvertire i condizionamenti temporali, gli aspetti di fallibilità che investono le origini e l’orizzonte di senso di quell’agire responsabile senza il quale non sapremmo più riconoscere dignità alla nostra esistenza. Siamo gravati da ardui compiti che riguardano le sorti dell’eco-sistema e dell’identità antropologica, ma in crisi riguardo ai possibili fondamenti di una tensione etica capace di futuro, di respiro progettuale, di salda tenuta dinanzi al carico di negatività che pesa sulle vicende dei singoli e sul destino comune. Proprio mentre il tempo si rivela affidato alle nostre mani, ci tocca essere turbati o affascinati dall’ipotesi che la fatica tutta umana di stare al gioco della responsabilità sia da considerarsi «come una buccia galleggiante (…) nel mare delle contingenze».1

In questo clima, il nuovo proporsi di un’«etica del finito»2 invita a custodire il cammino esistenziale senza ancorare lo status viatoris a garanzie di stabilità e a mete ultime che riflettono solo presunzioni di possesso. Viene riscoperta la fecondità teoretica ed etica dell’insecuritas come apertura a schegge di verità e di valore che sfuggono a criteri di dominio. Da qui si trae incoraggiamento per procedere su una via «non più attrezzata di segnaletica, non più teleguidata dall’idea di progresso», disposti ad avanzare «nella notte e nella nebbia» sorretti da una slancio di solidarietà che non si ripiega su lamenti sconsolati né cerca ancora illusioni consolatorie.3 Persegue, piuttosto, lo «sforzo cooperativo, sempre suscettibile di insuccesso, di mitigare, sopprimere o impedire le sofferenze di creature corruttibili».4

Una volta, però, rifiutato ogni rassicurante ricorso a scenari metafisico-teologici o ad assoluti mondani, quali riferimenti aiuterebbero ancora a coltivare le passioni e le ragioni dell’impegno morale? Da cosa viene sorretta la nostra cresciuta sensibilità nei confronti «di ciò che è mutevole ed è minacciato dalla corruzione»?5 Secondo molti amici della finitezza, proprio l’idea di una contingenza da valorizzare deve fornire alimento al percorso di responsabilità che si addice alla nostra esistenza. Per dare sfondo all’esperienza del bene, come a quella del bello, non ci sarebbe «nulla di meno conveniente dell’eternità».6 Uno sguardo attento sul contingente, invece, può scorgere in questo non più solo carenze e difetti o motivi di rassegnazione, bensì riferimenti guida. Sia perché la nostra cura si accende e si sviluppa in ordine alla «fragilità del transitorio»; sia perché è grazie a un provenire incalcolabile, sganciato da necessità e imposizioni, che siamo «liberi e responsabili in questo frammento di tempo che ci è dato di vivere».7 Ma davvero sarebbe la regia della contingenza con il suo ritmo imprevedibile e il suo «messaggio morale» a rendere possibile il sorgere e l’orientarsi della nostra avventura di responsabilità? O questa remissione di tutto al «cieco accadere» potrebbe comportare la «catastrofe fondazionale»8 dell’agire responsabile? Siamo in dialogo con un richiamo che ci interpella senza essere a nostra disposizione e offrendo una misura che sfugge a ogni legge di transitorietà, o siamo, al contrario, i protagonisti di un dover essere nato accidentalmente, scelto e pattuito per via congetturale, del quale dobbiamo rispondere solo a noi stessi in forme temporalmente rivedibili?

In questo quadro, e rispetto alle domande lasciate in sospeso, la maniera in cui Levinas ha inteso penser de maniere éthique il darsi del tempo porta in sé suggestioni di notevole ricchezza e carica provocatoria. Infatti, come cercheremo di mostrare, lo scavo incessante che egli ha condotto riguardo al «trauma» della responsabilità per l’altro, via d’accesso «al fondo della concretezza del tempo», mette insieme, in forma senz’altro originale e complessa, una istanza di trascendenza ribadita con massimo vigore — per cui nel cuore etico del tempo si darebbe l’affezione irreversibile del finito da parte dell’infinito — e il tendenziale allontanamento da ogni concezione della temporalità che la veda misurata dall’eterno e ad esso ordinata — fino a nominare l’«infinito del tempo» come «migliore dell’eternità».9

2. La configurazione diacronica del risveglio all’altro

È stato detto che il pensiero di Levinas «ha cambiato il corso della riflessione filosofica del nostro tempo» (J. Derrida). Con straordinario vigore il regno del logos è stato sfidato a riassestarsi perdendo tante tradizionali pretese — tutte legate al trionfo dell’identico — e riguadagnando sintonia con il radicale orientamento eteronomo che reca in sé l’appello etico. Sia come erede di una spiritualità che considera la trascendenza di Dio indisponibile ai calcoli dimostrativi e mirabilmente accessibile nell’indigenza del più indifeso volto umano, sia come interprete eretico dello stile fenomenologico, Levinas ha scandagliato senza sosta l’evento «quotidiano e straordinario» della tensione di prossimità che in tante forme e concretizzazioni colora il rapporto interumano. Quando la sensibilità alla differenza (che certo si può attenuare fino a sembrare scomparsa ma mai spegnersi del tutto) si riaccende sotto il vivente appello di un volto che si aspetta qualcosa, «fosse anche un saluto». Levinas ha scavato dentro lo sporgere verso l’esteriorità che «sonnecchia già nel “buongiorno” e nel “dopo di lei”», e ha liberato, contro ogni oblio e appiattimento, l’incontenibile ricchezza di significati che emerge dal luogo vicinissimo e insondabile dove accade il «risveglio all’altro uomo».10 Ne è scaturita una rilettura dell’intera vicenda esistenziale alla luce esigente della responsabilità, e una formidabile suggestione: ripensare la questione dell’essere, la tematica del soggetto, della verità, del linguaggio, del tempo, della giustizia, prendendo sul serio la possibilità che all’etica spetti il rango di filosofia prima, che ogni principale ambito semantico nel suo sorgere stesso sia segnato dalla chiamata a farsi carico dell’altro. Il discorso levinasiano spende la sua carica umanistica e il suo apporto teoretico nel restituire forza irriducibile a qualcosa che ha già sempre sorpreso l’io e non gli concede più acquietamento. Sul piano delle abituali rappresentazioni si tratta di ribaltare l’immagine ragionieristica e imborghesita della responsabilità, vista come metodico lavoro di controllo della propria vita che le assicuri ordine e coerenza. A ben guardare, qui regna il potere amministrativo di un monologo identitario, una cura di sé che si tiene al riparo da incontri destabilizzanti. In tutt’altra prospettiva, per Levinas il nostro esser presi dalla responsabilità non ha nulla da spartire con una oculata gestione di se stessi; comporta una impressionante dinamica di spossessamento. Rispettarla, sul piano della riflessione filosofica, vuol dire riscoprire in tutto il suo vigore l’originario coinvolgimento affettivo che determina il nostro stare al mondo, e ci vede afferrati dall’evento del senso prima e aldilà di ogni esercizio della coscienza di. Nel suo particolare modo di essere fenomenologo, Levinas ha recepito lezioni da Husserl e da Heidegger, ma ha in buona parte sconvolto l’assetto canonico della stessa fenomenologia, perché non ha più assunto come riferimento base una soggettività coscienziale attiva, sempre in qualche modo intraprendente e protagonista. Si è messo, invece, al servizio di ciò che già ferisce lo stesso strutturarsi iniziale della intenzionalità soggettiva. Ha potuto così smentire l’idea secondo cui la dimensione dei principi primi o, analogamente, l’instaurarsi fontale del rigore critico abbiano come perno il potere-diritto vantato dalla coscienza di portare ogni cosa davanti a sé per sottoporla al vaglio. La questione realmente primaria con cui si apre la scena del senso non riguarderebbe le garanzie che permettono sicura consistenza all’essere salvandolo dal non essere, e meno che mai le garanzie di certezza che il soggetto dubitante può trovare in se stesso. Concerne, invece, la messa in crisi della stessa esigenza di garanzie disponibili che anima sia una certa maniera di cercare appoggio nei fondali ontologici sia, in forma più esplicita, la celebrazione del principio soggettività quale ancoraggio indubitabile. L’esigenza mantiene indiscutibilmente fermo, come cardine prospettico, un piedistallo di auto-legittimazione su cui l’ego coscienziale si pretende già insediato e da cui muove per esaminare il mondo. Levinas rovescia questo impianto. La questione realmente fondamentale, per lui, riguarda invero l’io-in-questione. Si può formularla tramite una domanda che il soggetto patisce, che fa vacillare ogni sua pretesa: cosa giustifica il mio esserci, il mio «posto al sole», così da non renderlo «usurpazione»?11 Ecco dove si terrebbe a battesimo la criticità, dove si annuncerebbe l’autorevolezza di un principio primo: nella provocazione che investe il mio sacro diritto di mandare avanti il conatus essendi e scompiglia il mio «indisturbato possesso del mondo». Da qui ricava la più vera ispirazione lo stesso dispiegarsi della razionalità e si schiude il compito di riportare l’essere all’ordine della giustizia.

Questa profondità di risonanze porta con sé l’affermazione che l’«intrigo etico» è la trama ultima dell’intelligibilità (o che l’etica è filosofia prima). Per suffragare una simile tesi, Levinas ha esplorato due annodate meraviglie: l’esteriorità di Altri, proprio restando in catturabile, mi riguarda e mi mette sotto giudizio (tema portante di Totalità e Infinito); il moto esodale «per-altro» si rivela «l’avventura più profonda della soggettività», la sua «ultima intimità» (tesi chiave di Altrimenti che essere)^[12]. In gioco è sempre, nelle sue inesauribili implicazioni, la dinamica che spodesta ciascun io da una posizione di auto-sicurezza e lo trae fuori verso la nudità imperiosa e insieme vulnerabile del volto d’Altri, il cui sguardo «proibisce ogni conquista» trasmettendo un «brivido che il Bene incute all’improvviso», col quale mi strappa ad una impossibile indifferenza.12 La filosofia di Levinas persegue una instancabile «disubriacatura» che denuncia la rovinosa ebbrezza di presunzione con la quale la coscienza mira a chiudere ogni irruzione d’alterità dentro un recinto da lei predisposto e sorvegliato.

Per l’analisi che si tenta di svolgere in queste pagine, occorre mettere in rilievo lo scontro che si determina tra il modo in cui la coscienza tende, per così dire, a lavorare il tempo e il modo in cui il tempo eticamente misurato lavora la coscienza. Tutto dipende dal fatto che l’evento della responsabilità determina una configurazione severamente diacronica della compagine temporale, guastando l’apparato sincronizzante sempre all’opera nella coscienza. Quest’ultima, infatti, tesse immancabilmente la trama del presente, cuce e ricuce presenza in funzione di un ordine costruito e potenziato colmando i vuoti, inglobando distanze e differenze, neutralizzando scarti e sproporzioni. Proiettando sulle dimensioni dell’essere le sue reti percettive e concettuali, tende puntualmente a trattare ogni possibile realtà che si fa incontro come elemento da riportare in seno a un orizzonte di presenzialità onni-accogliente.13 Ma quale è il segreto unitario di tale orizzonte e della sua (apparente) sconfinata ospitalità? Il continuo ossessivo sforzo, da parte della coscienza, di non lasciare che qualcosa sfugga al vortice assorbente del circuito egologico mediante cui il soggetto attua l’auto-presenza, la presenza di sé a sé eretta a primo motore e a luogo finale di ricapitolazione dell’orizzonte del senso.

L’evento della responsabilità disarticola nettamente questo abbraccio sinottico. Il soggetto è chiamato in causa a partire da un’origine rispetto a cui accusa un ritardo irrecuperabile e verso un a-venire che sospende ogni sua capacità di anticipazione. La maniera in cui passato e futuro incidono in questa esperienza sconvolge la gestione della presenza di cui vuole sempre farsi protagonista l’io coscienziale, preoccupato di mantenere saldo il suo mestiere identitario. Dinanzi al volto d’Altri, la convocazione etica mi ha intaccato senza concedermi di assistere all’inaugurazione del gioco o di poterne riconquistare le fila: «Il prossimo mi convoca prima che io lo designi»; sono «traumaticamente comandato» senza poter «interiorizzare attraverso la rappresentazione e il concetto l’autorità che mi comanda».14 Non c’è stato tempo di far fronte, di contrattare, di chiedere ragioni e credenziali. Sono colpito «prima di poter accusare il colpo», un passato senza inizio accertabile precede ogni mia decisione; allo stesso modo, un futuro di novità mi trascina verso dove non mi è permesso preordinatamente di riprendermi. La coscienza come appercezione trascendentale, come sovrana autoreferenzialità, viene irrimediabilmente dis-confermata, perché l’altro, intrufolatosi «come un ladro», ha già incrinato quel supposto equilibrio. Viene insomma a mancare la possibilità di recuperare al presente, con la memoria, il debito che ci lega al passato e, con l’aspettativa anticipante, l’esposizione che ci assegna al futuro. L’«intrigo etico» smentisce l’idea del tempo come flusso coscienziale che mediante ritenzioni e prefigurazioni rende ogni provenienza e destinazione contemporanee al farsi presenza a sé dell’io. Ci parla invece di una diacronia insuperabile, di un «altro mai sincrono nello stesso».15 Non c’è un a partire da sé della coscienza, per quanto implicito e aperto al servizio manifestativo, che farebbe da condizione per l’incontro con l’appello morale, e già avvierebbe, secondo un’inesorabile teleologia, il ritorno a sé di una identità che tutto assimila. Il prima che pesa nell’anteriorità della convocazione etica attesta che sono già nella luce della responsabilità: non una luce governata dalla intenzionalità rappresentativa, ma una luce a cui non posso sottrarmi. Ad essa corrisponde, affettivamente, un pensare che «fa più e meglio che pensare» proprio perché coincide con il lasciarsi coinvolgere e spiazzare, come accade alla cartesiana idea dell’infinito, da un contenuto non contenibile.16

Per Levinas il pathos della responsabilità parla di un’«Autorità infinita» del Bene che vige nel rapporto interumano senza essere risorsa prodotta dall’io o dall’altro uomo.17 E senza essere riconducibile a un ente sommo oggetto di tematizzazione e di dimostrazione mediante le piste ontoteologiche attaccate da Heidegger. L’infinito, piuttosto, si mantiene in rapporto con l’esistenza lasciando una traccia, operando in contrazione e discrezione: la sua «venuta a me è un assentarsi che mi permette di compiere un movimento verso il prossimo».18 Infinito, dunque, che, tenendo le distanze, preserva la sua assolutezza ma insieme dà spazio al libero impegno del soggetto, non si consegna alla positività di una presenza, ma sollecita la «positività» della torsione verso Altri.

Così il tempo, in quanto misurato dalla responsabilità, iscrive il volto di Altri a me prossimo nella traccia enigmatica, sempre dileguatasi come un segno che cancella se stesso, di un «altrimenti o assolutamente altro», «terza persona» dell’intrigo etico che può venire al pensiero e alla parola solo a partire dalla scena, inspiegabile in termini di prevaricante logica del conatus essendi, del gratuito dis-inter-esse tra gli uomini.19 L’ Illeité sarebbe il «non si sa da dove» a cui resta legata la diacronia irreversibile del tempo e la «curvatura dello spazio intersoggettivo», secondo un orientamento che scava asimmetria tra me e Altri (per cui Altri viene sempre prima di me). In risposta alla umile e provocante altezza di Altri viene a rideterminarsi la mia soggettività di unico: sono io perché nessuno può rispondere al mio posto. Sono io non grazie ad un potere di autoaffermazione ma a partire da una differenza che mi obbliga alla non-indifferenza. La parola forte in cui Levinas racchiude il tratto caratterizzante della convocazione etica è: passivité non assumable. Un fondo passivo da cui non ci si riscatta, che scombussola ogni piano di rapporto tra ricevere e dare, che non permette al tempo della reazione di pareggiare i conti con l’evento da cui si resta affetti. Va sottolineata l’incisività con la quale Levinas, per rispetto fenomenologico all’esperienza morale, ha riproposto (sulla scia di Platone, di Cartesio, ma anche di altri pensatori della trascendenza) il disegno formale di un rapporto irriducibilmente sproporzionato che afferra l’esistenza vincolandola a ciò che non si lascia relativizzare ad essa. Questo rapporto ha un genuino tenore etico-metafisico proprio perché apre il soggetto a dimensioni irrappresentabili (l’infinito, l’altro, la trascendenza) che non si lasciano commisurare al rapporto stesso, mentre intaccano e riconfigurano l’identità dell’io.

Nominare la passività inassumibile comporta un cruciale distacco dalla tipica modulazione che il pensiero moderno ha dato alla passività: «recettività seguita da un’assunzione».20 Ovvero, recettività sempre controbilanciata dall’assunzione. Dove assumere vuol dire precisamente riprendere in mano l’iniziativa e condurre il gioco, rendendo il debito recettivo un momento funzionale che cade dentro l’auto-attivarsi del proprio procedere.21 Per affrancarsi del tutto dal paradigma della passività assumibile, Levinas attinge all’idea di condizione creaturale. La finitezza della creatura, che viene ad esistere ex nihilo, appare costitutivamente marcata dall’impossibilità di recuperare o correlare attivamente il proprio principio. Solo evocando tale condizione, che in modo emblematico mette a fuoco quale diacronia e «anarchia» contrassegni la passività, ci si può accostare al tono radicale dell’appello etico: «Sono impegnato nella responsabilità per altri secondo lo schema singolare disegnato da una creatura che risponde al fiat della Genesi, che ascolta la parola prima di essere stata mondo e al mondo» .22

3. Responsabilità e condizione creaturale

Bisogna subito ricordare che Levinas non solo riconduce, in modo altamente suggestivo, l’intrigo etico al modello della dipendenza creaturale, ma si serve altresì di una chiave prevalentemente etica per interpretare, con pari forza suggestiva, il tema stesso della creazione.23 Egli infatti, mantenendo la sua diffidenza rispetto alle categorie ontologiche, soprattutto quando è in ballo il tentativo di portare al pensiero la trascendenza divina, vuole disincagliare l’idea di creazione, ricca di una significazione più antica di ogni contesto speculativo, dalle difficoltà e ambiguità di un esame teorico che analizzi il rapporto tra l’assoluto e il finito sul piano dell’essere.24 Cerca in essa, piuttosto, implicazioni agatologiche che eccedono quel piano e guadagnano una decisiva soglia etica. Proprio la creazione, anzi, rivelerebbe (in analogia con il primato platonico del bene sull’essere) che l’essere non spiega se stesso, patisce diacronia: il suo darsi sensato resta sospeso ad altro. Il bene invece non è tale perché garantito dall’essere o perché garantisce l’essere; se mai detta condizioni, qualifica e mette in questione l’essere a partire da una «gloria» di gratuità e da un diritto di provocazione che sembrano godere di una sovrana libertà di movimento. La scena del creare, quando viene illuminata dal primato del bene, rivela che «essere divinamente» coincide con il dare spazio ad altro senza chiudersi nel possesso soddisfatto e che esistere ex nihilo significa, per la creatura, godere di una particolarissima dipendenza che dona indipendenza. La creazione infatti inaugura l’avventura della «separazione», intesa non come rottura di un rapporto, caduta, degenerazione, esilio ma come festa del molteplice a dispetto di ogni modello di unità totalizzante.25 Si libera distanza, si consente la pluralità degli unici, l’emergere originale di Volti, irriducibili a prodotto del cosmo o a strumento della storia. Questo dono che suscita autonomia e sottrae a schiavitù mondane, è, in modo eminente, dono del potere di donarsi: il risultato più grande nella creazione, il suo «miracolo», è che da essa viene fuori un esistente «capace di ricevere una rivelazione, di apprendere che è creato e di mettersi in questione», ovvero «un essere morale».26

Nella creazione, dunque, si sprigiona la fecondità di un gioco differenziale che lascia emergere una novità indeducibile e insieme le offre una vocazione; gioco di una relazione per nulla soffocante che libera l’autonomia dell’altro mentre la invita e inquieta a dare il meglio di sé, ad essere essa stessa creativa, nella direzione del per-altro. La creatura riceve in dote una straordinaria attitudine a muoversi da sé che costituisce il frutto più mirabile di quel dono che la fa essere non grazie a se stessa. Dentro questo frutto resta iscritta una direzione vocazionale proposta alla libertà creata: un destino morale che invita il soggetto a non trasformare la separazione di cui beneficia in rivendicata autosufficienza, in geloso isolamento e poi in trampolino di lancio per imporre il suo arbitrio.

In tal modo il pensiero della creazione custodirebbe insieme il senso della «novità assoluta dell’io» (unicità per via di creazione) e il senso parimenti originario del «suo essere rimesso in questione» (unicità per via di elezione) .27 Sarebbe così all’altezza della problematica che ha sempre attirato l’attenzione di Levinas: quali condizioni germinali e quali avventurose vicende accompagnano l’emergere di una vita soggettiva che si stacca dallo sfondo neutro e anonimo dell’il y a? Di questo tratta l’articolato percorso che prende avvio in Dall’esistenza all’esistente e giunge fino Altrimenti che essere attraverso Totalità e Infinito. Lungo il quale, detto in estrema sintesi, vengono focalizzate le peripezie attraverso cui la medesimezza dell’io, che sorge resistendo alla totalità e concentrandosi su se stessa, si svela via via già intaccata e in ultimo del tutto riconfigurata dalla relazione all’altro.28 Il soggetto nasce infatti nel segno dell’«interesse» che gli permette di sottrarsi all’impersonale e raccogliersi in un sé, incarnando nel «godimento» la concretezza di un primordiale fisiologico benedetto egoismo. Ma ben presto contraddizioni, ambiguità, difficili ricerche di equilibrio tra indipendenza e dipendenza caratterizzano il faticoso maturare di un’«interiorità» separata la cui «porta sull’esterno» resta «ad un tempo aperta e chiusa».29 Impegnata a prendere «dimora» nel mondo, essa viene colpita, già nel «godimento» come poi nel «lavoro», da continui inviti a uscir fuori, secondo dinamiche che trasgrediscono il regime del «bisogno» onniassimilante e chiamano, in forza di un’altra intenzionalità, quella del «desiderio», alla relazione con Altri che libera dal soffocante egocentrismo.30 Si arriverà poi, de-strutturando qualunque legge ontologica che salda ostinatamente l’io a se stesso (svelando cioè un Altrimenti che essere), a scorgere nel dis-inter-esse, nel dinamismo alteritario l’anima più recondita dell’identità soggettiva.

Dunque, solo la cifra della creazione sembra dare conto della tensione di fondo che innerva l’esistenza soggettivia: quella tra la donata autonomia che consente il costituirsi separato dell’esistente e l’appello etico che scuote l’arbitrio e l’arroganza da cui l’io resta tentato. Levinas pronuncia più volte un inno di lode riguardo la condizione creaturale come stupefacente trovarsi chez soi di un essere che non è causa sui: c’ est une grande gloire pour Dieu que d’avoir créé un etre capable de le chercher ou de l’entendre de loin, à partir de la séparation, a partir de l’athéisme31. In Totalità e infinito si parla addirittura di un «ateismo naturale» della creatura, che precede ogni affermazione o negazione di Dio e fa tutt’uno con la capacità di auto-consistere stando immersi nella soddisfazione della sensibilità.32 Come se il prezzo necessario per la separatezza fosse dapprincipio il vivere «orfani di nascita», sordi a richiami di infinito e di alterità interumana. Ma come si potrebbe avvertire, partendo da lontano, il richiamo dell’altro se la separazione fosse prigioniera di un soddisfatto autoappagamento? Quel dono creativo grazie a cui la creatura si costituisce naturalmente atea, pone la basi per la contestazione di ogni irrigidito ateismo. Ogni chiudersi in sé dell’esistente viene ferito dalla forza di provocazione che ha la desiderabilità del bene. La stessa indipendenza si rivela allora «solitudine» sin dall’origine votata al rapporto con l’alterità: condizione di autonomia ordinata alla dedizione, come si trattasse di possedere una ricchezza per potersene felicemente spogliare.33

Nella tensione tra una separatezza che si avvita su se stessa e una separatezza offerta all’esteriorità, viene a stagliarsi la «straordinaria ambiguità dell’Io: al tempo stesso il punto in cui l’essere e lo sforzo per essere si contraggono in ipseità contorta su se stessa, primordiale e autarchica e il punto in cui è possibile la strana abolizione o sospensione di questa urgenza d’esistere e un’abnegazione nella preoccupazione degli affari degli altri».34

Come è noto, nel passaggio da Totalità e Infinito a Altrimenti che essere l’ontologia della separazione, che racconta il movimento di correlazione e di distanza tra il Medesimo e l’Altro, cede il passo alla delucidazione oltre-ontologica della identità soggettiva come incondizionata apertura ad Altri. Dalla passività creaturale legata al dono che consente autonomia si passa alla passività della responsabilità legata ad una chiamata che travolge la «gloriosa spontaneità del vivente». In questa direzione di marcia Levinas si è progressivamente lanciato puntando a disfare l’epopea dell’essere e lasciare corso ad una sorta di epopea della passività inassumibile.35 Al tempo ricucito nel nome della coscienza quale «presenza a sé attraverso la differenza» si contrappone il tempo lacerato nel nome dell’apertura all’infinito. Alla prepotente ostinazione del conatus essendi si oppone un esistere votato ad altri che conduce a spogliarsi di ogni diritto. Si assiste all’inasprimento di quella che potremmo definire la gettatezza levinasiana, dai tratti ben diversi rispetto alla Geworfenheit del Dasein heideggeriano. Non riguarda infatti il non sentirsi a casa propria, angosciati dal nullo fondamento, avendo da assumere questo nullo fondamento.36 Si tratta piuttosto del fatto originario che «in nessun momento posso essere tranquillamente per me».37 Qui lo spiazzamento non può diventare oggetto di assunzione e occasione di riscatto in vista della cura del proprio esserci: la diacronia della responsabilità infatti riguarda una ferita che non si rimargina, secondo un compito di uscita da sé che sfugge ad ogni logica di adempimento e risarcimento, e anzi aumenta il suo prezzo quanto più si dispiega la prossimità. Questa dinamica di un servizio che vede accrescere senza termine il suo peso è orientata dalla logica del bene. La quale, per Levinas, opera nel modo seguente: mentre rinnova nel soggetto il desiderio di infinito non gli garantisce mai approdo, piuttosto ancora e sempre lo piega e invia verso quel prossimo che pure resta per tanti versi «ingombrante» e «indesiderabile».38 Proprio nell’intento di lasciar campo ad un «altrimenti che essere» del tutto svincolato dalla logica del conatus essendi, Levinas delinea il destino etico del soggetto in chiave di parossismo della responsabilità. Affinché l’io come volere, come mira intenzionale, non rinasca dalla sue ceneri, deve aver luogo un indefinito déchirement du Même par l’Autre. L’intera verità del soggetto viene definita dalla sua condizione di «ostaggio» dell’altro; partendo dalla stessa natura della sensibilità che vede il corpo costituirsi quale vulnerabilità e offerta all’oltraggio, proseguendo verso la «sostituzione» e l’«espiazione» mediante cui si è chiamati a caricarsi addosso la responsabilità per le responsabilità di altri, fino a giungere ad accusarsi responsabili di tutto e più di tutti, «sotto il peso dell’universo».39 La preoccupazione assillante di scongiurare ogni rivincita dell’attività e delle aspettative della coscienza, porta Levinas a far precipitare l’io lungo la china di una destituzione a fondo perduto. Il soggetto subisce una abnegazione che lo reidentifica in modo sempre più esasperatamente diacronico, come se lo stare in balia di Altri e l’offrirsi per Altri non gli lasciasse più posto e tempo per ritrovarsi. E proprio in questo vortice di una passività che si infinitizza «all’indietro» viene a espressione e si lascia testimoniare la gloria dell’Infinito, lo splendore del bene .40

4. L’anteriorità dell’accoglienza e della promessa

Dopo aver ripreso le coordinate che danno rilievo, nel discorso levinasiano, al tempo misurato dalla responsabilità, vorrei tentare qualche ipotesi di approfondimento critico. Sia la corrispondenza fatta valere da Levinas tra passività creaturale e passività responsabile, sia gli aspetti che quest’ultima viene a prendere in chiave di spoliazione incondizionata dell’io, spingono a formulare domande che si ispirano, in certo modo, a una nota frase di Agostino: Deus, qui creavit te sine te, non serbabit te sine te. Dove vanno messi in evidenza due possibili significati del non senza te: non sopprimendo la tua responsabile libertà di soggetto e non permettendo che il tuo perderti-offrirti per la causa del bene escluda il tuo ritrovarti. Ecco allora gli interrogativi da porre: in che modo, secondo quale tempo la convocazione etica di cui parla Levinas dialoga con la libertà umana? E poi, che ne è del soggetto votato all’«assoluto di un’esigenza» senza promesse né soccorso?41 C’è un tempo del suo ritrovarsi?

Quanto al primo interrogativo, occorre tenere conto che per Levinas il rapporto tra appello responsabilizzante e libertà si instaura secondo due condizioni che troviamo emblematicamente condensate in questa frase: «se nessuno è volontariamente buono, nessuno è schiavo del bene».42 Da un lato, infatti, «il bene mi ha scelto prima che io lo scelga».43 La responsabilità investe e avvolge la mia libertà, la mette in tensione: non posso far dipendere la responsabilità dalla libertà. Quest’ultima «non è libera di ignorare il mondo sensato in cui l’ha introdotta il volto d’altri»; «io non posso, senza mancanza (…) nascondermi al volto del prossimo».44 Sembra qui rilevabile una sorta di elenchos legato all’intrigo etico: se nego praticamente la responsabilità (indifferenza, prepotenza, distrazione) ecco che questa negazione conferma il mio essere responsabile, perché si dà già come cattiva coscienza.

D’altro lato, tuttavia, questa dinamica eteronoma, che vede nascere la libertà già preceduta dall’iniziativa del bene, non produce alienazione, non rende schiavi. Tutto dipende dalla forza autorevole e discreta con cui il bene propone il suo valere per se stesso. Pur non aspettando di essere scelto dalla libertà, e anzi mettendo già sotto giudizio ogni piega narcisistica che la libertà potrebbe prendere, con tutto ciò — qui si mostra la sua eccellenza — il bene non coarta, non sopprime lo slancio della libertà.45

Ma le affermazioni levinasiane appena riportate non dicono molto su come avvenga il dialogo tra iniziativa del bene e libertà del soggetto. E sembra anzi che, nel cuore stesso della chiamata alla responsabilità, si delinei una seria difficoltà che attraversa proprio i suoi tratti temporali. Infatti, se la gratuità a cui il bene convoca non può essere estorta, parrebbe necessario che la diacronia della responsabilità non sopprima ma anzi offra un possibile tempo di sincronia tra il soggetto e la causa del bene. Ma rinasce un dubbio: è possibile consentire attivamente alla causa del bene, senza che questo lampo di presenza a se stessi, questo riprendersi nella luce abbagliante del passato irrecuperabile e del futuro indisponibile, non implichi un rigurgito di interesse e di calcolo? L’«eccomi» levinasiano (di chiara impronta biblica) per dispiegarsi come passività inassumibile sembra esigere che siano bruciati senza residui, nell’immediatezza della convocazione subita, ogni partecipazione esplicita del mettersi a disposizione e ogni «salario della buona coscienza». Come se in tale «eccomi» io arrivassi sempre dopo che il bene mi ha lavorato, fino al punto che il mio dire non ha più niente di mio: è pura esposizione che il bene fa di me all’altro.46 Ma intanto, qui sta il punto su cui sembra infrangersi ogni concezione immediatistica della passività etica, il bene che mi sceglie prima che io lo possa scegliere deve darmi il tempo di essere grato. Solo la gratitudine infatti abilita alla gratuità, scongiurando che la causa del bene si trasformi o in potere vantato dal soggetto o in potere da questi meramente subito. Non si può, in altri termini, entrare nella gratuità né facendosene presuntuosamente padroni, né come vittime di un’espropriazione.

La gratitudine è quel modo affatto speciale di ricevere il dono che entra in sintonia con la logica del dono stesso: se lo lascia donare senza prenderne possesso, non permette di usarlo come una base da cui sporgere rivendicando pretese. Ora, affinché il soggetto si lasci accogliere nell’ordine della gratuità, facendosi contagiare da esso, deve essergli dato il tempo, e qui ricorriamo provocatoriamente a parole da cui Levinas prende sempre nettamente le distanze, di compiacersi del bene e di partecipare alla gloria del bene. Dove è importante notare che il compiacimento della genuina gratitudine non comporta affatto risucchi egocentrici, ma ha una caratterizzazione spiccatamente eterocentrica: esulta per una generosità da cui il soggetto si avverte sorretto e misurato e interpellato senza poterla o volerla proporzionare a sé. Nella linea del poter essere grati si darebbe una sincronia tra ordine del bene e libero del soggetto che viene mantenuta e resa possibile all’interno della diacronia, senza smentire o circoscrivere questa.

L’ipotesi critica deve fare un passo ulteriore. Se la gratitudine è condizione intrinseca per accedere alla logica del bene e se l’esser grati richiede una presenza al bene (sincronia) concessa all’io all’interno della diacronia (provenienza e futuro del bene non riducibili alla presenza), tutto questo invita a re-interpretare l’evento della responsabilità in maniera da esplicitare adeguatamente, prendendo avvio da Levinas ma insieme discutendo Levinas, il rapporto tra bene come accoglienza e bene come provocazione. Il passo ulteriore sarebbe questo: scorgere nella diacronia dell’accoglienza ciò che fonda la diacronia della provocazione. Affermare che soltanto il prima indisponibile della grazia e della promessa può dare senso al tempo che mi mette in questione. Ciò non implicherebbe certo elevare a criterio del bene un io che chiede garanzie o esige consolazioni finali. Aprirebbe anzi il varco all’unico modo di evitare che l’io nel suo rapporto col bene torni a chiudersi in un sistema di auto-riferimento, facendosi orgogliosamente forte della sua abnegazione e, rovescio della medaglia, restando poi schiacciato dal peso di una solitaria responsabilità incondizionata.

Bisogna in altri termini considerare se non sia proprio la passività del lasciarsi accogliere e soccorrere, passività della gratitudine, a consentire il reale accesso al disinteresse, e questo perché solo così il soggetto viene liberato sia da ansie di sicurezza che lo porterebbero a voler utilizzare egoisticamente il bene, sia da una eroica volontà di martirio che sembra paradossalmente riproporre l’inflazione dell’io (impegnato a sopportare in terribile solitudine il carico morale dell’universo). Non si tratta di rendere il bene funzionale al soggetto ma di impedire che l’io oscilli tra la posizione di semplice strumento di una chiamata che lo utilizza e dissolve, e il ruolo ambiguo di protagonista dello scenario etico mediante la sua abnegazione. Se il tempo della responsabilità iscrive la sua diacronia nella più originaria diacronia che rende il tempo grazia e promessa, si può forse rendere giustizia della relativa sincronia tra iniziativa del bene e libertà del soggetto, di cui si alimenta il grato corrispondere all’appello etico. Proprio il tempo come dono, liberando al suo interno una sincronia per il soggetto, mi ha già dato e mi darà il tempo di riconoscere che l’accoglienza (da parte del bene) è il segreto di ogni inquietamento che mi responsabilizza. Se si cancella questo primato della diacronia dell’accoglienza sulla diacronia del comando etico, sembra ricomparire il pericolo che l’evento della responsabilità lasci il soggetto conteso tra due immediatezze: la ingiusta presunzione di autosufficienza e l’ingiusta capitolazione all’uso-sacrificio di se stesso.

L’ipotesi proposta implica che per il soggetto esperienza del bene significhi stupore dell’esser accolto, gratitudine e abbandono fiducioso, prima che trauma dell’esser messo in questione (thauma prima che trauma) .47 Ad un’iniziativa del bene che fosse accusa allo stesso titolo che accoglienza, Giobbe avrebbe ragione di gridare: mi hai creato per rinfacciarmi che esisto? che diritto hai di usarmi per mettermi alla prova?

Rispetto al discorso levinasiano, occorre chiedersi se lo strano diritto che il bene si prende di mettere l’io in questione non sia radicato in un dono che ha già accolto il soggetto e non lo abbandonerà mai. E lo invita, anzi, a riconoscersi inquietato solo perché anzitutto amato. Verso Altri a cui dire eccomi non sono forse rimandato sempre a partire dall’emozione originaria che Altri mi ha accolto? Il brivido di responsabilità che il bene mi incute non ha sempre alle spalle il brivido di gratitudine con cui mi risveglio al volto di chi si è preso cura di me? È possibile che l’autorità infinita del bene mi visiti e mi riveli il suo senso, se il mistero dell’esser accolti non getta luce sull’enigma dell’essere inquietati? Se la traccia dell’Illeité non significa ospitalità prima, attraverso e oltre ogni prova?

La fenomenologia levinasiana della responsabilità potrebbe qui armonizzarsi con altri sentieri di scavo fenomenologico dei sentimenti originari, laddove la gettatezza si lascia esperire come stupore d’esserci, come vissuto implicitamente pervaso di riconoscenza e fiducia.48

Alla radice dell’affettività emergerebbe il sentirsi affidati a un dono che è anteriore ad ogni possibile prestazione e va al di là di ogni possibile merito. Diacronia del tempo come mistero di accoglienza e di promessa che precede la chiamata a rispondere, dando senso e tono a quest’ultima. L’«assoluto dell’esigenza» varrebbe in questa linea solo a partire dal dono e in funzione di una crescita dentro il dono: è un rilancio di accoglienza che chiama alla dedizione. Tutto questo, e niente meno di questo, sarebbe incluso nell’evento quotidiano e straordinario della responsabilità.

Ma accetterebbe Levinas l’idea che il trovarsi e sentirsi accolti dal bene è in certo modo condizione pre-originale e direzione finale di ogni trovarsi chiamati in causa? Probabilmente egli osserverebbe che proprio l’inquietamento che mi assegna ad Altri è dono e visitazione; che ogni compiacimento è fuori gioco nell’etica; che la gratitudine si esprime e si testimonia come dedizione; che il bene declina in responsabilità il desiderio che suscita, e converte ogni nostalgia di accoglienza in sollecitazione ad accogliere. L’Illeité «non mi colma di bene, ma mi obbliga alla bontà, migliore del bene da ricevere».49 Sono amato dal bene non grazie ad un dono che colma il mio desiderio, ma nell’ingiunzione che patisco di una consumazione a fondo perduto per il bene. Questo è «meglio»: ma un meglio che non dà il tempo di compiacersi delle ragioni del bene e di essere ammessi al trionfo del bene?

Per molti versi sembra che il soggetto levinasiano non faccia mai esperienza di essere originariamente donato, e sempre di nuovo restituito, a se stesso da un amore che lo circonda.50 Sembra non avere mai il tempo di ritrovarsi affidato ad un mistero di accoglienza: o è naturalmente ateo, vivendo il dono di autonomia senza riconoscerne l’origine, quasi indifferente alla traccia dell’infinito e portato anzi a chiudersi nell’egoismo, o è calamitato verso un desiderabile che scava distanza tra sé e il desiderante, e consegna l’io ad Altri fino all’assoggettamento, alla sostituzione, all’espiazione. O vive il tempo come separatezza tentata dall’autosufficienza, o vive il tempo come perdita di sé senza ritorno. O vive il “prima di tutto” ontologico fatto di oblio e di tradimento dell’appello etico, o vive il “prima di tutto” etico che comporta il venire traumaticamente accusati di abusivismo ontologico. Non è un caso che Levinas citi l’adikia di cui parla il celebre detto di Anassimandro, per interpretare il conatus essendi del soggetto come ingiusto soggiorno nella presenza che merita di essere messo in crisi.51

C’è sempre, invero, da non tralasciare un certo frattempo levinasiano in cui il consistere autonomo del soggetto, non ancora esplicitamente riducibile a egoismo, si rivela predisposizione alla responsabilità e riguarda una buona solitudine che può essere convertita, «rovesciata come un guanto», in abnegazione senza per questo dissolversi. Resta difficile però capire se il soggetto di Levinas, teso tra due immediatezze, quella di un’identità immediatamente atea e quella di un’identità immediatamente etica, conosca davvero quell’appropriante mediazione che è il ritrovarsi lasciandosi accogliere dalla gratuità e abbandonandosi fiduciosamente ad essa.

La causa del bene può animare l’io solo destituendolo; se non ché l’io sembra ridursi ad offrire, suo malgrado, una continuità di cui non è mai stato padrone (la sua «ricorrenza») perché sia plasmata e resa unicità dal comando che la trascina fino alla morte per l’altro. Il «meglio» di cui parla Levinas riguarderebbe allora, come la dike di Anassimandro, l’ordine inesorabile che impone di patire l’annullamento per lasciar posto ad altro? L’esser toccati dalla responsabilità equivarrebbe a pagare il fio della separatezza, lasciandosi immolare sull’altare di un’armonia che va ristabilita? L’ordine del bene prescrive che vivere di distanza, di apertura all’altro, di gratuità richieda il morire? Si delinea qui il senso sublime della vocazione morale o si rischia la perversione sacrificale dell’etica?

5. C’è, nel segreto etico del tempo, un senso più forte della morte?

Si è abbozzata l’ipotesi che la levinasiana diacronia della responsabilità non lasci giusto spazio ad un tempo di raccordo tra iniziativa del bene e avventura del soggetto che possa consentire a quest’ultimo di entrare per via di riconoscenza nella dimensione della gratuità. E ciò dipenderebbe in modo rilevante dal fatto che Levinas non riporta il tempo della prova al tempo come dono e come promessa. Ne viene fuori che la provocazione alla responsabilità non permette all’io di sentirsi accolto e salvato, ovvero di affidarsi alla causa del bene senza rimanere intrappolato nella alternativa tra un attaccamento egocentrico all’essere e una doverosità sacrificale. Naturalmente questa ipotesi interpretativa non intende per nulla agguantare la complessità del discorso levinasiano o appiattirne la ricchezza, se mai vorrebbe tenersi fedele a intuizioni portanti che lo caratterizzano, mettendo in discussione tesi che sembrano frenarlo o metterlo contro se stesso. A tal fine è ora il caso di prestare attenzione alle densissime pagine che egli ha dedicato al nesso tra evento della responsabilità e mistero della morte. Per capire meglio come per Levinas qui si riveli nella sua massima incisività il nodo etico che stringe la temporalità esistenziale.

Nei corsi levinasiani tenuti nell’ultimo anno (75/76) di insegnamento alla Sorbona, la morte viene pensata come «estremo della pazienza del tempo».52 Procura al soggetto un urto con l’alterità più passivo di qualunque trauma. Niente come il farsi avanti morte insegna che nel tempo si consuma qualcosa di irriducibile ad esperienza intenzionale, ovvero che il durare e l’invecchiare non sono dominati ma patiti dalla coscienza. In chiave analoga, della morte si può dire che è remissione per eccellenza alla sorpresa del senso. Mediante un pur point d’interrogation senza risposta che determina lo scacco di ogni pretesa di possesso. E invita a tener conto che l’autentico domandare è «più pensante» di ogni soddisfatta risposta; che ricerca, interrogativo, desiderio non sono mere espressioni di carenza e imperfezione, ma forme di coltivazione della nostra più preziosa attitudine: mantenerci rivolti all’inafferrabile, all’insostenibile.53

Sia il rapporto con la mia morte e sia il rapporto con la morte d’altri mettono in moto una totale déférence à l’inconnu. La potenza con cui l’infinito affetta e intacca il tempo lascia qui senza parole e senza argomenti. Proprio in nome di questa lezione, che invita a lasciarsi misurare dall’ignoto, Levinas conduce una dura polemica nei confronti della maniera heideggeriana di declinare l’essere-alla-morte. Perché ritiene che considerare la morte quale possibilità «più propria» (certa, indeterminata, sovrastante ogni possibilità) che il Dasein è chiamato ad assumere nella direzione di un esistere «autentico» e «totale»,54 implichi continuare a far leva sul potere progettuale soggettivo. In Sein und Zeit si parla di assumere-anticipare la morte come «possibilità dell’impossibilità»,55 ma in tal modo l’urto con l’impossibilità cadrebbe ancora dentro il gioco della possibilità. Il tenersi nel nulla che il Dasein vive, come spaesante apertura ontologica, rimarrebbe definito in funzione di un radicale attaccamento al proprio esserci. Resta tutto legato all’ansia con cui il soggetto in ultima analisi si preoccupa del suo essere minacciato dal nulla. Come se la lezione dell’assenza servisse solo a rilanciare la volontà di una sicura gestione della presenza.

Lasciando da parte la legittimità di una simile interpretazione del Sein-zum-Tode heideggeriano, interessa mettere in risalto ciò che anzitutto Levinas intende tener fermo: la morte non è possibilità (di gestione) della impossibilità; essa è accusa di impossibilità per ogni potere e ogni assumere, è dichiarazione di nullità per ogni pretesa Sinngebung egologica. Si rivela decisivo, rispetto alla questione della morte, sganciarsi dal criterio di una saldatura tra essere e senso dominata dal conatus essendi. Criterio che resterebbe dominante quando si tende a riassorbire l’esperienza dello scacco dentro il campo del potere progettuale, ma anche quando il mistero della morte viene fronteggiato facendo ricorso all’idea della sopravvivenza («dogmatismo positivo dell’immortalità dell’anima») o sancendo un nichilistico trionfo dell’insensato («dogmatismo inverso») .56 La lezione di alterità che la morte impartisce e in cui si trova custodita un’offerta di senso messa alla prova del “senza senso”, va liberata dalle false attese o da frustranti delusioni che hanno sempre come riferimento primario il tornaconto ontologico. Va legata invece, a filo doppio, a ciò che la diacronia del tempo porta impresso come suo sigillo: la responsabilità per Altri.

Già in Il Tempo e l’Altro come poi in Totalità e Infinito, rapporto con la morte e relazione etica rivelano qualcosa di profondamente comune: in entrambi i casi entra in gioco non una generica limitazione del potere, ma l’inversione, la radicale sconfessione della dinamica del potere.57 Si è afferrati da ciò che non si può assumere (come quando si è in preda ad una sofferenza insopportabile). È notevole che si discuta, a livello interpretativo, se «l’iniziazione del soggetto all’alterità» in Levinas riguardi prioritariamente l’apertura all’ignoto della morte o l’apertura al Volto di Altri .58 In ogni caso quel che più conta, per il filosofo ebreo, è considerare la relazione interpersonale come istituzione di legami «attraverso i quali la morte non perde il suo dardo ma assume senso».59 La morte infatti ci consegnerebbe all’assurdo se con essa tempo e relazioni venissero semplicemente distrutti.

Si tratta, invece, non tanto di «comprendere il tempo a partire dalla morte», bensì di «comprendere la morte a partire dal tempo».60 D’altronde essere mortali, come viene ribadito in Totalità e Infinito, comporta che, andando verso la morte, si abbia ancora tempo.61 Il tempo per vivere la stessa condizione mortale come arcana intensificazione delle relazioni interpersonali. Nell’uno-per-l’altro, infatti, si rende attuale una «bontà cui la morte non può togliere il suo senso».62 Anzi, è come se la morte, riportata la contesto intersoggettivo, permettesse che fiorisca al massimo grado il prodigio della solidarietà e della gratuità, l’umano quale altrimenti che attaccamento all’essere.

In diversi modi la mortalità gioca al servizio della responsabilità e viene con ciò riscattata al senso. Ricostruendo un filo rosso lungo i passi levinasiani, si possono distinguere e collegare tre dimensioni attraverso le quali, in forma progressivamente più significativa e coordinata, si va manifestando la densità etica del morire: il rapporto con la propria mortalità, il rapporto con la mortalità dell’altro, la chiamata a morire per l’altro.

Ad un primo stadio, avvertire la propria mortalità sollecita a liberarsi da un ossessivo ripiegamento sul proprio essere che l’incombenza certa della fine rende tragicomico (Levinas, a tal proposito ama citare il racconto di Tolstoj La morte di Ivàn Ilìc) .63 La morte qui si impone come lezione di impotenza che travolge gli sciocchi calcoli della volontà egocentrica. Ma questa lezione non avrebbe alcun risvolto etico positivo se in essa già non tralucesse l’appello che la mortalità d’Altri mi rivolge. La mortalità dell’altro è come il punto focale che attira verso sé la responsabilità. «Non uccidere» è la parola muta comandata dal Volto. Essa, ascoltata fino in fondo, vuol dire, nelle tante modalità in cui riecheggia, «non esiliare», non mettere da parte, non fare finta che l’altro non esiste; e poi, in forma di ultima ingiunzione-preghiera, «non lasciare l’altro morire da solo».64 L’urgenza e l’irrecusabilità della convocazione etica sembra, in tutti i suoi livelli di manifestazione, pregna di questo riferimento alla mortalità dell’altro che invoca cura e dedizione. È impregnata di «timore per tutto ciò che il mio esistere, nonostante l’innocenza delle sue intenzioni, rischia di commettere di violenza e di usurpazione».65

A tale proposito, la polemica nei confronti dell’essere-per-la-morte di Heidegger si arricchisce di un ulteriore motivo. Levinas rimprovera al filosofo tedesco di aver dato spazio nelle sue analisi quasi esclusivamente al rapporto inalienabile e singolarizzante che ciascuno ha con il proprio morire. La morte d’altri viene ridotta prevalentemente a «esperienza di seconda mano», che diviene occasione per l’esistere inautentico di constatare banalmente che tutti prima o poi «si muore». Nel discorso levinasiano, invece, proprio la dimensione coesistenziale del morire balza in primo piano e rivela una profondità abissale. Le differenti solitudini dei mortali sono così legate che il destino di finitezza dell’altro già sempre mi convoca e interpella. L’«esperienza della morte non mia è esperienza della morte di qualcuno» i cui «gesti» erano «segni rivolti a me», qualcuno che mi era affidato: la morte d’altri «mi intacca nella mia stessa identità di io responsabile».66 Levinas arriva a dire che ogni morte non è solo scandalo inconsolabile, ma in qualche modo è anche un omicidio rispetto a cui chi resta sconta la dolorosa responsabilità del sopravvissuto.

L’ignoto della morte parla dunque della mia fragilità, ridimensionando la boria del conatus essendi, e parla della fragilità di Altri di cui sono chiamato a rispondere fino e oltre la sua dipartita. Ma ancora, nella linea di questa imprescindibile solidarietà, fa emergere il terzo e più azzardato significato della mortalità: la possibilità del sacrificio. La chiamata alla prossimità è, nella sua verità più esigente, chiamata a morire per l’altro. Perché all’intensità dell’appello che proviene dalla mortalità dell’altro può corrispondere solo l’intensità di una dedizione che impegna senza riserve la mia mortalità. Solo questa strada renderebbe possibile «vincere la morte», contestarne il «non senso», «andare al di là della morte». C’è un tesoro di senso che la responsabilità intercetta servendosi della condizione mortale come risorsa che libera dal culto del radicamento ontologico e consente una totale disponibilità all’altro. La morte si chiude e ci chiude nel non senso se il senso è tutto e solo misurato dall’attaccamento al continuum vitale. Ma se il senso è legato all’apertura oblativa, al per-altro, la mortalità diventa la grande alleata della gratuità (che è la logica del bene), le permette infatti di prodursi al massimo grado come offerta della vita.

6. Il bene ostaggio del sacrificio

Il legame determinante tra tensione morale e morte, che sta a cuore a Levinas, viene in modo esemplare scolpito nel seguente passo: la relazione etica contiene «la significanza stessa di ogni significato, più forte della morte cioè degna del supremo sacrificio che significa così la non morte della morte».67 In questa densa e tormentata frase si trovano racchiusi aspetti del discorso levinasiano degni di un accurato scandaglio critico. In quanto sembrano qui acuirsi le difficoltà di fondo prima menzionate in merito al rapporto il Bene come dono che presiede al rapporto interumano e il Bene come provocazione che esige sacrificio. Si nota infatti come, per Levinas, la relazione etica nel suo mostrarsi più forte della morte non pone in serio dubbio il potere negativo che la morte ha rispetto all’essere del soggetto, anzi sembra confermare una certa insuperabilità di questo potere mentre lo mette al servizio di una vigenza di senso che non resterebbe annientata dalla morte tanto quanto non sarebbe ancorata al conatus essendi. Così, «vincere la morte non è un problema di vita eterna», vuol dire piuttosto «avere con l’alterità dell’evento una relazione che deve essere ancora personale» e questa personalizzazione si attua in termini di sacrificio: «andare al di là della propria morte significa sacrificarsi».68 La «non morte della morte» è insomma una vittoria del bene ma non dell’essere, anzi una vittoria del bene che avrebbe come complice la capacità negativa della morte di tenere l’essere sotto scacco.

Se le cose stanno in tal modo, sorge il dubbio che, in nome dello splendore-etico del sacrificio, si crei un legame compromettente e dagli effetti incontrollabili tra istanza del bene e potere della morte. Si consideri ad esempio quanto dice Levinas a chiusura della prima parte delle lezioni su Dio, la morte e il tempo. Contro il pericolo che l’esser-per-l’altro torni a immiserirsi «nelle convenzioni dei rapporti codificati», ecco che il residuo ineliminabile di «assurdità» e di «vanità» connesso alla «mia condanna a morte» fa da condizione che rende possibile «la gratuità della mia responsabilità per altri».69 Qui è dichiarato esplicitamente che la gratuità della responsabilità non solo deve liberarsi dall’ansia di sicurezze ontologiche, da ogni interessata aspettativa riguardo al premio di una vita immortale, ma addirittura ha bisogno che sull’esistenza pesi un’ipoteca di insensatezza. Per controbilanciare il ruolo che tornano ad avere, negli atteggiamenti intersoggettivi, l’abitudine ed il calcolo, occorre che l’impegno etico rinnovi di continuo il suo slancio disinteressato prendendo spunto dall’assurdità della condanna a morte che pende sugli umani. Non a caso, nel delineare un senso dell’etica “più forte della morte”, Levinas aggiunge subito che tale senso va riconosciuto come “degno del supremo sacrificio”. Questo forse significa che l’istanza del bene, l’infinito etico, la gratuità della dedizione possono risplendere nel loro valore solo se in qualche modo consacrano o addirittura richiedono una forma di finitismo ontologico assiologicamente provvidenziale?

Per molti versi la salvaguardia levinasiana della tensione diacronica della responsabilità e del carattere disinteressato dell’impegno etico, potrebbe lasciare impregiudicata la prospettiva misteriosa di un’accoglienza ultima che attende il soggetto chiamato a perdere se stesso. Di certo il soggetto non può entrare nella dimensione della gratuità se fa dell’attesa di una ricompensa la ragione della sua fedeltà al bene; ma questo non dovrebbe di necessità comportare che le ragioni originarie del bene (le risorse proprie dell’infinito) esigano dal soggetto chiamato alla responsabilità la rinuncia ad ogni chance di salvezza. Quando Levinas dedica a Kant alcune lezioni di Dio, la morte e il tempo, tocca proprio quei punti dell’etica kantiana (ripensati contro Heidegger) che tengono viva, in modo razionalmente accreditabile, una prospettiva di speranza riguardo ad un destino di immortalità che non ricalca il mero sopravvivere del conatus essendi.70 L’«attesa senza mira d’atteso» che qualifica questa apertura del soggetto all’infinito del bene, sembra implicare una ineliminabile tensione teleologica che si purifica da ogni presunzione di possesso intenzionale e da ogni volere interessato. Non appare chiaro, però, se in queste pagine levinasiane, tra le pochissime che menzionano la speranza dell’immortalità senza liquidarla come proiezione del conatus egoistico, l’intento sia solo quello di cogliere movenze interne al discorso kantiano o sia anche quello di valorizzare un modo razionale di attingere orizzonti ontologici e teleologici dischiusi dall’intrigo etico.71 Di fatto in tanti luoghi Levinas pone, come condizione dell’atteggiamento responsabile, la negazione recisa ed esplicita di ogni possibile contemporaneità del soggetto al proprio fine. Il tempo della responsabilità esclude per il soggetto un tempo della promessa che non sia già anticipatamente compiuto nel lasciarsi consumare e mettere da parte dal bene: «Il servizio senza promesse» sarebbe «l’unico a meritare — e anche a compiere — le promesse».72

L’idea levinasiana dell’«amore», ovvero della ispirazione di cui si nutre la responsabilità, implica che il «meno» del soggetto sia «devastato» dal «più» dell’alterità secondo una logica che funziona «aggirando la teleologia, distruggendo il buon esito e la felicità della fine».73 Il desiderante è trascinato dal desiderabile, ma non può aver tempo né di compiacersi né di sperare salvezza, perché questo vorrebbe dire compromettere il senso del bene. Da ciò il rapporto complesso tra convocazione etica, futuro, morte. Nella responsabilità verso altri, che ordina-supplica di non essere lasciato solo a morire, si trova per Levinas una significazione imperativa del futuro che vale «dopo e nonostante la mia morte».74 Ma questo aspetto imperativo e responsabilizzante del futuro, «ordine che sarebbe parola di Dio» e delinea il tempo come «devozione» o come «ad-Dio», non prevede per l’io la possibilità di ritrovarsi accolto da quel bene che lo supera, lo lascia «senza soccorso e senza promesse». C’è senso al di là della mia morte, c’è avvenire, ma senza di me. L’ad-Dio del tempo per Levinas non contempla finalità né escatologia per il soggetto responsabile: l’ordine del bene si serve della «mia morte per nulla» per rendere possibile «la gratuità della mia responsabilità per altri». Lo stesso rischio incombente che tutto sia vano è da considerarsi come un bel rischio che favorisce la sincerità del donarsi, lo slancio senza ritorno dell’abnegazione.

Dalla rinuncia ad anticipare in maniera possessiva il futuro si passa, così, per inasprimento delle esigenze di gratuità, all’obbligo di anticipare un futuro che escluda. Dall’idea kantiana secondo cui l’etica non ha bisogno di «conferme che potrebbero venirle dall’essere»75 e semmai, aggiungiamo citando Kant, ha bisogno che, grazie ad una provvidenziale sfasatura tra vocazione morale e poteri conoscitivi, «Dio e l’eternità, nella loro tremenda maestà» non stiano «continuamente davanti agli occhi»,76 si passa qui a un diverso regime. Il Dio che obbliga alla bontà, resta «trascendente fino all’assenza, fino alla possibile confusione con il brusio del c’è (il y a). Confusione in cui la sostituzione al prossimo guadagna in disinteressamento, in nobiltà — e in cui la trascendenza dell’infinito si eleva in gloria».77

Occorre chiedersi se in questa impostazione levinasiana non si annidi un rischio per nulla felice e fecondo, quello di subordinare il senso dell’etica ad una insuperabile legge sacrificale che da un lato costringe la ricchezza e l’autorevolezza del bene a restare definite dal bisogno di negare l’essere (secondo una paradossale forma di parassitismo ontologico), dall’altro diventa occasione per il soggetto di esercitare una ennesima pretesa di potere. Infatti, una logica della gratuità che abbia nella condizione a perdere del soggetto la sua migliore alleata e nella «confusione» tra mistero e insensatezza la nobilitante garanzia della sua purezza, non ha altro orizzonte di riferimento che l’ostinato sforzo soggettivo di esistere, oscillante tra vana illusione e ingiusta pretesa, da sfruttare per farne materia di sacrificio. Il bene alimenterebbe se stesso offrendo-consumando il mio attaccamento all’essere in nome e in vista del vivere mortale di Altri. Un simile dispositivo rende poi inevitabile una domanda: perché la fragilità di Altri mi convoca così urgentemente e irrecusabilmente se in fondo ad essa albergherebbe solo (visto il deprezzamento levinasiano del piano ontologico) un attaccamento all’essere vano e tendenzialmente fuorviante come il mio attaccamento al conatus essendi? Se la morte rende tragicomico ogni affezionamento al bene della mia vita, non rende tragicomico anche l’impegno nei confronti del bene della vita altrui? Sembra che in ultima analisi il bene ontologico della vita, mia e dell’altro, valga solo come strumento perché venga attuata abnegazione. Per se stessa vale e ha senso solo la gloria del bene, ma si tratta di una gloria che non genera e prefigura un essere meglio bensì un «meglio» o un «altrimenti» che essere, scontando però in tutto questo il bisogno essenziale di produrre la continua consumazione del piano ontologico.

La sorte morale dei mortali parrebbe allora contenere in se stessa una strana miscela di relazione reverente ad un principio assoluto che sovrasta la contingenza e di fatale remissione alla caducità: Levinas più volte accosta la meraviglia dell’amore interumano alla sua «vanità».78 Amore più forte della morte e che dà senso alla morte nella speranza di un tempo altro? Oppure amore che ha bisogno della «assurdità» insuperabile della morte per farsi gratuito grazie ad essa, ma restando cosi indifeso rispetto al suo potere vanificante? Sembra che in Levinas non resti aperta la possibilità che la morte colpisca solo l’ontologia dell’egoismo e non, tout court, l’ontologia dei soggetti. Ma la logica del bene, a questo punto, in maniera aporetica non dice solo accoglienza che fa spazio ad altro ma dice anche, allo stesso titolo, necessità di escludere. Anziché darsi come generosità che spiega l’essere, il bene di cui parla Levinas, proprio mentre pretende di trascendere l’essere, rimane contaminato da un’inestinguibile sete sacrificale che lo incatena negativamente al piano, egoisticamente viziato, dell’essere.

Come già accennato, legare il bene in forma così definitiva alla necessità del sacrificio comporta anche, malgrado le intenzioni, la riproposizione di un potere umano dinanzi alla morte. Quando Levinas sostiene che la «responsabilità di un mortale per un mortale» è il luogo dove si dà la «risposta» a quella questione della morte che pure sfida ogni risposta,79 egli sembra tenere insieme, in modo discutibile, due ordini di discorso. Da un lato il legame intersoggettivo è più forte della morte — in esso abita l’infinito, ad esso rinvia l’interrogare che la morte suscita — perché prende forza e senso da un’«ispirazione» del bene che non è effetto di una costruzione o di una gestione operata da parte degli uomini. L’intrigo etico rimanda costitutivamente all’Illeité perché l’assolutezza del bene che abita nel volto del prossimo non è invenzione umana. D’altra parte però il mistero del bene, anziché invitare i soggetti umani, tramite l’ignoto della morte, a lasciarsi reggere da un dono che trascende ogni potere dell’uomo e della morte, rimane commisurato all’orizzonte temporale-mortale dei rapporti intersoggettivi. La discrezione dell’Illeité nell’ora della sofferenza e della morte diventa indicazione che non bisogna sperare in nulla che non sia il darsi compagnia tra mortali. Tutta la «deferenza verso l’ignoto» che la morte mia e dell’altro comporta, tutto lo scandalo, la domanda lacerante, il rischio del non senso hanno poi come «risposta», non provvisoria ma definitiva, solo la prossimità al mortale (non lasciare che altri muoia solo, la cattiva coscienza del sopravvissuto, il morire per l’altro). Il rapporto tra mortali allora si configura, a dispetto di ogni confessione di impotenza e di passività, come un tentativo o una tentazione di anticipare l’«al di là», di possedere il futuro mediante lo stesso sacrificio. In diversi luoghi Levinas legge la prossimità interumana come luogo che fungerebbe da riscontro ultimo, da compimento per la ricerca di senso. Così, ad esempio, egli afferma che «il solo senso della sofferenza è la sofferenza per la sofferenza di altri»; o, analogamente, che per la sofferenza più acuta e priva di speranza si delinea un «al di là nel rapporto interumano»; o, ancora, che il «futuro della morte» viene assunto nel «presente dell’amore».80

Non c’è qui una sorta di rivincita del potere umano dinanzi all’ignoto della morte e dinanzi all’enigma della sofferenza? Una rivincita del presente assumibile rispetto all’indisponibile donde e verso dove della convocazione etica? Mentre viene decretata, senza distinzioni, l’immoralità di ogni escatologia, sembra che l’altruismo sacrificale pieghi ogni origine e direzione del bene, ogni diacronia della responsabilità, dentro lo spazio del rapporto interumano intriso di finitezza. Con che esito? Sono gli uomini a garantire il senso vivendo-morendo l’uno per l’altro? O è la gloria del bene che afferma se stessa esigendo l’offerta a fondo perduto del materiale ontologico umano? In ogni caso o per via di una attiva assunzione umana del potere sacrificale, o per via di una soggezione dell’umano a questo stesso potere, viene consacrata una strana armonia tra autorità trascendente del bene e mortalità irredimibile della condizione finita.

Il mistero divino che secondo Levinas traluce nell’intrigo etico è, come già si ricordava, pieno di discrezione, si dà e si nasconde nel gioco relazionale interumano che diventa luogo di irruzione dell’infinito, della trascendenza, della parola di Dio. Questa discrezione, mentre ispira un obbligo esigente, richiederebbe un’«opera senza ricompensa» lasciando i mortali senza promesse di salvezza. Levinas è convinto che la «coscienza dell’obbligazione senza scappatoie rende più vicini a Dio, in modo certo più difficile, rispetto alla confidenza in una qualche teodicea».81 Non cessando di riconoscersi nella fede ebraica, egli scorge nella Shoah la lezione più drammatica riguardo al fatto che l’attesa del buon esito non deve diventare la ragione di fedeltà alla legge.82 Ascoltando tale lezione, un atteggiamento religioso da adulti, temprato al fuoco di esperienze estreme, impara ad amare la legge più del Dio delle promesse.83 Dinanzi a questa prova, Levinas è talvolta portato a dire «io mi rivolto», perché la «kenosi dell’impotenza», la sofferenza senza promesse, il restare di Dio «senza difesa» lasciando così l’uomo «senza difesa», gli sembra comportino un «prezzo troppo alto» per Dio e per l’umanità stessa.84 Proprio questo avvertire l’ombra paralizzante di un «prezzo troppo alto» potrebbe scuotere internamente l’intero discorso levinasiano su etica, mortalità e sacrificio. Davvero la finitezza mortale dell’uomo sarebbe l’orizzonte ontologico ultimo che commisura a sé il dono di accoglienza e di comunicazione vitale che proviene dall’infinito del Bene?

Esplorando l’intrigo etico con le risorse di una decisiva ispirazione religiosa e di una rivoluzionaria indagine razionale, Levinas ha reso testimonianza in maniera incancellabile all’assoluto del Bene che regge l’umano. In pari tempo, ha forse lasciato calare su questa scena il riverbero di una fede nella «legge» che, dopo Auschwitz, sa, con un fiero rifiuto di consolazioni, che non deve fare conto su alcuna promessa. Forse proprio una simile fede condiziona il suo modo filosofico di inquadrare l’appello etico come chiamata in giudizio che inchioda alla responsabilità l’ambiguo egoismo del conatus essendi soggettivo, ma non dona all’impegno soggettivo altro riferimento vitale se non quello della inoltrepassabile mortalità umana. Col serio pericolo che a contestare l’ingiustificata prepotenza del conatus e le pieghe atroci della storia, dove la violenza si scatena in forme che sembrano rendere insensata o addirittura empia ogni attesa del novum, resti solo il vessillo di un’oblatività a fondo perduto. Disposta a lasciarsi spogliare, fiera del suo non avere bisogno di traguardi salvifici, ma forse risucchiata dentro un’autoreferenziale idolatria del sacrificio.

7. Infinito del bene e infinito del tempo

Gli interrogativi, i dubbi, le difficoltà che sono venuti fuori analizzando in Levinas il rapporto tra evento della responsabilità e dimensione temporale, girano intorno, si può dire, a questa affermazione: «l’infinito del tempo non mi spaventa affatto, esso è l’ad-Dio stesso, migliore dell’eternità che è l’esasperazione del presente».85 Per il filosofo ebreo, un richiamo assoluto lavora internamente l’inquietudine del tempo così da renderlo «pazienza dell’infinito»; ma questo richiamo non prefigura l’affrancamento del tempo finito dalle sue carenze strutturali, non offre agli abitatori del tempo un orizzonte altro per sostenere lo scandalo della sofferenza e della morte, per alimentare la «nostalgia di una perfetta e consumata giustizia» (M. Horkheimer). Al contrario, se l’assoluto parla nella dirittura etica e mi affida la nudità del volto d’Altri, c’è poi bisogno che una problematicità insolvibile, un rischio di non senso caratterizzino in modo ultimativo la «relazione con l’Infinito» vissuta nella «responsabilità di un mortale per un mortale». Ce n’è bisogno affinché il rendersi disponibili non venga inquinato dall’attesa di soddisfazione, affinché la passività assoluta non ceda il posto alla mira intenzionale. Così, però, il per sé del bene, la sua gratuità e auto-finalità che Levinas intende proteggere da qualunque commistione con interessi ontologici, finirebbe per rimanere prigioniero di una cattiva dipendenza: l’abisso generoso si ricarica di senso grazie al «morire per nulla» assegnato agli umani. Il «meglio che essere» in cui si libra il bene e a cui il soggetto è chiamato, una volta ripudiato qualunque patto tra gratuità e piano fondamentale dell’essere, tra agatologia e ontologia, si trova a subire un pesantissimo vincolo tra appello etico e contingenza mortale della condizione umana. Rifiutata l’idea che la gloria del bene sia, inseparabilmente, dono di una ricchezza vitale non consegnata alla morte, preclusa al soggetto una partecipazione salvifica al trionfo del bene, si profila in queste caratterizzazioni del discorso levinasiano la strana alleanza tra infinito del bene e infinito del tempo. In alcuni tratti, la prospettiva di Levinas sembrerebbe accostabile alla postmoderna etica della finitezza che legge lo status viatoris dell’esistenza umana come remissione senza promesse al problematico e al contingente: non si rifiuta la meta ultratemporale perché si tende a mete conseguibili nel tempo, ma perché l’avere una meta contamina il puro essere votati all’incertezza, rovina il bel rischio della temporalità come apertura all’indeciso e all’imprevedibile. Certo, Levinas non sottoscriverebbe mai la convinzione, cara al pensiero della finitezza, secondo cui qualunque senso umano del bene e del compito morale si nutre sempre solo di origini contingenti e di decisioni fallibili. E però, in una maniera non facile da capire, forse aporetica, il filosofo ebreo per salvaguardare nella condizione temporale il «mai della pazienza», ovvero quella tensione che non può e non deve osare la presa di possesso dell’alterità che la regge, finisce per celebrare il «sempre del tempo».86 Col risultato che il tempo affetto dall’infinito diventa a suo modo esso stesso infinito. Tutto questo è detto per contrastare una presunzione di dominio, una “fusione” che sopprima la distanza tra il desiderante e il desiderabile, tra homo patiens e infinito. A tutela quindi sia della purezza della trascendenza sia della sofferta grandezza di quel desiderio interrogante che è il distintivo della finitezza. Però, appunto, infinito viene reso anche il tempo, e allora la suddetta distanza incolmabile sembra diventare qualcosa di cui il tempo si serve per porre in primo piano la intramontabile passione del suo tendere. Come un’inquietudine che diffidando di qualsiasi quiete finisce per compiacersi di se stessa. Torna in mente la celebre risposta che Lessing immagina di dare qualora Dio chiedesse all’uomo di scegliere tra il trovare pace presso la pienezza del vero e un perpetuo cammino di ricerca segnato da indefinite peripezie di erramento: all’umano si addice l’instancabile tendere verso non mai il tenere in mano la meta. Dove risulta oltremodo significativo, e nel clima postmoderno rivela appieno la sua ambivalenza, il tono insieme umile e orgoglioso di una simile scelta.

Cosa significa proclamare l’infinito del tempo «migliore» dell’eternità? Più che attingere all’inesauribilità dell’altro, questo infinito sembra trarre alimento e misura dall’insaziabilità della sua fame.87 La fecondità della distanza parrebbe non più dipendere dall’inesauribile dono comunicativo con cui l’Altro mi va accogliendo, e diventare risorsa tutta interna a un esercizio di cammino che troverebbe nel suo durare sempre una forma di definitività in cui specchiarsi e di cui in certo modo appagarsi. Come se il cammino non si lasciasse più misurare e guidare da altro e verso altro, ma mettesse in atto una sorta di auto-affezione pura, proprio secondo il modello, da Levinas di continuo bersagliato, di un procedere che si autoassolve dal debito nei confronti di ogni anteriorità. La pazienza del tempo e lo slancio della responsabilità che dovrebbero mantenersi aperti al futuro non anticipabile, sembrano piuttosto fare propria una sorta di anticipazione del non compimento che cattura l’inattingibilità dell’Altro.

A questo punto la diacronia, nodo etico della temporalità, non corre il rischio di essere risucchiata dentro la marcia sincronica di un procedere curvato su se stesso? L’idea levinasiana di deformalizzare il tempo, liberandolo dalle pretese della coscienza, rischia di andare a beneficio di un’altra forma: il ciclo chiuso che vede l’infinito del tendere rendere vicendevolmente correlati il tempo dell’essere, definito dall’ostinazione del conatus, e il tempo dell’altrimenti che essere, prigioniero del bisogno di negare il primo. Lo sforzo di esistere viene riscattato al senso ma solo da una dinamica oblativa che sconta il perenne bisogno di sacrificare l’attaccamento all’essere. L’infinito del tempo spende il suo sempre rimanendo condannato a oscillare tra l’emergenza di pretese ingiuste (quelle riproposte dal conatus essensi) e l’imporsi di obbligazioni sacrificali (quelle a cui chiama il bene). Come se le miracle du miracle ovvero il fatto qu’un homme puisse avoir sens pour un autre homme e quella sainteté che vibra della possibilité de ressentir l’étre-vers-la-mort de l’autre plus intensément que mon étre-vers-la-mort,88 fossero lampi capaci di squarciare il buio orrido dell’il y a ma solo per rimanere subito inghiottiti da un insensato ciclo della vita e della morte dove lo splendore del bene non è più percepibile.

Mai sarebbe questa, certamente, l’ultima parola di Levinas. E tuttavia sembra lecito ritenere che, proprio in nome dell’infinito del bene e all’avventura etica umana, il suo immenso discorso meriterebbe uno scenario non compromesso da un finitismo ontologico a tinte sacrificali. Affinché l’appello che ci fa abitare il tempo come responsabili del tempo, non venga poi ancorato al peso insuperabile di un destino contingente, facendo gravare una sovrana ipoteca di indifferenza sulla più irrinunciabile tra le differenze, quella tra il richiamo del bene e la distruttiva spinta egocentrica.


  1. Cfr. J. Habermas, Il pensiero post-metafisico, a cura di M. Galloni, Laterza, Bari 1991, pp. 181-182. L’autore riferisce questa espressione alla «ragione comunicativa», che è per lui l’espressione più significativa della nostra vocazione morale. ↩︎

  2. Cfr. S. Natoli, Stare al mondo, Feltrinelli, Milano 2002, p.150. ↩︎

  3. E. Morin - A.B. Kern, ’Terra-Patria, trad. it. S. Lazzari, Cortina Editore, Milano 1994, p. 175. ↩︎

  4. J. Habermas, Il pensiero post-metafisico, cit. p. 182. ↩︎

  5. H. Jonas, Il principio responsabilità, trad. it. di P. Rinaudo, Einaudi 1990, p. 156. ↩︎

  6. Questa citazione e la seguente da F. Savater, Il coraggio di scegliere, trad. it. F. Saltarelli, Laterza, Roma 2004, p. 151. ↩︎

  7. Questa citazione e la seguente da T. Pievani, La vita inaspettata, Cortina Editore, Milano 2011, p. 225 e p. 213. ↩︎

  8. H. T. Engelhardt, «La responsabilità come principio guida per le biotecnologie», in Ragion Pratica, 1 (2006), p. 477. ↩︎

  9. Le espressioni citate sono tratte da tre saggi diversi contenuti in E. Levinas, Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, a cura di E. Baccarini, Jaca Book, Milano 1998, pp. 206, 260, 150. ↩︎

  10. Cfr. E. Levinas, Tra noi, cit., pp. 118-119. ↩︎

  11. Levinas riprende spesso questi termini pascaliani per denunciare il carattere “detestabile” che ha la versione enfatica dell’io. Cfr. ad esempio E. Levinas, Tra noi, cit., pp. 165-180. ↩︎

  12. Le citazioni sono prese rispettivamente da E. Levinas - A. Peperzak, Etica come filosofia prima, a cura di Ciaramelli, Guerini e Associati, Milano 1989 p. 26 e da E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, trad. A. Moscato, Il Melangolo, Genova 1985, p. 107. ↩︎

  13. Cfr. E. Levinas, Tra noi, cit., pp. 193-196. ↩︎

  14. E. Levinas, Altrimenti che essere, trad. S. Petrosino e M. T. Aiello, Jaca Book, Milano 1983, p. 108. ↩︎

  15. E. Levinas, Dio, la morte e il tempo, a cura di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1998, p. 60. Sul modo in cui Levinas si rapporta all’analisi husserliana della temporalità cfr. R. Bernet, Il mio tempo e il tempo dell’altro, in Filosofia del tempo, a cura di L. Ruggiu, B. Mondadori, Milano 1998, pp. 183-198. Viene evidenziato come il proposito levinasiano di far emergere «la presenza dell’altro nel cuore della temporalizzazione» da un lato implica la critica al primato husserliano della coscienza e al suo potere attivo di ri-presentazione, dall’altro vede la ripresa e la radicalizzazione in chiave etica del tema husserliano dell’«impressione originaria» come «affezione della coscienza per mezzo di un presente che si impone ad essa in modo imprevedibile» (p. 191). Così, «sostituendo il tempo dell’etero-affezione al tempo dell’auto-affezione, sostituendo il tempo della passività a quello della rappresentazione intenzionale, ciò a cui mira Levinas è una rifondazione del soggetto trascendentale egoico in soggetto etico il quale (…) è responsabilità verso l’altro e proveniente dall’altro» (ivi, p. 190). ↩︎

  16. E. Levinas, Tra noi, cit., p. 261. ↩︎

  17. Cfr. ivi, p. 206. ↩︎

  18. E. Levinas, Altrimenti che essere, cit., p. 17. ↩︎

  19. Cfr. E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, cit., pp. 86-92. ↩︎

  20. E. Levinas , Di Dio che viene all’idea, a cura di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1983, p. 113. ↩︎

  21. Questo accadrebbe anche quando, come nel caso della ricerca che Heidegger conduce in Kant e il problema della metafisica, la delucidazione della «recettività radicale» del comprendere finito fa leva sull’«immaginazione trascendentale» che «offre al soggetto un ‘alveolo di nulla’ per precedere il dato e assumerlo» ( E. Levinas, Altrimenti che essere, cit., p. 110). ↩︎

  22. E. Levinas, Di Dio che viene all’idea, cit., p. 192. ↩︎

  23. Cfr. ad esempio E. Levinas, Altrimenti che essere, cit., p. 142. ↩︎

  24. Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, cit., p. 301. Sulla tematica della creazione in Levinas cfr., tra l’altro, O. Gaviria Alvarez, «L’idée de création chez Levinas: une archéologie du sens», in Revue philosophique de Louvain, LXXII (1974), pp. 509-538; F. P. Ciglia, Un passo fuori dall’uomo. La genesi del pensiero di Levinas, Cedam, Padova 1988, pp. 99-114; S. Petrosino, «L’idée de création dans l’œuvre de Levinas», in La différence come non-indifférence, sous la direction d’Arno Munster, Kimé, Paris 1995, pp. 97-108. ↩︎

  25. Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, cit., pp. 103-106. ↩︎

  26. Ivi, p. 88. ↩︎

  27. Cfr. ivi, p. 119. ↩︎

  28. Si veda G. Ferretti, La filosofia di Levinas, Rosenberg & Sellier, Torino 1996, p. 128 e pp. 236-238. Viene messo in evidenza come le analisi relative al costituirsi dell’io in Dall’esistenza all’esistente girano intorno al «sorgere dell’esistente sullo sfondo neutro e impersonale dell’il y a», mentre in Totalità e Infinito sono volte a mostrare come l’esperienza del «rapporto con l’assolutamente Altro implica un esistere in sé come separato dall’Altro». A sua volta il passaggio ad Altrimenti che essere, implica, come accenneremo, lo sconvolgimento di una presunta identità sia sostanziale sia coscienziale dell’io a favore di un se stesso fatto di passività assoluta, di «prossimità» e «soistituzione». ↩︎

  29. E. Levinas, Totalità e Infinito, cit., pp. 150-151. ↩︎

  30. Cfr. la sezione seconda di Totalità e Infinito. ↩︎

  31. E. Levinas, Difficile liberté, Albin Michel, Paris 1976, p. 30. Cfr. pure E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 57 e E. Levinas, Dio, la morte e il tempo, cit., p. 35. ↩︎

  32. Cfr. E. Levinas, Totalità e Infinito, cit., pp. 57 e 136. ↩︎

  33. Cfr. G. Ferretti, La filosofia di Levinas, cit., p. 128 ↩︎

  34. E. Levinas, Tra noi, cit., p. 227. ↩︎

  35. In Altrimenti che essere il passo filosoficamente decisivo consiste (…) à envisager le sujet (…) comme passivité en son origine même, et qui ne deviendra ‘actif’ que de manière dérivée et seconde. Passivité d’un sujet non plus pensé comme le Même déjà constitué qui ensuite rencontre l’Autre et, avec lui, la limite de son pouvoir - mais originairement structuré comme Autre-dans-le-Même, in J. ROLLAND, Parcours de l’autrement, Puf, Paris 2000, p. 384. ↩︎

  36. Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, trad. it. di P.Chiodi, Torino 1969, pp. 225-226, (§ 29). ↩︎

  37. E. Levinas, Dio, la morte e il tempo, cit., p. 63. ↩︎

  38. Cfr. E. Levinas, Altrimenti che essere, cit., p. 110 e E. Levinas, Dio, la morte e il tempo, cit., p. 295. ↩︎

  39. Cfr. E. Levinas, Altrimenti che essere, cit., p. 145. ↩︎

  40. Ivi, p. 16. ↩︎

  41. E. Levinas, Tra noi, cit., p. 210. ↩︎

  42. E. Levinas, Altrimenti che essere, cit., p. 15. ↩︎

  43. Ibidem↩︎

  44. E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 224 e E. Levinas, Di Dio che viene all’idea, cit., p. 95. ↩︎

  45. Cfr. E. Levinas, Tra noi, cit., p. 207 e E. Levinas, L’al di là del versetto. Letture e discorsi talmudici, a cura di G. Lissa, Guida, Napoli 1986, p. 173. ↩︎

  46. Cfr. E. Levinas, Altrimenti che essere, cit., p. 188. ↩︎

  47. Levinas definisce «trauma e non thauma» il «risveglio» dell’io «a partire dall’altro». Vedi E. Levinas, Tra noi, cit., p. 119. ↩︎

  48. Cfr. ad esempio H. U. von Balthasar, Nello spazio della metafisica. Gloria, vol. V, trad. G. Sommavilla, Jaca Book, Milano 1978, pp. 549-551. In pagine dense e suggestive si snoda per tappe essenziali il rapporto vitale che apre la coscienza al senso dell’essere nel segno di un dialogo con un mistero da cui si è accolti. A partire dalla percezione infantile, che coglie l’esistenza come avvolta da «un’ inafferrabile luce di grazia» riflessa nell’incontro col «tu» dei genitori, fino ad una maturazione fatta di inevitabili disillusioni, di avvertimento del dovere, di angoscia del domandare, ma sempre chiamata a confermare in forme più consapevoli e ricche la primaria insuperabile «esperienza di meraviglia e di gioco» che già orienta il bambino a riconoscere nel dono in cui è immerso il segreto dell’essere al mondo. ↩︎

  49. E. Levinas, Dio, la morte e il tempo, cit., p. 296. ↩︎

  50. C’è tuttavia un recupero molto importante di attenzione per l’io come «altro per altri), ovvero come soggetto che gode dell’altrui responsabilità, quando si entra nell’ordine della giustizia, caratterizzato dalla reciprocità di diritti e doveri. È l’ordine della oggettivazione rappresentativa e della regolazione dei rapporti umani, che si rende necessario e che giustifica l’ontologia dei soggetti paragonabili a tutela del «terzo» uomo la cui presenza irrompe già sempre nella scena intersoggettiva. A tal proposito viene detto: «grazie a Dio sono altri per gli altri» e si intende con ciò che nella traccia dell’Illeité sta anche la «correlazione reciproca» che «mi lega all’altro uomo» (Altrimenti che essere, cit., p. 198). Ma squarci come questi confermano che primario resta l’ordine etico dove regna l’asimmetria, dove l’io senza diritti è votato al tu, dove l’Illeità si lascia rintracciare nella linea di una chiamata a darsi, e non parimenti o anzitutto nella linea di un trovarsi custoditi da un dono. Nota, a tal proposito, G. Ferretti che se Levinas, attraverso la giustizia e a fondamento di essa, riportasse esplicitamente questo «grazie a Dio …» all’originarietà di un amore gratuito e di una responsabilità di cui io sono termine, allora «il discorso di Levinas potrebbe avere uno straordinario sviluppo (…) Ci si potrebbe infatti chiedere se all’origine della significazione, prima ancora che il mio essere convocato alla responsabilità per altri, non ci sia il mio ritrovarmi come gratuitamente eletto dall’amore di altri, nella traccia dell’Amore di Dio, e solo di riflesso, o come conseguenza, chiamato ad essere a mia volta gratuitamente responsabile di Altri». Cfr. G. Ferretti, La filosofia di Levinas, cit., p. 294. ↩︎

  51. Cfr. E. Levinas, Tra noi, cit., p. 203. ↩︎

  52. E. Levinas, Dio, la morte e il tempo, cit., p. 48. ↩︎

  53. Cfr. Ivi, p. 158. Si veda anche E. Levinas, Tra noi, cit., pp. 105 e 108. ↩︎

  54. Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 377-380 (§ 50). ↩︎

  55. Cfr. E. Levinas, Dio, la morte e il tempo, cit., pp. 89-92. ↩︎

  56. E. Levinas, Dio, la morte e il tempo, cit., p. 48. ↩︎

  57. Cfr. E. Levinas , Il Tempo e l’Altro, a cura di E P. Ciglia, Il Melangolo, Genova 1987, pp. 41-46 e E. Levinas, Totalità e Infinito, cit., pp. 239-240. ↩︎

  58. Cfr. E P. Ciglia, Un passo fuori dall’uomo. La genesi del pensiero di Levinas, cit. p. 193. Su questa tematica si veda anche P. A. Rovatti, «Il tempo e l’Altro (1948)», in Intorno a Levinas, a cura di P. A. Rovatti, Unicopli, Milano 1987, pp. 67-86; inoltre J. Rolland, Parcours de l’autrement, cit., pp. 355-385. ↩︎

  59. E. Levinas, Altrimenti che essere, cit., p. 162. ↩︎

  60. Cfr. E. Levinas, Dio, la morte e il tempo, cit., p. 157. ↩︎

  61. Cfr. E. Levinas, Totalità e infinito, cit., pp. 240-241. ↩︎

  62. Iví, p. 242. ↩︎

  63. Cfr. ad esempio E. Levinas, Altrimenti che essere, cit., p. 162. ↩︎

  64. E. Levinas, Tra noi, cit., p. 204. ↩︎

  65. Ibidem↩︎

  66. E. Levinas, Dio, la morte e il tempo, cit., p. 54. ↩︎

  67. E. Levinas, Nomi propri, a cura di F.P. Ciglia, Marietti, Casale Monferrato, 1984, p. 17. ↩︎

  68. E. Levinas, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, a cura di F. Sossi, Raffaello Cortina, Milano 1998, pp. 250 e 52. ↩︎

  69. E. Levinas, Dio, la morte e il tempo, cit., p. 166. ↩︎

  70. Cfr. E. Levinas, Dio, la morte e il tempo, cit., pp. 107-110. ↩︎

  71. J. Rolland osserva che in Levinas 1’«immortalità non può essere affermata — e nemmeno negata (…) ma solo sperata. Una simile speranza, che è come un terzo escluso tra affermazione e negazione, iscrive un forse all’interno dell’innegabile nulla della morte. Ma (…) questo forse non viene a colmare il vuoto del nulla né ad attenuare la forza dilacerante della morte». J. Rolland, «Dell’altro uomo. Il tempo, la morte e il Dio», Postfazione a Dio, la morte e il tempo, cit., p. 310. ↩︎

  72. E. Levinas, Tra noi, cit., p. 212. Ricordiamo che ancora in Totalità e infinito il senso stesso dell’etica non solo richiama la necessità di un tempo infinito che permetta (attraverso l’eros e la fecondità) di rendere giustizia al bene al di là delle ambigue vicende storiche, ma anzi richiede un «tempo messianico» portatore di «compimento» che sia «premunito contro la rivincita del male di cui il tempo infinito non impedisce il ritorno» (Totalità e Infinito, cit., p. 295). Sennonché poi in Levinas si delinea, sempre più marcatamente, un’etica che non prefigura «compimenti» e che, nel suo carattere autonomo e gratuito, non lascia più spazio a «speranza per me», a «immortalità personale», a «promesse del messia». ↩︎

  73. E. Levinas, Dio, la morte e il tempo, cit., p. 294. ↩︎

  74. E. Levinas, Tra noi, cit., pp. 208-209. ↩︎

  75. Cfr. E. Levinas, Di Dio che viene all’idea, cit., p. 150. Dove però viene detto che Kant con i «postulati» ripristina la relazione con l’ontologia, tradendo le «audacie» di un’etica sganciata da riferimenti ontologici e teologici. ↩︎

  76. I. Kant, Critica della ragion pratica, trad. E. Capra, Laterza 1966, p. 183. ↩︎

  77. E. Levinas, Dio, la morte e il tempo, cit., pp. 296-297. ↩︎

  78. Cfr. ad esempio E. Levinas, Tra noi, cit., pp. 165 e 186. ↩︎

  79. E. Levinas, Dio, la morte e il tempo, cit., pp. 196-197. ↩︎

  80. Cfr. rispettivamente E, Levinas, Tra noi, cit., pp. 127 e 126, e E. Levinas, Dio, la morte e il tempo, cit., p. 243. ↩︎

  81. E. Levinas, Tra noi, cit., p. 127. ↩︎

  82. Ivi, p. 257. ↩︎

  83. Aimer la Thora plus que Dieu è il titolo di un intervento di Lévinas del 1955. Commentando uno scritto anonimo di un ebreo del Ghetto di Varsavia, Levinas parla di una fierté d’etre juif come esperienza spirituale di un’intimità da adulti con il Dio qui se voile la face et abandonne le juste à sa justice sans trionphe. La chiave di tutto non è l’amore di un Dio incarnato, ma l’intesa «virile» tra l’uomo e Dio sulla base dell’evidenza interiore di un insegnamento che sfida ogni prova. Al punto che, come recita il documento anonimo nel suo punto culminante sottolineato da Levinas, è possibile dire di Dio: Je l’aime, mais j’aime encore davantage sa Thora… Et même si j’étais déçu par lui et comme détrompé, je n’en observerais pas moins les préceptes de la Thora. Cfr. E. Levinas, Difficile liberté, cit., pp. 201-204. ↩︎

  84. E. Levinas, L’ora delle nazioni, a cura di S. Facioni, Jaca Book, Milano 2000, pp. 194-195. ↩︎

  85. E. Levinas, Tra noi, cit., p. 150. ↩︎

  86. E. Levinas, Dio, la morte e il tempo, cit., p. 70. ↩︎

  87. Cfr. E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, cit., p. 68. ↩︎

  88. E. Levinas, «Visage et violence première. Une interview», in La différence comme non-indifférence, cit., p. 133. ↩︎