Michael Kremer: leggere il Tractatus logico-philosophicus come esercizio spirituale

1. Parallelismo tra la struttura paolino-agostiniana della via per la salvezza e quella per la comprensione del senso etico nel Tractatus

Michael Kremer propone di leggere il Tractatus alla luce di San Paolo e Sant’Agostino, trovando in alcuni punti cardine del loro pensiero, rispettivamente la salvezza attraverso la fede e non attraverso le opere e la condanna dell’orgoglio come radice di ogni vizio, delle chiavi di lettura per far emergere in maniera chiara lo scopo etico del Tractatus.1

In The Purpose of Tractarian Nonsense egli sostiene che ad un livello superficiale San Paolo sembrerebbe voler dire che dal momento che gli uomini sono creature imperfette sarebbe sciocco pretendere di ottenere la salvezza attraverso un’obbedienza a leggi, come quelle mosaiche, che inevitabilmente andrebbero ad infrangere. Un po’più a fondo si scopre che è la fede che può salvare agli occhi di Dio, ma per Kremer non si è ancora raggiunta una seria delucidazione. Infatti messa in questo modo potrebbe sembrare che la fede sia qualcosa che ha a che vedere in qualche modo con il fare qualcosa come per esempio accettare Gesù come il tuo personale salvatore e cioè obbedire ad una sorta di nuova legge, fraintendendo interamente quello che per Kremer è l’intento della teoria paolina. Egli sostiene che una lettura più accorta ci si rende invece conto che le leggi condannano non perché gli uomini non siano in grado di obbedire ad esse, ma poiché la loro necessità di obbedire ad esse li marchia come peccatori. Secondo San Paolo l’uomo lotta con se stesso tentando di adempiere ciò che sa essere giusto, fallendo assai spesso. È questo stato di combattimento e di disarmonia che la legge svela e condanna. Ciò che per Kremer salva agli occhi di Dio è uno stato di armonia e quiete interiore: la fede. Tuttavia essa non va intesa come un qualcosa da raggiungere impegnandosi volontariamente, bensì attraverso la grazia che Dio concede cambiando la vita degli uomini.

Questa grazia non annulla la legge, ma libera da essa; non perché essa sia l’adempimento di ciò che la legge prescrive, ma perché la grazia ha già reso salvi gli uomini e in quanto tali anche obbedienti alla legge senza volerlo.

È interessante notare come San Paolo sottolinei nel capitolo 7 della Lettera ai Romani che lui ha conosciuto il peccato a causa della legge, ma che sia stato morendo a causa del peccato insinuato dalla legge che è potuto risorgere poi, come uomo nuovo, alla luce della legge dello spirito e non più sotto quella della carne.

Qui sembra palese l’analogia con i fraintendimenti di cui parla Wittgenstein. È nel momento che si comincia a fare filosofia che nascono problemi e fraintendimenti, ma solo attraverso di essi è possibile, in fine, arrivare a riconoscerli come tali, a gettar via la scala e vedere rettamente il mondo proprio attraverso quello che nella lettura di Kremer è considerato un effettivo e totale atto di conversione, ossia di rettificazione di una ‘via storta ‘.

Sant’Agostino, elaborando il concetto paolino cercò di dare una sua soluzione alla difficile condizione umana. Per Agostino il fatto principale di cui tener conto è che Dio è il creatore e gli uomini sono sue creature. Ciò implica che con Dio si ha una relazione asimmetrica. Assunto questo fatto egli crede che siano due gli atteggiamenti che concessi agli uomini: l’orgoglio e l’umiltà. L’orgoglio è una sorta di invidia nei confronti di Dio, invidia per il suo potere creativo e la sua ‘sovranità’che cela il desiderio di volersi sostituire a lui come legislatori dell’universo, insomma ciò che i greci chiamavano hybris. Al contrario l’umiltà è l’accettazione del proprio posto nell’universo.2

Per Agostino l’orgoglio è la radice di ogni male, nonché l’origine di quella disarmonia di cui parla San Paolo. Se si rifiuta la fonte della propria vita, ciò che in qualche modo la regola in armonia con il resto, si perde la capacità di fare la scelta migliore e si diviene schiavi delle passioni e dei desideri.3 Allo stesso tempo l’orgoglio, come un sasso su un binario, fa deragliare gli uomini dal ‘binario ‘dell’armonia col mondo facendo perdere loro quella dimensione di felicità legata alla sensatezza che deriva dallo stare in armonia con tutte le cose.4 Secondo Agostino tale armonia, portatrice di pace, può essere recuperata solo con un ritorno all’umiltà. Per quanto sembri che l’orgoglio sia l’amore per se stessi e l’umiltà l’odio contro se stessi, Agostino tiene a mostrare che è vero il contrario. L’orgoglio è il desiderio di essere più che umani, fondato sul credo che essere Dio, per gli uomini stessi, sia meglio che essere umani. Si arriva dunque a credere che Dio nella sua onnipotenza avrebbe dovuto fare le cose meglio di come ha voluto e gli uomini avrebbero saputo fare di meglio, così sorge il desiderio di volersi sostituire a Dio e l’illusione di essere in grado di farlo.

D’altro canto l’umiltà è proprio l’accettazione che ciò che Dio ha fatto sia la cosa migliore, che la condizione data agli uomini sia espressione del suo amore per loro. Agostino sottolinea che nel nuovo comandamento «ama il signore Dio tuo e il prossimo tuo come te stesso» siano tre oggetti di amore: quello per Dio; quello per il prossimo e quello per se stessi, (ma che gli ultimi due siano possibili previa l’umiltà che ci consente di amare Dio).

Si potrebbe allora credere che Agostino veda a sua volte l’umiltà come qualcosa da fare, da perseguire per essere migliori, ma se così fosse si ricadrebbe in un’altra forma di orgoglio, l’orgoglio di non essere orgogliosi e di non fare le cose per orgoglio. Invece nell’interpretazione che Kremer dà di Agostino l’umiltà, come la fede, non rientra nelle cose da fare, ma piuttosto in un modo di vivere ed è quest’atteggiamento a far desiderare di salvarsi e quindi ad accettare di poter essere salvati.5

L’excursus appena fatto serve per introdurre il parallelismo ravvisato da Kremer tra le teorie di S. Paolo e di S. Agostino e il Tractatus, confidando, per una eventuale chiarificazione, più in una complicità tra strutture paradossali che altro.

Si possono leggere in tutti i Vangeli, in una forma o nell’altra affermazioni come «chi vuole seguirmi rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua, chi vorrà salvare la propria vita la perderà e chi perderà la propria vita la salverà». Sembrerebbe un proposito paradossale da realizzarsi, ma ciò che viene chiesto in realtà è una trasformazione del modo di vivere le proprie vite, di abbandonare l’imperativo di auto-conservazione come cardine delle proprie vite e di fissare questo cardine altrove. Dare la propria vita per Cristo non rientra tra le cose da fare per trovare la salvezza. La risposta alla domanda «cosa devo fare per ottenere la vita eterna? » è «prendi la tua croce e seguimi»: si tratta di una risposta che rifiuta la domanda, evitando di dare delle norme in merito al che fare. L’unica cosa che viene offerta è un esempio da seguire un sentiero che più che portare alla salvezza costringe a ripensare l’idea che si ha di salvezza, che forse non è chiara.6 L’intento di simili affermazioni è di provocare una sorta di ‘doccia fredda spirituale’mostrando che l’impedimento nella strada verso la salvezza non era nell’impossibilità di raggiungerla, ma nel fatto che le idee su che cosa fosse erano confuse. Inoltre viene offerto un sentiero che passa per un oscuro «portare la propria croce». Ora è facile che non si intenda subito cosa significhi portare la propria croce, ma questo è per lo meno chiaro, ossia che c’è qualcosa che è confuso davanti agli occhi. In tal modo si è appena ottenuto qualcosa di molto simile al passaggio da un nonsenso occulto ad un nonsenso palese.

Come osserva Kremer, «il Vangelo che da prima sembrava volerci dare un comandamento nuovo rivela avere un altro scopo, come vivere senza tentare di salvarci obbedendo ad alcun comandamento. Ciò che ci viene mostrato dalla vita e dalla morte di Gesù è una vita che è essa stessa la salvezza, nel suo essere disposti a perderla, un ripensare interamente il significato della nostra vita e gli scopi per i quali viverla».7

Qui, secondo Kremer, si ha una struttura analoga a quella del Tractatus, che spinge a ripensare il proprio modo di filosofare partendo da quella che da principio sembra essere una complicata teoria filosofica, benché il suo fine non sia dimostrare tale teoria, ma farci comprendere che la filosofia è un attività di chiarificazione, e portare verso tale chiarificazione. Ancora una volta verrebbe indicata non una risposta, ma un sentiero per il perfezionamento di se stessi.

2. Chiarificazione nel Tractatus del circolo vizioso: disarmonia col mondo, infelicità, ricerca di una giustificazione, creazione di nonsensi, nascita dei problemi filosofici

È già stato detto che per Kremer l’atto di demolizione del Tractatus ha uno scopo etico o meglio, un significato spirituale e che tale significato possa essere illuminato dalla comparazione con Paolo ed Agostino.8 Un ulteriore punto di contatto viene rilevato da Kremer nell’idea che i due santi abbiano in comune con l’autore del Tractatus l’aver riconosciuto l’esigenza umana di giustificare i propri pensieri.

Egli sostiene che non sentendosi in armonia ed in pace né con se stessi né con gli altri (né con il mondo), si cerchi di sedare l’infelicità che tale stato procura cercando di dargli un senso attraverso vari tipi di giustificazioni.9 Da ciò nascerebbe, secondo la sua lettura, la necessità di creare sistemi logici o etici. Tale necessità denoterebbe l’assenza di quello spirito di gratitudine e capacità di stupirsi richiesto da quell’armonia e da quella pace che tanto si ricerca. Secondo Kremer il modo in cui il Tractatus persegue il suo scopo etico consiste nel liberare dall’illusione che una giustificazione sia necessaria, mostrando che ogni tipo di giustificazione non è che un insignificante nonsenso. Kremer usa l’espressione «insignificante»10 per evidenziare l’importante connessione tra nonsenso e assenza di significato nel Tractatus. Infatti, come egli sostiene «nel Tractatus il nonsenso nasce laddove si fallisce nel dare significato alle parole; ma una parola manca di significato quando non gli è stato attribuito alcun uso, quando non serve alcuno scopo.11 Ma ogni tipo di sistema logico o etico, che necessita di giustificazioni affinché lo si possa abbracciare, non fa altro che alimentare quel disprezzo per l’umiltà di cui sopra, essendo essi solo «manifestazioni della volontà di potenza, la volontà di porsi al centro dell’universo».12

3. Mostrare come i problemi filosofici siano mal posti e la teoria del dire/mostrare e del solipsismo acquistino senso in quanto mezzi per la chiarificazione

Tali strutture possono essere demolite attraverso i tipici problemi logici del regresso all’infinito. Infatti, per trovare una seria giustificazione occorrerebbe, secondo Kremer, una risposta sufficientemente differente da una proposizione e che non richieda ulteriori spiegazioni. La ‘teoria del dire/mostrare ‘sembrerebbe allora poter mettere un punto a tale regresso. Secondo Kremer il Tractatus tenta i suoi lettori con quest’idea solo per rivelare in fine che tale tentazione non è che un’illusione, fondata su confusioni e fraintendimenti. Infatti è solo rifiutando di trovare una giustificazione, e con ciò anche la tentazione di farlo nell’ambito del mostrare, si può davvero fare chiarezza e prendere coscienza della propria posizione nel mondo e non fuori di esso. Nell’interpretazione che ne dà Kremer la teoria del dire/mostrare è un, importante gradino della scala, un esercizio da svolgere correttamente, alla stregua del solipsismo.

Wittgenstein, nella lettura che ne dà Kremer, procede dalle considerazioni sul solipsismo per indicare un particolare tipo di cammino volto a mostrare fino a che punto la concezione del mondo visto sub specie aeterni sia forviante

  1. 6 i limiti del linguaggio sono i limiti del mio mondo.

  2. 61 La logica pervade il mondo; i limiti del mondo sono anche i limiti di essa.

Noi non possiamo, dunque, dire nella logica: questo e quest’altro v’è nel mondo, quello no.

Infatti, ciò parrebbe presupporre che noi escludiamo certe possibilità, e questo non può essere, poiché richiederebbe che la logica trascendesse i limiti del mondo; solo così essa potrebbe contemplare questi limiti anche dall’altro lato.

Ciò che noi non possiamo pensare, noi non lo possiamo pensare; né, di conseguenza, noi possiamo dire ciò che noi non possiamo pensare.13

  1. 62 Questa è la chiave per decidere la questione, in quale misura il solipsismo sia una verità.

Ciò che il solipsismo intende è del tutto corretto; solo non si può dire, ma mostra sé.

Che il mondo è il mio mondo si mostra in ciò, che i limiti del linguaggio (dell’unico linguaggio che io comprenda) significhino i limiti del mio mondo.14

Così, alla maniera dei monaci zen Wittgenstein porrebbe una sorta di kouan, ossia indovinelli per trovare risposta dei quali occorre smettere di ragionare ordinariamente dopo aver compreso che il ragionamento non porta a soluzioni possibili attraverso dimostrazioni (per esempio, appunto, ‘fino a che punto il solipsismo è verità? ‘, ossia ‘quanto dista da essa? ‘).

È in una chiave simile che Kremer legge lo scopo di Wittgenstien nel rispondere che ‘ciò che il solipsismo significa è piuttosto corretto, solo che non può essere detto, esso si mostra ‘, lasciando così i suoi lettori che sono alla ricerca della risposta ancor più spaesati. L’idea è di non dare una risposta ad una domanda che non vuole affatto una risposta. Per Kremer ciò che qui Wittgenstein vuole indicare è che la soluzione corretta va cercata nel tentativo di chiarificazione della percezione di se e del mondo di colui che ne cerca la risposta15 piuttosto che in un’eventuale risposta.

È interessante che Kremer, per chiarire che il solipsismo sia inteso da Wittgenstein come esercizio per la chiarificazione della propria visione del mondo, istituisca un parallelo con quanto sostenuto da Santa Teresa d’Avila16: «è eccellente il pensare che l’anima sia il concepire del mondo come se non ci fosse nulla al di fuori di Dio e che il mondo stesso sia fondato sul nulla tranne che su un autentico annullamento di sé» da mettere in relazione con:

  1. 62 Questa osservazione dà la chiave per decidere la questione, in quale misura il solipsismo sia una verità.

Ciò che il solipsismo intende è del tutto corretto; solo, non si può dire, ma mostra sé.

Che il mondo è il mio mondo si mostra in ciò che i limiti del linguaggio (dell’unico linguaggio che io comprenda) significano i limiti del mio mondo.

  1. 621 Il mondo e la vita sono tutt’uno.17

  2. 63 Io sono il mondo. (Il microcosmo.)

  3. 631 Il soggetto che pensa che immagina non v’è. Se io scrivessi un libro ‘il mondo, come io l’ho trovato ‘, vi si dovrebbe riferire anche il mio corpo e dire quali membra sottostiano alla mia volontà, e quali no etc. ; questo è un metodo d’isolare il soggetto, o piuttosto di mostrare che, in un senso importante, un soggetto non v’è: di esso solo, infatti, non si potrebbe parlare in questo libro.18

Secondo Kremer, qui l’autore del Tractatus sembrerebbe delimitare effettivamente i limiti del mondo: essi svaniscono per chi vi giunge, là è il misticismo, divenire uno col tutto.

Letto in questo senso la proposizione successiva diviene cristallina: il soggetto non è parte, ma limite del mondo (5. 632).19

Ma qui si parla sempre del soggetto che, ascendendo sulle proposizioni del Tractatus, si sta avvicinando a quel limite dall’interno . Non si deve cadere nell’errore di credere che il soggetto possa stabilirsi come limite del mondo, nel senso di essere come una sorta di solco o muro: egli diviene piuttosto, percorrendo la strada suggerita dal Tractatus, una sorta di solvente per il limite. Ove egli si trova, lì il limite cessa e con esso il mondo e il soggetto stesso che ne è parte, limite si, ma interno e dunque coinvolto nella dissoluzione.

Che il solipsismo sia essenzialmente una scelta metodologica di ascesa sulla scala lo si comprende inoltre dalla 5. 64: Appare qui che il solipsismo, svolto rigorosamente coincide con il realismo puro. L’Io del solipsismo si contrae in un punto inteso e resta la realtà adesso coordinata.20

Sembrerebbe indicare il solipsismo come un compito che va svolto in maniera corretta, più che una convinzione vera e propria, che poi porta di fatto ad una contrazione dell’io in un punto inesteso. Ma parla anche di realismo puro ed è evidente che l’inestensione, se valida per una concezione di spazio idealizzata non è adatta ad uno spazio reale. Per compiere una tale contrazione implica che tutto lo spazio deve decrescere in toto con il soggetto e per farlo è necessario che non vi sia più limite tra soggetto e realtà ad esso coordinata. Il punto inesteso diventerebbe dunque l’universo stesso del soggetto che in qualche modo, di conseguenza, cesserebbe di essere tale, ma contemporaneamente, secondo Kremer farebbe cessare l’idea stessa di limite sciogliendosi con essa. In tal modo, il raggiungimento dello scopo del Tractatus sarebbe legato alla dissoluzione dell’io attraverso la rinuncia a tracciare dei limiti, prendendo coscienza che non vi sono limiti da tracciare e giungendo così alla fine di un mito.21 Il soggetto può relazionarsi così strettamente col cambiamento dei limiti del mondo poiché, secondo Kremer, esso è quel limite.22 Nondimeno è stato detto che il soggetto può sciogliere i limiti del mondo solo grazie ad una forte consapevolezza della dissoluzione dell’io che passa per l’esercizio del solipsismo. Kremer cita i quaderni preparatori23 per chiarire meglio un tale paradosso che vorrebbe da una parte la volontà del soggetto come potenza in grado di cambiare il mondo e dall’altra il fatto che, affinché ciò sia possibile, essa necessiti della propria dissoluzione:

io posso solamente rendermi indipendente dal mondo- ed in un certo senso di dominarlo- rinunciando a qualsiasi influenza sugli avvenimenti.

… noi siamo in un certo senso dipendenti, e noi possiamo chiamare ciò da cui dipendiamo, Dio.

In questo senso Dio sarebbe semplicemente il fato, o, che è la stessa cosa: il mondo- che indipendente dalla mia volontà.

Io posso rendermi indipendente dal fato.

Esistono due divinità: il mondo e l’io indipendente.

Sia che io sia felice o infelice, questo è tutto. Si potrebbe dire: buono e cattivo non esistono.

Per vivere felicemente io devo essere in armonia col mondo. E questo è ciò che ‘essere felici’significa.

Io sono allora, per così dire, in armonia con la volontà degli altri dalla quale sembro dipendere.

Che è come dire: ‘io sto facendo la volontà di Dio.

Vivi felice!24

In ultima analisi, per Kremer, la teoria del dire/mostrare ed il solipsismo andrebbero intesi non come giustificazioni che danno risposte a problemi filosofici, ma come un esercizio spirituale per il lettore,25 volto a mostrargli che il suo linguaggio si ferma ad un certo punto, e oltre quello non v’è nulla, e se i limiti del suo linguaggio sono i limiti del suo mondo, allora il suo mondo (e di conseguenza la sua vita) non ha limiti che egli possa percepire come tali senza ricadere in una concezione sostanziale del nonsenso, che nella lettura di Kremer è mero nonsenso. In questo senso egli legge il Tractatus come «un opera di demolizione della nozione di limite del linguaggio, del pensiero, del mondo e con ciò anche dell’’io’del solipsismo».26 Sotto tale aspetto la teoria del dire/ mostrare e il solipsismo verrebbero redenti e acquisterebbero un senso in virtù di questa loro funzione di far prendere coscienza al lettore che le risposte a cui è stato condotto sono tuttavia nonsensi e non perché siano errate, ma perché i problemi ai quali egli cerca risposta non sono affatto problemi ma meri fraintendimenti e condurlo così a individuare nella domanda l’errore che non gli permette di trovare risposta.

Tali teorie esposte nel Tractatus ed etichettate come nonsensi verrebbero così redente dal loro far capire al lettore che il suo interrogativo filosofico era mal posto.

4. Interpretazione di Kremer della soluzione offerta nel Tractatus

Si è visto che il metodo per insegnare «l’attività filosofica» usato nel Tractatus è quello di portare il lettore a credere di trovarsi di fronte alla soluzione filosofica dei suoi problemi per poi mostrargli che tale soluzione è anch’essa un problema che si risolve nell’essere nonsenso. Si sarebbe così portati a credere che la dottrina che permette tale chiarificazione, ossia la soluzione prospettata attraverso la distinzione dire/mostrare, possa essere la vera risposta ai problemi filosofici di cui si fa menzione nella prefazione. Tuttavia Kremer sostiene che «la teoria si dissolve non appena si tenta di prenderla sul serio fino in fondo, e per far ciò dobbiamo tener presente che la ‘dottrina del dire/mostrare ‘ può essere enunciata solo attraverso esempi, che però contraddicono la teoria che si sta cercando di sostenere poiché, in verità, tale dottrina è solo un’altra parte della giustificazione, del tentativo di assicurarsi la felicità usando parole senza significato».27

Ma egli sostiene che non si troverà alcuna soluzione intraprendendo tale percorso. Piuttosto occorrerebbe abbandonare la ricerca di una giustificazione, l’attitudine dovuta all’orgoglio di credere di poter dare un senso e un valore alle proprie vite, in tal modo si riuscirebbe a vedere il valore ed il senso che era racchiuso in esse già da sempre.28

Per avvalorare la sua tesi Kremer sostiene che Wittgenstein stesso fornisce un esempio: per un periodo egli si era ritenuto di troppo in questo mondo e applicando a se il principio del rasoio di Ockahm aveva pensato di suicidarsi. Ma alla fine dei quaderni egli scrive contro il suicidio, indicandolo come un modo per rifiutare l’insensatezza della vita, come peccato originale.29 Il suicidio è il tentativo di dar senso alla vita attraverso una disperata reazione basata sul riconoscimento dell’insensatezza. Ma tale tentativo è, a giudizio di Kremer, fatto in cattiva fede: se non si riesce a trovare un senso alla propria vita non significa che la si debba concludere. Il suicidio non è la soluzione ai problemi della vita, ciò che il Tractatus si propone è «riportarci al senso delle nostre vite come significative, come aventi uno scopo, un uso- un senso che la ricerca di una giustificazione ci aveva portato via».30

È questo infine lo scopo etico del Tractatus come lo legge Kremer. Mentre tutta la discussione delle 6. 45 spinge il lettore a credere che il senso della vita vada cercato in un regno più alto, nel regno del misticismo, che benché inesprimibile sia comunque afferrabile in qualche oscuro modo, nelle 6. 54 Wittgenstein cala la maschera e mostra tale teoria come l’ennesima forma di nonsenso. Per Kremer tutto ha inizio con la ricerca della giustificazione per i propri pensieri e si finisce per approdare ad una soluzione mistica per poi scoprire che una tale soluzione non è una soluzione affatto. Infatti «se non può darsi risposta non può formularsi neppure la domanda. L’enigma non v’è… la soluzione al problema della vita si scorge allo svanire di esso». Nella lettura di Kremer qui si palesa la soluzione definitiva ai problemi filosofici promessa nella prefazione: tali problemi non sono che fraintendimenti. Questa per Kremer non è solo la soluzione ai problemi della filosofia, ma anche allo stesso ‘problema della vita’.31

Tale lettura dello scopo etico del Tractatus illumina il senso della prefazione: -tutto il senso del libro si potrebbe riassumere nelle parole: «tutto ciò che può essere detto si può dire chiaramente; e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere». (Kremer nota come c’è un parallelismo tra queste affermazioni e la terz’ultima e ultima proposizione nel descrivere il corretto modo di filosofare). Il Tractatus non sarebbe altro per lui che un libro di nonsensi che raggiunge il suo scopo nel farsi riconoscere come tale, fornendo la scala sulla quale salire fino a vedere rettamente il mondo. Potrebbe allora sembrare che si finisca col dover tacere per non dire più nonsensi, come se la 7 (su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere) ponesse un divieto. Ma per Kremer non è così. Egli sostiene che tale proposizione sembrerebbe dipendere dalla distinzione tra dire e mostrare che però si è mostrato essere insensata. Prendere tale proposizione come una prescrizione porta a non dover parlare di ciò di cui non si può parlare, ma proprio nel far ciò compie ciò che prescrive di non dover fare. Questo è un nonsenso incoerente e, se così fosse, ossia se Kremer fosse nel giusto, la 7 non sarebbe un divieto, ma un’innocua tautologia. In tal caso essa, propriamente parlando non proibirebbe alcunché.32 Infatti lo scopo del Tractatus non sarebbe impedire di creare nonsensi, ma cambiare la relazione del suo lettore con essi, facendolo desistere dal cercare in essi giustificazioni insensate.

Parimenti la 6. 53 nel descrivere il «corretto metodo di filosofare» indicherebbe tale metodo nel «non dire nulla eccetto ciò che può dirsi; dunque le proposizioni della scienza naturale- dunque, qualcosa che con la filosofia nulla ha a che fare». Tuttavia tale proposizione non fa parte di quelle della scienza naturale, né ha alcunché a che fare con la filosofia. Infatti nel proclamare il metodo corretto, non fa altro che cercare un ulteriore spiegazione per il pensiero, la vita etc. Ed ecco, non casualmente secondo Kremer, che la 6. 54 sostiene che chi comprende l’autore delle proposizioni riconosce esse quali insensate, come appunto al 6. 53 e la 7 che circondano la 6. 54. Tali proposizioni assieme alla ‘dottrina del dire/mostrare’sono l’ultimo tentativo di fornire una spiegazione, una giustificazione. Per Kremer «una volta riconosciute come nonsensi, si comprende l’autore del Tractatus e si intravede come vivere».33

Tuttavia Kremer sottolinea che sarebbe un errore concludere che Wittgenstein mostrando come smettere di cercare un’auto-giustificazione e, di conseguenza, qualsivogliano principi etici che regolino la propria vita intenda istigare al «far fare come si vuole» o magari fornire una licenza per un’auto-gratificazione sfrenata fino ad arrivare ad una specie di anarchia etica. Al contrario torna qui nuovamente utile il parallelismo con S. Paolo e S. Agostino. Per San Paolo la fede libera dalla legge che è ‘pungiglione del peccato’rendendo liberi di poter obbedire a ciò che la legge comanda.

Per Sant’Agostino, l’umiltà trasforma l’atteggiamento dell’uomo riportandolo al ruolo di creatura libera di amare il prossimo.

È in questo senso che per Kremer il modo in cui Wittgenstein riesce a raggiungere il suo scopo etico è attraverso una conversione che liberi non solo dal tentativo di trovare una spiegazione, ma dal conflitto e dai desideri impossibili che tale tentativo provoca.34

Non appena tali desideri saranno trasformati altrettanto lo saranno le vite e le azioni dei lettori. Ci saranno infatti molte cose che chi ha compreso l’autore del Tractatus non farà, semplicemente perché avrà perso ogni desiderio di farle.35

Insomma Kremer crede che il Tractatus miri a inculcare virtù quali l’umiltà e l’amore fraterno (visto come conseguenza dell’umiltà). Tali virtù motivano a comportarsi in un certo modo, come per esempio «lavorare per la gloria di Dio». Tale atteggiamento è l’opposto di quanto avverrebbe di solito nel mondo, ossia il credere che «ciò che capita al mondo mi è indifferente poiché io riconosco che fondamentalmente esso non ha niente a che fare con me- io non posso scalfirlo, ma neanche esso scalfisce me». Il risultato di tale atteggiamento e la perfetta disarmonia che è proprio ciò che origina l’infelicità e a sua volta la necessità di una spiegazione e da essa deriva la creazione di nonsensi e dunque i problemi filosofici.36

Per rompere tale circolo vizioso occorre agire alla radice, dove è possibile arrivare solo ripercorrendo a ritroso la scala che porta fin là. Cominciando col riconoscere i problemi filosofici come frutti di nonsensi; riconoscere questi come risposte ad un esigenza di giustificazione e riconoscere questa come una difesa contro l’infelicità dovuta alla disarmonia col mondo generata dall’orgoglio. Riconosciuto tutto questo cominciare ad essere felici. Ma essere felici, secondo Kremer non rientra nelle decisioni da prendere, almeno che non si voglia ricadere nel vortice dell’orgoglio.

Per Kremer c’è solo una via per essere felici, ed è una via in totale armonia con la struttura del Tractatus: «noi possiamo vivere felicemente solo rinunciando ad essere felici. «Coloro ai quali, dopo lunghi dubbi, il senso della vita divenne improvvisamente chiaro» non possono metterlo in parole perché tale chiarezza si riflette nel loro vivere le proprie vite senza pensare a cosa sia il senso della vita.37

Nel liberare dall’illusione il Tractatus concede anche di vivere nel mondo, invece che distaccarvisi. Mentre indipendentemente dal successo o dal fallimento delle proprie azioni, non si può essere indipendenti dalla qualità delle proprie azioni. Per Kremer è un errore pensare che si possa inerpicarsi «in cima» alla scala delle proposizioni del Tractatus su di una postazione «al di sopra» del mondo, dalla quale guardare il mondo sub specie aeterni. Piuttosto si sale ‘per esse- su esse- oltre esse’.

L’immagine che egli da è la seguente: «noi siamo in una buca scavata da noi. La ‘scala’del Tractatus ci guida non in alto oltre il mondo, ma fuori dalla buca, nel mondo, nel quale siamo ora liberi di vivere».38

Come detto, il solipsismo è vero nella misura in cui ci conduce, secondo Kremer, alla propria eliminazione legata strettamente all’umiliazione dell’orgoglio di chi compie tale esercizio.39

Per questo alla fine del Tractatus si viene lasciati soli con se stessi.

Il lettore è stato portato in cima alla più alta delle scale, che, nelle parole di Kremer, «non è solo la scala del nonsenso della filosofia, ma quella dei nostri desideri e delle illusioni nelle quali ci invischiano. Nel gettare la scala veniamo alleggeriti dal nostro fardello e siamo messi nell’ottica di fare la volontà di Dio. Noi non superiamo solo le proposizioni di Wittgenstein, superiamo noi stessi».40

5. Conclusioni

Secondo Kremer il Tractatus propone al lettore di superare tutti i suoi dubbi non attraverso divieti o precetti, ma incitandolo a seguirli fino in fondo, fino alle loro più estreme conseguenze. Ciò avviene «scalando» le proposizioni, invischiandosi nei nonsensi e nel solipsismo. Secondo Kremer tale attività assume senso nel momento in cui il lettore, esasperato dalla vanità di quelle proposizioni, decide di rinunciare alle risposte che gli vengono fornite, e che vengono «gettate via» assieme alle domande che le avevano originate. Questa interpretazione si propone di far emergere con pienezza il senso delle parole di Wittgenstein, quando sostiene che la filosofia non è un’insieme di dottrine, ma un’attività. Questa attività, secondo Kremer, può essere accostata all’idea cristiana del rinunciare a se stessi per incarnare la gloria di Dio e trovare in essa la felicità.

Questa lettura, dunque, vede nel Tractatus un cammino da compiere attraverso l’illusione e la disillusione. Il testo sembra promettere al lettore le risposte alle sue domande, ma finisce per far sì che egli riconosca che l’unico modo per trovare le risposte che cerca è quello di rinunciare alle domande riconoscendole come insensate. Infatti viene messo nella condizione di comprendere che esse erano frutto di un fraintendimento scaturito a sua volta dall’infelicità portata dall’orgoglio di credere di poter vedere il mondo dall’esterno.

In questo, per Kremer, il Tractatus raggiunge il suo scopo: esso non è un libro che spinge il lettore a pensare qualcosa che non vorrebbe pensare, ma che gli fa fare qualcosa che il suo orgoglio gli impedisce fare: concepirsi come limite del mondo, ma interno al mondo e rendendolo così finalmente libero di vivere felicemente in esso.

6. Bibliografia

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  • Piergiorgio Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998.
  • Michael Kremer, «The Purpose of Tractarian Nonsense», Nous, vol. 35. 39-73.
  • Michael Kremer, «To What Extent is Solipsism a Truth? », Post -Analytic Tractatus, a cura di B. Stocker, Ashgate, Aldershot 2004, 59 -83.
  • Michael Kremer, «Contextualism and Holism in the Early Wittgenstein: From Prototractatus to Tractatus», Philosophical Topics, 25/2 (fall 1997), pp. 87-120.
  • Ray Monk, Ludwig Wittgenstein: The Duty of a Genius, The Free Press, New York 1990.
  • Luigi Perissinotto, Wittgenstein una guida, Feltrinelli, Milano 2003.
  • Ludwig Wittgenstein, Notebooks 1914-1916, a cura di von Wright e G. E. M. Anscombe, University of Chicago press, Chicago 1984; trad. it. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino 1998.

  1. Michael Kremer, «The Purpose of Tractarian Nonsense», Nous, vol. 35; pp. 39-73. ↩︎

  2. Agostino, City of God, Penguin Books, London 1984, pp. 571-572; trad. it. Agostino, La città di Dio, Bompiani, Milano 2001. ↩︎

  3. Agostino, CG, cit. nt.2. p. 522-523. ↩︎

  4. Agostino, CG, cit. nt.2. p. 865-866. ↩︎

  5. Michael Kremer, «PTN», cit. nt. 1. vol. 35; pp. 39-73. ↩︎

  6. Michael Kremer, «PTN», cit. nt. 1. vol. 35; pp. 39-73. ↩︎

  7. Michael Kremer, «PTN», cit. nt. 1. vol. 35; pp. 39-73. ↩︎

  8. Michael Kremer, «PTN», cit. nt. 1. vol. 35; pp. 39-73. ↩︎

  9. Michael Kremer, «PTN», cit. nt. 1. vol. 35; pp. 39-73. ↩︎

  10. Michael Kremer, «PTN», cit. nt. 1. vol. 35; pp. 39-73. ↩︎

  11. Michael Kremer, «PTN», cit. nt. 1. vol. 35; pp. 39-73. ↩︎

  12. Michael Kremer, «PTN», cit. nt. 1. vol. 35; pp. 39-73. ↩︎

  13. Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino 1998. p. 88. ↩︎

  14. Ludwig Wittgenstein, TLP, cit. nt. 13. ↩︎

  15. Michael Kremer, «To What Extent is Solipsism a Truth?», Post-analytic Tractatus, a cura di B. Stocker, Ashgate, Aldershot 2004, pp. 59-84, p. 63. ↩︎

  16. Michael Kremer, «WEST», cit. nt.15. pp. 59-84. ↩︎

  17. Ludwig Wittgenstein, TLP, cit. nt. 13. p.89. ↩︎

  18. Ludwig Wittgenstein, TLP, cit. nt. 13. p. 89. ↩︎

  19. Ludwig Wittgenstein, TLP, cit. nt. 13. p.89. ↩︎

  20. Ludwig Wittgenstein, TLP, cit. nt. 13. p. 90. ↩︎

  21. Michael Kremer, «WEST», cit. nt.15. pp. 59-84. ↩︎

  22. Michael Kremer, «WEST», cit. nt.15. pp. 59-84. ↩︎

  23. Michael Kremer, «WEST», cit. nt.15. pp. 59-84. ↩︎

  24. Ludwig Wittgenstein, TLP, cit. nt. 13. p.219. ↩︎

  25. Michael Kremer, «WEST», cit. nt.15. pp. 59-84. ↩︎

  26. Michael Kremer, «WEST», cit. nt.15. pp. 59-84. ↩︎

  27. Michael Kremer, «WEST», cit. nt.15. pp. 59-84. ↩︎

  28. Michael Kremer, «WEST», cit. nt.15. pp. 59-84. ↩︎

  29. Ludwig Wittgenstein, TLP, cit. nt. 13. p. 219. ↩︎

  30. Michael Kremer, «PTN», cit. nt. 1. vol. 35; pp. 39-73. ↩︎

  31. Michael Kremer, «PTN», cit. nt. 1. vol. 35; pp. 39-73. ↩︎

  32. Michael Kremer, «PTN», cit. nt. 1. vol. 35; pp. 39-73. ↩︎

  33. Michael Kremer, «PTN», cit. nt. 1. vol. 35; pp. 39-73. ↩︎

  34. Michael Kremer, «PTN», cit. nt. 1. vol. 35; pp. 39-73. ↩︎

  35. Michael Kremer, «PTN», cit. nt. 1. vol. 35; pp. 39-73. ↩︎

  36. Michael Kremer, «PTN», cit. nt. 1. vol. 35; pp. 39-73. ↩︎

  37. Michael Kremer, «PTN», cit. nt. 1. vol. 35; pp. 39-73. ↩︎

  38. Michael Kremer, «PTN», cit. nt. 1. vol. 35; pp. 39-73. ↩︎

  39. Michael Kremer, «WEST», cit. nt.15. pp. 59-84. ↩︎

  40. Michael Kremer, «WEST», cit. nt.15. pp. 59-84. ↩︎