1. Rosmini giovane e Rosmini maturo: un confronto a partire dagli anni di Rovereto
L’attenta indagine, condotta sugli scritti storico-politici giovanili di Antonio Rosmini, ci ha permesso di comprendere che l’anno di svolta cruciale per la sua vicenda esistenziale e culturale è stato il 1826, quando il nostro autore, abbandonata la sua amata Rovereto, è approdato a Milano, conosce e frequenta Alessandro Manzoni, legandosi al grande scrittore in forte amicizia, allargando e approfondendo così notevolmente i propri orizzonti culturali in contatto col vivace ambiente milanese.
L’analisi dei numerosi testi, anche se spesso frammentari e in qualche misura «provvisori», composti da Rosmini nei fecondi anni giovanili a Rovereto, pone in evidenza quale importanza abbia rivestito per il filosofo trentino, poco più che ventenne, la riflessione di carattere storico-politico. Dei lavori giovanili queste pagine possiedono contemporaneamente la vastità di orizzonti e l’acerbità, in una visione prospettica di ricostruzione di insieme della politica e della stessa storia, basata su un progetto di tipo enciclopedico, che il Rosmini della maturità ridimensionerà in buona parte. Inoltre le sue pagine del periodo di Rovereto risentono di un certo «patrimonialismo» di fondo, che sarà superato solo a fatica; esse ci danno una visione della proprietà privata che il Rosmini maturo in parte ripudierà. Queste opere giovanili poi non pongono al centro del discorso il ruolo della persona nella vita comunitaria e civile, il peso e il valore del suo personalismo, che diverrà nella maturità il tratto più originale e innovativo della sua visione storico-politica.
Ma nonostante tutto, molte sue intuizioni giovanili hanno impresso nel Nostro un segno profondo e indelebile, tanto che vi si colgono in potenza i grandi temi della successiva riflessione storico-politica, anche se questa diventerà via via più libera, più sciolta e più personale negli anni della maturità e specialmente dopo le esperienze di carattere politico-diplomatico di Rosmini dopo il 1848-1849.1
Le opere della maturità del Nostro svilupperanno in particolare la riflessione sulla Rivoluzione francese. Se infatti il giovane Rosmini pare orientato a fornire una risposta alle ideologie dell’Ottantanove, puntando su una riscoperta e attualizzazione della tradizione di pensiero antecedente alla rivoluzione, (di qui la sua consonanza con progetti politici propri della Restaurazione), il Rosmini della maturità comprenderà sempre più distintamente l’impraticabilità di un mero ritorno al passato e la necessità ineludibile di confrontarsi fino in fondo con le ideologie della Rivoluzione francese, anche per recuperarne gli aspetti positivi in esse presenti.
Così la transizione del nostro autore da categorie di pensiero ancora legate alla cultura e al mondo della Restaurazione a posizioni sempre più apertamente «cattolico-liberali» sarà proprio segnata dal progressivo cambiamento di prospettiva, dalla quale il filosofo trentino interpreta gli eventi rivoluzionari francesi. Da una condanna senza possibilità di appello egli passerà a un giudizio via via più articolato e sfumato, che non impedirà l’apprezzamento di certi aspetti positivi del messaggio rivoluzionario, in primo luogo la rivendicazione delle principali libertà dell’uomo, con la netta opposizione a ogni forma di dispotismo.
La Rivoluzione dell’Ottantanove con le sue ombre, ma anche con le sue luci, costituirà dunque per il Roveretano non il trionfo del demoniaco, come l’avevano bollata i tradizionalisti, ma un fenomeno storico assai complesso, grazie al quale rileggere e interpretare in modo nuovo l’intero corso della storia europea, per mettere in moto quel processo di rifondazione della persona e dei suoi diritti, che rappresenterà la chiave interpretativa fondamentale del pensiero storico-politico di Antonio Rosmini.
Tenendo conto di tutto questo è allora comprensibile l’avversione del Nostro per il dispotismo e le lunghe riflessioni fatte su di esso e la sua scelta in favore del «reale», contro i rischi e le ambiguità, in cui cadono i sostenitori dell’ »astratto», del «perfettismo» in campo storico-politico e in campo storico-economico, comprendendo tra questi i giacobini, gli utopisti socialisti e comunisti, ma anche Bentham, Melchiorre Gioia e i teorici liberalisti, fautori di una industrializzazione troppo rapida e selvaggia, che non teneva conto dei diritti e delle esigenze dei popoli primitivi o dei ceti sociali più deboli dal punto di vista economico; Rosmini infatti si mostrerà sempre radicalmente scettico sulla possibilità di edificare una società politica perfetta, contando sulla naturale bontà dell’uomo o sulla sua socialità innata.2
Per quanto riguarda lo sviluppo del pensiero storico-politico di Antonio Rosmini è possibile individuare, come abbiamo già ricordato, una precisa cesura, quella costituita dal viaggio a Milano durante l’inverno del 1826. Infatti il 25 febbraio di quell’anno il Nostro lasciava Rovereto, la sua città natale, per la capitale lombarda, portando con sé tutta una serie di materiali preparatori di quella che sarebbe divenuta, ma solo attraverso una progressiva delimitazione dell’area, all’inizio molto vasta, la Filosofia della politica del 1839, e per alcuni aspetti, la Filosofia del diritto, composta fra il 1841 e il 1843.
A questa amplissima, enciclopedica opera storico-politica Rosmini avrebbe voluto applicarsi a Milano, in un ambiente culturalmente e socialmente più ricco e stimolante di quanto non gli apparisse allora la piccola Rovereto, alla quale tuttavia rimase sempre intimamente e profondamente legato.
Il viaggio del 1826 verso la capitale lombarda diventa, dunque, un momento di autentica svolta nell’itinerario speculativo del Roveretano specie sotto il profilo storico-politico, e ciò è avvalorato dal giudizio, che almeno dal punto di vista implicito, Rosmini stesso dava dei materiali di filosofia della politica fino ad allora elaborati e che restarono inediti e in buona parte sconosciuti sino agli anni 1923-1933.3
Il fatto poi che il Nostro abbia sostanzialmente accantonato in seguito il frutto di questa impegnativa ricerca, portata avanti fra il 1821 e i primi mesi del 1826 nella sua città natale, preparando invece per le stampe le altre opere di carattere storico- politico sopra citate e composte fra il 1839 e il 1843, che di quei materiali giovanili rappresentano una ripresa e un approfondimento, non rende tuttavia questi ultimi meno interessanti. Il più maturo Rosmini dopo il 1830 si dedicò a un ciclopico lavoro intellettuale, che lo portò a non riconoscersi completamente in quelle pagine giovanili, ancora relativamente acerbe, e soprattutto elaborate in un quadro culturale, dove forte era l’influenza del tradizionalismo di J. De Maistre e soprattutto di L. von Aller, che dopo la «svolta», rappresentata dal viaggio a Milano del 1826, terminava di essere il suo.
Non dando più alle stampe quelle pagine giovanili e limitandosi a estrarne, qualche volta con autentici colpi di forbice, quelle parti ritenute attuali e ancora valide, il Roveretano esprimeva un giudizio fondamentalmente negativo e in qualche maniera le sconfessava. Ma il problema che in sede storiografica si deve affrontare, a noi pare, è se veramente quelle pagine scritte fra il 1822 e il 1826 fossero solamente una specie di «prova generale» di un pensiero che solo più avanti avrebbe trovato la sua piena maturità negli scritti storico-politici degli anni successivi; o se esse invece abbiano un valore oggettivo e meritano dunque di essere riproposte per il loro intrinseco e autonomo valore.
In parole più semplici: c’è continuità o discontinuità fra il «primo» e il «secondo» Rosmini per quanto attiene ai suoi studi storico-politici?4
Fondamentale punto di riferimento per questo tentativo di ricostruzione storiografica è quella che è stata definita l’Opera politica roveretana, rinvenuta da Giovanni Battista Nicola e da lui riportata all’attenzione degli studiosi.5 Questa raccolta di inediti di Rosmini, curata da Nicola, è composta da tre testi: un manoscritto senza titolo su argomenti di filosofia della politica, che risalgono agli anni 1822-1823, che corrisponde — salvo la parte iniziale, che manca — a quello che avrebbe dovuto diventare il Libro I dell’opera; un Libro II intitolato «Del mezzo efficacissimo, in mano dei governatori a ottenere il fine della politica», iniziato nel 1823; alcuni «Frammenti di filosofia della politica» che avrebbero dovuto confluire nell’opera e che sono stati composti in parte a Rovereto, in parte durante il soggiorno milanese del 1826.
Numerosi sono i temi affrontati in queste pagine giovanili con uno sviluppo di pensiero che anticipa, a volte senza modificazioni essenziali, posizioni e idee del Rosmini della maturità; ma è su due tematiche dell’opera storico-politica giovanile che vogliamo fissare la nostra attenzione, per l’importanza che esse rivestono nell’evoluzione della concezione storico-politica del Nostro; esse sono la critica del dispotismo e la presa di coscienza di Rosmini sul problema nazionale italiano. In questi due punti il Roveretano, a nostro avviso, fornisce un quadro quasi definitivo di alcune posizioni che diverranno fondamentali nelle successive opere storico-politiche della sua piena maturità, confermando dunque quel rapporto di continuità (in molte tesi di fondo) e di discontinuità (sotto il profilo dello stile, delle argomentazioni, della costruzione del pensiero), che intercorre fra gli scritti giovanili e quelli dell’età matura, con queste differenze: le pagine del periodo di Rovereto risentono ancora di un certo «patrimonialismo» di fondo, che verrà solo con lentezza e con fatica superato; esse sostengono una visione della proprietà privata che il Rosmini maturo in parte ripudierà. Inoltre queste opere giovanili non mettono ancora al centro del discorso il ruolo della persona nel vivere comunitario e civile, il peso e il valore del personalismo rosminiano, dunque, che diverrà in età matura il tratto più originale e profondamente innovativo della sua visione storico-politica più compiuta. Essa offrirà un contributo fondamentale all’elaborazione del pensiero storico-politico italiano dell’Ottocento, con riflessi significativi, che si proietteranno anche sulle correnti personaliste del ’900 sino al Concilio Vaticano II.6
2. La critica del dispotismo
Il tema, che con maggiore evidenza emerge dalle pagine giovanili rosminiane, tratta della critica al dispotismo. Esso, a detta del Nostro, deriva dalla mancanza di limiti politici e religiosi del potere.
Mentre il Rosmini degli anni della maturità svilupperà, specialmente nella Filosofia della politica e nella Filosofia del diritto il problema dei limiti propriamente politici del potere, in particolare attraverso la essenziale figura del «tribunale politico», sulla cui importanza nel contesto del pensiero storico-politico rosminiano ha richiamato l’attenzione F. Mercadante,7 nelle pagine del 1823-1825 il Roveretano evidenzia la componente più specificamente religiosa.
Il dispotismo si sviluppa pienamente, quando viene a mancare la funzione critica della religione e specificamente della Chiesa come istituzione. La forte critica, ispirata dalle tesi di J. B. Bousset e da J. De Maistre, che in questo contesto Rosmini muove contro la Riforma protestante, affermando che nelle mani dei protestanti la sovranità cessò di essere una cosa sacra per trasformarsi in una cosa umana, ha contemporaneamente una radice religiosa (il protestantesimo ha spezzato l’unità della fede) e politica (il potere ha lasciato l’uomo indifeso dinnanzi all’assolutismo regio, perché ha smosso le fondamenta della Chiesa come istituzione, fornita di autonomia e dunque di capacità di contrattazione nei riguardi del potere politico).8 «Appena alla Chiesa rapite il sacro fuoco che vi illumina e che in voi si riflette -scrive con un linguaggio immaginifico il giovane Rosmini, rivolto ai governanti- estinguete non solo il suo, ma anche il vostro splendore»;9 si aprono, quindi, spazi sempre più grandi, dove il dispotismo, che impersona una degenerazione del potere, agisce indisturbato, infirmando radicalmente il senso e la legittimità del potere stesso.
Nessuna voce, pari a quella della Chiesa, si è levata e continua a levarsi con la stessa autorevolezza contro la tirannia e il dispotismo. «Una legge eterna conforme alla natura insuperabile di giustizia -continua il Nostro- è quella unica che può limitare il principe nei suoi doveri e nei suoi fatti e, traendolo dentro la sua sfera, torgli il dispotismo e la tirannia».10
Rosmini pare che non ponga in questi passi alcuna limitazione specificamente giuridica del potere (dato che il principe è superiore a ogni altra persona, nessun uomo può porgli dei limiti); infatti il Nostro qui non ha ancora operato quella scelta di fondo a favore del costituzionalismo, vissuta come forma di limitazione giuridica del potere, che verrà fatta propria da lui successivamente e si esprimerà compiutamente nei progetti di Costituzione elaborati verso il 1848; ma proprio per questo motivo, egli appena ventottenne del potere specifica con forza la non assolutezza. «Un limite essendo assolutamente necessario, Iddio ha scritto nel suo cuore (e cioè nel cuore del principe), la legge naturale, la legge della giustizia e della virtù. Se egli non si lascia limitare da questa legge, fors’è che sia limitato dall’odio e dalle rivoluzioni dei popoli?» si chiede Rosmini e la risposta è evidentemente negativa.11
Da una parte, dunque, le testimonianze della storia ci attestano la ricorrente tentazione del dispotismo; dall’altra la volontà del popolo pare al Rosmini degli anni attorno al 1825 essere un limite insufficiente al potere assoluto e tendenzialmente dispotico. L’unica strada percorribile consiste nel rafforzare l’argine religioso, quello incarnato dal punto di vista storico dalla Chiesa cattolica e dai valori da essa condivisi e difesi, quelli rappresentati dalla giustizia, attraverso la mediazione del diritto naturale. «Se si tolgono adunque del fianco del principe i sacerdoti, che istruendolo nella legge divina, a lui mettono questo limite -conclude su questo tema Rosmini- è un farlo assoluto»;12 e tutto questo comporta l’aprire nuovi varchi all’assolutismo. E precisa ulteriormente il Nostro, per stornare ogni possibile accusa di ingerenza della Chiesa in questioni temporali: «Non voglio che i sacerdoti siano consiglieri del principe o nell’agricoltura o nella finanza. Dico che essi sono gli unici, a cui si possa appoggiare il principe, per avere una sentenza sulla giustizia e sulla rettitudine delle nazioni e i depositari e gli interpreti di quella legge non scritta che è l’unico limite della sovranità».13
Mediante l’azione della Chiesa e di quelli che in essa hanno autorità, è dunque rivelato ai principi il limite necessario del loro agire.
3. Il problema nazionale italiano
Il secondo aspetto particolarmente interessante dell’analisi storico-politica degli anni di Rovereto è costituito dall’ampio spazio dato da Rosmini alla fine del II Libro al problema nazionale italiano.14
Egli è ben consapevole in queste pagine di tralasciare, addentrandosi in tale problematica, l’approccio rigorosamente scientifico all’indagine storico-politica, a cui aveva tentato fino a questo momento di attenersi: «ma poiché io sono italiano e potentissima mi stringe carità della patria, non ho vigore che basti a comprimere alcune gravi parole che mi occorrono involontarie dall’animo, e di consacrare alla più dolce delle virtù, cioè all’affetto di patria, una piccola parte di questo libro» sente la necessità impellente di precisare Rosmini proprio all’inizio di questo excursus storico.
La tesi di fondo del Roveretano consiste nell’affermare che la via della rivoluzione o della insurrezione armata (il riferimento ai moti del ’21 in Piemonte è l’avvenimento storico che ha senz’altro suscitato questa sua presa di posizione) è impraticabile per due ordini di motivi: il primo consiste nel fatto che l’Italia è dal punto di vista militare troppo debole e di sicuro soccomberebbe di fronte a nazioni assai agguerrite e potenti militarmente, rette da sovrani molto forti, educati alle armi e dalle necessità dei tempi passati e dai provvedimenti dei governi (Rosmini qui allude certamente alla politica portata avanti dall’Austria, tramite il principe di Metternich, durante il Congresso di Vienna e all’assetto politico messo in piedi dalla Santa Alleanza); il secondo, più sottile e più interessante per l’epoca in cui è stato formulato, tanto da riecheggiare accenni di tipo mazziniano, fa riferimento alla insufficiente educazione al senso nazionale: gli italiani infatti, secondo il suo giudizio, sono «enervatissimi di educazione, per infinite divisioni» e come potrà acquisire all’improvviso una matura coscienza nazionale «quella Italia, che per quindici secoli fu educata alla viltà, nella servitù e nella mollezza?».15
Fin dal 1825, dunque, Rosmini mette in luce una chiara consapevolezza sulla fondamentale importanza della educazione nazionale per la risoluzione del problema italiano, con accenti simili agli altri grandi profeti del Risorgimento, da Vincenzo Gioberti, a Cesare Balbo, sino allo stesso Giuseppe Mazzini, come abbiamo sopra ricordato.
Il Nostro procede quindi documentando questa sua affermazione con un lungo excursus storico, nel quale fa propria una lettura assai originale di fasi assai importanti della storia d’Italia, improntata a una profonda critica, almeno per quanto concerne lo sviluppo dello «spirito nazionale», non soltanto dell’alto Medio Evo, del Rinascimento e dell’età moderna, ma anche dello stesso periodo comunale, tanto esaltato da altri storici e politici come massima espressione della libertà italiana. Questo inoltre costituirà anche nel Rosmini più maturo, quello per intenderci delle Cinque piaghe, uno degli elementi di maggiore differenziazione dalla visione neoguelfa di Vincenzo Gioberti. Quel Medio Evo che tanti autori a lui contemporanei e tanti pensatori romantici, specialmente di lingua italiana e tedesca, tendevano a esaltare come una specie di mitica società dell’oro, alla quale si doveva ritornare in qualche modo o alla quale almeno ci si doveva ispirare, è presentato dal pensatore di Rovereto, che rivela in questo caso un acuto e originale senso storico, in tutti i suoi limiti, dato che è proprio nell’età feudale e poi nell’epoca dei comuni che sono state poste le premesse di quelle future divisioni, le quali hanno bloccato in Italia il germinare e lo sviluppo di un autentico spirito nazionale, dividendo la penisola in tante piccole entità politiche che l’hanno resa facile preda di Stati nazionali più forti e coesi. Su questo punto il Nostro fa propria una decisa e netta presa di distanza dalle posizioni, che quasi un ventennio dopo, verranno esposte da Gioberti nelle pagine del Primato morale e civile degli italiani, che risale appunto al 1843.
È proprio nel Medio Evo, presunta età dell’oro dell’Italia, secondo Rosmini, che «brulicavano da per tutto i tiranni», si imponevano «i partiti, le fazioni, le sette», così che «dalle repubbliche si generarono i tiranni».16 «Chi potrebbe tenere il pianto — si domanda in modo retorico un po’ più oltre — a vedere sì gentile e eletta nazione qual è l’Italia inferocire su sé medesima e i maravigliosi suoi figli, come forsennati, insanguinarli nei propri sangui?».17
Una esasperata conflittualità diverrà dunque la caratteristica dominante della storia italiana proprio e particolarmente nell’età comunale ed è proprio questo fenomeno a impedire l’affermarsi di un reale ed effettivo spirito nazionale. In questo modo «nessuno arriva a conoscere quei confini del mare e delle Alpi, dentro cui la natura ha messo un popolo solo (va sottolineato in questo passaggio la limpida e inequivocabile allusione all’italianità del Trentino); e perciò «sdegnando la patria data da Dio, si ergono sacrilegamente dei confini più brevi, e gli uomini temerari più e più restringendo la patria» trasformarono in molti popoli fra loro nemici «quello che è creato uno ed indivisibile».18
Da tutto ciò deriva dunque il progressivo e inarrestabile declino dello spirito nazionale, con la conseguente rinuncia alla difesa della autonomia italiana, che ha provocato inoltre lo stesso indebolirsi della spinta creativa degli autori italiani sia nel campo letterario come in quello artistico.
Il riconoscimento dell’esistenza di una questione nazionale italiana non comporta tuttavia per Rosmini l’accettazione della via insurrezionale, che sarà invece tanto cara ad esempio alla posizione di Giuseppe Mazzini e che diverrà uno dei capisaldi del suo programma, proclamato dalla Giovine Italia: la nuova associazione da lui fondata, proprio per porre rimedio ai guasti e alle inadeguatezze dei vecchi e ormai superati gruppi carbonari, presi di mira dalle critiche un po’ beffarde anche di Antonio Rosmini.
Il Nostro lancia in questi passi un’autentica invettiva nei confronti di quei rivoluzionari che «non hanno concepito mai che sia né reggere né maneggiare armi, che non hanno una sola idea intera nella testa, ma solo quattro frasche e quattro sofismi smozzicati, bevuti dalla comune fogna francese, che non hanno fatto in tutta la loro vita alcuna cosa migliore di quattro versi per le loro innamorate».19
Espressioni dure e sarcastiche, che l’autore roveretano in buona parte modificherà, addirittura sconfessandole, quando, verso il 1848, egli stesso in qualche modo parteciperà al moto rivoluzionario e giudicherà con una minore prevenzione le vicende della rivoluzione francese dell’Ottantanove e le Dichiarazioni dei diritti dell’uomo e del cittadino, che a essa hanno fatto seguito e alle quali, sia pure in modo critico, egli stesso in qualche maniera si rifarà.
Ma i suscitatori dei moti del 1821, perché è a loro che con ogni evidenza Rosmini fa riferimento, non meritano di essere sostenuti e tanto meno seguiti, perché non è da queste azioni sporadiche, male organizzate che potrà nascere la salvezza per l’Italia. «In queste ribellioni — continua il Nostro — non si guadagna altro che la calamità […] Le rivolte che hanno per iscopo mutare il governo assoluto in uno più moderato, o si finiscono presto (il che è difficilissimo e dimanderebbe tali e tante circostanze, da non aspettarle mai); o, se durano un pezzo, il popolo non può vivere un pezzo nei torbidi e nei disastri» (considerazione molto realistica sul carattere eccezionale della rivoluzione; interessante anche l’attenzione sempre viva in Rosmini per le condizioni dei ceti popolari, spesso vittime inconsapevoli nei moti insurrezionali). Così la ribellione rischia di favorire l’instaurazione di un nuovo potere dittatoriale, e qui vi è una chiara allusione all’avvento del regime di Napoleone Bonaparte, dopo i disordini e le carneficine della rivoluzione francese, perpetuando in questo modo, per altra via, i guasti e i danni dell’assolutismo.
E anche ammesso che la rivoluzione riuscisse, bisognerebbe salvaguardarne gli esiti nei confronti delle nazioni vicine, già forti militarmente e ben consolidate politicamente, ciò che sarebbe possibile, secondo il filosofo trentino, solamente in presenza di un robusto e diffuso spirito nazionale e di una forte organizzazione militare, condizioni quest’ultime totalmente assenti in Italia in quel periodo storico.20
Le considerazioni di queste pagine, nelle quali il pensiero storico-politico di Rosmini appare ancora solo abbozzato e privo di una compiutezza che solo le esperienze future potranno conferirgli, conducono a concludere che »le ribellioni spargono infinito sangue ed empiscono di mille timori e mettono mille disunioni e sventure in tutte le famiglie, spezzano gli antichi legami, mutano lo spirito nazionale, sovvertono i costumi invalsi, portano le conseguenze più tetre nei figli e nei nipoti in molte generazioni. Ben più lunga è questa serie di mali che la vita di qualunque tiranno, e pazza cosa però è questa con quella mutare».21
Cercando a questo punto di pervenire a una conclusione sulla posizione del Rosmini degli anni giovanili sul problema dell’unificazione nazionale italiana possiamo affermare che egli fin dagli anni ’20 mostra di abbracciare senza alcuna esitazione la causa nazionale italiana, e rispetto a coloro che hanno partecipato ai moti del 1821 il suo dissenso non è pertanto sui fini, quanto piuttosto sui mezzi adottati.
Il Nostro infatti considera quei tentativi insurrezionali destinati al fallimento per tre ordini di motivi: perché si tratta di sforzi di gruppi troppo ristretti, che non sono radicati saldamente nel popolo; perché è mancata una autentica educazione nazionale; perché l’Italia dal punto di vista militare è ancora del tutto impreparata. Queste intuizioni paiono singolarmente acute e penetranti per uno scrittore in quegli anni agli inizi della sua riflessione storico-politica.
La piena adesione di Rosmini alla causa nazionale italiana e le prese di posizione che egli farà proprie nel 1848 trovano in queste pagine giovanili una importante e significativa anticipazione.22
4. Rosmini e Tocqueville
Interessante ci pare a questo punto segnalare come sul problema delle rivoluzioni Rosmini non abbia tralasciato di analizzare le ragioni del successo della rivoluzione americana, considerata come un fatto unico e in un certo senso irripetibile, sia perché quelli che diventarono successivamente gli Stati Uniti d’America si scontrarono «con una nazione sola e questa, per qualunque cosa si dica di lei, moderata per li principi del governo, per libera educazione e per uno spirito indipendente»;23 (in questo passo risulta evidente l’allusione indiretta del Nostro alla diversa struttura culturale, sociale e politica dell’impero asburgico rispetto alla monarchia costituzionale inglese) sia perché gli insorti americani furono sostenuti da altri popoli europei, i Francesi in particolare, sostegno invece — dichiara apertamente Rosmini — che assai difficilmente sarebbe stato garantito all’Italia da altri paesi europei.
Dunque la causa americana fu «incomparabilmente più vantaggiosa, considerata in tante favorevoli circostanze e tutte proprie di lei, di qualunque causa europea».24
Queste poche righe ci rivelano che l’interesse di Rosmini per la recente storia americana, per l’organizzazione politico-amministrativa e per il sistema istituzionale degli Stati Uniti fu notevole e precoce; non a caso l’autore trentino sarà uno dei primi lettori in Italia della Démocratie en Amérique (1835-1840), opera in cui Charles Alexis de Tocqueville aveva magistralmente descritto la nascita e l’instaurarsi del sistema democratico in questo grande e giovane paese.
Questo magistrato francese, geniale e originale storico, uomo politico dallo spirito indipendente, che si fece interprete di un liberalismo consapevole della crescente importanza storica dell’ideale di uguaglianza e della necessità di istituzioni adatte a conciliarlo con le libertà individuali, non mancherà di esercitare una significativa e duratura influenza sul giovane Rosmini.25
Proprio in questa prospettiva va colto il valore della duplice denuncia che Tocqueville rivolge all’Ancien régime e Rosmini all’infeudamento della Chiesa allo Stato; così a una funzione in prevalenza di carattere politico della religione e della stessa Chiesa è contrapposta una funzione essenzialmente spirituale e profetica, in nome di una lettura fortemente in chiave anti-temporalistica dell’azione della Chiesa e dello stesso papato.
Il pensiero politico-religioso dell’autore francese, che, come abbiamo sopra precisato, ha influenzato profondamente Antonio Rosmini, fa riferimento a due passi fondamentali, il primo dei quali, ispirato dall’ambiente romantico, sostiene che esiste uno stretto legame fra politica e religione: «Accanto a ogni religione si trova un pensiero politico che, per affinità, le è unito»;26 il secondo afferma che tale ispirazione di fondo non deve mai tradursi in un infeudamento della religione al potere costituito: «Unendosi alle vecchie potenze politiche — avverte Tocqueville — la religione non può contrarre che un’alleanza onerosa: essa non ha bisogno del loro soccorso per vivere e, servendole, può morire». Infatti lo storico francese, richiamando l’antica tortura etrusca, definisce le chiese collegate agli Anciens régimes come un vivente legato a cadaveri: »tagliate i legami che lo trattengono ed egli si rialzerà».27
Queste due tesi si ritrovano, sviluppate in modo più ampio, in Antonio Rosmini, anche se il Nostro opera un deciso spostamento di accento dalla categoria di «religione» a quella di «Chiesa»; egli infatti afferma in primo luogo che il cristianesimo costituisce un formidabile fattore di incivilimento e poi che esso potrà svolgere in modo tanto più compiuto questa sua missione quanto più la Chiesa verrà lasciata libera di essere se stessa e di esplicare fino in fondo il suo ministero spirituale. Il modello rosminiano di interazione, dunque, fra Chiesa e Stato è quello di una società personalistica a ispirazione religiosa, che, annoverando al suo interno una qualificata comunità di credenti, riconosce il proprio riferimento ai valori religiosi.28
5. La storia e la politica negli scritti del giovane Rosmini sino al 1825
La nostra attenzione si è sino ad ora incentrata sulle Opere inedite di politica e particolarmente sulla svolta nell’itinerario speculativo del roveretano circa le tematiche di natura storico-politica, rappresentata dal viaggio a Milano dell’inverno del 1826, ma per motivi di completezza è bene non tralasciare l’ampio e incompiuto testo: Appunti per una storia dell’umanità,29 che risale agli anni fra il 1817 e il 1824 e che costituisce un’opera importante, specie per quanto attiene l’analisi della concezione rosminiana della storia; anzi -come ci suggerisce L. Bulferretti- il peculiare storicismo cristiano di Rosmini completa una visione filosofica e un’interpretazione scientifica applicata alla storia.30
Il manoscritto costituisce una specie di ricostruzione di insieme della vicenda delle istituzioni politiche, fra le quali Rosmini distingue tre forme principali di governo: quella «dispotica» nella quale l’autorità è collocata nelle mani di un solo soggetto; quella repubblicana, in cui l’autorità «sta nel popolo o nel Signore»; quella monarchica, quando il potere viene esercitato da un sovrano unico, ma risulta tuttavia «temperato dalle leggi e dalle costumanze che la saggezza dei monarchi e il rispetto dei popoli hanno reso sacre e inviolabili».31
In questi passi il Nostro sostiene apertamente la tesi, riconducibile al pensiero di Giambattista Vico nella Scienza Nuova, della stretta relazione esistente tra storia delle istituzioni politiche e vicenda complessiva della storia dell’umanità, dove è la storia il fondamento della stessa scienza politica.32 Il vivo interesse dell’adolescente Rosmini per la storia politica si evidenzia anche nella Storia dell’amore,33 opera che sarà pubblicata a Cremona nel 1834, ma che è stata redatta a Rovereto fra il 1820 e il 1821 e completata nel 1823; essa è una ampia meditazione sul rapporto fra storia sacra e storia profana, fra la parola di Dio e le vicende umane.
Nel commentare in particolare i libri dei Re e di Giuditta, il Nostro prende posizione, attraverso la rilettura biblica, anche su temi di carattere storico-politico, là ad esempio dove individua nel riferimento a Dio la prima ed essenziale barriera contro le degenerazioni del potere politico: «Se un mortale qualunque, per il fatto che si vede innalzato su gli altri uomini, invece di considerarsi come ministro dell’Altissimo, reputa di essere il padrone di quei suoi sudditi, che veramente sono sudditi solo a Dio; e si serve di essi dispoticamente, facendoli servire a se stesso come altrettanti mezzi, invece di considerare ciascuno di essi come avente ragione di fine; sappia — ammonisce con forza il giovane Rosmini — ch’egli ha bandito la giustizia dal suo animo, che usurpa i diritti di Dio, che è un nemico di Dio, un tiranno».34 È in queste righe chiaramente esposto quello che diverrà uno dei principi informatori dell’intero pensiero storico-politico rosminiano: l’irriducibilità della persona a «mezzo» e la sua fondamentale qualità di «fine» anche nelle vicende politiche e negli avvenimenti storici.
«L’amore di Cristo — aggiunge ancora il Roveretano — rende giusto e dolce il governo civile» e passa quindi a illustrare l’ideale del «principe cristiano», che «non ama la pericolosa e solo apparente altezza del posto; e se regge e governa i suoi sudditi, lo fa per dovere, e sa che vero e unico suo ufficio è di soccorrere ai loro bisogni e aiutarli a raggiungere il loro fine».35
Sempre tenendo conto della prospettiva storico-politica non meno interessanti appaiono gli spunti contenuti nel Panegirico di Pio VII,36 in particolare dove trattano della soggezione della religione ai poteri temporali costituiti: «Quei principi che di religione fanno una serva alla politica, la dispogliano di quell’una prerogativa per la quale potrebbe essere loro utile. Chè la religione è religione, e come religione è potentissima da ciò, che non servendo essa a nulla, tutto serva a lei. Se i re tolgono ad essa questo, se non comporta il loro orgoglio di essere a quest’una soggetti, non hanno più in mano a giovarsene la religione, sì una larva di religione»;37 è importante segnalare che i censori austriaci ritennero sospetta e pericolosa proprio questa decisa riaffermazione della libertà della Chiesa.
In secondo luogo l’aspirazione a una pacifica soluzione delle relazioni internazionali, in modo da scongiurare il ricorso alla guerra, mediante la creazione di un «tribunale politico» soprannazionale, di questo »civilissimo» e insieme «evangelico» tribunale avrebbe dovuto essere presidente lo stesso papa: qui viene anticipato uno dei classici temi del successivo neoguelfismo.38
In terzo luogo la rivendicazione della libertà dell’Italia, anche se in termini morali e spirituali piuttosto che specificamente politici; Rosmini infatti attribuisce al pontefice Pio VII il grande merito di aver difeso con inesausta energia l’ »italica libertà», interpretata come condizione necessaria per la libertà medesima della Chiesa: «l’italica libertà, come quella nella quale la libertà della apostolica Sedia è contenuta».39 Connessione dunque fra libertà dell’Italia e libertà della Chiesa, che verrà pure successivamente sostenuta dal neoguelfismo di Vincenzo Gioberti e a favore della quale già in questi passi Rosmini si fa fervente assertore.
In conclusione possiamo affermare che anche il Panegirico di Pio VII, al di là dei suoi evidenti limiti di prospettiva storica, costituisce un documento importante per cogliere gli interessi storico-politici del Nostro negli anni che vanno dall’adolescenza alla giovinezza.
6. Considerazioni conclusive sugli scritti storico-politici giovanili
L’analisi dei numerosi passi, spesso frammentari e in qualche misura ancora provvisori, prodotti da Antonio Rosmini nei fecondi anni della sua giovinezza trascorsa a Rovereto, rivela chiaramente quale importanza abbia rivestito per il nostro autore, poco più che ventenne, la riflessione sugli accadimenti storici e sugli eventi politici più significativi di quell’epoca, per cui queste pagine possono essere valutate come una specie di «grande incunabolo — come ci suggerisce Giorgio Campanini — del Rosmini politico maturo. Dei lavori giovanili queste pagine hanno insieme la vastità di orizzonti e l’acerbità, in una prospettiva di ricostruzione di insieme della politica e della stessa storia dell’ umanità fondata su un progetto enciclopedico che il Rosmini maturo ridimensionerà. Ma, nonostante tutto, quelle intuizioni giovanili lasciano in Rosmini un segno profondo: vi si intravedono in nuce i grandi temi della successiva riflessione politica rosminiana, anche se questa si farà mano a mano più libera, più sciolta, più personale.
Il giovane Rosmini appare dunque un attento e acuto osservatore della politica, anche se ancora incapace di dare una risposta meditata ai problemi posti dal mutamento della società europea quale si andava già delineando in quegli anni della Restaurazione che si situano in qualche modo a metà strada fra la riproposizione dell’antico e la ricerca del nuovo. Ma fra antico e nuovo — continua Campanini — Rosmini, già negli anni di Rovereto, aveva fatto la sua scelta in direzione del rinnovamento della società e della riforma della Chiesa. Era questa una scelta che derivava non da un acritico culto della novità per la novità, ma dalla consapevolezza che nessuna volontà restauratrice o conservatrice avrebbe potuto arrestare a lungo il corso della storia».40 Infatti «Il solo inveterarsi delle cose, siano anche le più sante, le più accorte istituzioni — annotava il Roveretano fin dal 1823 — leva loro il vigore e l’efficacia, le corrompe cogli abusi, le affievolisce col renderle oscure».41
Diffidente nei riguardi delle astratte teorie rivoluzionarie, bollate come troppo utopiche, ma attento e acuto osservatore della storia, Rosmini prendeva le distanze, sin dagli anni giovanili, da una visione statica e tardo-mediovalistica della società e delle sue istituzioni, ponendo le premesse per un deciso rinnovamento, indispensabile a detta del Nostro, dato che la società ha continuamente bisogno di cambiamento, e solo attraverso questo percorso essa ha la possibilità di evitare l’inevitabile logoramento legato all’«inveterarsi delle cose».
Anche Gioele Solari sottolinea autorevolmente l’importanza di queste intuizioni degli scritti giovanili roveretani, che a dir suo «permettono di affermare che nei primi mesi del 1828 il Rosmini […] aveva raggiunto non solo la maturità, ma l’unità del pensiero, della sua personalità, oltre che sotto l’aspetto religioso, filosofico, e questo era noto, anche politico, e questo era meno noto o imperfettamente noto. Le opere posteriori, soprattutto quelle giuridiche e politiche, poco aggiungono di sostanzialmente nuovo. La novità — conclude Solari — è nell’ampia, multiforme esplicazione del suo pensiero sotto il triplice aspetto, è nella rivelazione della inesauribile fecondità delle sue giovanili meditazioni ed esperienze».42
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G. Bozzetti, Profilo di Antonio Rosmini (1797-1855), Stresa 1985, pp. 9-72; L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico. L’Ottocento, IV, Milano 1973, pp. 687-690; G. Garioni Bertolotti, Antonio Rosmini, Stresa 1981, pp. 2-5. ↩︎
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D. Zolo, Il personalismo rosminiano. Studio sul pensiero politico di Rosmini, Brescia 1963, p.88; p. 194. M. D’Addio, L’astratto e il concreto nella politica di Rosmini, in Rosmini pensatore europeo, Atti del Congresso Internazionale Roma, 26-29 ottobre 1988, a cura di M. A. Raschini, p. 130; pp. 184-194. E. Botto, La Rivoluzione francese e l’idea di democrazia — Note sul dibattito filosofico-politico del primo Ottocento, in «Vita e Pensiero», 1989, n. 10, p. 678. E. Botto, Rosmini e le metamorfosi del dispotismo, in Rosmini pensatore europeo, Atti del Congresso Internazionale Roma, 26-29 ottobre 1988, a cura di M. A. Raschini, pp. 431-433; p.678. M. A. Raschini, L’idea di progresso e Antonio Rosmini; M. D’Addio, Il problema della storia nel pensiero politico di Rosmini, in Rosmini e la storia, Stresa-Milazzo 1986, pp.130-135. ↩︎
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La serie di questi inediti è la seguente: A. Rosmini, Della naturale costituzione della società civile, a cura di F. Paoli- Grigoletti, Rovereto 1887; A Rosmini, Frammenti di filosofia del diritto e della politica, a cura di F. Paoli-Grigoletti, Firenze 1889; A. Rosmini, Opere inedite di politica, (edizione dattilografata), Milano 1923 e A. Rosmini, Saggi di scienza politica-Scritti inediti, a cura di G. B. Nicola, Milano 1933. ↩︎
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G. Campanini, Rosmini politico, Milano 1990, pp. 29-33. ↩︎
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A. Rosmini, Opere inedite di politica, Milano 1923. ↩︎
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G. Campanini, Antonio Rosmini e il problema dello Stato, Brescia 1983, pp. 79-86. ↩︎
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F. Mercadante, Il regolamento della modalità dei diritti. Contenuto e limiti della funzione sociale secondo Rosmini, Milano 1975, pp. 184-197. ↩︎
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A. Rosmini, Opere inedite di politica, Milano 1923, p. 241. ↩︎
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Ibid.,p. 242. ↩︎
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Ibid.,p. 261. ↩︎
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Ibid., pp. 261-262. ↩︎
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Ibid., p. 262. ↩︎
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Ibid., p. 263. ↩︎
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Ibid., pp. 365-403. ↩︎
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Ibid., pp. 367-368. ↩︎
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Ibid., p. 374. ↩︎
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Ibid., p. 375. ↩︎
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Ibid., p. 377. ↩︎
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Ibid., p. 385. ↩︎
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Ibid., pp. 394-398. ↩︎
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Ibid., p. 403. ↩︎
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F. Traniello, Società religiosa e società civile in Rosmini, Bologna 1966, pp. 283-290. ↩︎
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A. Rosmini, Opere inedite di politica, Milano 1923, p. 398. ↩︎
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Ibid., p. 402. ↩︎
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G. Campanini, Antonio Rosmini e il problema dello Stato, Brescia 1983, pp. 64-68; M. Tesini, Rosmini lettore di Tocqueville, in « Rivista rosminiana», 1987, Iii, pp.265-287. ↩︎
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A. De Tocqueville, La democrazia in America (1833), tr. it. in Scritti politici, a cura di N. Matteucci, Torino 1968, vol. II, p. 340. ↩︎
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Ibid., pp.353 e 355-356. ↩︎
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C. Riva, L’ecclesiologia rosminiana, in Attualità di Rosmini, Roma 1970, pp. 41-44; G. Molteni Mastai Ferretti, La libertà religiosa in Rosmini, Milano 1971, pp. 17-21; F. Traniello, Società religiosa e società civile in Rosmini, Bologna 1966, pp.295-302. ↩︎
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A. Rosmini, Appunti per una storia dell’umanità, in « Memorie dell’Accademia delle scienze di Torino», 1956, serie 3^, Tomo 4, pp. 159-172. ↩︎
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L. Bulferetti, Lo storicismo cristiano di Rosmini in giovanili inediti, in La problematica politico-sociale nel pensiero di Antonio Rosmini, Roma 1955, pp. 234-247. ↩︎
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A. Rosmini, Appunti per una storia dell’umanità, in « Memorie dell’Accademia delle scienze di Torino», 1956, serie 3^, Tomo 4, p.161. ↩︎
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G. Vico, La scienza nuova, a cura di Paolo Rossi, Milano1987, pp 589-604; 650-697; 713-739. ↩︎
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A. Rosmini, Storia dell’amore, Reggio Emilia 1977. ↩︎
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Ibid., p. 222. ↩︎
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Ibid., p. 224. ↩︎
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Il Panegirico fu pubblicato per la prima volta, ma in una edizione non completamente conforme a quella originale, in «Le Memorie» di Modena nel 1831, e ripubblicato poi in A. Rosmini, Opere, Milano 1843, vol. Xxvii. Per la ricostruzione della tormentata vicenda delle varie edizioni e per l’analisi delle correzioni e delle varianti, confronta G. B. Nicola, Il Panegirico di Pio VII, Varallo Sesia 1924 (ivi, alle pp. 32-39, i brani censurati dalle autorità austriache). Il «Panegirico» fu steso nel 1823 e letto il 23 settembre dello stesso anno nella chiesa di S. Marco a Rovereto; subì poi una serie di revisioni e ritocchi, soprattutto di carattere formale. La lettera dedicatoria al Vescovo di Trento reca la data del 27 febbraio 1825 (essa è stata per la prima volta pubblicata da G. B. Nicola, in op. cit. pp.29-31). ↩︎
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G. B. Nicola, Il Panegirico di Pio VII, Varallo Sesia 1924, pp. 33-34. ↩︎
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Ibid., p.37. ↩︎
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Ibid., p.39. ↩︎
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G. Campanini, Rosmini politico, Milano 1990, pp. 46-47. ↩︎
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A. Rosmini, Opere inedite di politica, Milano 1923, p. 193. ↩︎
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G. Solari, La formazione del pensiero politico in Studi rosminiani, a cura di P. Piovani, Milano 1957, p. 210. ↩︎