1. Le opere storico-politiche della maturità: Rosmini e la Rivoluzione dell’Ottantanove
La riflessione sulla Rivoluzione francese del 1789, analizzata sia come avvenimento storico, sia come evento rivelatore dell’intero corso della civiltà moderna, è stata in Rosmini uno dei temi cruciali all’interno della sua concezione storico-politica, tanto da attraversare l’intero arco del suo pensiero politico.
A rafforzare questa tesi basta ricordare alcuni giudizi particolarmente autorevoli: osserva ad esempio F. Traniello: «la Rivoluzione rappresenta un suo (di Rosmini) riferimento costante… La rivoluzione è vista da Rosmini non come un fatto apocalittico o demoniaco, ma come un processo e un crogiolo storico e ideologico da analizzare nelle sue componenti — e ancora aggiunge Traniello — secondo Rosmini il senso storico della Rivoluzione sta tutto nella contraddizione tra la spinta verso il superamento di un assetto dispotico del potere politico e la riaffermazione pratica del dispotismo, di cui Napoleone è stato il tipico realizzatore»;1 dal canto suo D. Zolo collega l’importanza fondamentale delle vicende dell’Ottantanove al fatto che per l’autore trentino «l’ideologia rivoluzionaria rappresenta l’esito di un vasto fenomeno culturale e religioso che stabilisce una segreta continuità tra la Riforma e la Rivoluzione francese»;2 e ancora secondo F. Evain il pensiero politico per il Roveretano rappresenta una specie di «étiologie des révolutions: celle de 1789 comme celle de 1848»;3 e da ultimo riportiamo anche il giudizio di E. Botto, il quale sostiene che: «per il Roveretano la Rivoluzione francese rappresenta in primo luogo il culmine di quella tensione a ridefinire l’ordine sociale e politico in maniera conforme alla dignità di ogni uomo, dalla quale è interamente percorsa l’epoca moderna».4
D’altra parte è anche vero che la Rivoluzione francese e le ideologie, che l’hanno sorretta, hanno rappresentato nella storia europea una sorta di svolta epocale, per cui nessuna concezione politica, dopo il 1789, può essere concepita senza confrontarsi con questa realtà, per cui il pensiero politico rosminiano e l’interpretazione storica su tali avvenimenti appaiono dunque come una risposta ai problemi, suscitati dal moto rivoluzionario stesso.
Anticipiamo subito che le soluzioni da lui proposte non sono sempre le stesse e anzi subiscono una notevole evoluzione nell’arco temporale, che va dagli anni giovanili a quelli della maturità, come abbiamo già in precedenza documentato; ma il problema centrale che il Nostro tenta di risolvere è sostanzialmente sempre lo stesso dall’inizio alla fine: capire sino in fondo il movimento storico che aveva avuto come esito lo scoppio della rivoluzione, per cercare di incanalarlo in una strada diversa da quella imboccata dall’Europa dopo il fatidico 1789, senza tuttavia riproporre un puro e semplice ritorno al passato, atteggiamento questo ritenuto dal Roveretano come inutile e impossibile da realizzarsi e quindi improponibile.
L’assolutismo era stata la risposta al problema centrale della legittimazione del potere nei paesi occidentali, fatta propria dall’ancien régime, mentre le forze democratiche avevano un po’ alla volta intrapreso la via rivoluzionaria; ma Rosmini considerava tutte e due queste risposte insoddisfacenti, perché né la prima né la seconda risolvevano quello che gli sembrava il nodo centrale della vita politica europea e cioè il problema del dispotismo, che né il vecchio assolutismo, né le forme istituzionali messe in piedi dalle ideologie rivoluzionarie dell’Ottantanove erano state in grado di risolvere, viste le stragi del Terrore con Maximilien Robespierre e le lunghe e sanguinose guerre dell’epoca napoleonica, sfociate nel regime autoritario del Corso.
Abbandonata l’ipotesi di un puro e semplice ritorno al passato, e cioè rifiutata totalmente l’idea centrale della Restaurazione,5 non restava al Roveretano che imboccare un nuovo percorso di superamento degli schemi rivoluzionari, che si dipanerà in circa un ventennio dagli scritti di storia e di politica degli anni giovanili, che hanno nel Panegirico di Pio VII la loro ultima, significativa espressione sino alla Filosofia della politica e specialmente alla Filosofia del diritto. In tale itinerario si può constatare un graduale passaggio in Rosmini da una valutazione sostanzialmente negativa del fenomeno rivoluzionario a una più versatile e problematica.
Nel Panegirico il filosofo, che aveva allora ventisei anni, pronunciava un giudizio assai duro sugli eventi rivoluzionari dell’Ottantanove, affermando: «la setta di gente che fa grave a sé stessa ogni lume di cristiana fede, prima che altrove, in Francia toccò sua meta» così che «il grande disegno di empietà si mostrò a tutti ignudo di ogni velo, di ogni verecondia. . .: dare nuovo assalto al cielo, e nelle vaste rovine della divina città ardere e sepellire troni ed altari, era l’unica impresa venuta nello stolto, e di sua stoltezza feroce, umano intelletto»6 Si tratta di una interpretazione essenzialmente «religiosa» della Rivoluzione, dove non manca la condanna del regicidio o la denuncia degli sconvolgimenti politici e sociali, provocati dai fatti dell’Ottantanove, ma la prospettiva da cui Rosmini prende in considerazioni quegli avvenimenti è fortemente «religiosa»; ed è proprio per questa ragione che egli legge la Rivoluzione francese come il trionfo dell’empietà, infatti quello che dei guasti della rivoluzione il Nostro soprattutto denuncia sono gli assalti alle chiese, le violazioni dei monasteri, l’eliminazione fisica dei sacerdoti e dei religiosi, il tentativo insomma di eliminare la Chiesa cattolica, i suoi riti, la sua liturgia, la scansione temporale del tempo, basato sulla settimana e sulle feste dell’anno liturgico, il modello assistenziale per i poveri, le vedove, i vecchi, i bambini ecc… E a questa lettura in chiave «religiosa» degli eventi rivoluzionari non poteva non corrispondere una lettura interpretativa altrettanto «religiosa» di un parallelo impegno per la restaurazione di quanto era stato distrutto, al fondo della quale avrebbe dovuto essere l’unica autorità morale, che era uscita dalla Rivoluzione fondamentalmente integra, cioè quella del papa.
Tali tesi verranno in seguito sviluppate in una forma più ampia sia nei Frammenti di una storia dell’empietà,7 composti tra il 1829 e il 1834, sia nel Ragionamento su il comunismo e il socialismo,8 risalente al 1846.
2. Della naturale costituzione della società civile
Prima di addentrarci nelle successive fasi ermeneutiche sulla Rivoluzione francese di Rosmini ci pare opportuno fissare a grandi linee la teoria rosminiana delle rivoluzioni, poiché essa risulta essere contemporaneamente una «teoria delle rivoluzioni» e insieme una interpretazione originale della Rivoluzione dell’Ottantanove.
Tale teoria è contenuta in alcuni passi, brevi ma assai densi, di uno scritto che risale al 1827, rimasto a lungo inedito e pubblicato dopo sessant’anni, cioè Della naturale costituzione della società civile.9
Nella tesi centrale elaborata in questo scritto Antonio Rosmini sostiene che vi è una forte e diretta connessione tra rivoluzione e dispotismo, tanto che è proprio quest’ultimo a generare in modo necessario la rivoluzione e questa, proprio perché generata da un’istintiva, ma non meditata avversione nei riguardi dell’assolutismo,
non fa che causare la nascita di un nuovo dispotismo, mettendo in essere una specie di circolo vizioso, dal quale è possibile uscire, non con il rovesciamento delle strutture politiche esistenti, ma solamente operando in profondità all’interno della società civile.
Anche se il Nostro è ben consapevole che non è un’impresa semplice superare il dispotismo; infatti all’origine della società esiste sempre il dispotismo, poiché la storia ci insegna che nelle condizioni di arretratezza in cui l’umanità è sempre vissuta, era inevitabile che si realizzasse una identificazione fra diritto e forza, per cui in mancanza di precisi limiti giuridici e costituzionali, che delimitino i confini del potere, non rimane che appellarsi alla retta coscienza dei governanti. Ma via via che il corso della civiltà progredisce, cresce presso il popolo la domanda di giustizia e se «il governo resiste a questo lavoro che si opera nel popolo, specialmente quando resiste in modo artificioso e astuto… allora viene il momento in cui vi ha rivoluzione»;10 se poi l’aspirazione alla giustizia si rivela soltanto nelle classi più alte nasce allora la «rivoluzione aristocratica», come è accaduto, secondo Rosmini, con la Rivoluzione inglese del 1688; se invece queste spinte si verificano «in tutta la massa del popolo», allora la rivoluzione assume una dimensione «democratica»: «la prima rivoluzione democratica, quella almeno che abbia avuto un grande effetto popolare, fu la francese; le resistenze dei Borboni l’occasionarono».11
Nella loro fase iniziale, sostiene ancora il Nostro, le rivoluzioni democratiche hanno successo, in quanto esprimono istanze ed esigenze largamente e profondamente radicate nella società civile, ma se la coscienza popolare non risulta formata in modo sufficientemente adeguato, anche il nuovo regime contiene in sé, sotto varie forme, i germi dell’assolutismo, e di «un assolutismo talora minore ma talora anco maggiore».12 Accade infatti che, da una parte, la coscienza popolare sia insufficientemente matura e dall’altra che la «rivoluzione democratica» si riveli disattenta all’elaborazione dei meccanismi giuridici di garanzia dei cittadini.
Riferendosi evidentemente alle vicende della rivoluzione dell’Ottantanove e come tentativo di spiegazione dei suoi esiti assolutistici, Rosmini nota che «si pensò a limitare la potenza del governo, a impedirgli o a difficultargli quegli atti che furono esperimentati nocevoli nei governi precedenti, ma non si pensò a controllare il giudizio sulla giustizia di tutti i suoi atti: la responsabilità di questo giudizio fu pel maggiore numero de’ suoi atti abbandonata puramente alla sua coscienza».13
Ma proprio in ragione del suo «antiperfettismo» di fondo (il nostro autore è decisamente scettico sulla possibilità di poter edificare una società politica perfetta in questo mondo, contando sulla naturale bontà dell’uomo o sulla sua socialità innata), Rosmini rimane diffidente circa una limitazione del potere fatta solamente sul piano etico e considera invece necessario avere adeguate garanzie giuridiche, la più importante delle quali, nel suo sistema, dovrebbe essere costituita dalla creazione del «Tribunale politico». Infatti non aver apprestato un articolato sistema di garanzie della libertà dei cittadini è stato il limite più forte della Rivoluzione francese — a detta del Nostro — e il motivo principale della sua evoluzione in senso sempre più accentuatamente autoritario. La mancanza di questo tipo di garanzie provoca un insanabile contrasto fra i principi di libertà affermati astrattamente e le strutture vere e proprie del potere: si è «in parole proclamata la libertà… ma è rimasto l’assolutismo nel governo» e dall’assolutismo prima o poi si passa al dispotismo, col quale torna a vigere l’ingiustizia. Allora «il popolo di mano in mano che più si istruisce più ancora apre gli occhi, e si irrita fino a tanto che il risentimento giuridico scoppia in una nuova rivoluzione, la quale rovescia di nuovo il governo e ne fabbrica un nuovo da cui tutto si spera: la giustizia e la libertà si proclamano e si credono assicurate per sempre»14 E ancora una volta si tratta solamente di illusioni dalla durata effimera, in quanto non si va alla radice del dispotismo, per cui non si è in grado di predisporre i meccanismi giuridico-costituzionali utili a bloccare questa specie di ciclico ritorno al dispotismo: «Così gli stati camminano di rivoluzione in rivoluzione, e non possono arrestarsi in questa serie di dolorose vicende fino a tanto che non abbiano espulso dai visceri de’ loro governi il dispotismo sotto tutte le forme, e così li abbiano resi veramente civili obbligandoli ad operare non più coll’arbitrio ma secondo la norma della giustizia».15
E a commento di questi passi crediamo sia opportuno citare l’appropriato giudizio di Giorgio Campanini: «Emerge, da questo denso passaggio, il più acuto Rosmini politico, quello insieme realista e riformatore. Della Rivoluzione francese egli mostra di condividere l’aspirazione alla giustizia e alla libertà, aspirazione destinata tuttavia ad essere frustrata quando non sia accompagnata sia da un’adeguata maturazione della coscienza popolare sia dall’apprestamento di una serie di strumenti di garanzia. Si potrebbe forse rimproverare a Rosmini (e non si tratta di una sorta di «residuo illuministico» presente, nonostante tutto, nella sua opera?) una fiducia forse eccessiva nei meccanismi giuridici e istituzionali; ma certo l’esperienza politica post-rivoluzionaria dell’Occidente si è sviluppata proprio nella stessa direzione indicata e auspicata da Rosmini. Lo stesso impetuoso ritorno del «dispotismo» — nella sua forma radicale di «totalitarismo» — fra le due guerre può essere interpretato, come in effetti è avvenuto, in termini di caduta del consenso popolare alle istituzioni democratiche e insieme di insufficienza dei meccanismi istituzionali di garanzia».16
L’aspetto più originale, che si può cogliere nell’interpretazione che Rosmini compie sugli eventi rivoluzionari in genere e di quelli dell’Ottantanove in particolare, consiste nel fatto che il suo approccio è decisamente filosofico, a differenza di altri autori come il già citato Tocqueville, o lo stesso Haller, entrambi preoccupati soprattutto di denunciare la rottura violenta compiuta dalla rivoluzione rispetto a una tradizione non certo idealizzata, ma comunque assunta in qualche misura a paradigma.17 Dei fatti storici il filosofo trentino vuole cogliere in primo luogo le idee e più particolarmente prima che una «politica» una «antropologia». Il limite più forte delle ideologie dell’Ottantanove gli sembra così quello rappresentato da un’antropologia insufficiente, se non addirittura erronea, basata com’è sul presupposto della natura strutturalmente buona dell’uomo e dunque sull’idea dell’indefinita perfettibilità del genere umano. Dietro le indagini filosofiche degli autori illuministi Rosmini individua ancora una volta, nonostante i tanti travestimenti, il germe del «perfettismo», con la conseguente negazione della presenza del male nella storia. «La rivoluzione francese — ci suggerisce ancora Campanini — che manifesta la coincidenza fra presupposti perfettistici ed esiti autoritari — appare al Roveretano come la prova evidente dei limiti di un’antropologia libresca che, di fronte a fenomeni come il Terrore, è costretta riconoscere la propria bancarotta».18
3. La Filosofia della politica
Nella Filosofia della politica19 Rosmini colloca il testo attorno alla Rivoluzione francese dove appare con maggiore evidenza l’approccio ideologico a tale tematica; esso è preceduto dalla enunciazione della critica del «perfettismo», che diverrà uno dei temi centrali del pensiero storico-politico rosminiano. Il «perfettismo» è definito da Rosmini stesso come «quel sistema che crede possibile il perfetto nelle cose umane, e che sacrifica i beni presenti alla immaginata futura perfezione»,20 qui il Nostro critica le principali ideologie del 1789, dominate dalla teoria di J. J. Rousseau sulla naturale bontà dell’uomo. La dottrina del «perfettismo» viene considerata dal filosofo trentino inconciliabile col principio della fondamentale e insieme provvidenziale «limitazione delle cose».21 La Rivoluzione francese, specialmente nelle sue fasi giacobine, sembrava a Rosmini uno dei più coerenti tentativi di trasformare in dottrina e in sistema politico le teorie perfettistiche.
L’analisi del processo rivoluzionario segue, di proposito, la denuncia del «perfettismo» e in qualche misura ne rappresenta una ripresa e una specificazione storica; proprio in riferimento alla rivoluzione e alle ideologie affermatesi dopo l’Ottantanove la Filosofia delle politica evidenzia le radici fondamentalmente materialistiche delle teorie perfettiste. Esse infatti possono essere affermate soltanto e nella misura in cui il progresso si realizzi in fatti e realtà misurabili, e dunque materiali; «Il secolo XVIII — afferma l’autore trentino presentando appunto il quadro generale delle ideologie dell’Ottantanove — è un secolo di dottrine materiali. Abbandonate, vilipese e quasi annientate le scienze che riguardano lo spirito, egli s’è tutto applicato esclusivamente a coltivar quelle che riguardano la materia, ma il secolo di tutti più colto quanto alle cognizioni materiali e accidentali, fu veduto smarrire interamente di vista i principii stessi, gli elementi stessi del vivere civile; e quelli che dovevano difendere la società così fortemente assalita, commettere i più grossolani errori».22
La rivoluzione è dapprima interpretata da Rosmini come pieno dispiegamento delle ideologie materialistiche e delle concezioni perfettistiche del secolo dei lumi; in secondo luogo come il tentativo di fare della politica una scienza esatta, col risultato inevitabile di ricorrere alla forza e all’abuso della forza, per costringere a tutti i costi la realtà a un disegno che rimane tuttavia non realizzato, nonostante il massiccio impiego della brutale coercizione.
4. I Progetti di Costituzione
In secondo luogo i motivi delle degenerazioni e, infine, del fallimento del progetto rivoluzionario vanno ricondotte anche alla sua astrattezza, alla pretesa cioè di costringere il corso degli avvenimenti e la stessa realtà storica delle cose a un’ideologia elaborata a tavolino: «V’ha due maniere di Costituzioni politiche: le une formate brano a brano, senza un disegno premeditato, rappezzate e rattoppate incessantemente secondo il contrasto delle forze sociali e l’urgenza degl’istinti e de’ bisogni popolari; le altre create d’un solo tratto, uscite belle e compiute come una teoria dalla mente, come Minerva dalla testa di Giove. Quelle poste in atto prima che scritte, queste prima scritte che poste in atto».23 E ancora continua Rosmini con una nota di rammarico: «Né i popoli né i sapienti si approfittarono delle dure e ripetute lezioni che diedero loro gli avvenimenti successi in Europa dalla Rivoluzione in Francia in qua. Quasi fosse perita la potenza inventiva già d’un calcolo profondo, d’una meditazione tranquilla, d’uno studio dell’ingegno, non si fece che imitare quello che era stato l’opera non sagace de’secoli, ma piuttosto l’improvvisamento di menti immaginose ed audaci, invaghite di troppi generali e però troppo imperfette teorie. Figlie di una filosofia che voleva romperla col passato di cui era stanca, che sdegnosa conculcava la storia e le tradizioni, confidente nella propria individualità ed indipendenza, le Costituzioni di cui parliamo nacquero fra le passioni de’demagoghi, l’accanimento de’partiti, il terrore e il fragore delle armi cittadine e straniere»;24 sempre su questa seconda interpretazione della rivoluzione, figlia dell’astrattezza, si possono anche vedere le pagine polemiche, scritte da Rosmini l’8 luglio 1848 e apparse in origine sul «Risorgimento» e riprese in Progetti di Costituzione sui «Francesi astratti» e «i Francesi concreti»: «I Francesi astratti sono la più magnifica cosa di questo mondo: dalla loro bocca non sentite che maravigliosi elogi delle loro forme e costituzioni politiche, ma se lasciamo questa specie di Francesi che vivono sopra le nuvole e interroghiamo i loro fratelli, i Francesi concreti…» la realtà si mostra del tutto diversa!25 A giudizio del filosofo di Rovereto, dunque, gli accadimenti storici dimostrano inoppugnabilmente tutta la fragilità di questi progetti rivoluzionari e l’inconsistenza delle teorie che li hanno ispirati: non solo, a detta del Nostro, nessuna di queste costituzioni francesi redatte fra il 1791 e il 1848, a differenza di quelle precedenti, hanno retto la sfida dei secoli, ma «niuna potè resistere alla prova di pochi lustri»,26 per cui l’alternarsi frequente di varie costituzioni francesi dal 1791 al 1848 è la dimostrazione più chiara della impraticabilità della via seguita dai francesi dalla grande Rivoluzione al 1848.
5. La Teodicea
Il prevalere dell’astrattismo e di modelli ideologici eccessivamente schematici rappresentano, secondo il Nostro, il trait d’union fra la Rivoluzione francese e il pensiero socialista, nelle sue varie forme in cui si è sviluppato: apparentemente lontani l’uno dall’altro, essi invece sono generati dalla pretesa di adeguare il corso degli avvenimenti storici a schemi teorici.27 E a tal proposito precisa Campanini: «Socialismo e comunismo sono gli esiti in qualche modo necessari della rivoluzione perché ne riprendono l’assunto di fondo: la considerazione, cioè, della società come di una realtà indefinitamente modificabile e plasmabile, all’interno della quale la teoria assume il ruolo del criterio ispiratore e del principio guida. Qui Rosmini coglie tutta la valenza teologica del problema, come emerge dal suo stesso approccio: in questo senso, come già aveva acutamente intuito Piovani,28 la vera critica (ideologica) della rivoluzione francese è rappresentata dalla Teodicea.
La condanna senza appelli — afferma ancora Campanini — che Rosmini emette nei confronti del socialismo e del comunismo nella loro forma «utopistica» — secondo la ben nota distinzione accreditata da Marx fra «socialismo scientifico e «socialismo utopistico» — ha anche e soprattutto questa valenza in senso lato «teologica» e non tocca in nulla l’aspirazione ad una maggiore giustizia sociale, che anzi il Roveretano mostra di condividere e in parte di fare propria. Questi movimenti di pensiero suscitano le preoccupazioni e alla fine il rifiuto di Rosmini per la forma che assumono, di religione capovolta, in linea con le ideologie dell’Ottantanove, e dunque come ripresa e continuazione degli schemi concettuali della Rivoluzione francese. Dietro le utopie dei primi socialisti moderni Rosmini intravede, e denunzia, le astratte aporie dei rivoluzionari».29
6. La Filosofia del diritto
Alla luce di quanto siamo venuti sino ad ora affermando, possiamo a questo punto dire che mentre il Rosmini degli anni giovanili e della prima maturità preferisce una interpretazione «religiosa» e «ideologica» della Rivoluzione dell’Ottantanove, il Rosmini più maturo si caratterizzerà invece per una lettura più propriamente in chiave «politica» sul senso ultimo dell’evento rivoluzionario. Sotto questo profilo allora la Rivoluzione francese rappresenta per il nostro autore il problema politico per eccellenza, dal quale l’intera storia occidentale gli sembra in qualche modo segnata, di conseguenza inevitabilmente tutti sono tenuti a fare una scelta contraria o a favore di quelle ideologie dell’Ottantanove, che hanno ispirato questo cruciale avvenimento storico, dato che da tale scelta dipende l’intero corso della futura società europea, anche se, nella visione che Rosmini ha della storia, egli infrange ogni schematismo precostituito e non cessa mai di interrogarsi sul significato dei vari avvenimenti storici e in questo modo rimescola, per così dire, le carte delle ideologie senza mai in alcun modo assolutizzarle.30
Proprio per questo motivo Rosmini quasi ormai al termine della sua riflessione storico-politica e nell’ opera, che giustamente può essere definita la più organica e sistematica per quanto attiene la sua visione politica, la Filosofia del diritto, sente il bisogno di ritornare sul problema della Rivoluzione dell’Ottantanove, per darcene un’ermeneutica in qualche modo conclusiva, esposta in pagine dense, che rivestono una importanza decisiva anche per quanto concerne il ricorrente problema della dialettica fra libertà e autorità, prolungando così la sua riflessione sulla Rivoluzione francese anche all’interno della trattazione sulla società civile.31
La rivoluzione dell’Ottantanove è vista da Rosmini come un momento storico decisivo nella ricorrente lotta fra l’elemento sociale e l’elemento signorile, cioè fra l’uomo visto come centro di una rete di relazioni, che si attuano nel segno della libertà e un potere che sottopone a sé gli altri esseri umani, sacrificando la libertà di tutti alla libertà di uno solo soggetto. Ecco appunto, come abbiamo sopra menzionato, il conflitto decisivo fra libertà e autorità; rivoluzione dunque come ribellione della società civile contro l’assolutismo, ma compiuta con lo scopo di ottenere una indiscriminata libertà dei singoli individui e attuata senza remore e freni, per cui inevitabilmente essa cade nell’anarchia, trasformandosi infine in una nuova tirannia.32
Il documento fondamentale che certifica questo radicale squilibrio fra l’individuo e la società è proprio la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, di cui Rosmini non contesta tanto i singoli enunciati, anche se non mancano a tal riguardo spunti polemici e critici, ma la sua impostazione complessiva, perché permeata da un esasperato individualismo. La nota di biasimo più marcata nei riguardi della Dichiarazione è quella di aver del tutto eliminato dalla società civile la società familiare, come se gli esseri umani nascessero in una realtà diversa dalla famiglia, e in secondo luogo di aver esaltato in maniera eccessiva l’autorità statale, trasformandola quasi nell’unica fonte di legittimazione delle diverse società.33
Anche se questa critica di Rosmini del sistema ideologico dell’Ottantanove non è priva di residui di tradizionalismo e di conservatorismo sociale, tuttavia vi possiamo cogliere un’intuizione fondamentalmente valida, la consapevolezza cioè che, una volta accettata l’impostazione data ai diritti dell’uomo dalla Rivoluzione francese, si perviene necessariamente a un tipo di «società civile irritata e delirante che non vuole riconoscere più che se stessa nel mondo: vuole annientare ogni altro diritto».34 Appare abbastanza evidente che una società civile, fondata su tali presupposti, nega se stessa e rischia di calpestare quegli stessi diritti individuali, che essa si proponeva di garantire.
È proprio in questo contesto che Rosmini enuncia la critica fondamentale contro la rivoluzione, l’avere cioè identificato la società civile con tutta intera la società, non tenendo in nessun conto da una parte della «società familiare» e dall’altra della «società signorile», letta in questo caso come il principio stesso di autorità, al di là delle sue possibili degenerazioni verso il dispotismo.
In queste pagine della Filosofia del diritto Rosmini tuttavia modifica il suo giudizio sugli avvenimenti rivoluzionari dell’Ottantanove, rendendolo più equilibrato e sfumando i toni accesi, usati in precedenza, egli infatti riconosce con franchezza che la richiesta, mossa dal basso, per un riequilibrio dei poteri ha una sua legittimità, dato che nell’epoca dell’assolutismo la società familiare da un lato e la società signorile dall’altro avevano mortificato in maniera eccessiva una società civile in piena crescita e che dunque «sentiva il bisogno di fare un passo innanzi verso il suo ideale».35 Un po’ più avanti Rosmini afferma ancora che la Rivoluzione fu la conseguenza della mancata riforma della società, per cui «la causa del progresso»36 venne compromessa in modo irreparabile e da questa affermazione si può con chiarezza desumere un franco riconoscimento della almeno parziale legittimità del fenomeno rivoluzionario da parte del filosofo trentino. Anche se questo movimento avrebbe potuto e dovuto svilupparsi in maniera graduale e ordinata, attraverso una fattiva collaborazione di tutte le forze sociali attive e delle stesse istituzioni politiche e religiose; ma così non avvenne e ne conseguirono gli orrori rivoluzionari.
Anche a causa dell’astrattezza nei contenuti della già menzionata Dichiarazione dei diritti la categoria di «cittadino» fagocitò completamente quella di «uomo» e l’uomo stesso in quanto persona, valore unico e irripetibile, venne dal corpo sociale «assorbito e annichilito».37
Tuttavia nonostante gli errori e le atrocità commesse, anche la stessa storia rivoluzionaria rivela una specie di «provvidenzialità» al punto che: «Fra le atroci esperienze che sostenne la Francia caddero dalle menti errori e prevenzioni, le passioni si spossarono, s’esaurirono, i partiti si distrussero o s’indebolirono; la filosofia de’ sensi ammutolì, l’empietà fu svergognata».38 E in questo modo le profonde istanze, avvertite dalla società civile, quelle di un «progresso verso il suo ideale» ebbero la possibilità di manifestarsi liberamente e gli eventi della Rivoluzione consentirono alla società stessa di riprendere il proprio cammino tanto che: «quel germe buono sfuggito alle mani della scelleratezza che l’avea prigioniero, lentamente si svolse».39
Alla Rivoluzione dell’Ottantanove Rosmini insomma attribuisce ora una funzione quasi maieutica, quella di fare emergere forze sociali sino a quel momento storico costrette a rimanere fuori o ai margini della società e il cui inserimento nella storia era ormai indispensabile per permettere alla civiltà di dare avvio a un nuovo corso. Nonostante le atrocità e gli errori la Rivoluzione francese ha dunque aperto, a detta del Nostro, alla società civile la strada verso la «terza età» della civiltà, quella della «giustizia sociale»:40 all’età del «familismo» e a quella del «dispotismo» si afferma ormai, dopo il duro travaglio rivoluzionario, una nuova e più feconda epoca della storia dell’umanità, nella quale si affermerà: «L’uniformità del pensar nazionale circa le leggi della sociale giustizia».41
Concludendo questo capitolo crediamo di avere a sufficienza documentato che Rosmini nell’arco temporale che va dal 1823 al 1844 ha portato avanti una lunga e profonda riflessione su un avvenimento storico, la Rivoluzione francese, che ancora a Ottocento inoltrato appariva a lui e a tutte le persone della sua generazione, come centrale e decisivo, tanto da sentirlo ancora straordinariamente vicino. Il giudizio che egli esprime su di esso in età giovanile è in termini quasi esclusivamente religiosi (come si può constatare nel Panegirico), diviene in seguito fortemente ideologico (come è attestato in modo esemplare nei Frammenti di una storia dell’empietà), per divenire alla fine politico nel senso più vasto del termine e solamente allora, nella piena maturità, Rosmini nella Filosofia del diritto formulerà un giudizio molto più articolato, che terrà conto della complessità del fenomeno rivoluzionario, come è testimoniato da questo passaggio breve, ma particolarmente significativo: «La causa del progresso si trovò orribilmente involta in quella delle passioni popolari, atee, anarchiche; mille idee si urtarono, si rimescolarono, s’unirono; ne nacque il caos, e dalle menti passò purtroppo nella realtà della vita — e tuttavia attesta il Nostro — dentro l’abisso della malignità s’agitava per isbucciare un germe buono e salutare».42 E anche attraverso il passaggio centrale costituito dalla Teodicea possiamo vedere che lui è ormai pervenuto a una revisione sostanziale del suo giudizio sulla Rivoluzione francese, rispetto agli anni giovanili; revisione che è ora il risultato di una valutazione non più unilaterale, e cioè ora religiosa, ora ideologica, ma multilaterale di un fenomeno storico assai complesso e non compiutamente analizzabile se osservato da un’unica prospettiva ermeneutica.43
7. Rosmini e la riflessione sul dispotismo, quale punto di vista privilegiato per comprendere il suo pensiero storico-politico
Dobbiamo tornare ancora sul «dispotismo» in Rosmini per portare avanti una riflessione su di esso, sulla varietà delle sue forme, sulle sue matrici storiche e teoriche e sulle risorse, indicate dal nostro autore, per combatterlo, non solo perché tutto ciò costituisce una delle costanti del versante polemico della filosofia politica rosminiana, come abbiamo cercato di evidenziare nel capitolo precedente, ma anche perché esso risulta essere uno dei punti privilegiati, attraverso i quali guardare al versante costruttivo del pensiero storico-politico del filosofo di Rovereto.44
Rosmini nei suoi scritti dà ampio spazio al tema del dispotismo e invece che in una particolare forma di governo o in un particolare regime politico, il dispotismo sembra consistere per lui in una specie di «minaccia», mai scongiurata in modo definitivo, a cui la comunità storico-politica — «società civile» nell’espressione rosminiana — verrebbe sempre esposta, in tutte le sue articolazioni principali: «il dispotismo non è soltanto nelle persone, può essere nella forma del governo, può essere nel governo stesso, e finalmente può essere nella stessa società civile».45
La medesima distinzione si trova nella Filosofia del diritto, opera nella quale vengono anche indicati i tratti fondamentali di ciascuna delle possibili forme del dispotismo, anche se in questi passaggi Rosmini utilizza il termine «tirannia», ma fra le due espressioni non pare sussistano differenze sostanziali di significato. Vi è in primo luogo — afferma il Nostro — «una tirannia delle persone» che possiedono il potere politico, una tirannia dei governanti, dunque, in quanto tali, essa deriva «dagli arbitri, dall’abuso del potere, dal volgere i pubblici uffizj a satisfar le passioni, i propri particolari interessi, i capricci, i puntigli».46 Esiste in secondo luogo una «tirannia della forma di governo», che si attua quando si seguono teorie «le quali dichiarano una sola la forma miglior dell’ altre assolutamente per ogni tempo, per ogni luogo» e quindi non permettono di individuare «la più opportuna e prudente delle possibili, vedute le circostanze»;47 ma vi è in terzo luogo una «tirannia del governo (non tanto della forma, puntualizza Rosmini, ma degli atti di governo), che deriva «dal non conoscersi tutta l’estensione de’ mezzi, co’ quali si può ottenere lo scopo della società civile… dalle false opinioni intorno allo stesso governo»48 e da altre cause consimili. Vi è infine una «tirannia della società», che si genera «dal non esser conosciuto il suo scopo» e perciò dal credere erroneamente «che la società civile possa dispor tutto a suo senno, che tutto debba essere a lei sacrificato».49
Nella valutazione storico-poltica di Rosmini è proprio quest’ultima la forma specificamente moderna del dispotismo, che dunque non si manifesta più come dispotismo o tirannia delle persone o del governo, quanto come dispotismo della società civile o in altre formule più sintetiche come dispotismo sociale o tirannia civile. La radice di questa inedita versione del dispotismo si colloca — secondo il Nostro — in una «dottrina oltre misura ingiusta e tirannica» grazie alla quale si presume «che la società civile possa tutto, ch’ella assorbisca tutte le altre società, ch’ella annienti tutte le individualità e le località. Che debba esistere ella sola, e tutto il resto esista precariamente per una grazia e per un favor suo».50
È proprio tale concezione onnipotente e onnicomprensiva della politica, su cui si fonda, secondo Rosmini, l’immagine moderna dello Stato, che genera un’irresistibile vocazione totalitaria, che non riconosce più niente né al di fuori né tanto meno al di sopra di sé. Lo Stato finisce così per costituirsi come l’ultima e definitiva fonte dalla quale i singoli individui e le comunità riceverebbero non solamente le concrete regole di condotta cui attenersi, ma lo stesso diritto a esistere.51
E come precisa Evandro Botto: «Rosmini non si accontenta di cogliere in questa assolutizzazione del potere politico, in questa sorta di divinizzazione dello Stato, la matrice teorica della particolare fisionomia che il dispotismo viene assumendo lungo il corso della modernità; il Roveretano si sforza anche di ricostruire le tappe fondamentali del percorso storico attraverso il quale la moderna concezione totalitaria della comunità politica sarebbe stata elaborata. Fra le matrici remote dell’assolutismo politico Rosmini non esita ad indicare il protestantesimo: rifiutando prima l’autorità della Chiesa in nome di quella della Scrittura, e poi anche l’autorità della Scrittura in nome dell’assoluta autonomia della ragione umana, le scuole della riforma hanno — a detta del Nostro — favorito il diffondersi del razionalismo a tutti i livelli. In particolare, in campo sociale il protestantesimo avrebbe condotto coerentemente ad una vera e propria sacralizzazione della politica e del potere».52 Si è così contribuito in modo decisivo, continua Rosmini, all’affermarsi del positivismo sociale, cioè della «dottrina di quelli che non riconoscono altre leggi che le positive che emanano dal potere legislativo della società… la teoria di Hobbes non è stata che l’ultima parola di questa dottrina di esagerazione del diritto sociale».53
Tuttavia, prima delle rifondazioni che ne avrebbe dato l’Illuminismo, alla fondazione e alla giustificazione dell’assolutismo politico aveva contribuito in modo decisivo anche la dottrina del «diritto divino dei re»; individuandone la presenza all’interno della stessa tradizione cattolica, nel Bodin, nel Bossuet. E, con diversi sviluppi, nel primo Lamennais e nello Haller, — il Rosmini degli scritti della maturità — ne mette a nudo apertamente l’inconsistenza teologica, l’origine laicale ed eterodossa.54
In conclusione si può a buon diritto sostenere che ciò che il filosofo trentino contesta ai sostenitori dell’origine divina del potere regale è di aver alterato in modo deliberato il senso del principio paolino dell’omnis potestas a Deo, conferendo in maniera arbitraria all’autorità politica una prerogativa che spettava esclusivamente all’autorità religiosa: «l’abuso di questa parola diritto divino oltre spogliare tant’altre potestà del legittimo lor valore, ravvolge e confonde in uno stesso concetto quel che viene da Dio in quanto esce dal lume della ragione che è divino, e quel che viene da Dio positivamente, le potestà cioè della Chiesa del Redentore, alle quali sole, nel senso proprio e comune della parola, spetta il diritto divino».55
Inoltre, come abbiamo già rilevato nel capitolo precedente, anche la Rivoluzione francese secondo Rosmini «cangiò forma al dispotismo, non l’estinse perciò; anzi egli ricomparve più che mai orgoglioso e crudele sotto forme novelle. Perrocché quella rivoluzione invece di colpire il dispotismo stesso della società civile, diresse i suoi colpi disavvedutamente sotto la forma governativa ch’egli aveva preso; né s’accorse della natura proteiforme di esso, onde quando credeva d’averlo ghermito, gli sfuggì sano e salvo sotto tutt’altre forme di mano. Il dispotismo — ecco forse la principale lezione che il Roveretano pensa si debba ricavare dalla Rivoluzione dell’Ottantanove e dai suoi esiti — non si coglie se non si prescinde dalle forme governative e non lo si raggiunge nel suo originale civile, il quale è la stessa società civile qualunque forma essa si abbia. La società civile stessa dee essere purgata dal dispotismo, cioè deve essere sottoposta al suo vero diritto, e non foggiata sopra un diritto preteso che le dà piena balìa di fare tutto ciò che può e vuole».56
8. «Il solo rimedio radicale e specifico del dispotismo»
Dopo aver riflettuto sulla visione rosminiana della «natura proteiforme» del dispotismo e sulla nuova e più ambigua fisionomia che esso va assumendo dopo gli eventi rivoluzionari dell’Ottantanove, è possibile ora considerare quello che il Nostro definisce in modo perentorio: «il solo rimedio radicale e specifico del dispotismo».57 Questo consisterebbe in una puntuale definizione della natura, dei compiti e dei limiti della società civile, a cui non si sarebbe ancora provveduto in maniera seria: «quegl’ infiniti trattati e ne furono scritti, … invece di chiarirla e di pacificarla, ne oscurarono oltre misura il concetto e la lasciarono o la resero discorde e disumana»,58 afferma decisamente l’autore trentino, e tale interpretazione della società civile sul piano storico ha fornito più di un appoggio a una concezione onnicomprensiva e onnipotente della politica e dello Stato, in cui si è affermato sussistere la forma specificamente moderna del dispotismo. «Sarebbe dunque ormai tempo di ben intendere — aggiunge ancora Rosmini — che la società civile non è una società universale nel senso, che comprenda nel suo seno tutte le altre e di conseguenza tutti i diritti delle altre, ma ella è una società particolare che vive a lato delle altre, come pure a lato di tutte le individualità, perché neppur queste possono essere da lei assorbite con la perdita del loro proprio essere individuale; è una società che lungi di poter appropriarsi, od invadere i diritti degli altri individui e delle altre società, ha l’intento di tutelarli, senza distruggerli, senza minorarli, senza legarli o recar loro altro pregiudizio, ciò che sarebbe appunto il contrario del tutelarli;… è una società che per tutelare proteggere i diritti li modifica altresì nella forma, li coordina, acciocché non s’impediscano reciprocamente, e possano coesistere pacificamente, e pacificamente svolgersi e prosperare: e in una parola è una società istituita al solo fine di regolare la modalità di tutti i diritti de’ suoi membri, lasciandone intatto il valore».59
Secondo Rosmini, dunque, non si arriva alla radice del dispotismo, se non si riesce a operare questa profonda riforma della nozione di società civile se non si riconosce cioè che la principale norma di condotta, a cui deve attenersi il potere politico non può che essere quella di garantire le più vantaggiose condizioni, perché le «persone» e le «società oneste» possano esercitare pienamente i loro diritti.
Inoltre è proprio in riferimento a questa regola fondamentale che andrà giudicata di volta in volta anche la questione delle forme di governo, dell’istituzioni più adatte a conseguire sul piano storico la finalità propria della comunità politica. Perciò — annota il Nostro — non si può affermare che una forma di governo è più buona di un’altra, «se non in quanto, avuto riguardo ai tempi e alle circostanze, in una forma possono trovarsi maggiori probabilità, che quella legge fondamentale sia dal governo osservata e seguita».60
9. «La dignità dell’elemento personale»
La più originale caratteristica dell’antidispotismo di Rosmini va dunque individuata, come abbiamo già affermato in precedenza, in quella concezione circoscritta, limitata, «imperfetta» della società civile, che il Roveretano non cessa mai di contrapporre alle dottrine storico-politiche che vorrebbero farne invece una società «dispotica e tirannica di tutte le altre società, di tutti gli altri diritti».61 Ma dove si può individuare il fondamento di tale imperfezione costitutiva, di tale strutturale limitazione della società civile? O in altre parole quali sono i motivi per cui Rosmini può sostenere l’esistenza di realtà «anteriori» e in qualche modo «superiori» rispetto alla società civile, tali comunque che questa non può in alcun modo «usarne», ma deve invece sempre porsi al loro servizio?
Innanzi tutto il singolo individuo, il soggetto umano, la persona; qual è il fondamento del suo primato sulla società? È la dignità dell’elemento personale che è in lui — risponde Rosmini — , cioè di quella «volontà intelligente» per la quale «l’individuo può aderire con tutto se stesso alla verità, all’essere in tutta la sua pienezza contemplato oggettivamente».62 È proprio questa dignità personale il nucleo fondamentale dell’umano, di cui ogni vincolo sociale deve favorire la crescita e il «completamento», e che nessun vincolo sociale può compromettere o sottomettere, dato che «niuno ha diritto di comandare a quello che sta ai comandi dell’infinito» — afferma con una bella espressione Rosmini nella stessa pagina della Filosofia del diritto, — dove compare la celebre definizione della persona come «il diritto sussistente», «l’essenza del diritto».63
10. L’astratto e il reale in Rosmini
La distinzione fra il reale e l’astratto nel pensiero dell’autore trentino si rifà a quella fra il sostanziale e l’accidentale: egli si raccomanda infatti di non scambiare l’astratto per il reale come non va mai scambiato il sostanziale con l’accidentale. Analogamente negli avvenimenti storico-politici scambiare il sostanziale con l’accidentale, quello che è stabile e permanente con quello che è invece labile e momentaneo comporta inevitabilmente determinare le premesse per la rovina della società.
Ci segnala infatti Mario D’Addio: «Il fine naturale della società, secondo Rosmini, è l’appagamento, nel senso che essa deve essere ordinata in modo che l’attività di governo consenta a tutti i cittadini di conseguire il proprio appagamento: tutto promana dagli animi degli individui, dai loro desideri, dalle loro esigenze ed aspettative, e tutto deve ritornare agli animi, cioè deve appagare gli individui: ciò significa che i beni materiali non sono altro che mezzi mediante i quali soddisfare gli individui»;64 infatti afferma Rosmini: «… perocché nulla varrebbero questi mezzi (i mezzi materiali appunto) se non giungessero fino all’animo e non contribuissero a dargli la bramata soddisfazione».65 È proprio per questo motivo che il sistema dei bisogni e dei relativi desideri, quale è espresso da una certa società, ha una fondamentale componente razionale intellettiva, senza la quale essi non potrebbero essere avvertiti e costituire il presupposto e il fine delle esigenze dell’uomo. «La conseguenza — precisa ancora Mario D’Addio — è che la capacità di desiderio non è una costante, non è fissa, in quanto limitata dalle sensazioni, ma è infinita proprio perché connessa al principio intellettivo, che può non riconoscere alcun limite. Nel contempo i bisogni e i desideri diventano a loro volta una componente della razionalità, nel senso che sollecitano il suo processo di sviluppo e di perfezionamento, tendono quindi a socializzare la ragione, e in determinate situazioni sociali ne determinano anche le caratteristiche».66 La speranza degli uomini di migliorare la personale condizione orienta il movimento reale della società, purché sia accompagnata dalla conoscenza dei beni che si intendono conseguire e dalla consapevolezza di possedere i mezzi adeguati per quello che si intende conseguire: «Laonde l’aguzzare negli animi desideri sì fatti, rendendoli più attivi mediante il dolce loro pungolo, non può non essere cosa lodevole. Poiché il movimento che ne procede è più di ogni altro secondo la natura razionale e morale, per quello l’uomo passa da uno stato di appagamento più ristretto ad un altro più ampio senza aver cessato un sol momento di trovarsi pago. Aggiungono in se stessi tali desideri la quiete e il moto, la contentezza e l’attività».67 In questo modo si crea una corrispondenza fra i desideri, l’appagamento e la ragione e la reciproca influenza è la causa del progressivo sviluppo della ragione e della stessa moralità: «L’imperfezione della società dipende — sostiene infatti Rosmini — 1) dal poco sviluppamento de’ desideri e delle attività; 2) lo sviluppamento de’ desideri poter essere legittimo e naturale ed in tal caso la società venir condotta per esso a grado di sempre maggior perfezione».68 Un governo autenticamente saggio, dunque, non deve proporsi come fine dei propri provvedimenti l’appagamento dei cittadini, ma deve invece agire in modo che negli animi di tutti vi sia «una nota di inquietudine (provocata dalla insoddisfazione) che è la madre dell’attività e perciò dell’avanzamento».69
11. Rosmini e Melchiorre Gioia
Rosmini in un passo interessante della Filosofia della politica fa riferimento alla teoria esposta da Melchiorre Gioia nel Prospetto delle scienze economiche, secondo la quale il progresso politico, civile e morale della società è dato dai consumi, tenendo conto della loro diffusione e del tipo dei beni disponibili nelle diverse categorie sociali.
Mentre le società aristocratiche si basano sull’economia agricola, fondata sul risparmio e su una rigida limitazione dei consumi e informata a un’etica teologico-metafisica, le società liberali e in special modo quelle democratiche si basano, invece, sull’economia industriale, la cui attività produttiva va finalizzata ai consumi e alla loro progressiva diffusione, soprattutto fra le categorie meno abbienti; quest’ultima incentiva un’etica e una cultura empiriche, collegate all’esperienza civile e sociale degli individui.70 L’attività economica che il sistema industriale produce diviene il centro motore di tutta la società e deve essere alimentata e incentivata dai consumi, la cui diffusione e il cui incremento devono essere incentivati da bisogni artificiali, tipici del progresso civile e dei corrispondenti desideri, che operano da pungolo per l’attività dei singoli individui. Infatti sostiene ancora Gioia: «i mezzi primari per accrescere la civilizzazione di un paese consistono nell’accrescere l’intensità e il numero dei bisogni e la cognizione degli oggetti che li soddisfano. Siccome la somma dei desideri è sempre maggiore della somma degli oggetti acquistati, quindi, accrescendo i primi, si tiene l’uomo in uno stato costante di carestia, stato che diviene causa di moto perpetuo».71
Melchiorre Gioia, secondo la classificazione rosminiana degli autori politici, rientra nella categoria dei politici economisti, cioè di quelli che «fermarono la loro attenzione esclusivamente sopra tutto quello che è esterno all’uomo e furono principalmente solleciti di trarre quanto s’appartiene alle ricchezze e alle industrie meccaniche»;72 in buona sostanza la critica che il Nostro rivolge a Gioia comprende le concezioni economicistiche della politica in genere, perché, in coerenza con le premesse empiristiche e materialistiche su cui poggiano, prescindono nelle loro conclusioni dall’appagamento, non considerando le conseguenze della sua mancata realizzazione sui fini che si vogliono raggiungere, dato che si è ricondotto il progresso alla dinamica dei sistemi produttivi. Si tratta infatti di determinare le conseguenze di una politica, diretta alla accelerazione del sistema economico-sociale attraverso la diffusione veloce di nuovi bisogni, senza d’altra parte accrescere in misura adeguata la possibilità di soddisfarli, perché i popoli «eccitati dal pungolo di questi bisogni non soddisfatti… sviluppino meglio la loro attività e aumentino la loro industria — mentre sostiene Rosmini — la civiltà dei popoli crescerà in ragione che cresce la somma dei bisogni non soddisfatti».73 Si deve perciò valutare la validità dell’ipotesi che «la civiltà dei popoli crescerà in ragione che cresce la somma dei bisogni non soddisfatti».74
12. Economia di sussistenza, economia commerciale e industriale in Rosmini
A verifica, sul piano storico-economico, di quest’ultima affermazione il filosofo trentino pone a confronto due diversi modelli di società: il primo di mera sussistenza e con razionalità limitata a una cultura basata sul costume e la tradizione; il secondo fondato su un’economia di tipo commerciale e industriale, per costatare quali conseguenze si verifichino, quando il secondo proponga al primo, come tipo di vita e organizzazioni sociali, i propri bisogni artificiali, frutti del suo progresso civile e sociale.
Per verificare tutto questo Rosmini fa riferimento alle vicende storiche degli Indiani dell’America del Nord, che egli ha attinto dalla Democrazia in America di Tocqueville:75 vengono poste così di fronte una società «primitiva» e una società «civilizzata», progredita sul piano economico e sociale; la prima dotata di una razionalità assai ridotta, specialmente per quanto riguarda la ragione pratica delle masse, la seconda invece provvista di una razionalità molto sviluppata e diffusa; gli Indiani con bisogni naturali, limitati, commisurati ai loro costumi e alle loro tradizioni, alla loro vita; gli Statunitensi con bisogni artificiali di una società che continua a espandersi. Le descrizioni e le analisi di Tocqueville risultano particolarmente interessanti, perché testimoniano, secondo Rosmini, che l’aver proposto e per molti versi imposto agli Indiani i bisogni di una società notevolmente più evoluta ha comportato, come inevitabile conseguenza, l’effetto opposto a quello presagito dai teorici dell’incentivazione e accelerazione dello sviluppo economico: infatti quest’ultimo non ha sollecitato e suscitato nuove energie lavorative e intellettuali, ma ha invece disgregato e dissolto quelle energie, che sussistevano in una società, dove la ragion pratica delle masse era adeguata alla vita di una comunità abituata a vivere di caccia, di pesca e di raccolta.76 La capacità di lettura storica del Nostro e la profondità di queste analisi socio-economiche ci paiono veramente notevoli e di una straordinaria attualità.
I bisogni vanno dunque commisurati, secondo Rosmini, al tipo e al grado di razionalità dei gruppi e delle comunità sociali, la completa emarginazione degli Indiani d’America, il loro dissolvimento come «nazione» sono la prova più evidente di quanto sia importante la razionalità per costituire una società, per integrare tutti gli elementi che la compongono e per renderla coesa al suo interno; da tale coesione scaturisce infatti la sua forza, la possibilità cioè di convogliare verso finalità comuni le energie e i comportamenti dei singoli individui. Questa razionalità è frutto di un processo di lenta, vicendevole assimilazione e integrazione fra la società visibile o materiale e quella invisibile o degli animi.
La conclusione di questa analisi storico-economica rosminiana, ricavata dalla descrizione di Tocqueville delle vicende storiche degli Indiani, è che l’economia di tipo industriale, col sistema di bisogni che gli è proprio, non deve essere proposta come modello di sviluppo economico e sociale a comunità e a nazioni organizzate su base tribale e di villaggio, in quanto quest’ultime sono caratterizzate da un’economia di sussistenza e il loro sviluppo economico e sociale ne risulterebbe certamente bloccato, a causa dell’effetto disgregatore, che i modelli di vita della società industriale avrebbero su quelle popolazioni, provocando in molti casi un autentico regresso. Precisa in tal senso Mario D’Addio: «La concezione del progresso propria dell’economicismo, quando viene applicata a paesi e popolazioni con forme di economia primitiva e non sviluppata, si rivela un’astrazione, cioè una visione unilaterale del processo di trasformazione della società, che non tiene conto di altri fattori che concorrono in modo determinante a realizzarlo. Essa sottintende la convinzione che il sistema economico industriale possa plasmare a suo piacimento la realtà sociale nella quale opera per adeguarla senza alcun residuo ai suoi fini, senza rendersi conto che quella realtà ha una propria ragion d’essere che finisce sempre per condizionare i programmi che si intendono realizzare. È certamente uno dei modi con cui si manifesta il «perfettismo» tipico della società contemporanea».77
Dopo aver valutato i problemi che riguardavano lo sviluppo delle società e delle culture primitive, Rosmini tratta degli effetti della incentivazione e accelerazione del processo di sviluppo economico-sociale nelle nazioni europee del suo periodo storico. A questo proposito egli rileva che il veloce incremento dei bisogni per accelerare lo sviluppo industriale ha determinato conseguenze assai negative, che costituiscono un costo altissimo per tutta la società. L’autore trentino, rifacendosi alle osservazioni di Sismondi nei Principi di economia politica, ritiene che la rivoluzione industriale vada considerata nella prospettiva di una rapida trasformazione del sistema produttivo, caratterizzato da un continuo incremento dei bisogni e dei corrispondenti desideri, che la gran parte della popolazione non è in grado di soddisfare. Tale patologia della rivoluzione industriale andava ricollegata, secondo il Nostro, non tanto al sistema produttivo capitalistico industriale-commerciale, quanto piuttosto al veloce processo di sviluppo, alle politiche di incentivazione industriale che non badavano agli effetti negativi che il mutamento e l’incremento dei bisogni avrebbe avuto sui comportamenti e sulle condizioni sociali degli individui, determinando un impoverimento morale e civile dei ceti sociali dei meno abbienti, relegati in questo modo ai margini sociali, senza nessuna possibilità di miglioramento.
Si deve tener presente, nota Rosmini, che in ogni nazione, per quanto civile e progredita, una notevole parte della popolazione è composta da tre categorie di persone: «a) quelle prive al tutto o in parte di previsione; b) quelle che o per età o per carattere hanno dei gusti impetuosi o al tutti fanciulleschi; c) le persone immorali».78 Quando i bisogni artificiali sono accresciuti in modo troppo rapido, l’effetto su queste tre categorie di persone è assai funesto e può essere riscontrato tutto ciò nel preoccupante incremento di miseria e di immoralità, che grava in modo negativo sull’ordine pubblico: «… cresce il numero dei ladri e per conseguente diminuisce la sicurezza della proprietà degli onesti cittadini; cresce il numero delle vittime della dissolutezza; cresce il numero di quelli che si rendono ministri a’ vizi altrui e rende con ciò il vizio più agevole a tutti; mette una separazione e una guerra intestina fra le diverse classi de’ cittadini…».79 Commenta ancora D’Addio: «Il pungolo sempre più pressante ad aumentare i propri redditi per far fronte alla continua crescita dei bisogni artificiali induce ad aumentare il proprio lavoro e la propria attività professionale con il risultato di debilitare sia le energie lavorative che quelle intellettuali sottoposte ad un superlavoro, mentre l’accentuata mobilità sociale, implica, per quanti cambiano mestiere e professioni, un costo molto alto che si riflette naturalmente sull’intera società. La conseguenza più paradossale è certamente il mancato appagamento di molte categorie sociali, le quali vedono certamente aumentare i beni a loro disposizione, ma, per la mancata corrispondenza di questi ai desideri suscitati dai nuovi bisogni artificiali, rimangono completamente insoddisfatte».80
In ultima analisi aumenta in termini di oggetti materiali il benessere, ma cresce conseguentemente la scontentezza, il risentimento per non poter avere ciò che è presentato come ottenibile con facilità: «Ma supponiamo in un uomo capacità come venti, oggetti posseduti altresì come venti. Stimolando io la sua capacità sono giunto a rallargarla rendendola pari a cento. Reso quell’uomo inquieto e attivo da questo nuovo desiderio, giunge a procacciarsi da sé non pochi de’ bramati oggetti portandone la somma fino a sessanta. Gli rimangono quaranta gradi di capacità non soddisfatta, e però quaranta gradi di sofferenza. Questo or gode come sessanta, il suo godimento è triplicato; ma che giova? Egli ha perduto l’appagamento dell’animo egli è divenuto infelice. I due terzi di godimento che sono cresciuti a costui, lungi dal migliorare il suo stato l’hanno peggiorato…».81
In base a tali considerazioni Rosmini ritiene che il compito del governo debba essere quello di tenere sempre presente «il giusto grado di celerità del moto sociale«, che può essere definito solo dalla ragione, «che lo prescrive or più or meno celere, secondo le circostanze e le previsioni degli effetti riferiti alla totale utilità. All’incontro le passioni senza lume si precipitano al proprio intento, aumentando inconsideratamente quella quantità di movimento che la pacata ragione giudica conveniente».82
La politica generale del governo deve quindi essere orientata a regolare con opportuni provvedimenti il processo di sviluppo economico e sociale così dà armonizzarlo con le effettive capacità del paese, intellettuali, morali, imprenditoriali, con le sue risorse, con le sue istituzioni.
Rosmini inoltre pensa che il governo debba agire in maniera che specialmente nelle classi più povere «si accresca la cognizione dei propri interessi e la risoluzione di applicarsi ad essi con passione e con attività» e che i bisogni siano sempre proporzionati «a quella quantità di mezzi che il reddito netto della sostanza posseduta o dell’industria somministra».83 La politica del governo deve ispirarsi perciò al criterio della tutela della razionalità e della moralità, indispensabili a una società che voglia vivere in modo ordinato e attivo.
Nella società contemporanea, caratterizzata dalla economia industriale e commerciale, nasce, secondo il pensatore trentino, uno stato di continua agitazione e tensione, il cui movimento diventa fine a se stesso e da esso scaturiscono due sentimenti che orientano i comportamenti degli individui soprattutto in politica: il primo è quello di una «indefinita speranza consistente nel lusingarsi di formare il proprio appagamento con dei mezzi assurdi»; il secondo «quello di una continua ira di vedersi ingannato in tutti i suoi sforzi, ch’ egli tuttavia non si stanca di ripetere con sempre maggior veemenza».84 Commenta a tal proposito Mario D’Addio: «migliorano le condizioni materiali di vita e si ha invece la convinzione che sia peggiorata la qualità della vita: infatti per la continua rapida crescita dei desideri sollecitati dai bisogni artificiali, le masse rimangono insoddisfatte: mirano ad una condizione di vita che sembra a portata di mano e che invece non si riesce a conseguire, nonostante tutti i tentativi e gli sforzi fatti per ottenerla. Nasce allora la convinzione che tale impotenza derivi dal sistema sociale e che questo debba essere radicalmente mutato, in modo da rendere possibile il conseguimento di una condizione di vita veramente appagante. La facoltà di astrazione è pronta a fornire i modelli della nuova società, a proporre le corrispondenti antropologie, indica i mezzi politici per realizzarla: è il tempo delle ideologie e delle utopie. Il pensiero politico si rende interprete della profonda insoddisfazione delle masse e conferisce una veste razionale alle loro aspirazione: esse nascono da un sentimento indeterminato e possono pertanto riconoscersi nelle formulazioni generali e onnicomprensive che sembrano scaturire dalla reale dinamica della storia, ma che, secondo l’analisi rosminiana, sono il frutto della facoltà di astrazione»:85 «L’uomo spera quello che desidera e crede quello che spera: l’urgenza e l’intensità del desiderio generale di felicità fa sì che giura nelle promesse della passione che prima gli si presenta, e comincia tosto a fare i suoi sperimenti, cercando il bene di ciò che abbisogna coll’ abbandonarsi in mano a quella tiranna che lo tradisce».86
Il pensiero politico, assumendo contenuti ideologici, utopici o mitici, si trasforma dunque, a detta del Nostro, in un mezzo di diffusione di tali contenuti, uno strumento per dirigere le aspirazioni delle masse verso quelle mete di carattere generale e universale, che nutrono la speranza di ottenere un autentico appagamento. La politica si propone conseguentemente di realizzare l’astratto, cioè di far divenire una entità creata dalla mente una realtà concreta. Sono tentativi votati a un sicuro insuccesso che comportano un costo assai elevato per le società che hanno cercato di conseguirli. Secondo Rosmini la ragione non comprende di aver perduto il contatto con la realtà, in quanto è convinta che le sue concezioni siano la realtà stessa. Ad esempio si pensa che la filosofia non sia altro che ideologia, espressione della «falsa coscienza», e quindi una concezione capovolta della realtà storico-sociale, ispirata dagli interessi di classe, che deve essere «raddrizzata» e perciò criticata in modo radicale da una concezione scientifica della storia, metodo sicuro di interpretazione della dinamica della realtà sociale. Si indica così una scienza della società e della politica, senza chiedersi però quali condizioni ne garantiscano la scientificità. Infatti il passaggio dall’utopia alla scienza in Marx si riduce a una operazione ideologica, che riformula l’utopia con una concezione economicistica, quindi unilaterale e astratta, della storia, a cui è posto un termine finale, il comunismo, come associazione dei liberi lavoratori, mediante cui l’uomo consegue la completa realizzazione della sua concreta umanità, cioè il compiuto appagamento di se stesso. Afferma ancora D’Addio: «questa concezione, pur apparentemente realistica per il suo dichiarato materialismo storico, finisce per scambiare il concreto con l’astratto, cioè per collocare nelle materiali situazioni storiche le premesse di un ordine sociale con principi e valori corrispondenti alla vera umanità dell’uomo, che sono invece il frutto della creazione intellettiva ispirata dalla ragion pratica, attribuendo a quelle stesse situazioni materiali, una realtà e una valenza storica che son ben lungi dall’avere. Alla luce dell’analisi rosminiana l’economicismo costituisce l’ispirazione di fondo del pensiero politico contemporaneo, volto a garantire il benessere delle masse, del maggior numero (secondo la raccomandazione di Bentham), indirizzando a questo fine sia la ragion pratica delle masse sia la ragion speculativa degli individui, mediante una cultura ispirata alla preminenza dell’empirico, dell’utile, del pragmatico, del funzionale».87
La ragione, che tenta di sollecitare, indirizzare e programmare, cercando di governare il processo di sviluppo economico-sociale, non ha più come punto di riferimento la facoltà di pensiero che garantisce la sua autonomia, per cui la ragione è inglobata nel processo sociale, ne diventa parte integrante, e riesce a governarlo solo formalmente, dato che è orientata dalle esigenze di quello stesso processo. Di qui deriva la grandissima complessità dei sistemi sociali contemporanei, e la loro difficile governabilità. Il vero problema di tali società è che in esse si sviluppano emozioni e impulsi collettivi che sfuggono a un razionale controllo sociale e che in certe situazioni storiche possono essere indirizzate verso forme di governo totalitarie. Il primato della facoltà di astrazione dunque costituisce le premesse per una cultura che permette all’irrazionale di travestirsi nei panni del razionale.
Come la storia contemporanea ci ha dimostrato, il processo di «oscuramento e di falsificazione» dell’intelligenza, per esprimerci in termini rosminiani, ha avuto un esito drammatico nei regimi totalitari del fascismo, del nazismo, dello stalinismo, del maoismo, che hanno preteso di creare una realtà sociale e storica a propria immagine e somiglianza, divenendo così la massima espressione della facoltà di astrazione, che nella sua pretesa di divenire realtà, cioè vita, verità ha posto le condizioni della propria distruzione; ma anche oggi con i mezzi di comunicazione di massa sempre più evoluti e onnipresenti nella vita quotidiana dei cittadini il rischio non è cessato e il processo di oscuramento e di falsificazione dell’intelletto individuale e collettivo è sempre possibile.
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F. Traniello, Politica e religione nel pensiero di Rosmini, in «Il mulino», settembre-ottobre 1977, pp. 698-699. ↩︎
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D. Zolo, Il personalismo rosminiano, Brescia 1963, p. 88. ↩︎
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F. Evain, Rosmini et l’herménéutique du politique, in «Gregorianum», 1979, n. 3, p. 555. ↩︎
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E. Botto, La Rivoluzione francese e l’idea di democrazia — Note sul dibattito filosofico-politico del primo Ottocento, in «Vita e Pensiero», 1989, n. 10, p. 678. ↩︎
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Per un’analisi del complesso rapporto fra Rosmini e la cultura della Restaurazione, fondamentale rimane ancora l’opera di M. Sancipriano, Il pensiero politico di Haller e Rosmini, Milano 1968. ↩︎
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A. Rosmini, Opere, Milano 1843, vol. XXVII, p. 402. ↩︎
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A. Rosmini, Frammenti di una storia dell’empietà, a cura di R. Orecchia, Padova 1977. ↩︎
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A. Rosmini, Ragionamento su il comunismo e il socialismo, in A. Rosmini, Opuscolo politici, a cura di G. Marconi, Stresa-Roma1978, pp. 81-89. ↩︎
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A. Rosmini, Della naturale costituzione della società civile, a cura di F. Paoli, Rovereto 1887. ↩︎
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A. Rosmini, Della naturale costituzione della società civile, a cura di F. Paoli, Rovereto 1887, p. 25. ↩︎
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A. Rosmini, Della naturale costituzione della società civile, a cura di F. Paoli, Rovereto 1887, p. 26. ↩︎
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A. Rosmini, Della naturale costituzione della società civile, a cura di F. Paoli, Rovereto 1887, p. 26. ↩︎
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A. Rosmini, Della naturale costituzione della società civile, a cura di F. Paoli, Rovereto 1887, p. 27. ↩︎
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A. Rosmini, Della naturale costituzione della società civile, a cura di F. Paoli, Rovereto 1887, p. 27. ↩︎
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A. Rosmini, Della naturale costituzione della società civile, a cura di F. Paoli, Rovereto 1887, p. 28. ↩︎
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G. Campanini, Rosmini politico, Milano 1990, pp. 56-57. Sul complesso rapporto tra Rosmini e la cultura illuministica si veda: Rosmini e l’illuminismo, Stresa-Milazzo 1981; in particolare V. Mathieu, L’idea dell’illuminismo in Kant e in Rosmini, pp. 81-92, dove si mette fra l’altro in risalto l’incidenza che gli eventi rivoluzionari ebbero sul pensiero di Kant. Il costituire in tutta Europa, nell’immediato secondo dopoguerra, Corti di giustizia costituzionale, per parecchi aspetti molto somiglianti ai «Tribunali politici» indicati da Rosmini, è una evidente conferma della sostanziale validità di questa antica e per certi aspetti profetica intuizione del Roveretano; per un confronto su quest’ultimo argomento si vedano: F. Mercadante, Il regolamento della modalità dei dirittti — Contenuto e limiti della funzione sociale secondo Rosmini, Milano 1975; G. Morelli, Il diritto naturale nelle Costituzioni moderne,» Vita e Pensiero», Milano 1974. ↩︎
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M. Tesini, Rosmini lettore di Tocqueville, in «Rivista rosminiana», 1987, Iii, pp.266-287; A. M. Battista, Lo spirito liberale e lo spirito religioso — Tocqueville nel dibattito sulla scuola, Milano 1976; M. Sancipriano, Il pensiero politico di Haller e Rosmini, Milano 1968. ↩︎
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G. Campanini, Rosmini politico, Milano 1990, p. 58. ↩︎
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A. Rosmini, Filosofia della politica, a cura di M. D’Addio, Milano 1972, facciamo riferimento , più propriamente, allo scritto Della sommaria cagione per la quale stanno o rovinano le umane società, edito nel 1837 e che costituisce assieme a La società e il suo fine, la parte della Filosofia della politica edita mentre Rosmini era ancora in vita. ↩︎
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A. Rosmini, Della sommaria cagione per la quale stanno o rovinano le umane società, in Filosofia della politica, a cura di M. D’Addio, Milano 1972, p. 111. ↩︎
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A. Rosmini, Della sommaria cagione per la quale stanno o rovinano le umane società, in Filosofia della politica, a cura di M. D’Addio, Milano 1972, p. 111. ↩︎
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A. Rosmini, Della sommaria cagione per la quale stanno o rovinano le umane società, in Filosofia della politica, a cura di M. D’Addio, Milano 1972, pp. 116-117. ↩︎
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A. Rosmini, La Costituzione secondo giustizia sociale (1827-1848), in Progetti di Costituzione — Saggi editi e inediti sullo Stato, a cura di C. Gray, Milano 1952, pp. 68-69. ↩︎
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A. Rosmini, La Costituzione secondo giustizia sociale (1827-1848), in Progetti di Costituzione — Saggi editi e inediti sullo Stato, a cura di C. Gray, Milano 1952, pp. 69-70. ↩︎
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A. Rosmini, La Costituzione secondo giustizia sociale (1827-1848), in Progetti di Costituzione — Saggi editi e inediti sullo Stato, a cura di C. Gray, Milano 1952, p. 254. ↩︎
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A. Rosmini, La Costituzione secondo giustizia sociale (1827-1848), in Progetti di Costituzione — Saggi editi e inediti sullo Stato, a cura di C. Gray, Milano 1952, pp. 68-69. ↩︎
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Fra i numerosi testi che si potrebbero citare su tale argomento ci pare particolarmente significativo richiamarne uno ricavato da A. Rosmini, Frammenti di una storia dell’empietà, a cura di R. Orecchia, Padova 1977, p. 69, ed espressamente riferito ai seguaci di Saint-Simon: «tanto hanno desiderio di adulare la umana natura, che non esitano a fingerla costituita con sì possente legge di perfettibilità, cui nessuna altra forza può sospendere, nessun accidente trattenere da quel corso e da quel termine di fatale felicità e indefinibile perfezione, a cui ne la riportano i suoi stupendi ciechi destini». ↩︎
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P. Piovani, La teodicea sociale di Rosmini, Padova 1957. ↩︎
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G. Campanini, Rosmini politico, Milano 1990, pp. 61-62. ↩︎
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M. A. Raschini, L’idea di progresso e Antonio Rosmini; M. D’Addio, Il problema della storia nel pensiero politico di Rosmini, in Rosmini e la storia, Stresa-Milazzo 1986, pp.130-135. ↩︎
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A. Rosmini, Filosofia del diritto, (1841-1844), a cura di R. Orecchia, vol. V, Padova 1969, pp. 1395-1403. ↩︎
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A. Rosmini, Filosofia del diritto, (1841-1844), a cura di R. Orecchia, vol. V, Padova 1969, p. 1396. ↩︎
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A. Rosmini, Filosofia del diritto, (1841-1844), a cura di R. Orecchia, vol. V, Padova 1969, p. 1399. ↩︎
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A. Rosmini, Filosofia del diritto, (1841-1844), a cura di R. Orecchia, vol. V, Padova 1969, p. 1400. ↩︎
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A. Rosmini, Filosofia del diritto, (1841-1844), a cura di R. Orecchia, vol. V, Padova 1969, p. 1401. ↩︎
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A. Rosmini, Filosofia del diritto, (1841-1844), a cura di R. Orecchia, vol. V, Padova 1969, p. 1402. ↩︎
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A. Rosmini, Filosofia del diritto, (1841-1844), a cura di R. Orecchia, vol. V, Padova 1969, p. 1400. ↩︎
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A. Rosmini, Filosofia del diritto, (1841-1844), a cura di R. Orecchia, vol. V, Padova 1969, p. 1407. ↩︎
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A. Rosmini, Filosofia del diritto, (1841-1844), a cura di R. Orecchia, vol. V, Padova 1969, p. 1407. ↩︎
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A. Rosmini, Filosofia del diritto, (1841-1844), a cura di R. Orecchia, vol. V, Padova 1969, p. 1406. ↩︎
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A. Rosmini, Filosofia del diritto, (1841-1844), a cura di R. Orecchia, vol. V, Padova 1969, p. 1406. ↩︎
-
A. Rosmini, Filosofia del diritto, (1841-1844), a cura di R. Orecchia, vol. V, Padova 1969, pp. 1401-1402. ↩︎
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M. D’Addio, Il problema della storia nel pensiero politico di Rosmini, in Rosmini e la storia, Stresa-Milazzo 1986, p. 130. ↩︎
-
E. Botto, Rosmini e le metamorfosi del dispotismo, in Rosmini pensatore europeo, Atti del Congresso Internazionale Roma, 26-29 ottobre 1988, a cura di M. A. Raschini, p. 431. ↩︎
-
A. Rosmini, Della naturale costituzione della società civile, ediz. postuma a cura di F. Paoli, Rovereto 1887, p. 6. ↩︎
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A. Rosmini, Filosofia del diritto, (1841-1844), a cura di R. Orecchia, vol. VI, Padova 1969, p. 1446. ↩︎
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A. Rosmini, Filosofia del diritto, (1841-1844), a cura di R. Orecchia, vol. VI, Padova 1969, p. 1446. ↩︎
-
A. Rosmini, Filosofia del diritto, (1841-1844), a cura di R. Orecchia, vol. VI, Padova 1969, p. 1446. ↩︎
-
A. Rosmini, Filosofia del diritto, (1841-1844), a cura di R. Orecchia, vol. VI, Padova 1969, p. 1446. ↩︎
-
A. Rosmini, La Costituente del Regno dell’Alta Italia, in Progetti di Costituzione — Saggi editi e inediti sullo Stato, a cura di C. Gray, Milano 1952, p. 276. ↩︎
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E. Botto, Rosmini e le metamorfosi del dispotismo, in Rosmini pensatore europeo, Atti del Congresso Internazionale Roma, 26-29 ottobre 1988, a cura di M. A. Raschini, pp. 432-433. ↩︎
-
E. Botto, Rosmini e le metamorfosi del dispotismo, in Rosmini pensatore europeo, Atti del Congresso Internazionale Roma, 26-29 ottobre 1988, a cura di M. A. Raschini, p. 433. ↩︎
-
La società e il suo fine, in Filosofia della politica, a cura di S. Cotta, Milano1985, pp. 219-223 ↩︎
-
D. Zolo, Il personalismo rosminiano. Studio sul pensiero politico di Rosmini, Brescia 1963, p. 194. ↩︎
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A. Rosmini, Filosofia del diritto, (1841-1844), a cura di R. Orecchia, vol. VI, Padova 1969, p. 1612. ↩︎
-
A. Rosmini, Della naturale costituzione della società civile, ediz. postuma a cura di F. Paoli, Rovereto 1887, p. 7. ↩︎
-
A. Rosmini, Filosofia del diritto, (1841-1844), a cura di R. Orecchia, vol. V, Padova 1969, p. 1196. ↩︎
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A. Rosmini, Filosofia del diritto, (1841-1844), a cura di R. Orecchia, vol. V, Padova 1969, p. 1196. ↩︎
-
A. Rosmini, Introduzione alla filosofia, a cura di P. P. Ottonello, Roma 1979, p. 34. ↩︎
-
A. Rosmini, Introduzione alla filosofia, a cura di P. P. Ottonello, Roma 1979, p. 34. ↩︎
-
A. Rosmini, Della naturale costituzione della società civile, ediz. postuma a cura di F. Paoli, Rovereto 1887, p. 8. ↩︎
-
La società e il suo fine, in Filosofia della politica, a cura di S. Cotta, Milano 1985, pp. 176-177. ↩︎
-
A. Rosmini, Filosofia del diritto, (1841-1844), a cura di R. Orecchia, vol. I, Padova 1969, p. 192. ↩︎
-
M. D’Addio, L’astratto e il concreto nella politica di Rosmini, in Rosmini pensatore europeo, Atti del Congresso Internazionale Roma, 26-29 ottobre 1988, a cura di M. A. Raschini, p. 184. ↩︎
-
A. Rosmini, Filosofia della politica, a cura di M. D’Addio, Milano 1972, p. 59. ↩︎
-
M. D’Addio, L’astratto e il concreto nella politica di Rosmini, in Rosmini pensatore europeo, Atti del Congresso Internazionale Roma, 26-29 ottobre 1988, a cura di M. A. Raschini, pp. 184-185. ↩︎
-
A. Rosmini, Filosofia della politica, a cura di M. D’Addio, Milano 1972, p. 468. ↩︎
-
A. Rosmini, Filosofia della politica, a cura di M. D’Addio, Milano 1972, p. 476. ↩︎
-
A. Rosmini, Filosofia della politica, a cura di M. D’Addio, Milano 1972, p. 389. ↩︎
-
M. Gioia, Nuovo prospetto delle scienze economiche ossia somma totale delle idee teoriche e pratiche su ogni ramo di amministrazione privata e pubblica, Milano 1815, IV, pp. 69-76. ↩︎
-
M. Gioia, Nuovo prospetto delle scienze economiche ossia somma totale delle idee teoriche e pratiche su ogni ramo di amministrazione privata e pubblica, Milano 1815, I, p. 23. ↩︎
-
A. Rosmini, Filosofia della politica, a cura di M. D’Addio, Milano 1972, p. 109. ↩︎
-
A. Rosmini, Filosofia della politica, a cura di M. D’Addio, Milano 1972, p. 109. ↩︎
-
A. Rosmini, Filosofia della politica, a cura di M. D’Addio, Milano 1972, p. 109. ↩︎
-
A. Rosmini, Filosofia della politica, a cura di M. D’Addio, Milano 1972, p. 400. ↩︎
-
A. Rosmini, Filosofia della politica, a cura di M. D’Addio, Milano 1972, pp. 400-404. ↩︎
-
M. D’Addio, L’astratto e il concreto nella politica di Rosmini, in Rosmini pensatore europeo, Atti del Congresso Internazionale Roma, 26-29 ottobre 1988, a cura di M. A. Raschini, p. 188. ↩︎
-
A. Rosmini, Filosofia della politica, a cura di M. D’Addio, Milano 1972, p. 406. ↩︎
-
A. Rosmini, Filosofia della politica, a cura di M. D’Addio, Milano 1972, p. 406. ↩︎
-
M. D’Addio, L’astratto e il concreto nella politica di Rosmini, in Rosmini pensatore europeo, Atti del Congresso Internazionale Roma, 26-29 ottobre 1988, a cura di M. A. Raschini, p. 189. ↩︎
-
A. Rosmini, Filosofia della politica, a cura di M. D’Addio, Milano 1972, p. 465. ↩︎
-
A. Rosmini, Filosofia della politica, a cura di M. D’Addio, Milano 1972, p. 459. ↩︎
-
A. Rosmini, Filosofia della politica, a cura di M. D’Addio, Milano 1972, p. 413. ↩︎
-
A. Rosmini, Filosofia della politica, a cura di M. D’Addio, Milano 1972, p. 460. ↩︎
-
M. D’Addio, L’astratto e il concreto nella politica di Rosmini, in Rosmini pensatore europeo, Atti del Congresso Internazionale Roma, 26-29 ottobre 1988, a cura di M. A. Raschini, p. 193. ↩︎
-
A. Rosmini, Filosofia della politica, a cura di M. D’Addio, Milano 1972, p. 441. ↩︎
-
M. D’Addio, L’astratto e il concreto nella politica di Rosmini, in Rosmini pensatore europeo, Atti del Congresso InternazionaleRoma, 26-29 ottobre 1988, a cura di M. A. Raschini, p. 194. ↩︎