Il rapporto sacramento-rito come principio ordinatore del mondo e della persona. Riflessioni sulla filosofia del culto di Pavel Florenskij

1. Origine e fine della cultura

La cultura, afferma Florenskij nella sua nota autobiografica,1 è una lotta consapevole contro la tendenza generale all’appiattimento, tendenza che coinvolge tutto l’universo diretto verso l’entropia. La realtà umana combatte questa lotta contro la morte utilizzando i mezzi della cultura. Ogni cultura consiste in un sistema ordinato di mezzi atti al disvelamento di un valore elevato ad oggetto di fede con valore assoluto. La cultura, pertanto, «è un derivato del culto, ossia un ordinamento del mondo, da ciò deriva la cultura».2

Nella Filosofia del culto Pavel Florenskij dimostra come tutta la cultura, compresi i processi di costruzione del territorio, siano derivati dal culto. Questo, spiega il pensatore sacerdote russo, è un movimento intorno ad un centro, «Il culto stesso - e cultus viene da colere, “ruotare”- è un vortice, un girotondo, una danza attorno alla realtà sacra, alle cose sacre».3 La cosa sacra è il polo dal quale si stabiliscono le coordinate geografiche e spirituali. «La mia posizione nel mondo è definita dal mio rapporto con questa Particola. Non solo in maniera metafisica, ma anche geografica».4 Apparentemente, quando ci si orienta attraverso gli astri, si pensa di aver a che fare con elementi naturali, in realtà, fa notare Florenskij, essi sono già intrisi di spirito; li conosciamo perché li distinguiamo dall’unità del mondo grazie al culto. Orientarsi nel mondo, rapportandosi alle cose, è un’azione interiore, un’operazione dell’intelletto che, per sua natura si collega attraverso una catena di sostegni e anelli al Logos del mondo che si dà solo religiosamente.

La negazione del culto comporta la negazione della realtà, innanzitutto la realtà per eccellenza: il Logos incarnato, «la realtà fatta significato» o «il significato fatto realtà». La realtà vera, piena, è quella che si manifesta nel culto che riempie di senso e ordine il mondo.

L’arte per eccellenza, nonché scopo della vita umana, è la teurgia, «arte della completa trasformazione della realtà da parte del pensiero e di piena realizzazione del pensiero nella realtà».5

Essa, spiega Florenskij, era il punto di appoggio di tutte le attività della vita; era il grembo materno di tutte le arti e di tutte le scienze. Compiere qualsiasi attività al di fuori della teurgia era ritenuto un sacrilegio. Con il passare dei secoli, incominciò a verificarsi la tendenza alla disgregazione dell’unità spirituale dell’uomo attraverso il progressivo rendersi indipendenti delle attività umane dalla teurgia. Si passò così dalla Realtà e dal Significato alle realtà ed ai significati, o meglio, a realtà vuote e significati falsi. Gli oggetti divennero semplicemente utili. L’identità umana ha subito un processo di disgregazione in competenze specifiche, dettagli, parti di cui nessuna delle quali è indispensabile ma tutto è casuale, limitato.

La teurgia, restringendosi, è andata a sempre più a identificarsi con il suo seme: il culto. «Questo seme dell’umanità vera, questa gemma dell’interezza spirituale, questo bocciolo della cultura è il culto nel senso stretto della parola».6

L’azione cultuale, con gli oggetti che gli appartengono, ha una natura antinomica che contempla l’unione di eterno e transeunte, imperituro e caduco. I suoi oggetti si differenziano da quelli comunemente conosciuti come strumenti dal fatto che si riconoscono immediatamente come significati che richiedono un riconoscimento interno, cioè, mentale. Mentre gli oggetti comuni, caratterizzati come macchine-attrezzi, sono davanti a noi e non possiamo dubitare della loro realtà esterna, il loro significato non è altrettanto evidente ma va dedotto. Cioè, va dimostrata la loro genesi dall’intelletto umano. Dall’altra parte ci sono i concetti-termini che, al contrario, manifestano in maniera certa, incontrovertibile, la loro origine dall’intelletto umano. La loro realizzazione, tuttavia, va dimostrata.

Va cioè dimostrata tanto la sensatezza delle cose quanto la materialità dei significati. Ma dimostrare il senso delle cose e la concretezza dei significati sarebbe possibile solo a partire da una cosa il cui significato sia dato direttamente o da un significato la cui realtà non necessiti, a sua volta di essere dimostrata. È necessario che almeno un punto dell’attività umana si presente l’unità visibile dei suoi due poli, cioè un’indiscutibile incarnazione del significato oppure – il che è lo stesso – un’incontrovertibile spiritualità della cosa.7

L’attività teurgica, che deriva dal culto, è fondamentale per poter spiegare quelli che sono gli atti e i prodotti della natura umana. Questi due poli dell’agire umano, di per sé eterogenei, trovano l’unità nell’attività cultuale che è antinomica ma, allo stesso tempo, è il punto di appoggio dell’attività dell’intelletto, sia in ambito teoretico che pratico. L’attività artistica è quella che si avvicina alla teurgia in quanto nell’opera d’arte abbiamo la parte pratica dell’incarnazione delle idee e la parte teorica dell’interpretazione.

Ciò che rende l’uomo tale, in quanto unità vivente di finito e infinito, afferma Florenskij, è la teurgia. Ogni azione, anche peccaminosa e di segno contrario, ha un’origine teurgica. Nella liturgia si esprime la natura profonda dell’uomo che si contraddistingue per unire i due mondi. Prima dei concetti-termini e precedentemente gli strumenti-macchine, l’attività creativa dell’uomo si esprime attraverso la realizzazione di cose sacre.

2. Filosofia come orientamento della coscienza alla verità

Se tutto lo scibile umano nasce dal culto, anche il sapere filosofico ne rappresenta un’efflorescenza. La filosofia trae la sua linfa dai contenuti della religione espressi attraverso dei termini che, una volta slegati dalla loro origine, perdono realtà e significato. La terminologia filosofica dipende da quella cultuale o mistico-religiosa. Tuttavia, negando la sua origine, la filosofia priva i termini che utilizza di significato.8 Il pensiero di Platone, orientato saldamente al culto, esprime una terminologia fortemente connotata in senso religioso e per questo ricca di significato. Tali termini, però, non possono essere “sciolti” dalla loro permanenza nel mistero, non possono essere parafrasati e spiegati completamente, pena la decadenza in realtà vacue. La vacuità è il rischio che corre il pensiero che si orienta in maniera opposta al culto che consiste nell’azione di orientamento della coscienza verso la Verità, cioè Dio. Il termine greco meon (non-essere) indica tutto ciò che si trova al di fuori della sfera del culto, è la tenebra non illuminata dalla Verità-luce dell’intelletto che consiste nell’oggetto verso cui quest’ultimo si orienta. La filosofia che inverte la propria direzione, come è avvenuto per il pensiero moderno, diventa vuota fino al punto di non riconoscere e comprendere più i valori spirituali.

3. Il culto nel pensiero moderno

Il pensiero occidentale moderno, attraverso la filosofia immanentistica, è uno sforzo per sopprimere il culto quale realtà fatta significato. Anzi, il filosofo russo afferma che Kant, il massimo rappresentante dell’opposizione al culto, considerava sé stesso, o meglio la propria soggettività, come realtà fatta significato. Il filosofo prussiano incarna lo spirito moderno che rifiuta qualsiasi limitazione che possa arrivare dall’esterno, per questo motivo, attraverso delle astuzie e delle malizie, elabora un pensiero che afferma la divisione tra realtà e significato. Il mondo si divide in due: realtà soggettive e realtà oggettive fuori della verità. Kant trasforma astutamente il significato del termine «oggettivo» andando a designare con esso uno dei sottoinsiemi della soggettività che si compone di soggettivo e oggettivo. In sostanza, si tratta di negare il limite esterno costituito dall’ordine trascendente-divino per sostituirlo con un ordine interno alla soggettività. Il risultato non è altro che l’eliminazione di qualsiasi limite alla volontà e ai desideri umani.

Apparentemente, Kant sembra che nella Critica della ragion pura voglia occuparsi dei fondamenti della conoscenza scientifica che in realtà, è data per scontata. Piuttosto, nota Florenskij, il filosofo prussiano si occupa del culto, anche se in senso negativo e con intenti di decostruzione.

Tuttavia nella sua lotta contro il culto è solo sul culto che Kant si basa, anche se forse inconsapevolmente. Tutto il contenuto del suo pensiero filosofico, come anche la terminologia e il significato dei concetti fondamentali, sono ripresi dal culto e solo nel culto legittimati. E tutto ciò che Kant afferma è assiomatica del culto, anche se da lui formulata tenendone nascoste le necessarie limitazioni e facendola così risultare ingannevole.9

La fallacia della filosofia critica risiede nell’assumere un principio soggettivo spacciandolo per oggettivo, in assenza di principi oggettivi che ci permettano di attribuire la verità ad un enunciato. Cioè, l’errore consiste nell’accettare qualcosa per vera sulla base dei bisogni teorico-pratici dell’intelletto. Per Florenskij, invece, bisogna fare il tentativo di entrare nell’ambito che trascende la ragione ed è perciò il più oggettivo ed il più razionale. Nell’opera La colonna e il fondamento della verità10 affronta il problema della scepsi che sorge quando la conoscenza è confinata nel raziocinio intrappolato dalle opposizioni. Il raziocinio si trova a dover produrre delle definizioni razionali attraverso dei giudizi. Ogni giudizio, però, è relativo, può essere contestato da un giudizio contrario o addirittura contraddittorio. La Verità, nella sua pienezza e autenticità, è un organismo vivente. La vita, a differenza delle definizioni razionali, è immensamente ricca, è creativa e capace di produrre ogni momento il nuovo.

Una formula intellettuale può essere superiore agli attacchi della vita solo se accoglie in sé tutta la vita, con tutte le sue varietà e le contraddizioni presenti e future. Una formula intellettuale può essere verità solo se, per così dire, prevede tutte le obiezioni a tutte le risposte.11

Prevedere tutte le obiezioni a tutte le risposte, avverte Florenskij, è possibile solo cogliendone il limite non già assumendole nella loro concretezza. L’ambito della razionalità fa riferimento alla sfera terrestre, quello della sapienza spirituale si situa nell’infinito, oltre i confini del mondo, tuttavia, sebbene sia oltre i confini della sfera sensibile e razionale, manifesta la sua presenza. I due mondi non sono separati da un confine invalicabile, ma sono attraversati da una frontiera, una sorta di membrana permeabile che li mette in comunicazione.12 La ricerca della verità, a differenza di quanto avviene con la scienza razionalistica, va effettuata proprio su questa frontiera.

Quanto più la scienza si avvicina ai fondamenti, e quindi si approssima al limite, tanto più si manifesta la sua insufficienza attraverso l’emergere delle contraddizioni. Questo situazione si rende evidente nella logica formale e nella fisica, ma non solo. Tutto l’essere è attraversato dalle contraddizioni.

Negli umori ci sono tendenze contrastanti; nella volontà abbiamo desideri contrari, nei pensieri abbiamo idee contraddittorie. Le antinomie frazionano tutto il nostro essere, tutta la vita creata. Dappertutto ci sono sempre contraddizioni! Viceversa la fede, che vince le antinomie della coscienza e tra esse riesce a respirare, ci offre il fondamento di pietra sul quale possiamo lavorare per superare le antinomie della realtà.13

La radice di tutte le antinomie è quello che Florenskij chiama il «dilemma finito e infinito». L’unione di finito e infinito, come abbiamo visto sopra, è proprio il culto, l’azione che porta alla conciliazione sovrarazionale di finito e infinito. Il nostro mondo, se lasciato a se stesso e rinchiuso all’interno del raziocinio, si involve nelle contraddizioni; se al contrario si apre al trascendente, le contraddizioni vengono, sebbene non superate e comprese, armonizzate. L’uomo, spiega nella Colonna e il fondamento della verità, a partire dal senso, passando per le emozioni e arrivando all’intelletto, sperimenta un tumulto di contraddizioni generate dall’antinomia fondamentale finito-infinito. La lotta si situa all’interno del raziocinio, la ragione nel suo stato decaduto. Questa, infatti, ha una natura peccaminosa e perciò antinomica.

Il raziocinio, per la sua natura peccaminosa, ha una natura antinomica perché è un binomio, bi-centrico, bi-assiale. La sua statica e la sua dinamica si escludono a vicenda, benché allo stesso tempo non possano esistere l’una senza l’altra.14

Cosa si intende per «bi-centrico» e «bi-assiale»? Florenskij fa riferimento agli usi statico e dinamico della ragione che corrispondono, come rileva Renato Betti, alla distinzione che opera Cantor tra infinito potenziale e infinito attuale.15 L’uso statico riguarda la legge d’identità per la quale A è uguale solo ad A. Il pensiero, attraverso questa legge, isola A da tutto ciò che è non-A. Essa è la legge del pensare chiaro e distinto attraverso il tracciamento dei confini. Si tratta dello stesso procedimento di smembramento di un processo in un succedersi di momenti d’invarianza, una serie di stati di quiete come in una pellicola cinematografica. Insomma, siamo al sempre valido paradosso della freccia di Zenone.

Dal punto di vista dinamico, al contrario, abbiamo la legge di ragion sufficiente per la quale A è dedotto da qualcos’altro, trova il proprio fondamento in ciò che non è A. Ci troviamo sul piano della dimostrazione la cui essenza, fa notare Florenskij, è che un A deve fondarsi su un non-A, cioè, portare una cosa oltre i suoi limiti, pena di ritrovarsi di fronte a una tautologia.

Le due leggi stabiliscono un movimento circolare in cui l’una rimanda all’altra, ma nello stesso tempo, porta alla vicendevole esclusione. Per compiere una dimostrazione, e quindi passare da A a B, è necessario definire in maniera distinta A. Allo stesso tempo, però, per definire A occorre spiegarlo.

Una funzione della ragione presuppone l’altra e allo stesso tempo la esclude. Ogni spiegazione non tautologica riduce A a non A; ogni pensiero chiaro e distinto stabilisce l’identità A=A. Da una parte abbiamo una quantità statica di concetti, perché ciascuno dei molti A si consolida opponendosi a tutti gli altri. Dall’altra parte abbiamo la loro unità dinamica, perché ciascuno dei molti A viene riportato a un altro e questo a un terzo e così via, ad infinitum.16

Florenskij paragona il raziocinio ad un tessuto fatto di finito e infinito, laddove l’infinito è quello potenziale, l’indeterminatezza. La molteplicità statica fatta di elementi determinati e la loro unità dinamica sono incompatibili sebbene si rimandino a vicenda. «Le norme del raziocinio sono indispensabili e impossibili e il raziocinio appare interamente antinomico nella sua struttura più sottile».17

Sebbene Il filosofo illuminista Kant venga criticato da Florenskij in quanto rappresenta l’esempio di ciò che è opposto alla sua visione del mondo, viene altresì elogiato perché ha messo in evidenza le antinomie della ragione proprio nel momento in cui fioriva l’illuminismo. Le antinomie dimostrano che la ragione non è possibile in sé stessa, non è autonoma nel suo fondamento.

In conclusione, la ragione non è possibile in sé stessa, ma attraverso il suo oggetto nel quale combaciano le due leggi del pensiero reciprocamente contraddittorie, dovei principi della finitezza e dell’infinitezza diventino uno solo.

La ragione è possibile quando la finitezza che essa pensa sia finita e viceversa. Infine: la ragione è possibile se le è data l’Assoluta infinitezza attuale. Questa infinitezza è, come abbiamo visto, l’oggetto del pensiero che lo rende possibile, l’Unità triipostatica.18

L’Unità triipostatica è l’oggetto proprio della teologia, della liturgia, della fede e soprattutto è la radice della ragione.

Nella trinità risiede la colonna della Verità che per poter essere raggiunta occorre che l’uomo si liberi della propria «aseità», impresa che Florenskij ritiene impossibile. Nonostante l’uomo non possa liberarsi di sé stesso, spiragli di eternità filtrano attraverso le crepe del muro del raziocinio.

La Verità stessa si rende manifesta all’uomo e lo spinge a cercarla.

La liturgia è l’azione antinomica per eccellenza che riesce a mettere insieme finito e infinito; realtà e significato. Attraverso il rito l’uomo si apre alla trascendenza, lancia lo sguardo attraverso le crepe del raziocinio.

I fenomeni della filosofia di Kant svolgono la funzione dei riti perché si caratterizzano per l’evidenza, cioè, sono la manifestazione di ciò che non si può esperire: i noumeni. Il regno noumenico non è accessibile ma è a fondamento dell’esistenza e in esso vige la libertà che al di fuori non è possibile. La filosofia kantiana, in fondo, spiega Florenskij, non ha un contenuto proprio, è solo negazione del culto, il quale, se viene meno e scompare, trascina con sé nel nulla anche il kantismo.

Florenskij istituisce un lungo confronto tra Platone e Kant riguardo al rapporto con il culto. Tra di loro c’è la relazione tra matrice e calco, più e meno; l’uno è convesso e l’altro è concavo.19 Questi sono i due massimi filosofi che hanno definito la filosofia ma che si sono mossi verso direzioni opposte. Florenskij mette in evidenza dei tratti in comune della loro vita: morirono entrambi a tarda età, circa ottant’anni, entrambi scrissero fino alla fine della loro vita, godettero di grande fama. Kant era un plebeo, Platone un aristocratico che, a differenza del primo che andava alla ricerca di conoscenze facoltose e aristocratiche, frequentava ogni genere di ambiente che potesse fornire situazioni degne di attenzione. Platone si rivolgeva alle profondità dello spirito alla ricerca di dell’oggettività, Kant all’esteriore e alla soggettività.

Platone era un poeta, pervaso da impulsi erotici, che lottò con la propria sensualità spiritualizzandola. Kant fu asciutto, lontano dall’eros, «castrato», si preoccupava solo delle comodità, della tavola e dei beni. Per colmo, mentre Platone cercava la divino-umanità. Kant cercava l’umano-divinità. […] Platone cercava la santità, Kant cercava la correttezza.20

Ciò che è importante sottolineare e assumere come principio e punto fermo, è che la filosofia è lo sforzo di comprensione del mondo spirituale trascendente, del quale, afferma Florenskij, si può fare esperienza solo attraverso il culto. La filosofia, pertanto, si divide in due filoni che si contraddistinguono per la rispettiva posizione rispetto al culto. L’orientamento scelto dal pensatore russo è quello rivolto al trascendente. Egli definisce la sua filosofa come idealismo concreto, inteso come contemplazione ed esperienza delle realtà spirituali.

Dal culto Florenskij fa derivare la fondazione sia della realtà oggettiva che dell’Io. Il suo ragionamento prende le mosse dall’esistenza del mondo esterno. Possiamo attribuire l’esistenza a qualcosa solo quando ne abbiamo coscienza, ma la presa di coscienza consiste nell’isolare qualcosa dal corso ininterrotto degli eventi. A sua volta, per essere certi della separazione di qualcosa dal fluire degli eventi, è necessario che noi abbiamo un punto fermo in noi stessi. Questo cardine non può essere individuato nell’IO poiché esso è un pensiero tra gli altri pensieri.

Noi parliamo di IO, ma l’IO è solo un pensiero fra altri pensieri. È ancora necessario stabilire un punto fermo in noi stessi. In genere abbiamo una coscienza ora torbida e oscura, ora invece estremamente chiara e salda del nostro nucleo noumenico.21

L’esperienza della noumenicità, su cui si fonda la nostra coscienza, non è un argomento logico o psicologico ma è l’esperienza dell’assoluta libertà « timore noumenico per noi stessi davanti all’eternità».22 Florenskij aggiunge, però, che anche questa attestazione non basta, oltre all’auto-conoscibile è necessario il conoscibile, cioè, abbiamo bisogno sia di trascendente che di immanente. Per concludere il ragionamento, l’unità di spirituale e di corporeo, di intellettuale e sensibile, di trascendente ed immanente li troviamo solo nel culto, quindi, questo è la condizione della persona.

Nelle pagine successive della Filosofia del Culto, sviluppa un tema che sarà ripreso più volte nei suoi scritti e nelle sue lezioni. Si tratta dell’errore compiuto dalla filosofia occidentale moderna che ha ricondotto il fondamento della persona alla cultura, considerata come mondo originario e autosufficiente e non per quello che realmente è: un’efflorescenza del sacro. Riconducendo tutta la cultura a sé stessa si è perso il criterio di distinzione ed il valore ultimo. Sono pertanto da considerare equivalenti il Moulin Rouge e Notre Dame, il Vangelo di Giovanni e il vangelo luciferino di Pike, un marchingegno per spezzare i lucchetti e il comandamento «non rubare».

Per giudicarne il valore è necessario uscire dai confini della cultura e trovare criteri ad essa trascendenti. Continuando a stare entro i suoi confini, invece, siamo costretti a prenderla nel suo complesso, tutta così com’è. In altre parole dobbiamo deificarla e considerarla criterio ultimo di ogni valore.23

Se si rimane all’interno della cultura, non è possibile emettere un giudizio su di essa, ma occorre porsi al di fuori dei suoi confini. Purtroppo, constata Florenskij, il mondo occidentale, volendo rendere la cultura immanente, è diventato, senza rendersene conto, immanente alla cultura stessa. L’uomo ha finito per sottomettersi al suo prodotto, «I meccanici si sono dissolti nei loro meccanismi o invenzioni».24 L’autonomia si è fatta dio e, oltre a rendersi autonoma dagli uomini, li ha sottomessi.

La cultura è diventata autoregolamentata rispetto alla persona umana, si è lanciata su percorsi propri, superando l’uomo. È la leggenda dell’apprendista stregone che evocò gli spiriti senza essere poi in grado di governarli.25

A questo punto fa la sua comparsa uno degli elementi cardine del pensiero di Florenskij che ne rivela il carattere geografico dei fondamenti: l’orientazione. In linea con la tradizione filosofica che attribuisce ad Anassimandro la rappresentazione del mondo su una tavoletta, pensare significa rappresentare e organizzare lo spazio.26 Ogni concezione del mondo elaborata in un sistema di pensiero, nasce anzitutto come concezione dello spazio che ne prefigura tutto lo sviluppo. «Con determinate riserve e spiegazioni si potrebbe persino considerare lo spazio come l’oggetto proprio e originario della filosofia, in rapporto al quale tutti gli altri temi filosofici devono essere considerati derivati».27 Da una parte la scienza e la filosofia esprimono la vita in uno spazio organizzato attraverso simboli logici, dall’altra, l’arte lo fa attraverso immagini.

Quello dell’orientazione è il primo atto che l’uomo compie nello spazio attraverso l’individuazione e la scelta di punti di riferimento. Le forme di civiltà più antiche hanno mantenuto memoria dei moti millenari e del cambio della stella polare dovuto alla precessione degli equinozi, segno dell’attenzione verso i cardini dell’orientamento il cui mutamento segnava la fine del mondo e l’inizio di un nuovo eone.

Florenskij individua come atto di orientazione originario quello della conoscenza rispetto al culto e conseguentemente alla cultura.

In geografia “orientarsi significa individuare da un punto cardinale, nella fattispecie dall’oriente (oriens), tutti gli altri. In matematica, vuol dire trovarsi in un dato spazio e definire la posizione degli elementi in relazione agli altri già noti. Nella logica significa avere una comprensione chiara dei confini e dei contenuti della nostra conoscenza, cioè riferire ogni suo aspetto affinché si riconoscano come noti e certi.28

La filosofia kantiana pone il punto di riferimento, per stabilire le coordinate del pensiero, nell’io perché ritiene che ci sia insufficienza di principi oggettivi dell’intelletto al di fuori dell’intelletto stesso. Questa, per Florenskij, è una presunzione che nasce dal desiderio di autosufficienza ontologica. Vale a dire che, se ci fosse un Logos fuori di me, questo sarebbe coercitivo e priverebbe l’uomo della sua autonomia. La conclusione a cui giunge Kant è che non è la ragione a provenire dalla Verità, ma la verità dalla ragione. La rivoluzione copernicana di Kant risulta proprio essere lo spostamento dell’atto di orientazione dal trascendente ad alcuni prodotti della ragione: le scienze naturali e quelle matematiche. Tale atto di selezione non è altro che una divinizzazione di un dato gruppo di persone in un dato tempo. Il filosofo di Königsberg rifugge dal culto ed assume, rispetto ad esso, un orientamento negativo al contrario dello pseudo-culto verso il quale si rivolge positivamente.

Florenskij vuole rimettere al centro il culto e riportare il fondamento della conoscenza nel trascendente. Il cuore, inteso come centro delle forze spirituali, l’Io noumenale, dipende dall’orientamento che esso ha scelto. Non è il cuore che determina la verità ma è la Verità che determina il cuore e la ragione. Il filosofo russo riprende le parole di Gesù nei Vangeli: «Là dove è il vostro tesoro, lì sarà anche il vostro cuore».29 Tanto la nostra vita interiore, quanto quella esteriore, dipendono dal valore assoluto che abbiamo scelto. «In altre parole, un determinato orientamento presuppone anche un certo sistema di linee di movimento della nostra vita».30

La linea di sviluppo parte dalla volontà che, in base alla direzione verso cui si rivolge, dà vita a delle linee di sviluppo della coscienza, delle prospettive fondamentali che solo in parte si identificano con le categorie kantiane poiché hanno una portata molto più ampia. Le categorie sono l’espressione dell’orientamento scelto; esse sono gli orientamenti a priori che condizionano l’esperienza ed hanno una portata limitata. Tutto ciò che non rientra nelle prospettive da esse aperte non viene riconosciuto, viene considerato irreale: «pur vedendo non crediamo, poiché crediamo nel nostro tesoro. E non avendo categorie per conoscerlo, non ne abbiamo coscienza».31

L’orientamento vero, secondo Florenskij, non è quello che eleva ad oggetto di fede un prodotto dell’uomo, ma la realtà vera, quella celeste e spirituale che è al contempo visibile. Coloro che guardano il mondo secondo le categorie kantiane non riescono a vedere la realtà nella sua pienezza costituita da diversi piani, differentemente dalla visione ego-centrica che riduce tutta la realtà ad un piano, è fatta di scale di ascesa e discesa, quindi di altezza e di profondità. Prima ancora del culto, che ne rappresenta solo un’estensione, il vero orientamento del pensiero è la persona del Signore Gesù Cristo, il Significato incarnato. Il culto rappresenta l’estensione di questo orientamento per mezzo di categorie proprie che, a differenza di quelle dell’intelletto kantiano, non sono stabilite una volta per tutte quasi fossero componenti di una macchina, un sistema di leve ed ingranaggi che funziona sempre allo stesso modo. Si tratta, al contrario, di un sistema organico; una cosa viva che si adatta ad uno scopo in base a determinate esperienze. Gesù Cristo è il Logos eterno per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose, perciò, il culto è la ragione orientata verso di Lui che permette di compiere le esperienze vere. In base a ciò, afferma Florenskij, le categorie cristiane, come ad esempio la Croce, il sangue e la luce, sono gli elementi del culto.

Pur essendo una cosa tra le altre cose, la croce può essere allo stesso tempo chiave di comprensione di tutta la realtà. È concreta e può essere sostegno di tutto ciò che è concreto. È una parte del mondo e può essere suo tipo e sua idea.32

La croce concentra una selva di simboli e rimandi. Innanzitutto raffigura l’universo attraverso le direzioni e le dimensioni di cui è costituito, ma ancor di più, usando le parole di san Giovanni Damasceno, ha le sue parti che si incontrano e si tengono insieme in un punto, proprio come Dio sorregge tutto il creato.33 Essa è simbolo dell’uomo e nello stesso tempo dell’incontro tra la divinità e l’umanità; la dimensione orizzontale e quella verticale.

Pensare comporta individuare una posizione a partire dalla quale è possibile costruire il “reticolato” che permette di definire il posto in cui ogni cosa risiede e descriverne il movimento. Bisogna individuare l’asse del mondo, il Polo Nord dello spirito. L’asse del mondo spirituale si identifica con i santi doni, l’eucarestia.

Il polo è un punto come ogni altro della superficie terrestre. Non è nulla se lo si guarda senza riflettere. Ma attorno a esso ruotano tutto e tutti, l’universo stesso. E solo questo punto è immobile. Così è quel pezzetto di Santi Doni. Si direbbe niente in particolare. Ma attorno a quella particola si compie tutto il corso dell’esistenza. Tutto ruota attorno a essa e per essa. È l’Alfa e l’Omega del mondo.34

L’Eucarestia viene elevata a punto di riferimento di tutti i punti di riferimento, questo fa sì che il culto sia il presupposto della possibilità di orientarsi nello spazio. Senza il culto, rileva Florenskij, non sarebbe possibile individuare la posizione dei luoghi. Senza punti di riferimento, coordinate e luoghi, lo spazio cesserebbe di esistere e si avvolgerebbe su sé stesso. Non potremmo più riconoscere varietà e stabilità, per questo, esso uscirebbe dalla coscienza e si renderebbe inafferrabile.

Lo spazio invece esiste, perché in esso c’è una qualche ripartizione operata dalla razionalità, una sua qualche partecipazione operata dalla razionalità, una sua qualche partecipazione al mondo ideale, ma il razionale e l’ideale in carne e ossa si danno solo attraverso il culto. Lo spazio esiste perché esiste il culto.35

Anche il tempo, allo stesso modo dello spazio, è un derivato del culto e Florenskij si spinge ad affermare che il mondo è nel culto e non il contrario, altrimenti il mondo non potrebbe nascere nella coscienza. Il culto è l’entelechia del mondo, ciò che dà forma alla materia che altrimenti non sarebbe intelligibile. La forma è eterna, è l’Alfa e l’Omega del mondo, il vero contenuto concettuale.

Tutte le culture hanno un punto di riferimento perché si modellano in base ad un’unica liturgia eterna che trova vero compimento nella rivelazione cristiana. I greci come centro del mondo avevano Delfi, gli ebrei Gerusalemme. Per i cristiani questo è il Golgota che si trova anch’esso a Gerusalemme, sebbene al tempo di Gesù fosse fuori le mura della città. Il Golgota rappresenta il modello dell’altare sul quale si ripete in maniera incruenta il sacrificio. Da qui (dal Golgota e dall’altare che lo riproduce e lo rende presente ovunque) partono tutte le coordinate dello spazio attraverso le quali ci orientiamo geograficamente. La Croce rappresenta l’insieme degli assi coordinanti del mondo in rapporto ai quali si ha coscienza di ogni cosa perché per Florenskij pensare significa orientarsi.

E allora, se le nostre croci sono anche una categoria del pensiero, se le ravvisiamo dappertutto è per il fatto che esse sono assi coordinanti mobili, in rapporto alle quali comprendiamo ogni fenomeno.36

4. Costruzione dello spazio sacro

Nell’ottica di Florenskij costruire lo spazio sacro, essendo la cultura un derivato del culto, significa costruire lo spazio tout court. Il suo pensiero, sia riguardo alla fondazione dello spazio che a quella del tempo, presenta una profonda affinità con quella di Mircea Eliade e con i resoconti del geografo Pierre Deffontaines.

Il punto di partenza è la trama degli eventi in cui l’esistenza scorre come un tutto unico. Al di sopra e al di fuori di questo flusso, interviene il sacramento che isola un evento particolare. Il sacramento va considerato da due punti di vista: quello metafisico che si situa al di sopra del mondo; quello fenomenologico che è una distinzione dal mondo.37 Florenskij ci avverte però che la distinzione dell’evento non avviene solo nel fenomeno religioso ma anche in quello estetico. Il fenomeno estetico se preso in sé, è pura illusione perché il suo senso è proprio nell’essere separato e nel generare godimento. L’ambito da cui proviene, in realtà, non si differenzia da esso.

In altre parole, se preso al suo limite estremo come puramente estetico, come fatto assoluto al di fuori del culto, il fenomeno estetico sembra distinto, mentre n realtà non lo è, ha solo pretesa di peculiarità, senza averne la forza. Insomma, l’atto che opera la distinzione è tutto, laddove ciò che viene distinto è nulla.38

Contrariamente a quello estetico, il fenomeno religioso opera in maniera inversa il processo di distinzione. La distinzione, infatti, è solo un momento nell’intero processo, un presupposto. L’effetto che produce il fenomeno estetico è la parcellizzazione dell’evento unita ad un’assolutizzazione di singoli atti e ad una conseguente distruzione dell’integrità della vita interiore. I fenomeni religiosi, al contrario, operano sì la distinzione di eventi che però assumono il ruolo di centri unificatori della coscienza e della realtà. La «trama della vita temporale viene disfatta onde usare quegli stessi fili per tessere una nuova vita, una vita spirituale».39

Per comprendere questa affermazione risulterà utile rivolgerci a ciò che Eliade scrive in merito allo spazio sacro nel Trattato di storia delle religioni. Lo spazio profano omogeneo vede sorgere un centro che irradia una forza spirituale in seguito ad una ierofania che si ripete continuamente e che conferisce, al luogo isolato dallo spazio circostante, sacralità.

Il luogo si trasforma così in una fonte inesauribile di forza e sacralità, che concede all’uomo, all’unica condizione di penetrarvi, la partecipazione a quella forza e la comunione con quella sacralità.40

Nel momento in cui avviene una ierofania e si consacra un luogo, questo mantiene le sue proprietà e il suo prestigio. Esso diviene un’eredità per le generazioni future che si trasmette anche ai popoli e alle religioni. Per questo, le popolazioni cristiane ritengono sacri i luoghi riconosciuti come tali dai culti che le hanno precedute. Il luogo, pertanto, non è frutto di una scelta arbitraria. Il sacro ha una sua logica e delle leggi proprie attraverso cui si manifesta e si impone all’uomo. Questa legge fa sì che si realizzi la continuità degli spazi sacri che non sarebbe possibile se fosse frutto di una decisione umana.

La rivelazione del luogo, spiega Eliade, può anche non avvenire in maniera diretta, ma attraverso una tecnica basata su un sistema cosmologico. Qui, lo storico delle religioni è in sintonia con Florenskij nel definire questa tecnica come orientatio. L’orientazione basata sulle coordinate cosmiche svela la sacralità del luogo e consegna un procedimento, una “tecnica” che ci permette di costruire il tempio, la casa e la città. Lo spazio umano, definito, costruito è in quanto tale, uno spazio sacro che si rivela o si scopre. La negazione della sacralità e del centro intorno al quale si costruisce la realtà umana è la negazione stessa dell’uomo. Florenskij torna più volte sulla critica alla modernità che, occultando e negando il sacro a favore dell’uomo, finisce per negare l’uomo stesso.

Alla base della fondazione dello spazio sacro c’è l’intuizione e lo svelamento dell’archetipo atemporale della creazione del cosmo, dunque, la creazione della casa,41 del tempio e della città.

La cosmogonia è il modello tipologico di tutte le costruzioni, e ogni città, ogni nuova casa che si costruisce, imita ancora una volta, e in un certo senso ripete, la creazione del mondo.42

La costruzione della casa, attraverso un rituale di consacrazione dello spazio, viene trasformata nel centro del mondo. Il tempio e la città, per estensione, condividono questa centralità. Deffontaines43 afferma che la casa si differenzia dalla tana e dal nido per la caratteristica di essere il contenitore del pensiero. Solo l’uomo ha dato alla sua abitazione una funzione religiosa. Nell’antichità, come ad esempio nell’epoca romana più antica, la casa era in primis un luogo sacro, un tempio. Tutto ciò vale anche per altri popoli i quali costruivano le case con la stessa pianta e gli stessi criteri di orientamento dei templi.

Nell’ordine cristiano il centro del mondo, afferma Florenskij, si situa nel sacramento dell’eucarestia, pertanto, anche se attraverso un’altra via, ci troviamo di fronte alla possibilità di rendere presente in ogni luogo il centro del mondo. Il sacramento agisce come ordinatore dello spazio umano dando impulso alla strutturazione del territorio. La materia dei sacramenti (il pane e il vino, l’acqua, l’olio ecc.) non si distingue per l’aspetto esteriore da ciò che è profano e ordinario.

Il rito ha la funzione di far emergere il sacramento.

I riti sono le condizioni o le modalità di compimento dei sacramenti. Sono il “come dei sacramenti, laddove i sacramenti sono il “che cosa” dei riti. […] il rito è l’ordine intorno, intorno a qualcosa. Intorno a che cosa? Intorno al sacramento. I riti creano un ordine intorno ai sacramenti.44

Creare un ordine significa generare dei luoghi dando ordine allo spazio la stratificazione. Gli strati preparano, rendono possibile ed indicano i sacramenti, ciò che è al di là dello spazio visibile, ovvero, la dimensione trascendente. Il processo di stratificazione viene descritto da Florenskij attraverso un procedimento matematico. Il paragone è quello tra una successione di punti e il limite. La successione di punti tende verso un limite che per noi è invisibile e in questo modo ce lo fa percepire, ci permette di coglierne l’esistenza. La successione, si badi bene, non è il limite, ma la sua condizione di esistenza. In modo analogo funziona la sezione di Dedekind la quale definisce un numero irrazionale e ci dà l’ordine di quel numero anche se questo non vi è incluso. Così come non verremmo a conoscenza del numero irrazionale senza la sezione, allo stesso modo non verremmo a conoscenza del sacramento senza il rito.

Nella vita della Chiesa, dunque, rito e sacramento non sono scindibili: senza il rito il sacramento non arriverebbe alla coscienza, senza sacramento il rito non troverebbe conferma nella dimensione dell’assoluto, sarebbe uno slancio senza ali verso l’alto e la vana illusione di un saldo appoggio nell’etere.45

Il sacramento è l’unione di celeste e terreno, di ciò che è esperibile con i sensi e ciò che proviene da una dimensione metafisica. La parte visibile è il rito che attraverso la materia manifesta il sacramento che per sua natura è trascendente, è la cosa in sé.

Il rito ha una suo logica e una sua fenomenologia: la ripetizione. Esso pone un gradino che funge da delimitazione e separazione dello spazio. Il primo gradino posto è il primo isolamento che genera una serie infinita, come i punti che tendono ad un limite.

L’isolamento si ripete più e più volte affinché la nostra mente e tutto il nostro essere ne assimilino il processo onde portarlo avanti anche da soli e in se stessi: affinché, parlando in termini matematici, lo estrapolino passando da n a n+1, da n+1 a n+2 e così via, fino a che a tale successione non venga posta fine con un atto di fede nella trascendenza del sacramento.46

Attraverso la ragione non è possibile raggiungere, anche se ce lo fa intravedere e ci permette di scoprirne la direzione, il fondamento trascendente che sta alla base del sacramento. Il passaggio al limite è un salto compiuto dall’atto di fede. Il sistema di isolamenti del culto, necessari per raggiungere la sfera trascendente, non prevede lo stesso numero di gradi per tutti. Il numero è relativo allo stato spirituale di chi assiste al sacramento. Allo stesso modo, non tutti i luoghi richiedono lo stesso numero della serie prima del salto. Il deserto richiede meno isolamenti del piccolo paese. Quest’ultimo ne richiede meno della città di provincia che a sua volta ne richiede meno della capitale. L’uomo più vicino al pericolo e alla morte sarà più vicino al salto rispetto a colui che si trova in una situazione agiata e di salute.

Florenskij rappresenta quella del sistema rito-sacramento come una struttura a cipolla, una serie di strati che dovrà essere di un numero adeguato, pena il recedere dalla coscienza in «orizzonti remotissimi» se sarà troppo alto. Se il numero di strati dovesse essere troppo piccolo, il sacramento risulterà troppo accessibile e quindi immanente.

Chi stabilisce il numero? Questo è un compito che tocca alla Chiesa, perché è la chiesa che stabilisce il rito e nel fare ciò conferisce ordine e forma a tutta la società nel tempo e nello spazio. Il rito deve conformarsi, in parte, alle condizioni dei luoghi e delle persone, pertanto, è possibile che avvengano delle modifiche senza che però questo ne risulti stravolto. Giustamente, sottolinea Florenskij, esso sarebbe visto come uno stravolgimento delle fondamenta e delle radici più profonde dell’umanità.

5. Costruzione dei territori

la costruzione del territorio ha inizio con il tempio: la componente spaziale del culto. Il tempio, attraverso la ripetitività che eleva alla massima potenza il fenomeno estetico, porta a compimento la reiterazione del principio di isolamento quale approssimazione al limite.

Nel tempio è affermato in ogni dove il principio dell’isolamento. La parte di tempio che il nartece divide, l’ambone, l’iconostasi, tutto introduce una suddivisione, una separazione, un isolamento: sono delle chiuse.47

Alle strutture del tempio si aggiungono i paramenti, le tovaglie dell’altare, le vesti liturgiche, i tappeti ecc. ogni elemento, ogni strato, ha la funzione di nascondere e rivelare al tempo stesso. Attraverso il distanziamento creato dall’isolamento, l’uomo si avvicina gradualmente al sacramento avvertendo sempre più la grandezza di Dio e dei misteri. Sentendosi piccolo, il fedele si approssima alla dimensione divina. La gradualità delle separazioni, che agiscono come chiuse che permettono di gestire la forza delle acque, ci permette di non soccombere davanti alla potenza e alla maestà divina.

La struttura stratificata del culto, che si genera nel tempio, ha una sua diffusione e propagazione al di fuori di esso con la costituzione dello Stato cristiano. Esso si struttura attraverso la reiterazione di confini dall’esterno verso il centro rappresentato dal tempio. Il primo confine è quello con un altro Stato, a seguire, si hanno gli isolamenti dei centri abitati, le città, le parrocchie. Queste sono separazioni tra ciò che è sacro e ciò che è indifferente, cioè la natura in generale. Le città sono costituite da una serie di cornici del suolo sacro isolato dai suoi recinti e muri.

La logica delle separazioni non riguarda solo lo spazio, coinvolge anche il tempo. Se il tempio con i suoi livelli come il naos il narcete, l’ambone e la solea ci avvicinano al sacramento nello spazio, l’ufficio liturgico, il calendario, il suono della campana ci avvicinano al momento del realizzarsi del sacramento. Il tempo, allo stesso modo dello spazio, affinché possa essere percepito nella sua compiutezza, deve che sia scandito in periodi che non sono delle porzioni omogenee di una sostanza fluida ma momenti qualitativamente determinati. Ciò è possibile attraverso la posizione di limiti e confini, proprio come avviene per lo spazio. L’esito finale dell’attività di scansione permette all’uomo di orientarsi attraverso dei punti fissi che sono nel tempo ma che non scorrono con esso. Essi sono la manifestazione del sovra-temporale, ovvero, dell’eternità.

Quanto perdura nel tempo, ovvero non scorre con esso, è sovratemporale. I periodi che scandiscono il tempo non devono scorrere col tempo, devono restare fissi nella sua corrente pur continuando a essere nel tempo. Devono essere manifestazioni dell’eternità nel tempo, luci del sovratemporale nel tempo.48

Per Florenskij la coscienza del tempo è possibile proprio se questo è pervaso dal principio sovratemporale. Attraverso la scansione liturgica e la memoria dei santi abbiamo l’autentica «immagine mobile dell’eternità».

Riprendiamo quella che è la caratteristica distintiva del sacramento: ciò che non è mondo, ma è superiore ad esso e rivelato attraverso il rito quale parte del mondo che crea lo spazio e i luoghi. Nello spazio esso fa incontrare ciò che è al di fuori dello spazio umano. Allo stesso modo, il tempo santo della festa che è un tempo vuoto, attraverso la scansione liturgica manifesta ciò che è al di fuori del tempo. Ma il tempo mondano, lo ricordiamo esiste grazie al tempo santo. «Non vi è dubbio, dunque, che nel concetto di santità sia compreso, dopo l’aspetto negativo, anche quello positivo, la realtà di un mondo altro che si rivela in ciò che è santo».49

Il sacramento è attestato nella sua esistenza dalla fede, è il corrispettivo di ciò che nel pensiero astratto è il postulato di esistenza che rimanda a ciò che non è deducibile ma dal quale si svolge la deduzione. La fede, pertanto, permette di uscire dalla propria soggettività rivolgendo lo sguardo al trans-oggettivo, al sacramento norma della strutturazione del mondo nel tempo e nello spazio.

6. Costruzione della vita quotidiana

Il rito può essere visto come una scala che permette un percorso in ascesa fatto di gradini che conducono verso livelli spirituali più elevati. Se è vero che i gradini del rito portano dalla terra al cielo, fanno anche discendere, sostiene Florenskij, il cielo sulla terra. Sotto questa prospettiva, i riti vengono paragonati a dei gradoni di basalto dell’alveo di una cascata che permettono alle acque di raggiungere le valli senza portare distruzione.

Il rito è l’orientamento concreto è reale di tutta la nostra esistenza a Dio venuto nella carne. In tal senso è possibile affermare che non esistono confini del rito: prendendo avvio dal sacramento, esso discende nella vita del tempio diramandosi e ripartendosi, di qui passa a quella che circonda il tempio, poi alla vita quotidiana, alla struttura della cultura e poi, simile a villi e viticci sottilissimi, a volte a malapena o per nulla visibili, penetra nei recessi della terra, nella vita, nel cosmo, ormai rito non più umano, confinato entro i margini dell’umana società, ma rito che abbraccia ogni creatura, ogni essere, persino le forze elementali della natura.50

Da questa lunga citazione ricaviamo la pervasività del culto e il suo potere modellante anche dei gesti quotidiani più semplici e apparentemente lontani dalla dimensione religiosa. Florenskij riporta degli esempi significativi della forza modellante culto nella vita quotidiana. Tra quelli più significativi c’è l’inchino per salutare, quale omaggio all’uomo immagine del divino. La cucina, definita un insieme di riti, è il centro spirituale della casa dove l’altare è rappresentato dal focolare. Alla base di tutto, però, c’è la convinta affermazione di una religione universale le cui tracce non sono mai state cancellate. Non si tratta di una convenzione frutto di un contratto, piuttosto, è l’espressione profonda della natura umana.. La cultura che nasce dalla modernità e che ha generato la nostra civiltà, vuole rinunciarvi e occultarla. Tuttavia, avverte Florenskij, la vita quando non è più permeata dal rito diventa misera e tediosa. La ritualità è paragonata a una coordinata dello spirito, tolta la quale, il mondo interiore si appiattisce fino al punto che l’uomo riesce a muoversi solo sulla «superficie della vita». Il rimedio, che risulta infine vano e mortale, è quello di intensificare le sensazioni, processo che non ha né limite interno, né compimento. «[…] cosicché i gusti forti della vita conducono via via fino ai limiti di quanto la natura umana è in grado di tollerare».51


  1. P.A. Florenskij, Avtoreferat, in Il simbolo e la forma, Bollati-Boringhieri, Torino pp. 6-7. ↩︎

  2. Ibidem. ↩︎

  3. P.A. Florenskij, la filosofia del culto, San Paolo, Cinisello Balsamo 2017. ↩︎

  4. Ibidem. ↩︎

  5. Ivi, p. 125. ↩︎

  6. Ivi, p. 127. ↩︎

  7. Ivi, p. 120. ↩︎

  8. Ivi, p. 197. ↩︎

  9. Ivi, p. 172. ↩︎

  10. P.A. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010. ↩︎

  11. Ivi, p.160. ↩︎

  12. R. Betti, La matematica come abitudine del pensiero, Pristem, Milano 2009. ↩︎

  13. A. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, cit. p. 491. ↩︎

  14. Ivi, p. 491. ↩︎

  15. R. Betti, La matematica come abitudine del pensiero, cit., p. 42. ↩︎

  16. A. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, cit., pp. 492-493. ↩︎

  17. Ivi, p. 494. ↩︎

  18. Ivi, p. 495. ↩︎

  19. P.A. Florenskij, La filosofia del culto, cit., p. 177. ↩︎

  20. Ivi, p. 176. ↩︎

  21. Ivi, p. 179. ↩︎

  22. Ibidem. ↩︎

  23. Ivi, p.181. ↩︎

  24. Ibidem. ↩︎

  25. Ivi, pp. 181-182. ↩︎

  26. P. Florenskij, Lo spazio e il tempo nell’arte, Adelphi, Milano 2012, p. 15. ↩︎

  27. Ibidem. ↩︎

  28. P.A. Florenskij, La filosofia del culto, cit., p.183. ↩︎

  29. Ivi, p. 185. Florenskij si riferisce ai passi di Mt 6,21 e Lc 12,34. ↩︎

  30. Ivi, p. 186. ↩︎

  31. Ibidem. ↩︎

  32. Ivi, p. 189. ↩︎

  33. Ivi, p. 107. ↩︎

  34. Ivi, p. 192. ↩︎

  35. Ivi, p. 195. ↩︎

  36. Ivi, pp. 196-197. ↩︎

  37. Ivi, p. 295. ↩︎

  38. Ivi, p. 296. ↩︎

  39. *Ibidem. * ↩︎

  40. M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, p. 333 ↩︎

  41. Deffontaine definisce la casa come il primo esempio di luogo sacro. ↩︎

  42. M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, cit., p. 344. ↩︎

  43. P. Deffontaines, Geografia e religione, p. 11 e sgg. ↩︎

  44. P. Florenskij, La filosofia del culto, cit., p. 299. ↩︎

  45. Ivi, pp. 300-301. ↩︎

  46. Ivi, p. 302. ↩︎

  47. Ivi, p. 306. ↩︎

  48. Ivi, p. 315. ↩︎

  49. Ivi, p. 325. ↩︎

  50. Ivi, pp. 333-334. ↩︎

  51. Ivi, p. 337. ↩︎