Legge di sopravvivenza

1. Derrida lettore di Kafka

Davanti alla legge c’è un guardiano. Davanti a lui viene un uomo di campagna e chiede di entrare nella legge. Ma il guardiano dice che ora non gli può concedere di entrare. L’uomo riflette e chiede se almeno potrà entrare più tardi. «può darsi» risponde il guardiano, «ma per ora no». Siccome la porta che conduce alla legge è aperta come sempre e il custode si fa da parte, l’uomo si china per dare un’occhiata, dalla porta, nell’interno. Quando se ne accorge, il guardiano si mette a ridere: «Se ne hai tanta voglia prova pure a entrare nonostante la mia proibizione. Bada, però: io sono potente, e sono soltanto l’infimo dei guardiani. Davanti a ogni sala sta un guardiano, uno più potente dell’altro. Già la vista del terzo non riesco a sopportarla nemmeno io». L’uomo di campagna non si aspettava tali difficoltà: la legge, pensa, dovrebbe pur essere accessibile a tutti e sempre, ma a guardar bene il guardiano avvolto nel cappotto di pelliccia, il suo lungo naso a punta, la lunga barba tartara, nera e rada, decise di attendere piuttosto finché non abbia ottenuto il permesso di entrare. Il guardiano gli dà uno sgabello e lo fa sedere di fianco alla porta. Là rimane seduto per giorni e anni. Fa numerosi tentativi per passare e stanca il guardiano con le sue richieste. Il guardiano istituisce più volte brevi interrogatori, gli chiede notizie della sua patria e di molte altre cose, ma sono domande prive di interesse come le fanno i gran signori, e alla fine gli ripete sempre che ancora non lo può fare entrare. L’uomo che per il viaggio si è provveduto di molte cose dà fondo a tutto per quanto prezioso sia, tentando di corrompere il guardiano. Questi accetta ogni cosa, ma osserva: «Lo accetto soltanto perché tu non creda di aver trascurato qualcosa». Durante tutti quegli anni l’uomo osserva il guardiano quasi senza interruzione. Dimentica gli altri guardiani e solo il primo gli sembra l’unico ostacolo all’ingresso della legge. Egli maledice il caso disgraziato, nei primi anni ad alta voce, poi quando invecchia si limita a brontolare tra sé. Rimbambisce e siccome studiando per anni il guardiano conosce ormai anche le pulci del suo bavero di pelliccia, implora anche queste di aiutarlo e di far cambiare opinione al guardiano. Infine il lume degli occhi gli si indebolisce ed egli non sa se veramente fa più buio intorno a lui o se soltanto gli occhi lo ingannano. Ma ancora distingue nell’oscurità uno splendore che erompe inestinguibile dalla porta della legge. Ormai non vive più a lungo. Prima di morire tutte le esperienze di quel tempo si condensano nella sua testa in una domanda che finora non ha rivolto al guardiano. Gli fa un cenno poiché non può ergere il corpo che si sta irrigidendo. Il guardiano è costretto a piegarsi profondamente verso di lui, poiché la differenza di statura è mutata molto a sfavore dell’uomo di campagna. «Che cosa vuoi sapere ancora? » chiede il guardiano, «Sei insaziabile». L’uomo risponde: «Tutti tendono verso la legge, come mai in tutti questi anni nessun altro ha chiesto di entrare?». Il guardiano si rende conto che l’uomo è giunto alla fine e per farsi intendere ancora da quelle orecchie che stanno per diventare insensibili, grida: «nessun altro poteva entrare qui, perché questo ingresso era destinato soltanto a te. Ora vado a chiuderlo».1

In questo brano Kafka mette in scena un paradosso degno di essere indagato: un uomo si presenta davanti la porta di accesso della legge e chiede al custode di entrare. Tutto è esplicitato già nelle prime due-tre righe e il brano potrebbe anche finire qua nonostante Kafka continui il racconto. Il racconto successivo a questa scena iniziale funge da supporto descrittivo ed offre numerosi spunti che ci consentono di ritornare all’inizio con sempre maggior consapevolezza, senza che nulla si alteri, rimanendo costantemente in quel paradosso che per tutto il tempo resta immutato: l’uomo chiede al custode di entrare nella legge. In un testo edito in italiano nel 1996, intitolato Pregiudicati. Davanti alla legge, il filosofo algerino Derrida, nella seconda parte dell’opera, si dedica minuziosamente all’osservazione di questo brano tentando di chiarificare tutti gli elementi proposti nel racconto, la presenza della porta aperta, il ruolo del custode, come intendere le parole da lui proferite, in che modo i protagonisti si relazionano tra loro. Le sue osservazioni, sulla scia di Kafka, sono tutte tenute insieme dall’unica ed essenziale motivazione di esplicitare la natura di questo paradosso. Perché la richiesta di accesso alla legge è da considerarsi come assurda?

Innanzitutto è bene chiedersi, ma di che legge si tratta? Il termine tedesco originale usato da Kafka è Gesetz che, come tutti i sostantivi in lingua tedesca, è scritto con la lettera iniziale maiuscola. Questo pone un problema di traduzione giacché ci si trova di fronte all’interrogativo se esso vada riportato in italiano con l’iniziale maiuscola o meno. La differenza tra l’una e l’altra occorrenza è sottile ma comunque presente, difatti tradurre il termine tedesco Gesetz con «Legge», in maiuscolo, rimanderebbe implicitamente ad un orizzonte giuridico che pur essendo presente nella semantica del termine rischierebbe di essere inteso come l’unico possibile. L’esclusività di questa prospettiva giuridica non la troviamo invece con l’utilizzo della voce «legge», la quale ha il pregio di mantenere tutta la polivocità semantica del termine. Molte traduzioni, tra cui quella usata qui, adottano a ragione questa seconda soluzione. Nello sterminato repertorio di Derrida, il tema della legge è assai presente e si offre di volta in volta con curvature differenti; esso si trova in filigrana in ognuno dei percorsi singolari che modulano la decostruzione tracciando una via privilegiata per accedere al suo modo di fare filosofia.2 Nella fattispecie, nel commento di questo brano, rivolgersi alla parola «legge» depurata dall’esclusività dell’orizzonte giuridico, è una scelta certamente in accordo con le ricerca di Derrida.3 Leggendo Kafka, il filosofo algerino va cercando non questa o quella legge in particolare, non la legge del diritto o della politica: la sua attenzione è rivolta anche a queste ma non solo, c’è di più. «Qui dico ancora “la legge delle leggi” perché, nel racconto di Kafka, non si sa di quale specie di legge si tratti, quella della morale, del diritto, o della politica, perfino della natura, ecc. Ciò che resta invisibile e nascosto in ogni legge si può dunque supporre che sia la legge stessa, ciò che fa che queste leggi siano leggi, l’essere-legge di queste leggi».4 La polivocità semantica della legge viene recepita da Derrida in tutta la sua radicalità: è l’esser legge delle leggi che gli interessa. Tutto il suo commento non è nient’altro che il tentativo di esplicitare questa impossibile ontologia della legge che si manifesta celando una natura paradossale.

Questa caccia all’impossibile è un Leitmotiv del pensiero derridiano che si declina in numerose accezioni e in diverse sue opere: come impossibilità di donare, di essere pienamente presenti, di giungere all’origine. In questa ricerca dell’impossibile è bene notare come, molto spesso, i versanti argomentativi siano due, uno fenomenologico e uno ontologico, che si intersecano vicendevolmente pur non confondendosi mai. Quando derrida parla del dono, ad esempio, egli ha ben chiaro questi due aspetti, difatti un conto è come il dono si manifesta, un conto è come esso è. In Donare il tempo. La moneta falsa, partendo dalla presa di coscienza sulla natura del dono, sul suo essere, fa notare come una sua qualsiasi manifestazione lo faccia scadere ontologicamente, rendendolo non più ciò che esso sarebbe dovuto essere.5 In quel testo la prospettiva che veniva illuminata dal faro ermeneutico di Derrida era quella fenomenologica: l’ontologia del dono è data per acquisita ed è funzionale, nel corso di tutta l’opera, per rendere conto proprio di questa impossibile fenomenologia del dono. Era la sua inaccessibilità fenomenologica ad essere bisognosa di riflessione e attenzione. Ora, invece, quando Derrida parla della «legge della legge» o della «verità della legge», è chiaro che ciò su cui vuole porre la sua attenzione è l’aspetto ontologico della questione. Non questa o quella legge lì, contingente e caduca, ma la legge in quanto tale. Così come capire cosa il dono sia ci aiuta a comprendere il modo con cui esso debba manifestarsi, allo stesso modo osservare come la legge si manifesta è utile per tentare di esplicitare cosa essa sia.

E dunque il primo aspetto fenomenologico che occorre indagare è dato dal fatto che la legge viene rappresentata topologicamente come un luogo a cui è possibile accedere varcando la soglia di una porta. La porta simboleggia il margine oltre il quale è possibile accedere alla legge. Ciò che muove tutto il racconto è proprio la voglia da parte dell’uomo di campagna di varcare la soglia di quella porta giacché, egli pensa, la legge «dovrebbe pur essere accessibile a tutti e sempre».6 Ed infatti la porta di accesso alla legge non è chiusa o sigillata, ma è aperta «come sempre». Questo non è un dettaglio da poco fornitoci da Kafka perché, nonostante la porta resti non varcata per tutto il racconto, essa si offre all’uomo aperta e l’unico impedimento per accedervi al suo interno sono le parole del guardiano. Non c’è mai un momento in cui è negato all’uomo la possibilità fisica di andare oltre la soglia di quella porta. La porta

marca il margine senza essere essa stessa un ostacolo o una chiusura. Marca, ma non è nulla di solido, d’opaco, di insormontabile. Lascia guardare nell’interno, non la stessa legge senza dubbio, ma all’interno di luoghi apparentemente vuoti e provvisoriamente vietati. La porta è fisicamente aperta, il custode non si frappone con la forza. È il suo discorso che opera dal limite, non per vietare direttamente, ma per interrompere e per differire il passaggio, o il lasciare-passare.7

La porta aperta che lascia vedere al suo interno non essendo nulla di insormontabile, è il modo con cui la legge si presenta all’uomo di campagna: essa è un luogo aperto a cui è possibile, teoricamente, accedere. Dicevamo di come l’unico limite fosse dato dalle parole del guardiano: «il guardiano dice che ora non può concedergli di entrare» e tale interdizione resterà fino alla fine del racconto. Se è vero che non c’è nessuna impossibilità fisica da parte dell’uomo di campagna di contravvenire all’ingiunzione del custode e varcare la soglia della porta, è altrettanto vero che l’ingiunzione c’è e che il guardiano è descritto come più potente dell’uomo. Non solo, ma il custode è separato dalla legge da altri custodi, dice: «io sono potente, e sono soltanto l’infimo dei guardiani. Davanti a ogni sala sta un guardiano, uno più potente dell’altro, Già la vista del terzo non riesco a sopportarla nemmeno io»8. Il primo nell’ordine del racconto è l’ultimo nell’ordine della legge nella gerarchia dei suoi rappresentanti.9

Se il primo aspetto fenomenologico su cui ci siamo soffermati è la chiara simbologia con cui si manifesta la legge, e cioè come una porta aperta che si offre per essere varcata, per essere scoperta, e cioè per essere conosciuta nella sua essenza ontologica, il secondo, altrettanto evidente, è quello che palesa come questa sia sempre espressa per mezzo di un rappresentante. In effetti, qualunque manifestazione della legge si dà per mezzo di rappresentanti: cosa sono ad esempio il poliziotto, il carabiniere, il magistrato, il politico, se non i portavoce della legge di uno Stato? Tra di loro, tra chi rappresenta la legge, sussiste un rapporto differenziale di forze, lo stesso che c’è tra i custodi del racconto: la loro potenza è data dalla loro capacità di poter differire l’accesso alla legge. La loro potenza è una potenza di differimento: le loro possibilità sono maggiori nella misura in cui possono non consentire l’accesso alla legge. È l’esercizio della potenza intesa come potenza di non, di non consentire l’accesso alla legge; chi sorveglia la legge è tanto più potente, quanto più è interditore, ossia quanto più ha la forza di poter differire: «sempre più potenti, sempre più interditori, forti di poter differire».10 La legge si presenta come porta aperta e accessibile, ma anche come interdizione dei rappresentanti. Si presenta dunque come accessibile in un modo del tutto peculiare, si presenta come delegata, rappresentata; la legge in persona, se così si può dire, non si presenta mai.11 I rappresentanti, presenti, vanno intesi come la traccia visibile della legge per il momento assente.

Il fatto che la porta sia aperta non costituisce un semplice orpello narrativo di cui si può anche fare a meno, la porta che marca la legge è aperta e questa si lascia guardare. Nonostante questo, la descrizione di Kafka non ci consente di intendere la legge come semplicemente presente dal momento che tutta la tensione narrativa si trova proprio nel fatto che essa sia insieme un luogo accessibile e non accessibile. I due aspetti sopra evidenziati, quello della porta e quello del (dei) custode (custodi), sono tenuti insieme da questo cruciale elemento, ossia quello della contemporanea presenza e assenza della legge in quanto essa si presenta allo sguardo restando sempre in qualche modo celata ed assente, si lascia vedere non lasciandosi vedere, c’è presentandosi mai compiutamente. La legge si produce (senza mostrarsi, quindi senza prodursi) nello spazio di questo non-sapere. Il custode vigila su questo teatro dell’invisibile, e l’uomo vuole vedere abbassandosi.12

Il mancato accesso alla legge è determinato, come detto, dalle parole del guardiano. Non solo. Il divieto da lui imposto non è espresso nella forma imperativa e conclusiva che dice «mai!», piuttosto egli proferisce frasi come «per ora no», o addirittura «se ne hai tanta voglia prova pure a entrare nonostante la mia proibizione».13 Il fatto che la legge si manifesti per bocca del guardiano interdicendo il passaggio fa sì che tutto il racconto non sia altro che il racconto di una legge formulata dal guardiano e mai trasgredita. L’intera storia è radicalmente condizionata da questa legge, dall’unica legge che viene pronunciata e che si manifesta in modo del tutto esplicito, quella del «per ora non puoi entrare», rispettata ossequiosamente dal campagnolo per tutto il tempo fino al momento della sua morte. Le parole pronunciate dal primo dei rappresentanti sono sì una legge, ma non la legge: alle parole del guardiano fa da contraltare un tutt’altro che avrebbe potuto non esserci ma che invece c’è, difatti è possibile scorgere al di là di quel divieto qualcosa che in parte contraddice quel divieto stesso. È negato entrare in un posto marcato da una porta aperta, è negato entrare non per via di un’ingiunzione perentoria che esclude qualunque possibile accesso, ma da un’espressione che, come la porta, lascia aperta la speranza, l’attesa, la ricerca, la possibilità. Il racconto, che prendeva le mosse dal paradosso della legge, diventa anche una narrazione sul tempo, sul tempo che resta affinché l’accesso alla legge non sia più precluso, il tempo che manca per varcare la soglia della porta. Le parole del guardiano operano da limite «non per vietare direttamente, ma per interrompere e per differire il passaggio, o il lasciare-passare». Rappresentata dal custode, il discorso della legge non dice «no» ma «non ancora», indefinitamente.14 E questo «non ancora» resterà per tutto il tempo, fino al punto che di tempo non ne resterà più: ciò che è per sempre differito, fino alla morte, è l’ingresso nella legge stessa. Ecco ciò che per Derrida non si può avvicinare, presentare, rappresentare definitivamente e compiutamente, ecco la legge della legge, il processo di una legge riguardo al quale non si può mai dire «eccola», qui o là.15

L’uomo di campagna è «davanti alla legge», ossia nel senso di una comparuzione rispettosa ed assoggettata di un soggetto che si presenta davanti ai rappresentanti e ai custodi della legge. Benché «davanti alla legge» sembri significare «in presenza della legge», l’uomo è di fronte alla legge senza mai esserle di fronte,16 l’uomo è di fronte al rappresentante della legge senza che questa si presenti mai di persona. A ben vedere l’uomo di campagna non è il solo ad essere davanti alla legge , assieme a lui c’è il anche il custode. Il primo è davanti alla legge nel modo di chi, comparendo di fronte ad essa, ci si assoggetta, rispettandola: ed è proprio tale rispetto che tiene a distanza, vietando il contatto o la penetrazione. Potremmo dire che la legge non consente di essere penetrata dall’uomo per via del troppo rispetto che essa suscita in lui. Il secondo, il custode, volta le spalle alla legge per far si che il rispetto che le si deve venga esercitato, è lì per far rispettare la legge e per vietarne la penetrazione. Egli volta le spalle alla legge non perché questa si presenti o perché gli sia presentata, ma al contrario per vietare ogni presentazione. Entrambi si trovano in presenza esclusivamente l’uno dell’altro cosicché colui che è di fronte (alla legge) non vede altro che colui che gli volta la schiena (alla legge). Nessuno dei due è in presenza della legge.17 Entrambi sono fuorilegge. Il loro essere fuori legge è determinato dalla constatazione che entrambi, per un verso o per l’altro, sono fuori dalla porta che consente l’accesso alla legge. La stessa condizione riguarda però anche gli altri custodi che si trovano all’interno della porta; è vero sì che essi sono fisicamente più vicini alla legge, ma è altrettanto evidente che nemmeno loro hanno accesso al luogo successivo né tantomeno all’ultimo luogo in cui è custodita la legge, ammesso che ci sia questo «ultimo». L’uomo di campagna rispetta la legge per tutto il tempo, il custode per mezzo delle sue parole intende farla rispettare, eppure entrambi sono dei fuorilegge. Il fuorilegge è comunemente concepito come colui che non rispettando la legge, la trasgredisce; qui invece ad essere fuorilegge sono proprio coloro che rispettandola non la penetrano restandone fuori. Eccoci giunti nel cuore del paradosso proposto da Kafka che, se vogliamo, si trova tutto nel modo di intendere la parola «rispetto». Esso, in un senso molto kantiano, si configura come il riconoscimento di un potere, in particolare il potere e la capacità che essa ha di autodeterminarsi, e in questo senso la legge si autodetermina liberamente vietando però qualunque tipo infiltrazione al suo interno, risultando inaccessibile.

L’attenzione sopra dedicata al modo con cui la legge si manifesta, ossia presentandosi solo in modo fittizio, offrendosi alla vista restando invisibile, ci torna utile ora per constatare il suo statuto ontologico: la presenza della legge si rivela nel momento in cui si verifica la sua trasgressione,18 nel momento in cui qualcuno cessa di rispettarla penetrandola. «Nessun altro poteva entrare qui perché questo ingresso era destinato soltanto a te. Ora vado a chiuderlo».19 La vicenda narrata da Kafka e l’epilogo contenuto nelle parole proferite dal custode sintetizzano la condizione della legge, il suo paradossale statuto ontologico: la legge non è se non in virtù della trasgressione, di qualcuno che si assume la responsabilità di varcarne la porta.20 In un altro testo di Derrida, Forza di legge, il tema della legge viene interpretato a partire dalla nozione di «fondamento mistico» che si trova al principio di qualunque autorità, nozione tratta a sua volta da Montaigne. Ora, l’operazione che fonda, inaugura e giustifica qualunque autorità e dunque la legge stessa, consisterebbe in un colpo di forza, in una violenza performativa.21 Lo slittamento della nozione di legge su quello di forza non può essere qui approfondito nel dettaglio ma ci offre un ulteriore spunto decisivo. Sopra si era già parlato di differenza di potenza e di forza, ed ora tale differenza può essere reindirizzata per comprendere l’essenza della legge e il suo manifestarsi. Colui che infrange la legge si fa carico di convocarla, di portarla ad un presente fenomenico nel modo della sanzione, ossia della manifestazione finalmente palese della legge sotto forma di forza. La sanzione testimonia della presenza della legge e del suo carattere non spettrale.22 La trasgressione è ciò che consente alla legge di essere, e tale condizione ci consente di osservare come il criminale sia consustanziale alla legge e al suo essere, per il semplice motivo che rimanda al momento fondatore (la forza).23

L’uomo di campagna si trova nella situazione paradossale di non poter accedere alla legge se non trasgredendola. Nel fare ciò consente ad essa di essere e di rivelarsi come sanzione che punisce chi trasgredisce, ossia chi ha provato ad accedergli. Se il problema è formulabile con la domanda «come essere nella legge?», ebbene la risposta si presenta in forma paradossale: «si è nella legge, restando fuori». La legge, anche rivelando il suo essere come applicazione di forza per mezzo di una sanzione, impone sempre e comunque di restare al di fuori di essa: qualora l’uomo di campagna provasse a disobbedire alla legge espressa dalle parole del guardiano verrebbe punito, trovandosi ad essere dunque un fuori legge, un uomo che trasgredisce la legge. Allo stesso modo, qualora l’uomo dovesse invece rispettarla, come del resto fa, egli si troverebbe comunque precluso l’accesso alla legge, restandone fuori. Si è sempre fuorilegge nella misura in cui sia rispettandola, sia trasgredendola, il dentro è precluso. C’è solo il fuori.

2. Agamben interprete di Paolo

Il paradosso con cui abbiamo avviato la prima parte della nostra trattazione aveva rivelato la natura ambivalente, se non addirittura contraddittoria, della legge. La legge sembra continuare a resistere nella sua natura aporetica anche rivolgendoci ad un altro testo, apparentemente molto lontano dal brano di Kafka, come la Lettera ai Romani di Paolo di Tarso. Il carattere aporetico della trattazione paolina del problema della legge è stato notato già dai più antichi commentatori; il primo a commentarla sistematicamente è Origene e proprio questi ci propone una metafora che risulterà straordinariamente calzante e coerente con il modo con cui abbiamo affrontato il tema della legge.

Origene aveva imparato da un rabbino (come egli stesso ci informa) a comparare i testi della Scrittura a una moltitudine di camere in una casa, ciascuna delle quali è chiusa a chiave; su ogni serratura sta una chiave, ma qualcuno si è divertito a scambiarle, per cui esse non corrispondono più alla porta in cui si trovano. Ma, di fronte alle oscurità della trattazione paolina della legge nella Lettera ai Romani, egli sente il bisogno di complicare ulteriormente l’apologo rabbinico e paragona il testo a una reggia piena di magnifiche stanze, in ognuna delle quali vi sono più porte nascoste […] non riusciamo a intendere il testo e abbiamo l’impressione che, parlando della legge, egli cada in contraddizione.24

La metafora è sorprendente perché sia Kafka che Origene, parlando della legge, la paragonano ad un luogo: più generico e poco specificato nel, più dettagliato e preciso nel secondo. Nel primo caso troviamo un luogo marcato da una porta aperta ma sorvegliata da un guardiano; nel secondo troviamo invece una reggia con una serie di magnifiche stanze custodite da più porte nascoste e chiuse, ma ognuna delle quali è accessibile dopo aver trovato la chiave corrispondente.

Questo aneddoto è riportato da Agamben nel suo commento alla Lettera ai Romani. La sua prospettiva, nel corso di tutta la trattazione e in particolare in riferimento alla questione della legge, mira a segnalare e a spiegare il nucleo messianico del messaggio di Paolo. Proprio su questo nucleo occorre soffermarci per acquisire degli elementi nuovi da aggiungere a quanto detto precedentemente, in modo da chiarificare il paradossale discorso sulla legge. Il messianismo intrinseco alla legge è l’elemento di raccordo che unisce l’interpretazione derridiana di Kafka all’interpretazione che Agamben fa della trattazione paolina. Ciò che rende paradossale la legge è il suo nucleo messianico, ossia la promessa che si trova al suo interno. Di che promessa si tratta e il modo con cui tale promessa rende effettivamente complesso qualunque accesso alla legge è ciò a cui dobbiamo rispondere per portare a maturazione il discorso qui intrapreso.25 Per Agamben una prima decisiva risposta si trova in Rm. 3, 27-28:

Dove dunque sta il vanto? È stato escluso! Da quale legge? Da quella delle opere? No, ma dalla legge della fede. Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge.26

Qui Paolo contrappone una legge delle opere a una legge della fede: l’antinomia non concerne due principi irrelati e affatto eterogenei, ma è un’opposizione interna allo stesso nomos, interna cioè alla stessa legge dell’uomo. L’opposizione è un’antinomia tra un elemento normativo e un elemento promissivo.27 Parlare di aspetto normativo e di aspetto non-normativo o promissivo, significa per Paolo, distinguere fra una legge che si adempie per mezzo delle opere e una legge che si adempie per mezzo della fede. Questo significa che la legge non è da considerarsi esclusivamente come norma, oltre questo c’è di più. Questo di più è dato da un’eccedenza rispetto alla norma stessa, rispetto a questa o quella legge in particolare. Questa eccedenza è la promessa che vige all’interno della legge stessa, promessa del miglioramento, del progresso, del compimento, del perfezionamento, in altre parole promessa di giustizia: il messianismo. La differenza tra norma e legge, cioè tra norma e promessa, si trovava anche nel racconto di Kafka, dal momento che al precetto del guardiano seguivano tutta una serie di elementi che rendevano quella norma non assoluta ma aperta e rivolta ad altro. Ebbene, per rivolgersi alla legge in tutta la sua portata occorre comprendere che essa non si esaurisce nella norma con la quale si presenta, ma che al di là di essa si trova un elemento promissivo che la rende possibile. Se dunque la legge non si esaurisce in questa o quella norma in particolare, ma anzi queste traggono origine dall’istanza promissiva situata nel cuore della legge, significa che si rende necessario un superamento della norma stessa. Questo superamento va inteso in modo preciso, non tanto come una distruzione tout court, nemmeno come un banale scavalcamento, bensì come una disattivazione che mira a rendere inoperante per un fine migliore.

Per esprimere la relazione fra il messianico e la legge Paolo si serve costantemente di un verbo la cui analisi tornerà molto utile. Questo è katargéō, un vero e proprio termine chiave del vocabolario messianico paolino. Katargéō è un composto di argéō, che deriva a sua volta dall’aggettivo argòs, che significa «inoperante, non in opera (a-ergos), inattivo». Il composto quindi si riempie di questa semantica che tende al rendere inoperante, al disattivare, al sospendere l’efficacia.28

«Quando infatti eravamo nella debolezza carne, le passioni peccaminose erano messe in atto attraverso la legge, si scatenavano nelle nostre membra per portare frutti alla morte; ora invece, morti a ciò che ci teneva prigionieri, siamo stati dis-attivati – “resi inoperosi” – rispetto alla legge, per servire secondo lo Spirito, che è nuovo, e non secondo la lettera, che è antiquata».29

Il rendere inoperante, il disattivare, è il gesto con cui il messianico si compie. Ma disattivare cosa? Per realizzare la potenza messianica della legge occorre disattivare la norma, rendere inoperante la norma: questo è ciò che si intende quando si parla di aspetto non normativo della legge. Ciò non significa di certo che bisogna abolire, annullare o distruggere la norma e le opere confacenti ad essa, bensì che ci si rivolga all’aspetto normativo della legge consapevoli che al suo interno troviamo un di più, un’eccedenza, una promessa che non si esaurisce nella norma stessa. Difatti «la potenza della promessa è stata trasportata in opere e in precetti obbligatori, così ora il messianico rende queste opere inoperanti, le restituisce alla potenza nella forma dell’inoperosità e dell’ineffettività. Il messianico è non la distruzione, ma la disattivazione e l’ineseguibilità della legge».30

Tutto il nocciolo si trova sempre nella ambivalente natura della legge, che è insieme norma, data e conclusa, e promessa (di giustizia), ancora a-venire. È possibile portare a compimento la promessa della legge solo se questa è stata prima resa inoperosa come norma. Ciò che però è stato disattivato – la norma – non è per questo annullato, ma al contrario conservato e tenuto fermo per il suo compimento.31 Questo aspetto del katargeìn paolino va tenuto in considerazione «affinché, usando questa parola non si creda che si tratti di una distruzione totale, ma in qualche modo di un accrescimento e di un dono verso il meglio […] Il rendere inoperante è un compimento e un’aggiunta verso il meglio».32 Si tratta dunque di disattivare non per abolire, ma per conservare e portare a compimento. In questo atteggiamento troviamo un progresso verso uno stato migliore ed è proprio tale atteggiamento a rendere bene l’idea di cosa si intenda quando si parla di disattivazione anziché di distruzione. La struttura messianica della legge fa sì che ci si debba rivolgere alla norma circoscrivendola all’interno dell’orizzonte promissivo a cui appartiene: la promessa di qualcosa di meglio, di un progresso verso il giusto. Ciò significa distruggere la norma? No, bensì si tratta di disattivarla dall’assolutezza con la quale si manifesta, inserendola sempre in quello sfondo messianico a cui appartiene.33 Se nella prima parte ci trovavamo di fronte alla legge a cui era possibile accedere solamente trasgredendo ciò che essa sanciva, qui ci si trova di fronte alla legge che per compiersi ha bisogno della sua sospensione: la legge si applica disapplicandosi e si rivela nello spazio di questa disattivazione. Il paradigma che definisce la struttura e il funzionamento proprio della legge non è la norma, ma la promessa, ciò che in ambito giuridico viene chiamata l’eccezione: «il caso d’eccezione rende palese nel modo più chiaro l’essenza dell’autorità statale. […] L’eccezione è più interessante del caso normale. Quest’ultimo non prova nulla, l’eccezione prova tutto; non solo esso conferma la regola: la regola stessa vive nell’eccezione».34 L’eccezione non è nient’altro che il di più che nello scritto paolino si dà come messianismo e come elemento promissivo al cuore della legge. È l’idea per la quale oltre la norma ci sia altro. Non solo. Ma che questo altro abbia una vera e proprio priorità ontologica sulla norma. Di più. Questo altro è ciò che fonda la norma stessa. La norma vive in questo altro.

Se ciò che fonda la regola è l’eccezione, ossia nel gergo paolino la promessa, significa per l’appunto che la norma si applica nel momento in cui essa, disapplicandosi, si ritrae nell’eccezione promissiva da cui proviene. In questo senso tale eccezione non è semplicemente un’esclusione, ma un’esclusione inclusiva, una cattura del fuori. In paolo ci si trova di fronte ad una legge che grazie al suo messianismo, vigendo nella forma della sua sospensione, applicandosi disapplicandosi, include ciò che respinge fuori di sé. La priorità ontologica della promessa sulla norma fa sì che qualunque applicazione prescrittiva non sia altro che un modo di darsi, sempre diverso, della legge. Solitamente si crede che l’eccezione confermi la regola; qui il discorso è ancora più radicale dal momento che non solo essa la conferma ma la fonda anche. Non è possibile sottrarsi all’eccezione, all’orizzonte promissivo che genera la legge e pertanto ci si trova nella paradossale situazione per cui non vi è un fuori della legge. C’è solo il dentro.

3. Legge di sopravvivenza

Le due prospettive affrontate nei paragrafi precedenti, pur rivelando evidenti analogie circa la natura paradossale della legge, conducono a due esiti diametralmente opposti. Si è detto, tentando così di riassumere queste divergenti posizioni, «c’è solo il fuori» in merito alla trattazione derridiana della legge, «c’è solo il dentro» in merito a quella paolina. Il punto di giunzione tra l’una e l’altra interpretazione si trova nel concetto di messianismo. Se però per Paolo il messianismo trova la sua risoluzione e il suo compimento in Dio, quando si parla di messianismo in Derrida lo si fa utilizzando spesso la formula di «messianico senza messianico» o «messianico senza contenuto».35 Esso va inteso a partire dalla sua essenza promissiva: «per essere promessa, una promessa deve poter essere intenibile e dunque poter non essere una promessa (perché una promessa intenibile non è una promessa). Conclusione: non si constaterà mai, non diversamente dal dono, che c’è o che c’è stata promessa».36 In altre parole il messianico, che è promessa, è da intendersi per Derrida come una promessa autentica: essa è tale nel momento in cui ancora non è stata realizzata, mantenuta. Il messianico è promessa nel vero senso della parola, di una promessa che resta tale per sempre, infinitamente. Se Paolo si trovasse di fronte alla porta della legge narrata da Kafka, oltre tutte le porte e tutti i guardiani troverebbe Dio, Derrida troverebbe altre porte e altri guardiani, e cioè ancora la promessa. Paolo è sempre nella legge promessa di Dio, Derrida è sempre fuori la legge promessa della promessa.

Oltre questa fondamentale e non trascurabile divergenza, entrambi sembrano guardare al paradosso della legge focalizzando lo sguardo sul medesimo punto. Paolo, in un celebre passo della Lettera ai Romani, afferma:

«La legge è peccato? Non sia! Ma io non conobbi il peccato se non attraverso la legge. Non avrei conosciuto il desiderio se non avesse detto: non desiderare!».37

Se con Derrida quindi, interpretando il testo kafkiano Davanti alla legge, ci si trovava sempre nella paradossale condizione di accedere alla legge solo trasgredendola, con Paolo invece, ci si trova di fronte alla constatazione che per accedere al peccato occorre la legge. Anche qui sono evidenti le due posizioni del «dentro» e del «fuori» rispetto al problema della legge. Da queste due opposte posizioni emerge però una comune prospettiva che entrambi condividono, ossia che tanto la legge quanto la norma – trasgredibile e dunque in possibilità di diventare peccato – sono l’una consunstanziale all’altra. Il fatto che senza la legge noi non avremmo conosciuto il peccato significa innanzitutto che senza il peccato la legge non si rivelerebbe. Il peccato è da intendersi come la trasgressione di una norma: solo peccando è possibile far manifestare la legge e dunque tentare di accederle. Il discorso paolino e quello derridiano confluiscono l’uno dentro l‘altro. È bene però mantenere alla mente tutto quanto detto fino ad ora; alla luce di ciò forse sarebbe meglio parlare, anziché di trasgressione o di peccato, di possibilità di trasgredire o di peccare, riportando a discorso da un lato la forza simbolica della porta che restando aperta non nega la possibilità di essere attraversata, dall’altro il significato del katargeìn paolino che anziché distruggere intende disattivare per mantenere e conservare. È su tale possibilità che si fonda la legge come promessa declinandosi di volta in volta in questa o quella norma (trasgredibile).

Occorre mettersi nella posizione di questo gioco paradigmatico che è quello dell’obbligazione […] Diciamo semplicemente: “C’è una legge”. E quando diciamo una “legge”, ciò non vuol dire che questa legge sia definitiva e basta conformarvisi, poiché giustamente vi è una legge ma non sappiamo ciò che dice questa legge. Vi è una specie di legge delle leggi, vi è una meta-legge che è “Siate giusti”. Ecco la sola difficoltà del giudaismo: “Siate giusti”. Ma giustamente noi non sappiamo ciò che è essere giusti.38

Questa meta-legge dell’esser giusti, ossia la legge oltre la legge, è ciò a cui ci si riferiva quando si parlava di carattere non-normativo e di promessa. La promessa della legge (giusta) non può darsi se non sotto forma di norma. Pensare ad una promessa di giustizia in un mondo in cui cessano di esistere qualunque tipo di applicazione positiva della legge è impossibile. Il fuori legge, ossia colui che trasgredisce la legge, apre alla possibilità che il giusto possa darsi anche in altro modo, sfonda la porta della legge cercandovi accesso mosso da quella spinta promissiva che la legge stessa genera. Quando Dostoevskij, nel suo romanzo I fratelli Karamazov, fa pronunciare ad Ivan la celebre frase «se Dio non esiste allora tutto è permesso»,39 ha in mente proprio questo problema. Se dio, e quindi la legge positiva, non esiste, allora tutto è permesso.

A ben vedere, alla luce di quanto detto fino ad ora, sarebbe meglio riformulare questa affermazione assumendo il paradosso della legge in tutta la sua portata perversa, difatti «se dio, ossia la legalità positiva, non esiste, allora tutto è vietato».40 Si pensi al caso del Don Giovanni in un modo come il nostro in cui, contrariamente al dettato paolino che tuonava «non desiderare!», vige invece l’imperativo del «Godi!». Ebbene nel paragrafo del simposio kunderiano significativamente intitolato per l’appunto «La fine dei Don Giovanni», il dottor Havel spiega allora ai suoi interlocutori il motivo per cui, nonostante il suo libertinismo, egli non si consideri affatto un Don Giovanni. Parafrasando proprio Dostoevskij al posto del Grande Inquisitore egli parla del Grande Conquistatore:41

Don Giovanni. Lui sì che era un conquistatore. E di quelli con la maiuscola. Il Grande Conquistatore. Ma scusatemi, come volete essere un conquistatore in un luogo dove nessuno impedisce alcunché, dove ogni cosa è possibile e tutto è permesso? L’era dei Don Giovanni è finita. Il discendente attuale di Don Giovanni non conquista più, colleziona soltanto. Il personaggio del grande conquistatore è stato sostituito dal Grande Collezionista, solo che il collezionista è tutto meno che un Don Giovanni. Don Giovanni era un personaggio da Tragedia. Su di lui pesava la colpa. Peccava allegramente e rideva di Dio. Era un blasfemo e finì all’inferno […] Il grande collezionista si limita ad applicare ubbidiente, col sudore della fronte, le convenzioni e le leggi, perché il collezionismo è entrato nel novero delle buone maniere, del bon ton, è quasi un obbligo.42

Ebbene in un mondo in cui la legge del «non desiderare» viene meno, cessa di esistere anche il Don Giovanni, il desiderante per eccellenza, colui che in tutta la sua vita non faceva atro che trasgredire costantemente il divieto al godimento. Nel mondo rovesciato di Kudera, nel nostro mondo, il Don Giovanni è divenuto un impiegato che con il sudore della fronte cerca di adempiere al suo compito. Žižek spiega molto bene le dinamiche perverse che scaturiscono da questo rovesciamento del rapporto con il godere. Il punto centrale è comprendere come in un mondo in cui ha cessato di esistere qualunque restrizione sul godimento, qualunque legge su di esso, diventa difficile se non impossibile godere. È vietato ed addirittura proibito godere per il Don Giovanni, dal momento che non può più esercitare il suo essere fuorilegge, ritrovandosi non più a dover combattere con la colpa che gravava su di lui, bensì ad assolvere ad un compito impiegatizio da collezionista. Se «Dio non esiste, allora tutto è vietato» vuol dire proprio questo.

La prospettiva che considera possibile un’epoca in cui ogni forma di Dio sia morta e spazzata via, dove cioè venga meno qualunque centro generatore di valori e di leggi, è da considerarsi riduttiva se non sbagliata. Seguendo ancora Žižek, si può vedere come anche nella contemporaneità, nonostante sia cessata qualunque tipo di ingiunzione restrittiva sul godimento, non ci si trova però in una situazione di completa assenza di legge: la legge c’è anche se è massimamente perversa. Questa dice: «Godi!». È come se la legge sopravviva sempre e comunque a qualunque tipo di disapplicazione, annullamento o rovesciamento; «la legge sopravvive, ritorna in vita, per effetto della sua morte, dell’effrazione, per la qual cosa si costituisce una sorta di chiasmo, quello evidenziato dalla figura della porta, che è tale solo a condizione che sia attraversata».43 Anzi, si può azzardare a dire che la legge sopravvive proprio grazie al fatto che essa si presenti sempre come qualcosa di potenzialmente disapplicabile o annullabile. La sopravvivenza della legge è ciò che consente di scongiurare il rischio che tutto sia vietato. La legge ha la capacità di tornare in vita, come un revenant, di sopravvivere sempre, per effetto della sua morte, ossia dell’effrazione. In Paraggi Derrida si chiede: «se ci fosse, situata nel cuore della legge stessa, una legge di impurità o un principio di contaminazione? Se la condizione di possibilità della legge fosse l’a-priori di una contro-legge, un assioma di impossibilità che ne farebbe impazzire il senso, l’ordine e la ragione?»44. È proprio questo principio di impurità che consente alla legge di ritornare sempre in vita e di sopravvivere.

Intendere la legge a partire dalla prospettiva della sua promessa, come lungamente si è fatto in questo elaborato, ci consente di riflettere proprio su questo carattere di inapplicabilità definitiva, di inaccessibilità, ossia sul fatto che essa sopravvive sempre proprio grazie a ciò che la rende trasgredibile, la norma: eccola l’impurità, la contro-legge, l’assioma di impossibilità che fa impazzire il senso della legge stessa. La legge sopravvive grazie al fatto che la sua promessa resta non mantenuta e di volta in volta si contamina declinandosi in questa o quella norma. «Derrida si interroga sul genere e sulla sua legge, che prevede la purezza, ossia la distinzione e la delimitazione. Se questo è quanto detta la legge del genere, non è tuttavia da escludere che possa prodursi qualche mescolanza, ossia che la purezza possa venire meno».45 La legge deve la sua sopravvivenza proprio alla sua capacità di contaminarsi, di far restare impossibile il nucleo di purezza da cui si origina: la promessa, la giustizia. «La legge ha origine nella sua assenza, nel suo svuotarsi […] La sola modalità di essere da parte della legge (l’impossibile per eccellenza) è il mancare, il venir meno, il desiderare, il trasgredire il tutto, non perché si vada al di là del tutto, ma semplicemente perché non c’è».46 Da un lato dunque la legge ha bisogno della sopravvivenza per continuare a vivere, ma allo stesso tempo non ci sarebbe sopravvivenza senza questa dicotomia purezza-contaminazione di cui la legge si fa garante. La legge di sopravvivenza è da intendersi nel doppio senso di legge che sopravvive e di sopravvivenza che è sempre legge. La legge, sopravvivendo, consente di evitare che «tutto sia vietato» aprendo sempre alla possibilità e alla promessa.

La legge è la trasgressione: essa risulta quindi priva di margini, passa tutte le porte e tutti i guardiani mescolandosi così con la sopravvivenza. Bisogna considerare che il sopravvivere è il vivere, un vivere non delimitabile dalla morte e dunque eccessivo e trasgressivo: la legge di sopravvivenza è la sopravvivenza della legge. L’impurità della norma, che la rende sempre passibile di sospensione e di disattivzione, può essere intesa come nichilismo distruttore; eppure, al contrario, è proprio essa che consente alla legge di sopravvivere, legge intesa come promessa di conservarsi in vita. Finché la promessa della legge si offre come norma trasgredibile o disattivabile la sopravvivenza è assicurata: finché la porta si mantiene aperta l’uomo di campagna resta in vita, finché l’uomo è in vita la porta resta aperta. La sospensione e l’inoperosità della norma è anche la sospensione e l’inoperosità della morte stessa. Concludiamo questo breve lavoro allo stesso modo di come si chiude Apprendre à vivre enfin, l’intervista concessa da Derrida a Jean Birnbaum, in attesa di una morte ormai prossima. Si invita a porre l’attenzione su tutte le occorrenza della parola «sopravvivenza», e a notare come, alla luce delle pagine fino ad ora scritte, non si farà un torto al filosofo algerino se al poso di ognuna di queste si sostituisse la parola «legge»:

Come ho già ricordato, dall’inizio, e molto prima delle esperienze della sopravvivenza che al momento sono mie, ho marcato che la sopravvivenza [survie] è un concetto originale, che costituisce la struttura stessa di ciò che chiamiamo l’esistenza. Noi siamo strutturalmente dei sopravviventi, marcati da questa struttura della traccia, del testamento. Ma, avendo detto questo, non vorrei lasciare libero corso all’interpretazione secondo la quale la sopravvivenza è piuttosto dalla parte della morte, del passato, che della vita e dell’avvenire. No, tutto il tempo, la decostruzione è dalla parte del sì, dell’affermazione della vita. Tutto quello che dico – dopo Pas, almeno, in Paraggi – della sopravvivenza quale complicazione dell’opposizione vita/morte, procede nel mio lavoro da un’affermazione incondizionale della vita. La sopravvivenza è la vita al di là della vita, la vita più che la vita, e il discorso che io tengo non è mortifero, al contrario, è l’affermazione di un vivente che preferisce il vivere e dunque il sopravvivere alla morte, giacché la sopravvivenza , non è semplicemente ciò che resta, è la vita più intensa possibile.47


  1. F. Kafka, Davanti alla legge in La Metamorfosi, trad. it. di Rodolfo Paoli ed Ervino Pocar, Mondadori, Milano 2016, pp. 104-106. ↩︎

  2. S. Facioni, S. Regazzoni, F. Vitale, Derridario. Dizionario della decostruzione, Il Nuovo Melangolo, Genova 2012, p. 118. ↩︎

  3. Ibidem↩︎

  4. J. Derrida, Pre-giudicati. Davanti alla legge, trad. it. di Federica Vercillo, Abramo editore, Catanzaro 1996, p. 76. ↩︎

  5. J. Derrida, Donare il tempo. La moneta falsa, trad. it. di Graziella Berto, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996, pp. 14-15. ↩︎

  6. F. Kafka, Davanti alla legge, cit., p. 104. ↩︎

  7. J. Derrida, Pre-giudicati. Davanti alla legge, cit., p. 86. ↩︎

  8. F. Kafka, Davanti alla legge, cit., p. 104. ↩︎

  9. J. Derrida, Pre-giudicati. Davanti alla legge, cit., p. 81. ↩︎

  10. Ivi, p. 87. ↩︎

  11. Ivi, p. 85. ↩︎

  12. Ivi, p. 90. ↩︎

  13. F. Kafka, Davanti alla legge, cit., p. 104. ↩︎

  14. Cfr. J. Derrida, Pre-giudicati. Davanti alla legge, cit., pp. 86-88. ↩︎

  15. Ibidem↩︎

  16. Ivi, p. 85. ↩︎

  17. Ibidem↩︎

  18. F. Garritano, «In nome della legge», introduzione a J. Derrida, Forza di legge. Il «fondamento mistico dell’autorità», trad. it. di Angela Di Natale, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 15. ↩︎

  19. F. Kafka, Davanti alla legge, cit., p. 106. ↩︎

  20. F. Garritano, «In nome della legge», cit., pp. 15-16. ↩︎

  21. J. Derrida, Nome di Benjamin, in Forza di legge. Il «fondamento mistico dell’autorità», cit., p. 62. ↩︎

  22. F. Garritano, «In nome della legge», cit., p. 16. ↩︎

  23. Ivi, p. 21 ↩︎

  24. G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pp. 88-89. ↩︎

  25. Agamben, nel già citato testo dedicato al commento della Lettera ai Romani, ci ricorda di come un secolo dopo Origene, Ticonio, proponendosi nel suo Liber regularum di aprire e illuminare i segreti della tradizione, dedicava la più lunga delle sue regulae alle aporie della trattazione paolina concentrandosi proprio sull’apparente contraddizione fra promessa e legge che essa contiene. ↩︎

  26. Paolo di Tarso, Lettera ai Romani, 3, 27-28. ↩︎

  27. G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, cit., p. 91. ↩︎

  28. Ibidem↩︎

  29. Paolo di Tarso, Lettera ai Romani, 7, 5-6. ↩︎

  30. G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, cit., p. 93. ↩︎

  31. Ivi, p. 94. ↩︎

  32. G. Crisostomo, Sur l’incompréhensibilité de Dieu, I: Homélies I-IV, a cura di Anne-Marie Malingrey, Editions du Cerf, Paris, p. 104. ↩︎

  33. C’è un’evidente assonanza tra questa disattivazione intesa come conservazione-compimento e il modo con cui Hegel descrive l’andamento dialettico della sua filosofia. Agamben fa notare, rivelando così che si tratta di molto più che un’assonanza, come Lutero traduce il termine paolino katargeìn: con Aufheben, cioè proprio la parola sul cui doppio significato («abolire» e «conservare») Hegel fonda la sua dialettica. Un termine messianico, che esprime la trasformazione della legge per effetto della potenza del suo annuncio e della sua promessa, diventa così il termine chiave della dialettica (Agamben, op. cit, pp. 94-95). È proprio con un simile movimento dialettico, che insieme disattiva non annullando e conserva in vista di un’aggiunta verso il meglio e verso un compimento, che si asseconda l’andatura della legge. ↩︎

  34. C. Schmitt, Le categorie del «politico», trad. it. Il Mulino, Bologna 1988, p. 41. ↩︎

  35. S. Facioni, S. Regazzoni, F. Vitale, Derridario. Dizionario della decostruzione, cit., p. 152. ↩︎

  36. Ivi, p. 162. ↩︎

  37. Paolo di Tarso, Lettera ai Romani, 7, 7. ↩︎

  38. J-F Lyotard, Au Juste, pp. 101-102. ↩︎

  39. Dostoevskij Fëdor Michajlovič, I fratelli Karamazov, Garzanti, Milano, 1979, vol. I. ↩︎

  40. S. Žižek, L’isterico sublime. Psicanalisi e filosofia, trad. it., Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2012, p. 138. ↩︎

  41. M. Carbone, L’insostenibile compiacenza del Super-io: Žižek su Lacan, in S. Žižek, Leggere Lacan. Guida perversa al vivere contemporaneo, trad. it., Bollati Boringhieri, Torino 2009, p. 16. ↩︎

  42. M. Kundera, Amori ridicoli, trad. it., Adelphi, Milano 2005, pp. 120-121. ↩︎

  43. F. Garritano, «In nome della legge», cit., p. 16. ↩︎

  44. J. Derrida, Paraggi. Studi su Maurice Blanchot, trad. it. di Silvano Facioni, Jaca Book, Milano 2000, pp. 303-304. ↩︎

  45. F. Garritano, Sul bordo della legge, in Paraggi. Studi su Maurice Blanchot, cit., p. 48. ↩︎

  46. Ivi, pp. 47-48. ↩︎

  47. Apprendre à vivre enfin. Entretien avec Jean Birnbaum, Paris, Galilée/Le Monde, 2005. ↩︎