Panikkar e l’animismo

La rivalutazione di ciò che genericamente viene definito animismo è un filo rosso che percorre sotterraneamente tutto l’impianto speculativo di Raimon Panikkar. Tale rivalutazione viene inoltre affermata in termini espliciti nel paragrafo intitolato «Interludio ecosofico», all’interno de La realtà cosmoteandrica: al punto sette, dei nove punti su cui articolare la secolarità sacra, si raccomanda un recupero dell’animismo.1 Panikkar2 lamentava appunto come la scienza moderna abbia eliminato le cosmologie tradizionali, al prezzo di un pesante riduzionismo, ed abbia imposto un modello meccanicistico della realtà che necessita di radicale revisione. Ovviamente, non si tratta di riproporre una prospettiva magica e prescientifica, ma di recuperare una cosmovisione più completa. Oltretutto, osservava, una simile sensibilità olistica vive ancora in quasi i due terzi della popolazione mondiale e persino nella terza parte, cosiddetta sviluppata, si possono vedere numerosi esempi di ritorno a queste intuizioni tradizionali. Con il termine cosmovisione, Panikkar intende una rappresentazione del cosmo che non sia solo fondata sul logos, ma che integri aspetti vitali, quali ad esempio un sentire empatico nei confronti della natura e un sentire religioso nei confronti dell’esistenza. Il razionalismo ottocentesco ha definito l’animismo nei termini di una visione primitiva, spinto soprattutto da una concezione etnocentrica ed a giustificazione di una presunta superiorità religiosa dell’Occidente e dell’espansione coloniale. Benché oggi si abbia coscienza che questi giudizi rappresentino una falsificazione, si continua ad equivocare tra animismo e superstizione. Invece, ciò che è stato definito animismo confuta il modello meccanicistico esistente. Il mondo non è un meccanismo inerte, ma una realtà viva. La ripresa di una prospettiva animistica non significa, vale la pena ripeterlo, un ritorno ad una visione prescientifica. Significa invece una nuova interpretazione della realtà; realtà che è animata, pervasa dall’anima mundi. Cerchiamo allora di collocare la riflessione panikkariana in un quadro più ampio, soprattutto per renderci conto della sua portata.

Nel XIX secolo, capitalismo e visione scientifica del mondo hanno portato a compimento il processo di oggettivazione e di distinzione tra soggetto ed oggetto, che aveva contrassegnato la modernità dalla sua nascita. In questa prospettiva culturale, tutto ciò che contraddiceva tale principio era rifiutato automaticamente ed emarginato come pensiero primitivo. Coerentemente con tali presupposti imperanti, la nascente etnologia cataloga come animistiche le altre visioni del mondo, definite premoderne, in quanto incapaci di operare quella distinzione tra soggetto ed oggetto, che è il tratto fondante della sedicente modernità. Le culture, che vengono riunite sotto la definizione di animistiche, infatti non concepiscono una divisione tra cultura e natura, tra sé ed ambiente circostante. Si muovono in una prospettiva olistica, che è una cosmovisione differente da quella cosiddetta tecnico-scientifica. Al culmine del colonialismo e della seconda rivoluzione industriale, il mondo moderno cerca una conferma della propria immagine di sé nell’immagine contrapposta di un animismo premoderno, che viene rappresentato in termini faziosamente riduttivi. Animismo è un termine coniato dall’antropologo inglese Edward B. Tylor (1832-1917). Per lui, animismo indica il livello minimo di religiosità, da cui gli europei si sono emancipati attraverso un percorso che li ha portati dal politeismo al monoteismo, inteso come il punto di arrivo della parabola religiosa. Altri popoli invece sono rimasti ad uno stato di natura, incapaci di elaborazioni cosiddette oggettive. Il quadro delineato da Tylor rappresenta l’elaborazione matura della ideologia industriale e coloniale. La nozione di animismo, da lui delineata in Primitive Culture,3 è una delle più antiche dell’antropologia ed è rimasta come pietra miliare. Tale nozione influenzò inoltre non solo l’etnologia, ma anche le scienze religiose e la psicologia dello sviluppo. Tylor è figlio della sua epoca improntata alla contrapposizione tra spirito e materia e nutrita di dualismo cartesiano. La sua formazione positivistica lo portava a ridurre le altre visioni della realtà come non scientifiche e perciò false. Inoltre, sotto l’influsso del pensiero evoluzionista, considerava il pensiero cosiddetto primitivo analogo al pensiero infantile, cioè ingenuo e falso. La costruzione tyloriana dell’animismo, vale la pena ripeterlo, non è qualcosa di oggettivo, ma è una costruzione culturale al pari di altre visioni.

L’elaborazione del termine animismo rappresenta, come si è detto, l’immagine negativa in cui si specchia la modernità. A questo rapporto speculare sarebbe opportuno contrapporre la consapevolezza che si tratta, appunto, di una costruzione culturale, che proietta artificiosamente connotazioni negative sul suo doppio.4 La presunta infallibilità oggettiva del pensiero scientifico è un mito in cui la modernità si è riconosciuta. Soprattutto è un mito presente tra altri miti, che hanno uguale legittimità. Si tratta soprattutto di diverse forme di ontologia. Mentre il pensiero scientifico analizza e cataloga, le forme di pensiero che l’Occidente ha accumunato sotto il termine di animismo puntano a totalizzare, a ricomporre le relazioni. Al «cogito ergo sum» contrappongono «mi relaziono ergo sum». Animismo significa, in primis, «In der Welt sein», essere radicato nel mondo. La modernità ha significato porre una frattura tra natura e società, tra mondo degli oggetti e mondo del senso. Ciò che è stato definito animismo ne è l’antitesi.

Le culture riunite arbitrariamente sotto la definizione di animistiche hanno una particolare attenzione all’ascolto della totalità del loro ecosistema. Dove noi europei vediamo negli animali solo organismi biologici, tali culture vedono persone in forma di animale. Per noi il sapere è oggettivizzazione, cioè de-soggettivizzazione. Per noi la forma degli altri è la cosa. Per lo sciamano invece, sapere è saper soggettivizzare e mettere in essere una relazione con il nuovo soggetto: per lui la forma degli altri è la persona. Lo sciamano necessita soggetti per poter interagire e ricavare sapienza da loro. Per lo sciamano, un oggetto è un soggetto che non è stato ancora interpretato. Al contrario le modernità opera una riduzione a materia inerte di ciò che invece è vivo e dotato di soggettività. Gli autori classici che hanno elaborato la nozione di animismo −Tylor, Durkheim, Lévi Strauss, Guthrie− nel momento stesso in cui rimproveravano agli indigeni di proiettare il proprio sé sul mondo circostante, proiettavano le loro rappresentazioni del sé sui popoli primitivi. In realtà, più che di animismo, sarebbe il caso di parlare di animismi, di una complessa rete di relazioni con il proprio habitat, improntate dalle diverse sfumature culturali. L’antropologia più avanzata rivisita la precedente lettura del fenomeno animismo, sia nella definizione tyloriana, sia nella versione di Lévi Stauss, che considera la distinzione tra natura e cultura un universale culturale, cui anche i primitivi si adeguano, anche se operano in termini analogico-totemici e non razionali. Autori come Philippe Descola, Eduardo Viveiros de Castro, Bruno Latour, per citarne alcuni, analizzano il fenomeno nella sua complessità e riaffermano la validità delle varie sfumature di epistemologia olistica, espresse dalle culture cosiddette primitive.5

Questa rilettura del polo animistico implica simmetricamente una rilettura dell’altro polo, quello della presunta modernità, di cui Bruno Latour6 mette in discussione il principio fondante di partizione tra cultura e natura, che viene costantemente contraddetto dalla produzione di ibridi, cioè realtà che contengono sia elementi culturali, sia elementi naturali: vedi, ad esempio, il mais geneticamente modificato. Questa produzione di ibridi, che è sempre esistita ed ha nella pratica confutato la distinzione tra cultura e natura, ha oggi assunto dimensioni tali che lo statuto della modernità diventa improponibile. Da qui nasce un movimento di critica del mito della modernità che si nutre anche del disagio che contrassegna la nostra epoca. Sull’argomento la letteratura è infinita. Gli esseri umani costruiscono la loro specificità attraverso il logos ed attraverso un processo di oggettivazione del mondo circostante, che viene così ridotto ad oggetto e materiale disponibile −incluso il materiale umano−. Noi in primis siamo questo. Siamo tuttavia anche altro. Siamo le forze simboliche inconsce ed archetipiche che ci agitano oscuramente e che ci spingono ad un atteggiamento religioso nei confronti della realtà che ci circonda, alla quale ci sentiamo uniti da radici comuni. Rompere l’equilibrio tra queste due polarità è estremamente negativo. La crescita bulimica del polo razionale ha interrotto la comunicazione con l’altro necessario polo, che in tempi passati si esprimeva attraverso miti, attraverso una dimensione politeistica, attraverso un sentire olistico. Questo processo non ha dissolto la realtà inconscia, istintiva ed archetipica, ha solo rotto un equilibrio. Le forze invisibili, che in tanta parte ci costituiscono, continuano ad essere presenti e ad agire sotterraneamente. Le antiche divinità, che davano loro forma, sono ancora presenti, anche se invisibili. Animano e vivificano ciò che percepiamo come realtà. La presente epoca è contrassegnata dal dominio assoluto dell’uomo sulla natura, che è stata degradata a materia sfruttabile e manipolabile. Il potere della tecnica e la smodata pulsione al profitto nel breve periodo hanno portato ad uno squilibrio tale che universalmente si ha apprensione per la tenuta materiale del pianeta e si invocano difficili inversioni di rotta. Questa situazione porta con sé un altro ordine di problemi, ugualmente gravi ed urgenti. L’oggettivazione del mondo da parte del soggetto umano ha causato, per quest’ultimo, una situazione di isolamento ed alienazione. Non ci si sente più parte di un insieme armonico, ma si ha la sensazione di aggirarsi in una terra arida e desolata, abbandonata dagli dei. Il profondo disagio esistenziale dei nostri tempi, che a volte si palesa in fantasie apocalittiche, richiede la fondazione di una diversa cosmovisione, che, come affermava Panikkar, è cosa diversa da una cosmologia, in quanto quest’ultima è fondata esclusivamente sul logos e sulla ratio calcolante. Cosmovisione invece unisce al logos una sensibilità empatica e religiosa per il cosmo, di cui anche noi umani facciamo parte.

Il lavoro di ripensamento critico si presenta in ogni caso estremamente laborioso e complesso. Panikkar7 auspicava l’avvento di una spiritualità secolare, intesa come consapevolezza che il saeculum è vivo. Cosmovisione, ripetiamolo, non significa cosmologia, cioè una rappresentazione del cosmo che si fonda esclusivamente sul logos, sulla sperimentazione scientifica, sui modelli matematici. Una cosmovisione è più di tutto questo. Prende atto delle indicazioni della cosmologia e vi aggiunge l’anelito umano a confrontarsi con il mistero, vi aggiunge una prospettiva esistenziale e sacrale, vi aggiunge le forze archetipiche che si muovono nel profondo ed una visione poetica di ciò che ci circonda. Cosmovisione significa la visione che si ha dopo essersi collocati nel cosmo, da quella particolare e personale prospettiva. Questo collocarsi tra cielo e terra, riassumendo con lo sguardo ciò che ci circonda e ponendosi in ascolto di fronte al mistero, è l’atto religioso per eccellenza, poiché è l’aprirsi ad un orizzonte più ampio e, contestualmente, è l’atto che consente di operare una armoniosa integrazione di diverse dimensioni. La cosmologia latente nel pensiero scientifico è affetta da specializzazione esasperata ed è difettosa, nel senso che non prende in considerazione parti vitali dell’essere umano. Produce una frantumazione dell’unità del reale, che non è né conoscenza né liberazione, bensì qualcosa di demoniaco e perverso, che si articola attraverso una rimozione costante di elementi fondamentali a favore di griglie tassonomiche e modelli matematici. In questo modo, si crea disarmonia. E, con la disarmonia, si produce malessere. Al contrario, si recupera l’armonia quando ogni cosa acquista il suo posto. In questo senso, ripensare la scienza significa solo riposizionarla: collocarla all’interno di una visione in grado di integrarla con gli altri elementi costitutivi del reale, che è qualcosa di più complesso dell’ambito che noi definiamo oggettivo. Il pensare con intento oggettivante ha un potere corrosivo quando vuole essere esauriente e totale. In questo caso, diventa delirio. Un pensiero totale è lo strumento perfetto dell’istinto di morte, in quanto ci sradica dal complesso della vita e da quanto sotterraneamente ci nutre.

Al posto della contemplazione e della partecipazione, ha preso piede una forma di interventismo maniacale. L’essere umano, nella sua dimensione itinerante, vive ossessionato dal mito del paradiso perduto e proietta questo suo bisogno mitico in una prospettiva teleologica, in una escatologia in grado di ripristinare la dimensione edenica. Questa ansia si traduce in attivismo, in protagonismo del soggetto che cerca di indirizzare la realtà verso il fine a cui, in quanto soggetto, si sente destinato. Seguendo questo itinerario, si entra nel delirio, che è una forma di pensiero che ha perso le connessioni con il mondo circostante e si perde nelle visioni autoprodotte. Oggettivare la realtà, con l’intento di indirizzarla e, allo stesso tempo, recidere i legami con essa non può che condurre a ciò. Le nostre relazioni con le cose sono più profonde di quanto abbiamo coscienza. Soprattutto la nostra relazione con la terra è costitutiva: essa implica essere nel mondo e con il mondo. Le cose, infine, hanno un carattere vestigiale, portano l’impronta dell’origine, tanto quanto la portiamo noi. Separare artatamente l’umanità dal suo contesto è la fonte primaria di disarmonia. È inoltre un atto luciferino, nella misura in cui nega la sacralità del cosmo. Il divino, o il mistero se preferiamo, sta nella natura, che non è meramente naturale, ma sacra, proprio perché porta l’impronta dell’origine, che condivide con noi umani. La terra, nella quale viviamo, è stata ridotta ad un ammasso di materia ed energia. Questa prospettiva, che si è radicata con la modernità e con un pensiero scientifico che si è sviluppato unilateralmente, ha rimosso l’idea di un cosmo vivo e animato da presenze divine o angeliche, che era profondamente sentita in epoche passate. Tuttavia, con l’insorgere del problema dell’alienazione, dell’inaridimento delle forze vitali che sorreggono l’umanità e del malessere diffuso, sembra che il mito scientifico/oggettivante, perché di mito si tratta, abbia perso la sua attrattiva e non sia più un orizzonte cui aderire acriticamente. Vi sono le condizioni per l’elaborazione di un nuovo mito cosmologico, fondato sull’intuizione di un universo vivente; poiché l’uomo, che è l’unico animale cosciente della vita che è in lui, a fatica riesce ad orientarsi in un modello di cosmo privato di vita.

Il delinearsi di un nuovo mito cosmologico, nel senso di una cosmovisione, implica un ri-orientamento, il porsi in un orizzonte aperto ed il cogliere la complessità armoniosa che ci circonda e che ci attraversa: una intuizione totalmente integrata ed equilibrata. Si tratta di una intuizione che, tuttavia, va costantemente integrata con una critica stringente, in grado di concretizzarla e darle fondamento credibile. Ciò non è cosa facile in una fase contrassegnata dal massimo della complessità e della pluralità. Per questo è auspicabile che l’evolversi del nuovo contesto mitico avvenga sotto il segno della secolarità, all’interno della quale le diverse prospettive religiose avranno modo di collocarsi a loro volta. È possibile che il mondo temporale possa diventare la cornice unificante in cui stabilire una armonia tra polarità differenti, abbandonando la pretesa di riportare tutto ad un unico principio. In questi termini diviene possibile pensare che ci troviamo alle soglie di una età ecumenica. Il saeculum è la manifestazione della simbiosi di uomo e cosmo ed è la cornice vivente, in costante trasformazione, all’interno della quale collocare una rinnovata prospettiva mitica ed una rasserenata condizione esistenziale. La nozione di secolarità sacra attraversa tutta l’opera di Raimon Panikkar ed offre un sicuro riferimento per orientarsi in un contesto globale che sembra estremamente confuso, probabilmente perché è caratterizzato dal passaggio da un quadro mitico in fase residuale ad un altro che si intravede a fatica. Il saeculum non è roccia ferma. In quanto organismo vivente, ed estremamente complesso, si trasforma, pur rimanendo nella sua essenza sempre uguale a sé stesso. Soprattutto è il locus immanente della trascendenza. In esso, oltre alla unità di uomo e cosmo, è presente il mistero, che rappresenta una dimensione ontologica distinta, ma non separabile, dalla dimensione spazio-temporale.

Panikkar, e anche questo è, appunto, un filo rosso che attraversa tutta la sua opera, parlava di sfera tempiterna, del superamento della tirannia del futuro e dell’ansia a realizzarlo. Ciò impedisce all’uomo di vivere serenamente, in quanto schiacciato da un’ansia da prestazione permanente. Questa alienazione, inoltre, ci conduce a considerare la morte come un evento intollerabile, perché ci separa dalla prospettiva di un concatenamento dei progetti. Tempiternità significa, al contrario, un invito a considerare essenziale il vivere il momento presente e viverlo come fosse una epifania dell’assoluto. Simmetrico al ri-orientamento temporale è il ri-orientamento spaziale, l’altro polo del “qui ed ora”. La natura rappresenta il quadro vivente, all’interno del quale ci collochiamo e dove tutto è collocato. Da questa prospettiva, diviene difficile ostinarsi in una visione polarizzata: soggetto/oggetto, mente/materia e via dicendo. Gli elementi che si stanno delineando sono ancora molto vaghi, ma già è possibile intuire una direzione. Infine, come sottolineava Panikkar,8 è fuorviante asserire che il mondo abbia un’anima, quasi fosse una caratteristica esterna. Il mondo è anima, è animato e vivo. Colpirne l’anima significa ferirne la sua più essenziale realtà. Il mondo è vita ed in questa vita, che include anche la morte, siamo situati. E vi siamo situati in quanto parti costitutive del reale.

A mio modo di vedere, ciò che caratterizza il pensiero panikkariano è che non si limita ad una analisi critica della situazione esistente, inserendosi in un filone speculativo che sta prendendosi sempre più piede, ma elabora proposte concrete ed articolate di intervento. La realtà cosmoteandrica è appunto l’opera che offre una intuizione totalmente integrata del reale e una nuova cosmovisione. Uomo, cosmo e divinità, o mistero se si preferisce, vengono, nella loro irriducibile diversità, integrati in uno ambito comune. Ciò significa superare la frammentarietà disarmonica e, allo stesso tempo, rendere immanente, nel senso di qui ed ora, ciò che veniva pensato in una astratta lontananza. Ci riporta quindi a contatto con la dimensione del divino e ridà vita ad una natura che era stata ridotta ad oggetto e materia. Le varie forme di ciò che era stato definito animismo operavano in questo senso: vedere nel mondo circostante soggetti, al pari degli esseri umani. La religiosità animistica oltretutto, proprio per questo suo legame stretto con l’ambiente circostante, esprimeva una vitalità, sconosciuta nel mondo inaridito della supposta modernità. Panikkar intende collocare la parti divise e disperse della realtà in uno spazio comune. E per collocare, cum-locare, si intende un rimettere le cose al loro posto assieme, condividendo collettivamente la stessa prospettiva. L’eccesso di razionalismo scientifico con la sua ossessione per la catalogazione e lo specialismo aveva frammentato e disarticolato il senso di appartenenza ad un cosmo armonico. La cosmovisione proposta punta invece ad un recupero di questa unità originaria, che era stata totalmente emarginata.

La visione cosmoteandrica proposta da Panikkar vuole essere in primis una risposta al Dreiklang der Wirklichkeit, al triplice richiamo della realtà che procede dall’origine; «Intuizione totalmente integrata», per usare le sue parole, della realtà.9 Una tale opera di ri-orientamento deve necessariamente collocarsi in un orizzonte aperto che includa l’intera storia dell’esperienza umana, non più frazionata nelle differenti visioni religiose e culturali. Detto in altro modo, deve essere una costruzione culturale universale, come richiedono i nostri tempi segnati dall’esperienza globale. Quello che Panikkar suggerisce è la ripresa del desiderio di unità ed armonia insito in tutte le tradizioni, desiderio che è stato irriso dallo specialismo scientifico. Eppure il mondo, che la scienza aveva promesso essere oggettivamente evoluto, sembra invece vacillare in cerca di un nuovo centro. A proposito cita un illuminante verso di Yeats: «Le cose vanno a pezzi; il nostro centro non può più tenere; la pura anarchia si è sparsa per il mondo…».10

Recuperare allora una prospettiva sapienziale adeguata ai tempi; far rivivere in una visione aurorale quello che, non a caso, è stato il fulcro di tutte le tradizioni. Questo anelare all’unità si giustifica perché l’origine è una: uni-verso, appunto. Tutte le tradizioni convergono su questo. Perfino la teoria del big bang aderisce. Dal momento dell’esplosione che ha generato il cosmo si ha un differenziarsi ed articolarsi di materia, energia, vita, che rimangono tuttavia effetti del fenomeno originario. Detto in questi termini, l’origine è inclusa nel cosmo, è in relazione costitutiva. Inoltre Panikkar ricorda che ecumenico significa, etimologicamente da oikos, abitare la natura, con cui siamo inesorabilmente connessi, in quanto ne facciamo parte. Questa natura, che ci contiene, non è meramente naturale, ma è sacra. Lo è perché deriva dall’origine e lo è perché è attraversato da forze, dei e daimones le chiamavano i greci, che non sono materiali. Con queste forze l’uomo coabita, dà loro un nome e con esse crea i suoi miti. Nell’antica dimensione animistica, quando viveva in un territorio sacralizzato di cui faceva parte, l’uomo era rasserenato dal sentire attorno a sé una totalità. La perdita di questo sentire ha invece creato disarmonia e sofferenza, esistenziale e psichica. Ovviamente è impossibile far rivivere la sacralità dei greci e dei romani. È tuttavia possibile, sotto la spinta del disagio crescente, un cambio di prospettiva epocale; come ad esempio è stato nel neoplatonismo animistico rinascimentale. Su questi temi Panikkar indica una via, che è perfettamente in sintonia con i nostri tempi. Oserei dire che, più che un precursore, è il precursore, in quanto interprete della complessità della nostra età di transizione.

Tra le altre cose, ricordava che saeculum significa mondo temporale, epoca, aiōn. È il qui ed ora, che rifugge le visioni escatologiche, le quali si proiettano su un futuro, che proprio per essere futuro non verrà mai vissuto. Invece, saeculum è universo vivente, è la forza vitale che si esprime qui ed adesso. È la manifestazione della simbiosi positiva di uomo e cosmo, entrambi in rapporto con l’origine. Non è tuttavia realtà immobile, bensì una realtà che si rinnova continuamente in nuove forme, nella cui costruzione l’uomo ha un ruolo decisivo. Vivere la secolarità sacra significa quindi esercitare capacità critica ed agire di conseguenza; essere partecipi del flusso continuo del reale e vivere a fondo il momento in cui ci si trova. Infine, Panikkar fa presente che l’idea di anima mundi attraversa, da un tempo immemorabile, la storia e la spiritualità dell’Occidente. Anima mundi significa che il mondo è animato e quindi vivo. Non possiede un’anima, ma esso stesso è anima: animale si usa dire. Fa inoltre presente che anche i minerali hanno un’anima, anche se viene chiamata energia. Ogni parte del cosmo è connessa con le altre e vivificata, cioè piena di vita in sé. Di fronte al modello dicotomico che vede la realtà come un meccanismo inerte, mosso da un principio esterno, Panikkar offre il modello cosmoteandrico di un cosmo che contiene da sé la vita ed in cui Dio, uomo e natura si completano in un processo dinamico. Se non bastassero le dichiarazioni esplicite a favore di una rivalutazione dell’animismo, questo stesso modello può rendere testimonianza.


  1. Panikkar R., La realtà cosmoteandrica, Jaca Book, Milano 2004, 73. Rinuncio a seguire i numerosissimi riferimenti all’animismo presenti nell’opera panikkariana: sarebbe stato estremamente dispersivo ed impossibile da contenere nei limiti del presente testo. Mi limito a La realtà cosmoteandrica, che tuttavia è assolutamente esaustiva sul tema. ↩︎

  2. Panikkar R., La realtà cosmoteandrica, cit., 178 ss. ↩︎

  3. Cfr. Tylor E. B., Primitive Culture. John Murray, London 1871. A seguito di questa pubblicazione, Tylor fu chiamato ad Oxford a coprire la pima cattedra di antropologia. ↩︎

  4. Cfr. Bird-Davis N., «Animism Revisited: Personhood, Environment and Relational Epistemology», in Current Anthropology, 40.1, 1999, 67-91. ↩︎

  5. Cfr. Descola P., Par-delà nature et culture, Gallimard, Paris 2005 e Viveiros de Castro E., From the Enemys Point of View. Humanity and Divinity in an Amazonian Society, Univ. of Chicago Press, Chicago 1986. ↩︎

  6. Cfr. Latour B., Nous n’avons jamais été modernes. La dècouverte, Paris 1991; edizione italiana, Elèuthera, Milano 1995. ↩︎

  7. Cfr. Panikkar R., La realtà cosmoteandrica, cit., 189 ss. ↩︎

  8. Cfr. Panikkar R., La realtà cosmoteandrica, cit., 192. ↩︎

  9. Cfr. Panikkar R., La realtà cosmoteandrica, cit., 19. ↩︎

  10. Cfr. Panikkar R., La realtà cosmoteandrica, cit., 25. ↩︎